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LA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AFFIDATA AGLI ANIMALI - CHE FARE?

Lezione N.: 
10

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

La sapienza poetica e filosofica dalla seconda metà del ‘600 al secolo dei Lumi

La sapienza poetica e filosofica affidata agli animali

Prof. Giuseppe Nibbi

OTTAVO  ITINERARIO [in attesa di tornare a viaggiare in presenza] ...   21 aprile 2021

CHE FARE?

     Care compagne e cari compagni di Scuola, nell’attesa di riprendere il cammino in presenza sul Percorso canonico di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura sulla via che dalla metà del Seicento porta verso il secolo dei Lumi, su consiglio di Jean de La Fontaine [che spera di poter comparire dal vivo al più presto negli spazi della nostra Scuola], abbiamo, come sapete, cominciato a leggere una Favola dove “la Sapienza poetica e filosofica” è affidata agli animali perché, da che mondo è mondo, “la favola”, attraverso la voce degli animali, parla degli esseri umani per invitarli a riflettere sulla loro condizione esistenziale [de te fabula narratur, ci ricorda La Fontaine], ma gli umani - a causa della loro debolezza cognitiva e del loro istinto predatorio - non hanno recepito l’insegnamento che, attraverso il genere letterario della fabula, deve contribuire a far emergere nel loro animo i valori dell’Umanesimo: l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia. E, in proposito, Jean de La Fontaine ci ha proposto di utilizzare il testo della Favola Selvaggia [riscritta in lingua corrente] di un presunto umanista rinascimentale di nome Filelfo: di conseguenza, lo stiamo esaminando nella nostra Officina dell’apprendistato cognitivo per far emergere i riferimenti letterari in esso contenuti, in modo che questo esercizio di carattere ermeneutico ci consenta di tenere attiva nella nostra mente la funzionalità delle principali azioni mediante le quali avviene il processo di apprendimento perché per andare incontro al pensiero scritto e per sostenere il carico della scrittura [tanto nelle sue forme quanto nei suoi contenuti] è necessario saper utilizzare le azioni cognitive [conoscere capire applicare analizzare sintetizzare valutare]. La lettura non è un’arte facile da praticare, e sono capaci a leggere nel vero senso della parola solo le persone che sanno conoscere il significato delle parole-chiave, che sanno capire la rilevanza delle idee-cardine, che si sanno applicare metodicamente, che sanno analizzare i pensieri che il testo contiene, che sanno sintetizzare il contenuto del testo e che sanno valutare il grado di soddisfazione che hanno provato leggendo.

     Nell’itinerario scorso, come ricorderete, abbiamo letto e commentato il settimo capitolo della Favola di Filelfo intitolata L’assemblea degli animali e abbiamo assistito - introdotto dal giaguaro che funge da moderatore - all’emergere dalle profondità marine della balena la quale, con il suo canto, ha indotto tutti gli animali a meditare: non è facile infatti per l’assemblea prendere una decisione sul da farsi visto che il leone, re della terra, e l’aquila, regina del cielo, propongono strategie diverse.

     E ora leggiamo l’ottavo capitolo della Favola e, nel corso della lettura, ci fermeremo per condurre alcune riflessioni perché leggere un testo corrisponde a un esercizio di ermeneutica, di interpretazione, di spiegazione, di chiarimento, di complicazione, di analisi, di sintesi, di esegesi [una competenza, l’esegesi, che in greco significa “di lettura attenta”], e un testo va sempre letto con grande attenzione portandolo nell’ambito di un’Officina di apprendistato cognitivo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo VIII. Che fare?

Al gabinetto di guerra parteciparono il giaguaro, l’aquila e il leone. L’ape regina si astenne, richiamata da una delle solite congiure di alveare. La discussione fu lunga. Interpretare gli oracoli è difficile: che cosa voleva dire colpire gli umani ma non estinguerli? Fin dove bisognava arrivare? E, soprattutto, come?  Insomma, che fare?

Il leone rispolverò vecchi scenari tattici, aggiornandoli giusto un po’: circhi equestri usati come cellule di guerriglia, scorrerie di fiere addestrate, incursioni di bestie selvatiche dalla campagna in città. Fu obiettato dal giaguaro che i blitz affidati a predatori quali volpi, cinghiali, lupi, orsi e finanche pantere e tigri nei centri urbani avevano avuto un ben misero impatto. I cosiddetti incursori erano stati abbattuti, dopo essere stati catturati dagli occhi meccanici che gli umani sostituiscono ai propri ed esposti come trofei nei loro circuiti di comunicazione. Oppure si erano consegnati alla convivenza, come il popolo delle volpi che, dimentiche di discendere dall’insigne personaggio di Reinardus, passeggiavano ormai non meno flemmatiche dei loro cacciatori in bombetta e guanti per le strade notturne di Londra. ...

