ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»
PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
La sapienza poetica e filosofica dalla seconda metà del ‘600 al secolo dei Lumi
La sapienza poetica e filosofica affidata agli animali
Prof. Giuseppe Nibbi
DECIMO ITINERARIO [in attesa di tornare a viaggiare in presenza] ... 19 maggio 2021
GLI ALLEATI DEGLI ESSERI UMANI ...
Care compagne e cari compagni di Scuola, dal giorno 13 del mese di gennaio ultimo scorso, su consiglio di Jean de La Fontaine, in attesa di riprendere a viaggiare in presenza, abbiamo [come sapete] cominciato a leggere - nella nostra Officina dell’apprendistato cognitivo - il testo di una Favola intitolata L’assemblea degli animali composta da un autore che si fa chiamare Filelfo [come se fosse un umanista rinascimentale]. Da che mondo è mondo, attraverso il genere letterario della fabula, “la Sapienza poetica e filosofica” viene affidata agli animali perché queste creature hanno contribuito a far riflettere gli umani sulla loro condizione esistenziale [de te fabula narratur - ci ricorda La Fontaine - la favola parla di ciascuna e di ciascuno di noi]. Questo esercizio di carattere ermeneutico deve servire per tenere attiva nella nostra mente la funzionalità delle principali azioni mediante le quali avviene il processo di apprendimento perché per andare incontro al pensiero scritto e per sostenere il carico della scrittura [tanto nelle sue forme quanto nei suoi contenuti] è necessario saper utilizzare le azioni cognitive [conoscere capire applicare analizzare sintetizzare valutare]. La lettura non è un’arte facile da praticare, per leggere con competenza è necessario conoscere il significato delle parole-chiave, capire la rilevanza delle idee-cardine, sapersi applicare metodicamente, saper analizzare i pensieri che il testo contiene, saper sintetizzare il contenuto del testo e saper valutare il grado di soddisfazione che si prova leggendo.
Nell’itinerario scorso abbiamo letto e commentato il nono capitolo della Favola di Filelfo e abbiamo seguito il corvo che, dopo lo scioglimento dell’assemblea, è tornato al tetto della casa nella piccola città dove abita e ha cominciato a riflettere sul fatto che gli umani non sanno più gestire il fenomeno della trasformazione che implica il dovere di Essere piuttosto che il voler Avere e il voler Apparire.
E ora leggiamo il testo del decimo capitolo della Favola di Filelfo fermandoci a riflettere per compiere un esercizio di ermeneutica, di interpretazione, di spiegazione, di chiarimento, di complicazione, di analisi, di sintesi, di esegesi [una competenza, l’esegesi, che in greco significa “di lettura attenta”], e un testo va sempre letto con grande attenzione nell’ambito di un’Officina di apprendistato cognitivo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo X. Gli alleati degli esseri umani
Racconta un’antica leggenda babilonese che quando l’uomo e la donna furono cacciati dall’Eden avanzarono tra le schiere immobili di animali come tra le ali di un esercito di statue. Nessuno osò proferire verbo o verso. Tutti sapevano che la trasgressione dell’uomo e della donna, causando l’esilio dal giardino, li aveva condannati per sempre alla Legge di natura: nascere, sopravvivere, sopraffare, essere sopraffatti, soffrire, morire. I due bipedi con la testa china, tenendosi per mano, implumi e rosei, i fianchi coperti di foglie, si avviavano verso le porte del paradiso sotto il primo cupo tramonto che vedevano con occhi mortali, e quindi ancora più bello e struggente e sfuggente perché impermanente. Fu allora, secondo la leggenda, che due quadrupedi balzarono via dalle file silenziose e si unirono a loro.
Erano il cane e il gatto. Avevano preso quella decisione senza sapere perché. Un formicolio alle zampe, un drizzarsi del pelo, uno spasmo alle viscere come quando la luna è piena li avevano spinti sulle orme di quei piedi scalzi. Li seguirono spavaldi a pochi passi di distanza. Il cane scodinzolava senza imbarazzo davanti agli sguardi severi degli altri animali allineati sull’erba acerba o sui rami fioriti. Il gatto teneva la coda gonfia e dritta come un pennacchio, conferendo una certa solennità al corteo della strana nuova famiglia che si allontanava.
