ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
La sapienza poetica e filosofica dalla seconda metà del ‘600 al secolo dei Lumi
La sapienza poetica e filosofica affidata agli animali
Prof. Giuseppe Nibbi
SESTO ITINERARIO [in attesa di tornare a viaggiare in presenza] ... 24 marzo 2021
IL DILEMMA DEL CANE ...
Care compagne e cari compagni di Scuola, nell’attesa di riprendere il cammino in presenza sul Percorso canonico di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura sulla via che dalla metà del Seicento porta verso il secolo dei Lumi, su consiglio di Jean de La Fontaine [che spera di poter comparire dal vivo al più presto negli spazi della nostra Scuola], come sapete abbiamo cominciato a leggere una Favola dove “la Sapienza poetica e filosofica” è affidata agli animali perché, da che mondo è mondo, “la favola”, attraverso la voce degli animali, parla degli esseri umani per invitarli a riflettere sulla loro condizione esistenziale [de te fabula narratur, ci ricorda La Fontaine], ma gli umani - a causa della loro debolezza cognitiva e del loro istinto predatorio - non hanno recepito l’insegnamento che, attraverso il genere letterario della fabula, deve contribuire a far emergere nel loro animo i valori dell’Umanesimo: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà e la misericordia. E, in proposito, Jean de La Fontaine ci ha invitato a utilizzare il testo della Favola selvaggia, riscritta in lingua corrente, di un umanista rinascimentale di nome Filelfo: di conseguenza, stiamo esaminando questo testo nella nostra Officina dell’apprendistato cognitivo per far emergere i riferimenti letterari in esso contenuti, in modo che questo esercizio di carattere ermeneutico ci consenta di tenere attiva nella nostra mente la funzionalità delle principali azioni mediante le quali avviene il processo di apprendimento perché per andare incontro al pensiero scritto e per sostenere il carico della scrittura [tanto nelle sue forme quanto nei suoi contenuti] è necessario saper utilizzare le azioni cognitive [conoscere capire applicare analizzare sintetizzare valutare]. La lettura non è un’arte facile da praticare, e sono capaci a leggere nel vero senso della parola solo le persone che sanno conoscere il significato delle parole-chiave, che sanno capire la rilevanza delle idee-cardine, che si sanno applicare metodicamente, che sanno analizzare i pensieri che il testo contiene, che sanno sintetizzare il contenuto del testo e che sanno valutare il grado di soddisfazione che hanno provato leggendo.
Nell’itinerario scorso, come ricorderete, abbiamo letto e commentato il quinto capitolo della favola di Filelfo intitolata L’assemblea degli animali e abbiamo ascoltato il bellicoso intervento del re dei topi che per reagire di fronte alla minaccia portata alla Terra da parte del suo più giovane e intemperante colono, l’essere umano - il quale si è dimostrato il predatore più efficace e più nocivo di tutti tanto da mettere a repentaglio la vita sul pianeta -, ha proposto come strategia efficace quella di affidare ai topi, per la loro competenza in materia, la diffusione di una pestifera epidemia. E noi, ora, leggiamo il sesto capitolo della Favola e, nel corso della lettura, ci fermeremo per condurre alcune riflessioni perché leggere un testo corrisponde a un esercizio di ermeneutica, di interpretazione, di spiegazione, di chiarimento, di complicazione, di analisi, di sintesi, di esegesi [una competenza, l’esegesi, che in greco significa “di lettura attenta”], e un testo va sempre letto con grande attenzione portandolo nell’ambito di un’Officina di apprendistato cognitivo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo VI. Il dilemma del cane
Non fu facile per il cane prendere la parola. Intanto dovette aspettare che il leone cessasse di ruggire e, soprattutto, che l’aquila, la regina del cielo, la quale non era abituata ad essere contraddetta, rinunciasse a una replica. La regina del cielo tacque compiaciuta perché aveva intuito che le sue parole avevano fatto vibrare il cuore del suo popolo. Le schiere delle intelligenze alate erano disposte, secondo la loro celeste gerarchia, a rispecchiare la formazione di volo delle grandi migrazioni. Sotto i troni dei rapaci imperiali stavano le dominazioni delle oche, quindi le candide potestà dei cigni e i principati delle bionde casarche. Più in basso ancora le anatre dalle piume tinte di nero, bianco e rosso come serafini, e così a scendere fino ai pivieri cherubici sul pelo del lago. E poiché nell’ordinamento degli uccelli i gradi inferiori hanno anche le illuminazioni e i poteri dei gradi superiori, tutti avevano compreso e avevano accolto le parole della regina con uno scintillio d’orgoglio negli occhi. ...