     E adesso ci fermiamo subito a riflettere sulla citazione contenuta nelle parole che il giaguaro, da saggio mediatore qual è, rivolge al leone a riguardo delle volpi che «si sarebbero dimenticate di discendere dall’insigne personaggio di Reinardus». Questo personaggio - che richiama la volpe - non ci è nuovo [è già comparso nei nostri itinerari e spero comparirà ancora in futuro]. Sappiamo che il personaggio della volpe, in Letteratura, assume un’importanza particolare perché è il ritratto vivente dell’astuzia [è la metafora dell’astuzia della ragione] e riesce quasi sempre, se si trova nei guai, a cavarsi d’impaccio e a giocare tiri mancini agli altri animali più ingenui.

     La fama della volpe raggiunge l’apice in età medioevale in una celebre opera che la vede protagonista e che s’intitola Il romanzo della volpe, e che consiste in una raccolta di narrazioni, scritte in versi francesi, composte tra il XII e il XIV secolo. Il personaggio principale di queste narrazioni si chiama Renart [o Renard], le goupil [in francese antico], cioè la volpe [o il volpone perché è un personaggio maschile]. La figura di Renart è stata creata per mettere in guardia e per far riflettere su “la renardite” cioè sull’astuzia [l’astuzia della ragione] e sull’ipocrisia dominanti nel mondo, e questa astuta tendenza, nota anche nella Letteratura antica, era stata già messa ben in rilievo in un poema epico in 6500 versi latini dal titolo Ysengrimus, in italiano Isengrino, scritto nelle Fiandre dal chierico fiammingo Nivardo da Gand tra il 1149 e il 1151. In questo poema, per la prima volta, gli animali sono dei veri protagonisti e portano dei nomi propri significativi di tradizione germanica in funzione del loro aspetto o del loro carattere: c’è Bruno che è l’orso, c’è Ìsengrim [che significa “Elmo di ferro”] che è il lupo, c’è Reinhart [il Furbo matricolato, il Volpone] che è la volpe [il nome Reinhart deriva da “ragin, il consiglio” e “hart, duro”], poi c’è Vrevel [il Tracotante] che è il leone. Il poema Isengrino, raccontato dal Cinghiale-Beaucent e scritto dall’Orso-Brun o Bruin, si apre con un tipico motivo medioevale: la Capra decide di intraprendere un pellegrinaggio a Roma e a lei si uniscono il Cervo, il Caprone, il Montone, l’Asino, il Volpone [Reinardus], l’Oca e il Gallo. A sera la comitiva si ferma in un’osteria in mezzo ai boschi per passarvi la notte ma, a un certo punto, sopraggiunge anche il Lupo [Isengrino] e, dopo un primo momento di preoccupazione, consigliati da Reinardus, gli animali pellegrini pensano di sbarazzarsi di lui, e Isengrino viene invitato a tavola, e qui ha inizio il racconto delle avventure in cui la [il] Volpe Reinardus e il Lupo Isengrino cercano di eliminarsi a vicenda coinvolgendo tutti gli altri animali nella storia, e il pellegrinaggio diventa qualcosa di diverso da quello che dovrebbe essere.

     La fonte di questo poema [attiva dalla notte dei tempi] è la ricca tradizione orale popolare e Ysengrìmus non ha, quindi, un’origine dotta e letteraria ma diventa Letteratura perché un chierico [un intellettuale medioevale che studia e lavora in biblioteca] si diverte a comporlo, e Nivardo da Gand possiede un sofisticato gusto satirico e con la sua “zoepica” [cioè la Letteratura che parla degli esseri umani utilizzando gli animali, e “zoon”, in greco, significa “animale”] costruisce un’opera in cui dà libero sfogo al sarcasmo verso la Chiesa e verso lo Stato, le due grandi istituzioni che, spesso, nelle loro diverse manifestazioni, non si comportano con coerenza rispetto a ciò che predicano. La creazione del genere zoepico [l’invenzione di far parlare gli animali] è piaciuta molto nei secoli alle scrittrici e agli scrittori [e qui potremmo aprire una parentesi molto ampia ma ci dobbiamo contenere] e quando George Orwell, per esempio, ha scritto nel 1945 il romanzo La fattoria degli animali ha utilizzato, per comporre la sua celebre opera, il genere letterario “zoepico” con maestria.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Leggete o rileggete La fattoria degli animali di George Orwell, un romanzo che continua a descrivere bene certe anomalie dei tempi presenti…

Volete consigliare voi la lettura di un Libro dove gli animali, o uno in particolare, sono protagonisti?...  Date questo consiglio scrivendo quattro righe in proposito...