Ma, ci si potrebbe domandare, che cosa avevano fatto di sbagliato l’uomo e la donna per essere cacciati così ignominiosamente dal giardino? Su questo punto le versioni divergono. Secondo una variante del mito, la loro colpa era stata rubare il frutto proibito - mela, fico, melagrana? - dell’albero della conoscenza. Mangiandolo avevano conosciuto il segreto del bene e del male e di qui il castigo. Ma come avrebbe potuto un frutto nato dalla perfezione che allora governava la natura avere in sé qualcosa di proibito? E soprattutto, le specie animali, inclusi l’uomo e la donna, non possedevano già la conoscenza? Non sapevano già distinguere il bene dal male? Non avevano continua memoria di questa opposizione, che governa l’Universo? E come potrebbe essere una colpa, il conoscere? Di fronte a questi interrogativi gli esseri umani avrebbero dovuto, da subito, essere seriamente disposti a prendere la vita con filosofia. ...
Ebbene, la saggia raccomandazione rivolta agli esseri umani affinché siano disposti “a prendere la vita con filosofia” ha continuato, in ogni epoca, a risuonare sulle strade che attraversano la Storia del Pensiero Umano e oggi questa raccomandazione trova riscontro nei programmi delle nostre Officine di apprendistato cognitivo dove si promuovono Percorsi didattici che possano dare alle persone la possibilità di imparare a imparare in modo da poter seguire con competenza un tirocinio di studio perché è questo il significato da dare all’espressione «prendere la vita con filosofia» in quanto - secondo l’etimologia della parola - la filosofia è la disciplina che indirizza la persona a coltivare l’amore [la “philia”] per il sapere [per “sofia”]. E allora, se le cose stanno così - se la filosofia è la disciplina che indirizza la persona a coltivare l’amore per il sapere - perché questa materia [questo insegnamento] non fa parte dei programmi di tutti i tipi di Scuola: da quelli che dovrebbero essere rivolti all’educazione delle lattanti e dei lattanti a quelli che dovrebbero predisporre i viaggi di studio delle persone in età libera? C’è da dire che, purtroppo, nonostante il dettato costituzionale, la Scuola non è aperta a tutti - e la strada da fare è ancora lunga per raggiungere questo obiettivo. In primo luogo perché questo non è considerato un obiettivo da raggiungere e il diritto all’Apprendimento permanente non è accreditato come un vero e proprio diritto della persona ma bensì come una sorta di privilegio per pochi individui - e difatti l’attività scolastica coinvolge solo una minoranza della popolazione, quella in età giovanile, e soltanto una minoranza di questa minoranza si trova ad avere a che fare, quasi esclusivamente in termini nozionistici, con la filosofia, per cui il sentimento di estraneità e di prevenzione nei confronti di questa disciplina non può che indebolire il valore stesso dell’esperienza di studio: difatti, nel linguaggio comune, il suggerimento “a prenderla con filosofia” equivale a non darsi pensiero, a fregarsene, piuttosto che esortare la persona a non liberarsi dai pensieri ma “a dare spazio al proprio pensiero”. Le persone, quindi in massima parte, ritengono che la disciplina filosofica non sia fatta per loro e, di conseguenza, pensano di non essere adatte per lo studio.
Effettivamente lo studio della filosofia prevede che la persona ribalti tutte le abitudini che ha interiorizzato fin dalla più tenera età: in filosofia non ci sono verità da acquisire in modo autoritario [oggi magari attraverso un telefonino] ma l’obiettivo proposto è quello che la persona possa imparare a ragionare autonomamente in modo da trovare la propria strada, in modo da conseguire un pensiero chiaro e solido che si esprima con un ragionamento argomentato e coerente. La filosofia esige che la persona impari a reagire di fronte ai problemi, ai procedimenti, ai testi: “prenderla con filosofia” significa farne una questione personale sapendo che questa disciplina - corrispondente all’amore per la conoscenza e alla dedizione allo studio - serve, per quanto possa sembrare strano, nella vita di tutti i giorni in primo luogo per riconoscere e ridimensionare le illusioni e le apparenze.