E adesso ci fermiamo a riflettere su ciò che emerge dal testo che stiamo leggendo perché la frase «Le schiere delle intelligenze alate erano disposte, secondo la loro celeste gerarchia ... », questa frase presuppone l’apertura di uno scenario di enorme ampiezza.
L’aquila è convinta di essere l’imponente creatura alata provvista di particolari doti [il grido, l’apertura alare, il volo a grandi altezze, la vista acutissima, la potenza] dalle quali gli umani hanno fatto derivare gli attributi eterni con i quali hanno descritto le prerogative degli Esseri di natura divina [delle dèe e degli dèi]; la collocazione dell’aquila al vertice della gerarchia dei volatili ha fatto sì che la categoria delle varie specie di uccelli - in relazione alla potenza alare, all’armonia del canto e ai colori del piumaggio - fornisse un modello per rappresentare la struttura gerarchica del Regno celeste, offrisse un motivo per dare una forma al piramidale Spazio ultraterreno che si è popolato [dal tempo dell’Età assiale della Storia] di numerose schiere di intelligenze alate, di angeliche figure. A questo proposito, uno degli esempi più lampanti e recenti] è rappresentato [come sapete] dalla forma del Paradiso di Dante nella Divina Commedia. Ma in quale contesto, nel corso della Storia del Pensiero Umano, viene messa in ordine la gerarchia celeste per cui anche Dante ha potuto utilizzare questa costruzione metafisica per scrivere la sua opera?
Ebbene, Gerarchia celeste è il titolo di uno dei quattro Trattati contenuti in un volume [un corpus] che ha preso il nome del suo presunto autore: Dionigi Areopagita.
Questo nome - accompagnato dall’aggettivo “presunto” - introduce un argomento [che nei nostri Percorsi abbiamo già studiato a suo tempo] molto complesso ma di grande interesse, tuttavia noi, in questo itinerario, ci limitiamo a trattare il tema in conformità alla citazione, riguardante “le schiere delle intelligenze alate”, su cui stiamo riflettendo, ma, anche in questo caso, dobbiamo procedere con ordine. Per far ciò è necessario partire da Giustiniano, e Giustiniano [che avete certamente sentito nominare] è colui che viene considerato il più grande tra gli imperatori bizantini [dell’Impero romano d’Oriente] al quale [siamo nel VI secolo] va attribuito il merito di aver contribuito a salvaguardare la giurisprudenza romana [e infatti fa raccogliere tutte le Leggi della romanità in un grande volume intitolato Corpus juris civilis Justinianei]. Sappiamo però che Giustiniano compie anche ai fini della gestione del potere un gesto deprecabile a scapito della cultura “classica” perché, nel 529, con un editto, impone la chiusura della Scuola filosofica di Atene [e sappiamo anche che c’è un’accreditata corrente di pensiero che pone questa data come l’inizio del Medioevo].
Gli imperatori romani, da circa un secolo e mezzo [dall’Editto di Tessalonica contro il paganesimo di Teodosio del 380], perseguitavano quelli che chiamavano “gli ellenizzanti”, gli studiosi della cultura greca di derivazione orfico-dionisiaca; questa tradizione si era evoluta [nel III secolo, con le Enneadi di Plotino] dando vita alla raffinata corrente filosofica neoplatonica che [in particolare per opera di Origene, che abbiamo già incontrato qualche settimana fa] aveva cominciato a fare da supporto alla “dottrina” del Cristianesimo. Ma, tuttavia, gli imperatori cristianizzati volevano far dimenticare il fatto che la figura di Gesù Cristo si era sovrapposta a quella di Dioniso acquisendone molte prerogative, per cui, Cristo e Dioniso avevano finito per assomigliarsi troppo [e nei villaggi di campagna, nei pagi, continuavano a prevalere i culti misterici di Dioniso]: questo fatto rallentava il processo di cristianizzazione dell’intera società, e la società cristianizzata [da Costantino in avanti] prevedeva l’obbligo, per i sudditi “convertiti” al Cristianesimo, di ubbidire alle direttive di un’autorità costituita [il cristiano Imperatore] in possesso del crisma della sacralità. L’intervento repressivo di Giustiniano [che si è auto-nominato Capo della Chiesa d’Oriente] nei confronti dell’Accademia neoplatonica di Atene diventa un micidiale attacco alla cultura classica e alla Storia del Pensiero Umano perché, per affermare il potere temporale della cristianità, si è rischiato di