     Sull’esempio del poema Ysengrìmus prende forma successivamente il Romanzo della volpe, un’opera composta da molti racconti raccolti da vari autori [come Pierre de Saint-Cloud e Richard de Lison] i cui nomi non compaiono in copertina: dove accanto a Renart il volpone, a Isengrino il lupo, a Nobile il leone, a Bruno l’orso e al gallo Chantecler compaiono numerosi altri animali: il corvo [Tiécelin], il cane [Roonel], il gatto [Tibert] e molti altri, tutti contraddistinti da un nome, i quali formano una società simile [con le stesse contraddizioni] a quella degli umani. Questi animali hanno anche ognuno una moglie: il volpone Renart ha per moglie la volpe Ermellina, Isengrino ha la lupa Hersent, Nobile ha la leonessa Fiera, e il nome proprio dato a ciascuna di queste figure conferisce una vita letteraria individuale e autonoma a questi singoli personaggi … Il romanzo della volpe descrive, nelle sue varie parti [dette branches, ramificazioni] una società di tipo monarchico sotto il governo del Leone, e l’azione fondamentale è costituita dalle lotte tra il Volpone Renart e Isengrino il Lupo e tutto il regno è diviso in due partiti: l’uno favorevole alla Volpe e l’altro al Lupo.

     Il Volpone [Renart] è astuto, malvagio, inesauribile, sempre minacciato e in pericolo, ed è quello che tiene in movimento tutto il regno [è il genio stesso dell’avventura, per lui l’avventura è un istinto naturale e, quindi, è il modello di tutte le avventuriere e gli avventurieri che stanno sul palcoscenico della Letteratura] e finisce quasi sempre con l’avere la meglio, e mentre le altre bestie vivono in pace e d’accordo alla corte del loro re, solo Renart, imprudente e ingordo, trama ai loro danni, e si fa beffe di alcune di loro, cerca scappatoie quando è incolpato, invoca l’aiuto degli altri animali quando ne ha bisogno, ma poi una volta che si ritrova libero di agire tradisce subito cinicamente il suo stesso salvatore. Non bisogna sottovalutare questo testo perché i racconti contenuti ne Il romanzo della volpe hanno molte cose da insegnare su come comportarsi oggi nella società contemporanea.

     Il romanzo della volpe in età medioevale circola in tutta Europa e durante l’Umanesimo e il Rinascimento è fonte di ispirazione per molte autrici e per molti autori [compreso La Fontaine che - come rivedremo a suo tempo quando mi auguro si possa tornare a viaggiare in presenza - si è spesso giovato di quest’opera nelle sue composizioni].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Leggere Il romanzo delle volpe [richiedetelo in biblioteca] è utile perché quando, a suo tempo, attraverseremo nuovamente i territori del Romanticismo rincontreremo quest’opera [per esempio in compagnia del signor J.W. Goethe ma questa è un’altra storia che diventerà più comprensibile se si è in possesso di maggiori competenze letterarie]...

     Non c’è dubbio che la volpe sia fonte di ispirazione in Letteratura e, a questo proposito, vogliamo puntare l’attenzione su un autore, Mario Rigoni Stern, che il popolo della Scuola, alle sue origini, ha potuto incontrare: difatti, il Comune di Impruneta - nella persona dell’assessore alla cultura Giovanna Dolcetti - ha invitato [durante l’anno scolastico 1983-1984 in accordo con la Scuola Media] lo scrittore Mario Rigoni Stern perché incontrasse le giovani e i giovani studenti imprunetini che avevano letto e studiato i suoi Libri, e naturalmente ne abbiamo approfittato anche noi della Scuola degli Adulti; io ho proposto un breve Percorso sulla vita e l’opera di Rigoni Stern, uno scrittore che risultava sconosciuto, ma i temi - la natura, la caccia, la guerra con la tragica ritirata di Russia, la memoria autobiografica - che questo autore aveva affrontato suscitarono grande interesse nel popolo della Scuola in via di formazione ed è stato un incontro molto istruttivo. Rigoni Stern lo abbiamo poi commemorato a Scuola [il 22-23-24 ottobre 2008] in occasione della sua morte avvenuta il 16 giugno 2008 ad Asiago, in provincia di Vicenza, dove era nato il 1° novembre 1921 [e quest’anno saranno cent’anni], venuto al mondo tre anni dopo la fine della prima guerra mondiale che ha devastato l’Altopiano di Asiago e questo è il grande evento fondativo della sua immaginazione che ha radici profonde legate alla storia della sua famiglia.