Ogni lettura di carattere filosofico - messa sul tornio di un’Officina di apprendistato cognitivo - deve diventare alimento indispensabile per poter intraprendere un’autentica avventura personale, e questo, naturalmente, implica un certo lavoro e una certa fatica. Dopotutto qualunque persona pratichi un esercizio fisico sa bene che il piacere dei progressi ottenuti presuppone degli sforzi e anche delle delusioni, e se un esercizio non richiede uno sforzo significa che la persona resta al di qua dei suoi limiti e, dunque, l’esercizio non la farà progredire.
Allo stesso modo lo studio - l’atto del prendere la vita con filosofia - risulta talvolta un’attività fastidiosa, irritante, perfino esasperante ma, tuttavia, può condurre a istanti di intensa felicità. La strada che conduce la persona a prendere la vita con filosofia - a seguire un tirocinio di studio - non è facile da percorrere perché, come si è detto, l’esercizio del ragionamento filosofico implica un ribaltamento delle abitudini della persona.
Per prendere la vita con filosofia occorre che le persone aspirino - attraverso un tirocinio di studio - a imparare a ragionare in maniera più coerente, più ordinata, più logica, e occorre che imparino ad analizzare ogni domanda e ad esaminarla alla radice senza aver fretta di rispondere ma riflettendo a vasto raggio per capire quante risposte diverse sarebbe possibile dare a uno stesso quesito. Per prendere la vita con filosofia - a detta di Platone quando fa parlare Socrate nei suoi Dialoghi - occorre che la persona impari a dialogare con le altre persone ma, soprattutto, impari a dialogare con se stessa in modo da potersi interrogare sulle grandi questioni esistenziali come [tanto per fare degli esempi, e la pandemia dovrebbe aver insegnato qualcosa in proposito] la felicità, l’amore, la libertà, la scienza, l’uguaglianza, la violenza. Perché - sulla scia del discorso che abbiamo fatto - dovremmo leggere, o rileggere [in quanto va riletto periodicamente] il Libro di Giobbe?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Il testo del Libro di Giobbe lo trovate nel volume della Bibbia che avete in casa e poi lo potete leggere anche in una delle tante traduzioni in cui molte autrici e molti autori si sono cimentati negli anni, come per esempio nella versione esemplare fatta da Guido Ceronetti nel 1972 che trovate in biblioteca...
Il Libro di Giobbe va letto [e periodicamente riletto] perché contiene una storia esemplare, meravigliosa e atroce allo stesso tempo, che racchiude in sé una serie di domande di carattere esistenziale che gli esseri umani si sono sempre posti: domande rimaste finora senza risposte ma utili in quanto tali perché le persone, per vivere, hanno bisogno di interrogarsi per conoscere e per capire meglio se stesse e il mondo.
Giobbe è una persona giusta che viene oppressa dall’ingiustizia, ed è, nel racconto, la vittima di una crudele scommessa tra Satana e Dio: che cosa farà Giobbe, uomo pio, sano, ricco e felice, se sarà toccato nei suoi averi, e poi nei suoi affetti familiari e poi sulla stessa sua pelle? Ebbene, Giobbe, il giusto, che viene degradato ad animale da esperimento, dapprima china il capo e loda Dio pronunciando una significativa frase interlocutoria: «Siccome accetteremmo da Dio molto volentieri il bene, non dovremmo, di conseguenza, accettare di buon grado anche il male?»; poi le sue difese crollano quando - diventato povero, privato dei figli e costretto a sedere tra i rifiuti coperto di piaghe - decide di iniziare con Dio una contesa, di tenergli testa, sebbene sappia che si tratta di una contesta impari, perché Dio, il creatore tanto di meraviglie quanto di mostri, lo schiaccia sotto la sua onnipotenza.
Noi, sull’esempio di Giobbe, che persevera nel tenere viva la domanda a nome dell’Umanità, dobbiamo continuare a chiederci: perché il giusto deve subire l’ingiustizia più di quanto la debba subire l’ingiusto? Sapendo che questa è una domanda da rivolgere agli umani più che a Dio! Il personaggio di Giobbe, con tutta la problematica che porta con sé, ha sempre trovato posto nella Storia della Letteratura, e ora non possiamo non citare uno degli esempi più significativi in proposito: il famoso romanzo di Joseph Roth intitolato Giobbe. Romanzo di un uomo semplice. Joseph Roth, come sapete, è un grande scrittore viennese, ha vissuto a Vienna anche se non è nato a Vienna ma bensì in Galizia orientale nel 1894 da madre russa e padre austriaco, ed è morto, il 23 maggio 1939, in un caffè di Parigi dove non si trovava per turismo ma perché era in esilio dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista.