perdere un patrimonio intellettuale di inestimabile valore come i Dialoghi di Platone, i Trattati e la Metafisica di Aristotele, le Enneadi di Plotino e molte altre Opere classiche di straordinaria rilevanza. Come abbiamo studiato a suo tempo, sappiamo che l’ultimo scolarca dell’Accademia di Atene, Damascio di Damasco, sei suoi collaboratori e un gruppo di studenti - poco prima della chiusura della Scuola - fuggono in Persia [l’Impero persiano è il tradizionale nemico confinante dell’Impero bizantino] e il monarca persiano Cosroe li accoglie di buon grado e fornisce anche loro gli strumenti per tradurre le Opere filosofiche greche in lingua persiana. Giustiniano chiude una Scuola storica [l’Accademia di Atene] ma questo atto, per fortuna, non sanziona la fine del Neoplatonismo anche perché la resistenza contro la repressione della cultura greco-ellenistica era già cominciata circa quarant’anni prima quando il filosofo neoplatonico Proclo di Costantinopoli ha iniziato a radunare, e a rendere trasportabile, tutto il materiale che non poteva assolutamente andare perduto [in primo luogo i Dialoghi di Platone, le Opere di Aristotele, le Enneadi di Plotino]: difatti i reduci della Scuola di Atene, guidati dallo scolara Damascio, quando fuggono in Persia portano con loro una ben fornita biblioteca che, metaforicamente, è stata chiamata “la statua di Atena” perché il vero monumento della cultura classica, greca e latina, è la raccolta [il corpus] delle Opere di questa grande stagione [quella antica e tardo-antica della Storia del Pensiero Umano]. Proclo di Costantinopoli [che aveva agito dopo aver sognato la dèa Atena] è anche l’autore di Opere molto importanti nel processo di salvaguardia della cultura classica: Opere teologiche con cui Proclo redige una vera e propria enciclopedia del Pensiero neoplatonico. Inoltre, per preservare questa cultura [per salvarne le parole-chiave e le idee-cardine dall’oblio], Proclo ha compiuto una straordinaria azione di depistaggio: ha composto, in termini neoplatonici, rimanendo anonimo, quattro Trattati di “teologia autenticamente cristiana” [Proclo non è un cristiano ma è uno studioso che conosce molto bene la Letteratura dei Vangeli e le Opere della Patristica], ha poi raccolto i quattro Trattati in un volume [un corpus] e ne ha attribuito la scrittura ad un autore fittizio da considerarsi “autenticamente cristiano” al quale ha dato il nome di Dionigi Areopagita che Proclo fa corrispondere a quello dell’allegorico personaggio citato nel capitolo 17 al versetto 34 degli Atti degli Apostoli: infatti, l’unica persona che dà ascolto a Paolo di Tarso dopo la fallimentare conferenza che l’apostolo ha tenuto all’Areopago di Atene si chiama Dionigi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Se – utilizzando la Bibbia custodita nella vostra biblioteca domestica - leggete o rileggete il capitolo 17 degli Atti degli Apostoli potete prendere atto dell’operazione intellettuale compiuta da Proclo di Costantinopoli per fornire il nome di un autore “autenticamente cristiano” al volume contenente i suoi quattro Trattati in cui espone l’effettiva dottrina del cristianesimo in espliciti termini neoplatonici...
Il Dionigi Areopagita è un’opera che ha avuto una straordinaria e duplice incidenza: ha salvaguardato il pensiero neoplatonico nei secoli e ha definitivamente favorito l’inserimento nel canone ideologico del Cristianesimo del pensiero orfico-dionisiaco [pensate, per esempio, al concetto dell’immortalità dell’anima che è entrato, potenziandola fortemente, nella dottrina cristiana proprio attraverso il Dionigi Areopagita]. Il Dionigi Areopagita è un’opera che, per secoli, tanto nella Chiesa d’Oriente quanto in quella d’Occidente, è stata considerata un’autorità inattaccabile citata da tutti i filosofi della Scolastica medioevale, e Tommaso d’Aquino [tanto per fare, come esempio, un nome di un certo peso] nelle sue Opere [in cui “cristianizza” il pensiero di Aristotele] cita il Dionigi Areopagita ben 1170 volte. I quattro Trattati del Dionigi Areopagita - intitolati Teologia mistica, Gerarchia celeste, Gerarchia ecclesiastica e Nomi divini - sviluppano tre temi fondamentali: quello della via per conoscere Dio, quello delle caratteristiche delle cose create e quello del movimento per ascendere a Dio.