     Rigoni Stern ci ha raccontato, e ci racconta ancora, di aver vissuto un’infanzia allo stato brado, in compagnia dei pastori delle malghe. A diciassette anni si è iscritto alla scuola militare alpina di Aosta dove ha scoperto la grande montagna, ma sono gli anni della seconda guerra mondiale, dell’aggressione alla Francia, della campagna di Russia con le scarpe di cartone. Nella ritirata di Russia compie, da sergente maggiore, quello che definisce «il capolavoro della vita»: una notte parte dal Don con settanta alpini e cammina verso occidente nella bufera senza perdere nemmeno un compagno. Torna a casa, ma dopo l’8 settembre del ’43 viene catturato dai tedeschi e spedito in un campo di lavoro in Masuria, a Nord-est di Varsavia. La prigionia non è solo il tempo della fame e del patimento ma è anche il tempo della scrittura: il suo cammino letterario comincia lì, in una baracca «buia, gremita e maleodorante» sui laghi gelati fra la Polonia e la Lituania, sotto un cielo pieno di stelle. Accanto al tavolaccio senza paglia, che gli fa da branda, ha uno zaino con dentro fogli arrotolati che diventano il suo diario e, come Primo Levi ad Auschwitz, si aggrappa alla memoria per resistere, e come Nuto Revelli in quegli stessi anni, capisce il valore immenso del mondo montanaro da cui proviene. Dopo due anni, a guerra finita, torna a casa a piedi, viaggiando di notte e nutrendosi dei frutti del bosco, sorretto dal miraggio del natio Altopiano.

     Dall’esperienza russa nasce il suo testo più famoso, Il sergente nella neve [1953], che è stato recentemente trasformato in monologo teatrale da Marco Paolini. «I russi [scrive Rigoni Stern] combattevano per le loro case, i tedeschi per il Reich, noi italiani per salvare la vita». Fa seguito Il bosco degli urogalli e poi La storia di Tönle, dove si narra di un montanaro, pastore e contrabbandiere, che trova nell’attaccamento alla sua terra l’unico possibile rifugio dagli sconvolgimenti della Grande Guerra che devasta l’Altopiano. Rigoni Stern scrive perché la memoria non sia perduta: Il sergente nella neve è dedicato a quelli che non sono tornati, La storia di Tönle è dedicata ai racconti dei nonni, L’anno della vittoria è dedicato alle sofferenze dei profughi, Stagioni è dedicato alla natura, è un canto alla lettura ciclica del tempo scritto secondo lo schema delle Georgiche di Virgilio, mentre Le stagioni di Giacomo ricorda i partigiani costretti a emigrare dopo avere ridato la libertà al Paese il 25 aprile 1945: «la festa nazionale del ritorno alla democrazia che ancora molti, ancora troppi non festeggiano e non vogliono festeggiare», ripeteva spesso indignato Mario Rigoni Stern.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

La prosa di Mario Rigoni Stern è scorrevole e arriva direttamente alla mente e al cuore e merita di essere letta o riletta, e i titoli delle sue opere più significative – da richiedere in biblioteca - li abbiamo appena citati…

     Rigoni Stern era attaccato alla sua montagna e ha dato un esempio in proposito: s’imboscava appena possibile e detestava la pianura perché c’era troppo rumore e troppa luce. Rigoni Stern era un grande nella narrazione orale perché era figlio di quella cultura fatta di cose semplici: la pioggia, la neve, la legna, le patate, le mele, il fuoco, la carta di un vecchio libro, e queste cose le evocava, ne faceva sentire la ruvidezza e l’odore. «La parola detta [ha affermato nell’incontro che avemmo con lui] viene molto prima della parola scritta, e ha un ritmo che si sposa con l’andatura dell’essere umano che è un animale nomade imprigionato dalla modernità». Poi ha aggiunto: «Di questi tempi c’è troppo rumore, e stiamo perdendo il senso delle parole e la loro forza terapeutica, eppure le persone hanno bisogno delle parole se no non le manderebbero a memoria. Primo Levi si è salvato, in prigionia, recitando la Commedia di Dante, e “serbare il Verbo in petto” gli ha impedito di diventare un numero, e l’attaccamento a quella parola lo ha trattenuto tra i vivi». Disse poi che in Russia [che lui chiamava commosso «la mia Russia»] la gente andava a recitare sulle tombe dei poeti, e lì fremeva, evocando la potenza delle parole-chiave. Rigoni Stern sentiva la sofferenza della natura per il surriscaldamento dell’atmosfera, guardava continuamente il cielo, ascoltava il canto degli animali del bosco, controllava i loro movimenti. «Cosa dobbiamo fare per sopportare il caldo?» gli chiese un intervistatore durante l’estate rovente del 2003, e lui rispose: «Intanto spegnete la televisione, che è un mezzo che brucia i cervelli, e prendete un Libro e leggete di neve, di inverno, di tempesta e i favolosi racconti sulle battute di caccia della Letteratura russa tra le betulle del Nord, così vi rinfrescherete senz’altro». Rigoni Stern era un cacciatore ma a chi gliene chiedeva conto rispondeva con una durissima requisitoria contro l’industria della caccia e contro i cacciatori consumisti che venivano dalla città a sparare centinaia di cartucce, salendo in macchina su per le montagne, e spiegava [facendo trasalire i cacciatori] che la caccia aveva un significato solo in una realtà ambientale ben precisa e, per farsi capire, con la sua straordinaria capacità di affabulatore, raccontava sempre qualcosa che aveva scritto in cui emergeva l’idea che l’uomo-cacciatore può esistere solo se vive a stretto contatto con animali anch’essi cacciatori perché nella natura c’è un’opportuna tensione predatoria che garantisce l’equilibrio alla natura stessa: il cacciatore può esistere soltanto nel contesto di questo equilibrio. Nell’incontro di quasi quarant’anni fa nella Sala consiliare del Comune di Impruneta, a questo proposito, Rigoni Stern ci raccontò il contenuto di un testo, intitolato Oltre i prati, tra la neve, che possiamo leggere ne Il bosco degli urogalli, un Libro di racconti di cui si consiglia la lettura o la rilettura, e la protagonista di questo racconto è la volpe, il personaggio letterario che ha dato il via a questa riflessione.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Quale influenza hanno avuto, e hanno ancora, le stagioni nella vostra vita? ...