Il Trattato che contiene la citazione relativa al testo della Favola di Filelfo su cui stiamo riflettendo è Gerarchia celeste nel quale Proclo scrive: «I misteri delle intelligenze ultramondane, e le loro perfezioni, le conosce solo il loro divino Principio iniziatore. Dunque noi non diremo nulla di nostra iniziativa ma possiamo solo esporre le visioni angeliche come le hanno contemplate e ce le hanno rivelate gli ispirati scrivani biblici. La Sacra Scrittura ha chiamato con nove nomi tutti gli ordini delle sostanze celesti: il primo ordine è quello dei santissimi Troni che stanno sempre accanto a Dio uniti a Lui strettamente, poi ci sono gli ordini che hanno vista acuta e molte ali i cui nomi ebraici sono Cherubini e Serafini. Poi ci sono gli ordini delle Potestà, delle Dominazioni e delle Potenze alle quali fanno seguito gli ordini degli Angeli, Arcangeli e Principati». La lettura di questo brano ci fa capire che il rapporto tra l’opera dantesca e il Dionigi Areopagita è strettissimo: Dante vuole scrivere un’opera sul Mondo ultraterreno che sia assolutamente in linea con l’ortodossia [vuole l’imprimatur della Chiesa] e, quindi, il continuo riferimento che fa alla teologia del Dionigi Areopagita offre, ai suoi versi, un marchio di garanzia.
La disposizione della gerarchia celeste [Troni-Cherubini-Serafini, Potestà-Dominazioni-Potenze, Angeli-Arcangeli-Principati] in cui si struttura il Paradiso assicura ai versi di Dante la perfetta identità con la dottrina della Chiesa della quale il Dionigi Areopagita è stato, fin dalla sua comparsa pubblica a Bisanzio nel 533, un caposaldo.
Ben difficilmente si comprenderebbe la Terza cantica [il Paradiso] della Divina Commedia senza conoscere la concezione dionisiana di Dio come luce che si riflette nelle diverse gerarchie angeliche e nei cieli, come luce che acceca e accende “la conoscenza della non-conoscenza” secondo cui: «Dio non lo si conosce [è troppo luminoso per essere osservato], ma lo si avverte [la persona ne percepisce la presenza quando si manifesta in lei la volontà di imparare, l’alfabetofania]», e questo è l’incipit fulminante del Dionigi Areopagita che Dante, con grande perizia poetica, mette in versi.
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Proclo scrive che «le visioni angeliche furono contemplate dagli ispirati scrivani che nella Scrittura ce le hanno rivelate» e, per la precisione, i nomi delle gerarchie angeliche sono tratti dal Libro di Isaia 6,1-7 [i Serafini]; dal Libro della Genesi 4,1 [i Cherubini]; dalla Lettera agli Efesini 1,21 [i Principati, le Potestà, le Potenze, le Dominazioni]; dalla Lettera ai Colossesi 1,16 [i Troni, le Dominazioni, i Principati, le Potestà]; dalla Prima Lettera ai Tessalonicesi 4,16 [gli Arcangeli], mentre le citazioni degli Angeli sono innumerevoli e, sfogliando il volume della Bibbia, potete scoprirne qualcuna e appuntarla: non c’è niente di meglio che avere delle angeliche visioni!…
Come tutti i filosofi della Scolastica, Dante impara la teologia dal Dionigi Areopagita e mette in versi l’idea che più si sale verso le cose alte e più i lunghi discorsi umani devono abbreviarsi [tradursi in versi], e il culmine dell’ascesa, l’incontro con la Causa prima, si celebra nel “silenzio metafisico”.
Sarà per questo che l’aquila, che sa volare in alto, dopo il suo intervento preferisce tacere per avvalorare il fatto che «le schiere delle intelligenze alate sono disposte secondo la loro celeste gerarchia perché, nell’ordinamento degli uccelli, come nell’ordinamento angelico, i gradi inferiori hanno anche le illuminazioni e i poteri dei gradi superiori e, di conseguenza, tutti hanno compreso e hanno accolto le parole della loro regina con uno scintillio d’orgoglio negli occhi.».
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La mistica neoplatonica che caratterizza il Dionigi Areopagita presenta “il silenzio” non solo come taciturnità e come assenza di rumore [nel VI secolo non c’era l’inquinamento acustico che ci affligge oggi] ma considera il silenzio come fattore di quiete, di pace, di serenità, di riposo…
In quali situazioni, in quali ambienti, voi potete trovare e gustare le salutari virtù del silenzio?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Ma adesso dobbiamo ancora rompere il silenzio per proseguire nella lettura del testo del Capitolo VI della Favola di Filelfo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo VI. Il dilemma del cane
Dopo il ruggito del leone e l’altisonante silenzio dell’aquila, avendo fiutato l’aria che tirava in assemblea, non fu facile per il cane prendere la parola. Pur essendo un meticcio, incrocio tutto sommato ben riuscito tra quello che gli umani chiamano bracco e un cane pastore, era stato scelto come portavoce dai più diplomatici esemplari di razza pura - levrieri, dalmati, alani, barboncini, terrier - che lo avevano lusingato - «Va’ tu ... che sei più bravo a parlare coi selvaggi» - ma in realtà non si erano eppure sognati di abbandonare le loro preziose dimore per affrontare prima un lungo viaggio e poi, e questo era il vero problema, l’increscioso pregiudizio anticanino della quasi totalità del regno animale. In effetti non era facile. Anzi, era una missione quasi impossibile. Per chiarirsi le idee cercò di ricordare ciò che in occasioni simili vedeva fare dal suo padrone: primo, compilare una lista dei problemi, gli umani compilano sempre liste e questo sembra aiutarli; secondo, depennare i problemi dalla lista man mano che vengono risolti; terzo, stendere una lista dei problemi rimasti; quarto, temporeggiare finché i problemi non si risolvano da soli; quinto: rassegnarsi a conviverci se non si risolvono da soli, e, sesto, cestinare la lista, riservandosi di prepararne un’altra in un momento di rinnovato entusiasmo.
La vita degli umani, i cani lo sanno, è difficile. Contrariamente agli animali, non controllano il loro tempo, hanno sempre dubbi, non sanno scegliere, pochi sono guidati dall’istinto, quasi nessuno più da quella Legge di natura che ordina a ogni più piccolo abitante della terra di svolgere il suo compito subito, senza esitazione, senza imprecisione, senza incertezze. Nascere, sopravvivere, mangiare, riprodursi, morire; e nel frattempo godere l’attimo. È la lista per tutti gli animali, tranne che per l’essere umano. E il portavoce dei cani provava una grande pena per gli umani, e questo era uno dei problemi, in quel momento, della sua personale lista. Il secondo era un conflitto di fedeltà. Si dice che il cane obbedisca all’essere umano come a un capobranco. La si può anche mettere così, ma questa storia dell’obbedienza era riduttiva. Era un patto concordato fra entrambe le parti. Abituato da millenni a onorare l’accordo che i suoi antenati avevano stipulato con gli umani - io ti segnalo il pericolo, tu mi dai da mangiare -, nessun cane poteva di punto in bianco rescindere il contratto; né lo voleva. Tuttavia il cane era rimasto molto colpito dalle parole del koala e di tutti gli altri. Lui sapeva che le bestie non supplicano, non chiedono pietà, non si danno per vinte e vivono tenendosi lontane dalle illusioni come dal mare aperto, e si domandava se anche per lui valeva questa regola che rimandava all’atavico bisogno del mangiar carne. ...
La citazione «le bestie non supplicano, non chiedono pietà, non si danno per vinte e vivono tenendosi lontane dalle illusioni come dal mare aperto» ci permette di riflettere su un’altra opera, variegata e interessante, composta da un autore [una nostra vecchia conoscenza] che si chiama Plutarco di Cheronea. Plutarco è nato a Cheronea in Beozia ed è vissuto nel I secolo [nel periodo tra il 46 e il 127 d.C.] e ha studiato e si è formato ad Atene ma ha abitato, in molti periodi della sua vita, a Roma dove ha insegnato con grande successo filosofia e ha goduto il favore degli imperatori Traiano e Adriano. Plutarco ha scritto molte opere che si sono conservate nel tempo e quella più importante s’intitola Vite parallele ed è formata da cinquanta biografie di cui 46 abbinate in modo che alla vita di un greco viene contrapposta quella di un romano, quindi, quest’opera costituisce come un sommario di tutta la storia greca e romana attraverso le figure dei personaggi più famosi. Poi Plutarco - ed è l’opera che in questo