Scrivete quattro righe in proposito ...

     E ora proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo VIII della Favola di Filelfo-

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo VIII. Che fare?

L’aquila auspicò la strategia aerea. Gli alati erano uno degli incubi umani ricorrenti, come quel regista inglese aveva raccontato così bene [A. Hitchcock, nel film “Gli uccelli” del 1963, lo avete visto?]. Lo si sarebbe potuto riproporre su larga scala. Fu obiettato dal giaguaro che alcune tra le più versatili delle sue flotte, quelle dei gabbiani, avevano già infestato le città, ma il solo obiettivo che si fossero dati la pena di raggiungere erano state le discariche di spazzatura, che avevano espugnato ingozzandosi e ingrossandosi degli scarti velenosi degli umani e imboscandosi nel cemento e, con ancora meno dignità delle volpi, i gabbiani si erano dimenticati da tempo, ormai, delle chiare, fresche e dolci acque della Valchiusa. ...

     E adesso ci dobbiamo già fermare perché sono entrati in scena i gabbiani all’interno di una citazione che non possiamo certo lasciar passare inosservata soprattutto oggi che siamo così vicini alla data del 26 aprile, e che cosa è successo il 26 aprile 1336?

     Il 26 aprile 1336 [685 anni fa esatti] Francesco Petrarca, quando non era ancora diventato un personaggio famoso, insieme a suo fratello Gherardo, mentre soggiornavano in Provenza, hanno raggiunto la vetta - posta a 1912 metri - del Mont Ventoux e di lassù hanno potuto gustare un grandioso panorama: le Alpi, le Cevenne, i Pirenei, la valle del Rodano punteggiata di città turrite, il delta del Rodano circondato dai vasti stagni della Camargue, fino al Mar Mediterraneo, al golfo del Leone dal quale i gabbiani volano verso i monti sfidando la forza del vento. E, durante l’ascesa, Francesco Petrarca tira fuori dal suo zainetto il libro delle Confessioni di Sant’Agostino, lo apre a caso [ma forse c’era un segnalibro] e ne legge un brano che, ad una lettura superficiale, può sembrare insignificante, e noi ne conosciamo il testo attraverso una Lettera, scritta qualche tempo dopo a un suo amico, in cui Petrarca rievoca questo episodio per fare - avvalendosi della citazione agostiniana - un’importante considerazione.  Scrive Petrarca: «Durante l’escursione al Mont Ventoux che ho compiuto il 26 aprile scorso insieme a mio fratello Gherardo mi venne in mente di consultare il Libro di Sant’Agostino, Confessioni. Lo apro, per leggere quel che mi capitava, e dove prima affissai il mio sguardo era scritto: “E le persone vanno ad ammirare le alte cime dei monti e i flutti ingenti del mare e i vastissimi corsi dei fiumi e l’immensa distesa dell’oceano e il regale volo dei gabbiani e il corso delle stelle, e di sè stessa la persona non prende cura, di sè stessa la persona non fa studio”».Potrebbe anche interrompersi qui la nostra riflessione perché le parole che Petrarca [scritte da lui 685 anni fa rievocando le parole scritte da Agostino 1620 anni fa (Agostino ha terminato di scrivere le Confessioni nell’anno 401)].

     Ebbene, queste parole sono sempre, e oggi più che mai, attuali, e ci sono familiari perché noi che frequentiamo la Scuola [che animiamo l’Officina dell’apprendistato cognitivo] siamo già convinte e convinti che “studium et cura” sono sinonimi [siamo, però, un’esigua minoranza ad essere consapevoli di questo fatto]. La citazione agostiniana di Petrarca è veramente importante perché in questa affermazione declinata in chiave negativa [esattamente come possiamo proferirla oggi] - «…e di se stessa la persona non prende cura, di se stessa la persona non fa studio» - c’è qualcosa di nuovo: qualcosa che rompe definitivamente con gli schemi del passato per cui, il 26 aprile 1336, ci troviamo di fronte all’inizio della fine dell’Età medioevale. Infatti, secondo lo schema medioevale, il fatto che la persona decida “di prendersi cura di sé, di fare studio di se stessa” voleva dire volgere le spalle al mondo per entrare nella solitudine monacale, voleva dire vivere la propria vita nell’ambito protetto di un monastero e, difatti, il fratello di Petrarca, Gherardo, dopo una vita mondana piuttosto frivola e dissipata alla corte avignonese, si fa monaco nell’aprile del 1343 nella certosa di Montrieux per “annullare se stesso” in modo da far posto nella sua anima alla divinità.