momento interessa a noi - ha scritto gli Opuscoli morali [Ethica, in greco - Moralia, in latino]. Ci sono pervenuti 83 Opuscoli che contengono brevissimi trattati nei quali l’autore riflette sui più svariati argomenti: di storia, di letteratura, di politica, di filosofia, di pedagogia, di costume. Gli Opuscoli di Plutarco sono importanti per il gran numero di notizie che ci hanno tramandato e hanno avuto un successo straordinario in età medioevale e in età moderna. L’opera di Plutarco ha avuto un grande influsso sulla Letteratura europea moderna: prima di tutto sui Saggi di Montaigne [un argomento che conosciamo], e poi ha influenzato le Opere di personaggi come Shakespeare, Corneille, Racine, Alfieri, e poi Goethe e Schiller e Rousseau e Leopardi. Plutarco non è propriamente uno storico: può essere considerarlo un buon editorialista che scrive per motivi politici e morali, riflettendo, e facendo riflettere, anche su un tema molto significativo: quello del rapporto di amore e odio tra la cultura greca e la cultura latina. Infatti Plutarco scrive in modo da mettere in evidenza la superiorità dei Greci rispetto ai Romani perché vuole sottolineare il fatto che i Romani hanno vinto e hanno sottomesso militarmente l’Ellade ma culturalmente il mondo greco continuerà ad essere superiore a quello romano. «I Romani mangiano troppa carne [arriva a scrivere Plutarco] ed è per questo che sono così aggressivi e sanguinari rispetto ai Greci». Uno degli Opuscoli di Plutarco - che contiene la citazione su cui stiamo riflettendo - s’intitola Sul mangiare carne in cui l’autore afferma che il mangiar carne non è una condizione naturale dell’umanità, ma un passaggio traumatico nella storia degli umani i quali da animali predati sono passati dalla parte dei predatori cominciando a praticare la regolare uccisione degli animali che ha trasformato la fisiologia stessa degli umani. Plutarco, oltre a lodare il vegetarianesimo [secondo la dottrina di Pitagora], vuole dimostrare che anche gli animali, a modo loro, orientano il loro comportamento come se fossero dotati di intelletto, come se avessero un senso morale e di giustizia e, per avvalorare questa idea, fornisce molti esempi nei quali la realtà si alterna alla leggenda e l’osservazione diretta viene integrata dai materiali della Letteratura.
L’argomentazione di Plutarco è sostenuta dall’estro e dalla sapienza di un grande scrittore. Leggiamo l’incipit dell’opuscolo intitolato Sul mangiare carne: «Tu vuoi sapere secondo quale criterio Pitagora si astenesse dal mangiar carne mentre io mi domando con stupore in quale circostanza e con quale disposizione spirituale gli umani toccarono per la prima volta con la bocca il sangue e sfiorarono con le labbra la carne di un animale morto; imbandendo mense di corpi morti e corrotti, diedero il nome di deliziose pietanze a quelle membra che poco prima muggivano e belavano, e si muovevano e vivevano. Come poté la vista degli umani tollerare il sangue di creature sgozzate, scorticate, smembrate, come riuscì il loro olfatto a sopportarne il fetore? Come mai quella lordura non annullò il senso del gusto, che veniva a contatto con le piaghe di altre creature e che sorbiva umori e sieri essudati da ferite mortali? Qualcuno potrebbe dire che i primi esseri umani a mangiare carne furono sollecitati dalla fame e, in effetti, può essere che non disponessero del necessario in abbondanza ma se in questo momento ritornassero in vita e riacquistassero la voce essi direbbero: “Beati voi che vivete adesso! E quanti beni possedete! Quante piante nascono per voi, quanti frutti vengono raccolti: quanta ricchezza potete mietere dai campi, quanti prodotti gustosi cogliere dagli alberi! Potete anche vivere nell’abbondanza senza il rischio di contaminarvi e dividendo i prodotti fraternamente rispetto a noi che ci siamo trovati in una condizione di grande e irrimediabile indigenza per cui vi diciamo che oggi il mangiar carne non è una condizione naturale dell’umanità.».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
L’Opuscolo di Plutarco intitolato Sul mangiar carne lo trovate in biblioteca, e la lettura di questo breve trattato ci aiuta a riflettere... Oggi, infatti, siamo chiamate e chiamati, per molti motivi, a calcolare l’impatto che la dieta di ciascuna e di ciascuno di noi ha sulla nostra salute e sulla salute del Pianeta che ci ospita...
Volete scrivere quattro righe a proposito della vostra dieta, tenendo conto che “dieta” non significa privarsi del cibo ma assumerlo in modo qualitativo?...
E ora proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo VI della Favola di Filelfo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo VI. Il dilemma del cane
Il cane era rimasto molto colpito dalle parole del koala e di tutti gli altri, e conosceva inoltre la condizione dei suoi molti confratelli maltrattati dagli umani: cani bastonati a morte, avvelenati, segregati nei canili, legati tutta la vita alla catena, violentati, vivisezionati nei laboratori, costretti a combattere per gioco all’ultimo sangue. Questo era il terzo problema della lista. Non riusciva a capire come fosse possibile che la specie colpevole di tanti misfatti fosse la stessa cui apparteneva il suo padrone, che lo nutriva, lo faceva giocare come un figlio, lo portava a passeggio anche nei giorni di pioggia, gli confidava sogni e progetti, lo curava quando era malato e lo faceva sentire qualcosa di più di un animale. Gli aveva anche dato un nome importante, letterario, Montmorency, presto abbreviato in MoMo perché più rapido fosse il richiamo, più veloce il suo accorrere quando aveva bisogno di lui. E il suo padrone di lui aveva bisogno spesso. ...
Sì, il padrone del cane gli ha dato un nome importante, Montmorency, un nome letterario perché rimanda a Tre uomini in barca. Per non parlar del cane, che è il titolo di un famoso romanzo satirico dell’umorista inglese Jerome K. Jerome [1859-1927], pubblicato nel 1889. L’autore narra di un’escursione in barca sul Tamigi da parte di tre amici, Enrico, Giorgio e l’autore stesso, accompagnato dal suo fox-terrier. I tre decidono, dopo di aver riscontrato di aver un gran bisogno di riposo, di trascorrere una quindicina di giorni di vita sana e primitiva remando, mangiando cibi frugali e dormendo sotto una grande coperta. Durante il viaggio attraversano squallide zone industriali, luoghi pittoreschi, cittadine rese famose da fatti storici e, finalmente, giungono a Oxford, e di qui iniziano il viaggio di ritorno: ma questa volta senza alcuna fatica, perché trascinati dalla corrente, ma dopo due giorni di pioggia insistente i tre abbandonano la barca e tornano a Londra in treno, molto contenti di rientrare, dopo tanti disagi poco riposanti, alla vita normale.
L’arte di Jerome come romanziere emerge quando racconta, con ironia, gli avvenimenti imprevisti e, soprattutto, quando fa narrare ai protagonisti una serie di aneddoti umoristici che sono diventati celebri. Jerome è molto abile a far scaturire la comicità da osservazioni tratte dalla vita quotidiana rivelandocene gli inattesi aspetti ridicoli: prende spunto dal classico umorismo inglese alla Dickens ma poi supera quel fondo di amarezza proprio di questo umorismo e ride senza sottintesi accettando il mondo com’è e mettendone in rilievo le assurdità di certi aspetti più comuni e, appunto per questo, meno osservati: Jerome insegna alla lettrice e al lettore a osservare come il ridicolo si nasconda nei dettagli.
Se il titolo è Tre uomini in barca. Per non parlar del cane, ci si deve domandare: ma il cane che ruolo ha in questo romanzo? Andate a scoprirlo, e quindi…
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Leggete o rileggete il romanzo Tre uomini in barca. Per non parlar del cane, lo potete richiedere in biblioteca e farete felice anche il vostro cane, se ne avete uno...
E ora proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo VI della Favola di Filelfo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo VI. Il dilemma del cane
L’ape regina aveva detto giusto parlando della fragilità e della sofferenza degli umani. Ma il cane conosceva in lui qualcosa di più profondo. Dal principio dei tempi lo aveva accompagnato al sorgere del sole custodendo le sue greggi dal vello crespo, aveva vegliato i suoi sogni turbati dai pericoli; dai fantasmi delle notti. Aveva cacciato con lui non solo la screziata selvaggina della sua tavola, ma anche le nere belve di cui l’essere umano era preda e che non sempre erano reali. Accanto a lui si era accucciato davanti al danzare del fuoco, percependo negli anelli di fumo dei suoi disegni lo scintillio delle sue visioni. Aveva partecipato ai suoi riti, era stato assunto tra i suoi dèi, arruolato nelle sue battaglie, insignito delle sue onorificenze. Lo aveva aiutato a riportare alla vita, scavando tra le macerie nel rombo dei terremoti, raspando nella neve tuonante delle valanghe, nuotando nell’urlo del mare in burrasca. Aveva guidato i suoi occhi ciechi attraverso gli ostacoli del mondo, e gli umani si erano ciecamente fidati di lui. Il suo padrone il cane lo aveva sempre riconosciuto, anche di ritorno da una lunga guerra e da un travagliato vagare per mari, e come in uno specchio cane e padrone si erano guardati ormai vecchi ricordando e piangendo i tempi in cui erano due cuccioli. Questo era amore. ...