     Francesco Petrarca invece, senza perdere di vista il supremo fine della salvezza eterna, segue un’altra strada, e imbocca la strada de «lo studio delle dimensioni della propria interiorità in cerca del pieno sviluppo, e non della riduzione, della propria umanità». Anche questa scelta, naturalmente, non esclude che si debba far ricorso alla solitudine, ma per concentrarsi nello studio del pensiero dei grandi spiriti del passato, dei Classici, che si esplicita, scrive Petrarca: «nel dedicarsi alla scrittura e alla lettura, trovando ristoro in queste due attività; leggere ciò che scrissero gli antichi e scriver ciò che leggeranno i posteri».

     E, a suo tempo, abbiamo avuto occasione di studiare [come ricorderete] tutta la mole di lavoro intellettuale che Petrarca ha svolto, ma noi ora dobbiamo tener fede alla citazione da cui abbiamo preso spunto che mette al centro le figure dei gabbiani. Nelle Opere di Petrarca le metafore di carattere ornitologico sono molte [sul piumaggio, sul volo e sul canto dei vari tipi di uccelli], e quando dall’inizio del secolo scorso, le studiose e gli studiosi di filologia si sono dedicati a curare una particolare forma di composizione petrarchesca fino a quel momento sottovalutata, ne hanno derivato un’opera alla quale è stato dato il titolo di Gabbiani.

     I Gabbiani di Petrarca sono degli epigrammi, e gli epigrammi sono versi satirici presenti nella Letteratura greca e latina. Gli epigrammi sono un genere congeniale a Petrarca perché sa esprimersi alla perfezione in latino [la lingua che usa abitualmente per scrivere] e lo sa fare in modo giocoso, secondo il modello degli Epigrammi di Marziale, ma senza cadere nell’osceno: ed è successo che, nel suo laboratorio letterario, Petrarca, mentre scrive una lettera, un trattato, un poemetto, ha inserito spesso, in margine a quel testo, un epigramma per esprimere un sentimento o per elaborare un gioco di parole. Petrarca interrompe il suo lavoro e scrive un epigramma quasi come se si volesse calmare, quasi come se bevesse una tisana rilassante per rallentare la tensione emotiva.

     Petrarca non ha mai radunato i suoi epigrammi, non ha mai messo insieme questi versi improvvisati, segreti e sorprendenti per farne un Libro perché si vergognava, e non li riteneva degni di pubblicazione tanto per la forma quanto per il contenuto: indegni per la forma perché aveva dato le rime ai versi latini come se fossero scritti in volgare mentre la poesia latina si legge in metrica [come solfeggiando] e poi i contenuti degli epigrammi sono gli stessi che Petrarca tratta nelle sue Opere canoniche ma espressi con leggerezza, in modo arguto, ermetico e raffinato, ed è proprio per questo che gli epigrammi di Petrarca risultano, oggi, un’opera di grande valore. Un anonimo filologo della prima metà del 1400 ha individuato decine di epigrammi in margine alle Opere di Petrarca e le ha raccolte in un quaderno, e le pagine di questo album [perché i testi sono stati poi abbelliti da anonimi miniaturisti] sono state conservate in due Codici [uno è a Perugia e uno è nella Biblioteca vaticana]. Gli epigrammi hanno preso e hanno conservato il nome di Gabbiani perché l’ignoto filologo quattrocentesco, quando li ha radunati, ha messo per primo, a mo’ di prefazione, un epigramma che rimanda al volo dei gabbiani e che contiene anche un’immagine di Laura che risulta più leggera, trasformata in volatile sullo stile de Le metamorfosi di Ovidio, rispetto alla figura di lei “sempre un po’ funerea” che Petrarca disegna nelle liriche del Canzoniere.

     E adesso [per capire di che cosa stiamo parlando e per entrare nella dinamica della didattica della lettura e della scrittura] leggiamo solo i quattro versi iniziali dell’epigramma datato 1341 che ha dato il titolo alla raccolta [Gabbiani]: «Candida si niveis se nunc tua Laurea pennis | induat et pelago pulcra feratur avis, | nonne voles simili te transformasse figura, | mente manente quidem, sed variante coma? » [Se ora la tua fulgida Laura vestisse penne candide come la neve, e apparisse bella e alata sul mare, non vorresti anche tu, mantenendo la stessa tua mente, trasformarti in figura a lei pari?].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Nell’anno 2008 l’editoria ha provveduto a pubblicare Gabbiani di Francesco Petrarca, e se volete curiosare tra le pagine di questo libricino lo trovate in biblioteca, mentre i gabbiani, quelli veri, oltre che al mare, li possiamo veder volare, da tempo, anche nelle nostre città...