Penso che la vostra biblioteca domestica custodisca il volume dell’Odissea di Omero: ebbene, questo fatto vi permette di leggere subito - dal verso 290 al verso 329 del Canto XVII - il commovente episodio in cui il cane Argo è il primo a riconoscere il suo padrone, quando Ulisse torna in patria - vent’anni dopo - sotto le mentite spoglie di un mendicante.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Leggete l’episodio del cane Argo, e poi anche voi, come Omero, scrivete quattro righe per descrivere il vostro cane e, anche se non ne possedete uno, potete comunque immaginare quale potrebbe essere il vostro cane ideale ...
E ora concludiamo la lettura del testo del Capitolo VI della Favola di Filelfo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo VI. Il dilemma del cane
Ma, ultimo problema, MoMo non trovava, negli infiniti idiomi e segni attraverso cui gli animali esprimono la Legge del desiderio che li lega l’un l’altro e a tutta la natura, una forma di espressione adatta a spiegare lo strano tipo di amore dell’essere umano, e neanche la misteriosa e invincibile devozione del cane. Con tutta la lentezza possibile, trattenendosi con aria indifferente ad annusare qua e là, e procedendo a zig-zag, MoMo aveva raggiunto il seggio. Ma, proprio come un umano che soffre di debolezza cognitiva, non era venuto a capo della sua lista. Tutto quello che riuscì a dire, con le orecchie basse e la coda tra le gambe, fu: - Bau. ...
Riuscirà a dire qualcosa d’altro il cane in assemblea, e ci sarà qualche animale che gli sorride nel vederlo mortificato per non essere stato capace di trasformare in parole i suoi, pur sublimi e meditati, pensieri? Non perdete la prossima tappa di questo Percorso.
Vi invito a esercitarvi rileggendo il testo del sesto capitolo della Favola di Filelfo, e vi esorto a fare il compito come è richiesto da ogni punto del REPERTORIO ...
Ci risentiamo [presumibilmente fra quindici giorni] per compiere il settimo itinerario di questo Percorso, tenuto a distanza, in attesa di poter riprendere a viaggiare in presenza.
Il dieci marzo è stato il compleanno del nostro amico e compagno di Scuola Valdemaro. Valdemaro Morandi è il promotore, ed è l’autore dello Statuto dell’Associazione Articolo 34, ed è il nostro Presidente onorario che continua a viaggiare insieme a noi.
Intanto fra dieci giorni è Pasqua e, quindi, per celebrare questa festività [come è tradizione secondo i canoni della Scuola] cogliamo l’esortazione scritta da papa Gregorio Magno quando, nell’anno 590, ha redatto - nel secondo Libro dei suoi Dialoghi - la Regola benedettina che corrisponde a un progetto politico che, attuato concretamente [con la realizzazione del sistema della Abbazie], ha contribuito a risollevare le sorti dell’Europa dopo “la [cosiddetta] caduta dell’Impero romano d’Occidente”.
Si sente quotidianamente ripetere - con la crisi pandemica che stiamo vivendo a livello planetario - che “niente sarà più come prima”, ebbene, sul significato del “benedetto progetto politico gregoriano” bisognerebbe [in alternativa alle mire nefaste del capitalismo predatorio che ostacolano il cambiamento] promuovere una riflessione universale.
Per noi - popolo della Scuola - la riflessione viene promossa nell’ambito di Officine dell’apprendistato cognitivo da quasi quattro decenni mediante lo studio della Storia del Pensiero Umano per procurare linfa ai nostri intelletti in modo che si possa trovare, quotidianamente, un giusto equilibrio tra il lavoro, lo studio, la riflessione, la cura, il divertimento e il riposo.
Ebbene, scrive papa Gregorio Anicio nei suoi Dialoghi:
Gregorio Magno, Dialoghi
La luce che risplende nelle tenebre dell’ignoranza è generata dallo studio, e chi studia comincia a risorgere. …
E, di conseguenza, “studiare” [cioè prendersi cura della propria anima, del proprio intelletto e del proprio corpo] è un gesto pasquale per eccellenza da coltivare con impegno per rivendicare il nostro diritto-dovere all’Apprendimento permanente.
“Studiare è cominciare a risorgere” perché lo studio è cura e, quindi, in linea con questa affermazione scenda su di noi l’augurio di una buona Pasqua di studio perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario, e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito.
E allora, care compagne e cari compagni di Scuola: buona Pasqua di studio a tutte e a tutti voi!
E, infine, dopo aver letto il capitolo 20 del Vangelo secondo Giovanni, fate ruzzolare l’uovo con la consapevolezza che non bisogna mai perdere la volontà di imparare.
A risentirci…