     E ora proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo VIII della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo VIII. Che fare?

Certo, da sempre, se avessero voluto, gli animali sarebbero stati in grado di prendere il controllo del pianeta. Le aquile avrebbero potuto rapire gli umani in cielo coi loro artigli, come già in passato avevano fatto, e gli umani lo ricordano ancora nei loro miti, ammise il giaguaro. Ed era incomparabile la forza del leone rispetto a quella degli umani, come i combattimenti dei gladiatori nel circo avevano tante volte dimostrato. «Hic sunt leones», dicevano un tempo gli umani per delimitare i confini del loro mondo, oltre i quali non avventurarsi. Ma gli animali si erano sempre trattenuti dallo scontro di civiltà. La guerra in campo aperto non era mai stata un’opzione. E adesso? Adesso, come frammenti di un vaso scagliato piovvero sui convenuti frasi senza più una forma, idee senza più un pensiero, progetti tenuti insieme dalla rabbia. Sabotaggio a colpi di becco di tralicci e cavi elettrici; occupazione delle rotte aeree; bombardamenti a tappeto di guano; rivolta nei parchi naturali e negli zoo safari; golpe negli allevamenti dei maiali, proclamazione della repubblica suina; insurrezione, non gandhiana, delle vacche indiane; liberazione dei mattatoi; classica invasione di cavallette, raid di calabroni, mobilitazione di legioni di zanzare, pioggia di rane, penetrazione sotterranea di termiti e blatte; encierro di tori al galoppo nei centri cittadini; rastrellamenti affidati a plotoni di gorilla per buttare fuori i barricati in casa; occupazione delle case da parte di commando di polli e tacchini, con picchetti di oche a guardia dei checkpoint; e finalmente presa della Bastiglia, irruzione della cavalleria, bivacchi alle fontane dei luoghi sacri.  Ma nessuno degli scenari e delle fantasie tattiche, con cui il regno del cielo e quello della terra si sfidavano sempre più arditamente, era adeguata al monito della balena. La specie umana non doveva perire, ma imparare da una lunga pena. Occorrevano armi più sottili e selettive. Forse, si disse il giaguaro, bisognava riprendere in considerazione la proposta del topo. La sua specie, come prima aveva lui stesso pomposamente sottolineato, vantava una millenaria esperienza nella propagazione di malattie infettive capaci di sterminare ampie masse di umani ma anche, e questo poteva fare al caso loro, di risparmiarne almeno altrettanti, dopo averli sprofondati in un abisso simile a quello cantato dalla balena. Certo, la guerra batteriologica non avrebbe potuto essere affidata a un popolo reietto, ma pur sempre soggetto all’autorità del leone, come quello dei topi. Sarebbe stato un oltraggio inaccettabile per l’aquila.  Ma questo il topo lo sapeva benissimo. E non gli parve vero di essere chiamato a rapporto in quel consesso. Si forbì i baffi e squittì: - Vi ho sentito fare delle affascinanti affermazioni, o sire leone e aquila regina, ma mi sembra di capire che ci sia un problema diplomatico da risolvere. ...

     Nel testo che abbiamo appena letto è comparsa una provocatoria [in senso letterario] citazione sulla quale dobbiamo, seppur brevemente, soffermarci: «Le aquile avrebbero potuto rapire gli umani in cielo coi loro artigli, come già in passato avevano fatto, e gli umani lo ricordano ancora nei loro miti». Il rapimento mitico più celebre gestito da un’aquila è quello di Ganimede, e che cosa narra il mito di Ganimede e chi è questo personaggio? Se consultiamo un Dizionario di Mitologia possiamo scoprire che Ganimede è il più bel ragazzo del mondo, ed è un principe troiano, figlio di Troo [il mitico re che ha dato il  nome alla regione della Troade] e di Calliroe [una ninfa marina figlia del divino Oceano], e appena Zeus vede il bel Ganimede che va a passeggio sui sentieri dei monti del Kara-dag [catena della Troade ricca di foreste e di fonti] s’innamora di lui e, dopo aver preso le sembianze di aquila, lo rapisce e lo porta con sé sull’Olimpo dove lo assume come coppiere.

     Il mito di Ganimede, di cui si conoscono varie versioni, ha ispirato artiste e artisti d’ogni tempo: la rappresentazione più famosa de Il ratto di Ganimede è quella dello scultore greco [del IV secolo a.C.] Leòcare e di quest’opera ne è conservata una copia nei Musei Vaticani che si può ammirare navigando in rete. Mentre in Letteratura il mito di Ganimede è raccontato da Eratostene di Cirene [284-192 a.C.] nell’opera intitolata Catasterismi [“Collocare tra gli astri”, dove l’autore narra come Ganimede diventa l’Acquario dopo la sua assunzione nella costellazione dell’Aquila] e da Luciano di Samosata [125-190 d.C.] nell’opera intitolata Dialoghi degli dèi [il “Dialogo tra Zeus e Ganimede”].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

E su questi riferimenti – utilizzando l’enciclopedia e la rete - potete documentarvi: fatevi rapire non da Zeus ma dalla dèa Curiosità [Epistamè demòn] ...

     Ganimede - con l’incarico che ha ricevuto - è da considerarsi il primo mitico barman, e ora voi penserete che di questi tempi abbia perso il lavoro [sarà in cassa integrazione?] ma, dobbiamo intuire che il Bar dell’Olimpo non chiude mai intanto perché le abitanti e gli abitanti del mondo olimpico sono immuni da epidemie [se mai sono loro, gli dèi - ci ricorda sarcastico il re dei topi - a provocarle le epidemie, vedi quella scatenata da Apollo nel primo Libro dell’Iliade, non lo avete ancora letto?] e poi perché il barman Ganimede, al Bar dell’Olimpo, serve solo due prodotti: il nettare e l’ambrosia, due prodotti idonei a garantire l’eterna salute e l’immortalità.

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E voi ora, per ristorarvi, per deliziarvi e per digerire questa pesante Lezione, di quale bevanda berreste volentieri un bicchierino?...

Scrivete quattro righe in proposito...       

     E adesso - con grande soddisfazione del re dei topi - concludiamo la lettura del testo del Capitolo VIII. della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo VIII. Che fare?

Il topo si lisciò nuovamente i baffi e con risolutezza parlò: - Mi sembra di capire che ci sia un problema tra gli uccelli e i mammiferi, un problema, oserei ripetere, diplomatico. Né l’autorità del regno del cielo né la sovranità di quello della terra vogliono cedere. Né, mi sembra di capire, siete in grado di trovare la strategia giusta per non irritare la balena -. Ridacchiò compunto, crogiolandosi nell’attenzione dell’aquila e del leone e nell’approvazione del giaguaro.  - Che cosa può fare questo umile servitore per sovrani tanto nobili? Come può un semplice roditore trovare la soluzione che menti tanto elevate non riescono a vedere? E perché mai dovrebbe, essendo tenuto da loro in così bassa considerazione? Eppure si dà il caso che questo appestatore dell’umanità, e reietto tra le bestie, sia disposto, per il bene comune, a soffocare l’orgoglio, a dimenticare le umiliazioni e a confidare che quando tutto sarà finito le vostre signorie si ricorderanno di avere un debito, un grande debito nei suoi confronti. E si impegneranno a onorarlo. - Che cosa vuoi? - tuonò il leone, impaziente di fronte a tanta spudoratezza. - Il tuo regno è la terra, maestà, - rispose il topo. - Così come quello dell’aquila è il cielo e la balena governa gli oceani. Il mio reame è quello oscuro dove non batte mai il sole. Ciò che io chiedo per il mio popolo è una parte di terra, una parte di cielo e una parte di mare. Una zona franca dove nessuno potrà mettere in discussione le nostre Leggi, i nostri affari, il nostro stile di vita. E, anche, il nostro formaggio. Uno Stato dei topi, o meglio una confederazione di sorci, ratti e pantegane, divisa in cantoni, meglio se ai Tropici, dove nessun emissario o commissario potrà mai entrare.  - E cosa ci daresti in cambio? - tuonò torva l’aquila. A questo punto il topo fissò gli occhi neri dritto in quelli dei due sovrani, prima l’uno, poi l’altro, e squittì - L’unica soluzione che mette insieme le ali dei tuoi volatili, aquila, e il corpo dei mammiferi che tu governi, leone. Nonché modestamente una passabile versione di me stesso, della mia capacità di investire in intelligenza -. In quel momento, da una cavità della roccia, sbattendo le ali nere arrivò il pipistrello. - Lasciate, - disse il topo, - che vi presenti un amico, il topo con le ali. ...

     Con la comparsa del topo con le ali, del pipistrello, viene sciolta l’assemblea? Non perdete la prossima tappa di questo Percorso che, con l’avvento della primavera [anche se con caratteristiche invernali, finora], si avvia verso la sua conclusione.

     Vi invito a esercitarvi rileggendo il testo dell’ottavo capitolo della Favola di Filelfo, e poi vi esorto a fare il compito come è richiesto da ogni punto del REPERTORIO ...  perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito.

     Ci risentiamo fra quindici giorni per compiere il nono itinerario di questo Percorso in modo da continuare a studiare insieme in attesa di poter riprendere a viaggiare in presenza perché lo studio è cura.

     E, infine, un abbraccio a tutte e a tutti voi, nell’ambito di quel significativo paradosso che consiste nel mantenere le distanze restando uniti…

 

 

 

Lezione del: 
Mercoledì, Aprile 21, 2021