In quel caffè parigino si davano appuntamento molti profughi ebrei e antinazisti in fuga e quel giorno, il giorno della sua morte, Roth aveva ricevuto la tragica notizia del suicidio - avvenuto il giorno prima a New York, dove si era rifugiato - del suo amico più caro, il poeta, drammaturgo e militante politico ebreo tedesco Ernst Toller, uno dei massimi rappresentanti dell’espressionismo europeo del primo ‘900.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Se volete fare conoscenza con Ernst Toller potete compiere una ricerca utilizzando l’enciclopedia e navigando in rete: il gesto estremo [sebbene da non imitarsi] compiuto da questa persona – sulla scia della disperazione dovuta a circostanze drammatiche – potrebbe essere vano se paradossalmente non avesse qualcosa da insegnare e non invogliasse alla lettura: infatti un Libro da leggere oggi, scritto da Ernst Toller nel 1933 [«Nel giorno in cui i nazisti hanno bruciato i miei Libri» come racconta nello struggente capitolo iniziale], s’intitola Una giovinezza in Germania, e non si tratta soltanto di un’autobiografia ma è anche un lucido e significativo resoconto storico...
Una giovinezza in Germania di Ernst Toller è un Libro importante, ben scritto, che permette di comprendere meglio, in quanto narrati in prima persona e senza infingimenti, gli avvenimenti riguardanti una serie di tragedie collettive, cruciali per la Storia europea .. Questo romanzo lo trovate in biblioteca perché per l’editoria, come succede per molte opere importanti, mi sa che sia “momentaneamente non disponibile”...
Ma torniamo a Joseph Roth il quale in quel caffè, situato nel quartiere latino, nel giorno della sua morte, scrive, sulla tovaglia di carta del tavolino dove è seduto, il suo ultimo testo: «Penso a volte [scrive Roth] che la natura sia benigna nello screditare talmente la vita da far apparire desiderabile la morte. Bruceranno i nostri Libri, intendendo così bruciare i nostri corpi, ma nessun tiranno riuscirà mai a fermare il volo del pensiero». Su tutti i volumi dei romanzi di Roth si trova anche la sua biografia che è interessante da leggere come se fosse un romanzo.
Bisogna dire che, di Roth, almeno sei racconti sono considerati dei classici che devono essere letti o riletti perché questo è il momento storico adatto per fare questo esercizio a causa dell’aria che tira [come si suol dire]. Questi romanzi s’intitolano: La tela del ragno (1923), Fuga senza fine (1927), La cripta dei cappuccini (1938), La milleduesima notte (1939). Quando è morto, Roth, nella tasca della giacca, teneva un quaderno sul quale aveva scritto il testo della sua ultima opera: La leggenda del santo bevitore che, pochi mesi dopo, nell’ottobre del 1939, è stata pubblicata [e forse avrete visto anche il film tratto da questo racconto esemplare].
Ma noi adesso vogliamo, prima di tutto, puntare l’attenzione su Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, scritto nel 1930, che è considerato uno dei capolavori della Letteratura del ‘900 per la straordinaria maniera ironica con cui è scritto, e questo testo può essere, a pieno titolo, considerato di genere “talmudico” perché l’autore sa interpretare e rendere attuali, con perizia, scene e personaggi tratti dalla Letteratura biblica per condurre una riflessione sui temi della condizione umana. Roth racconta la storia di un uomo “insignificante”, una persona che è destinata a non lasciare traccia di sé nella storia del mondo così come non hanno lasciato traccia di sé gli scrivani che hanno composto il Libri della Bibbia. Quest’uomo - che ricalca la figura di Giobbe - è un ebreo che si chiama Mendel Singer e svolge l’attività di maestro talmudico: è un insegnate di catechismo “devoto e timorato di Dio”. Il tono del racconto è dimesso, è colloquiale e ricalca perfettamente il semplicissimo stile di vita di Mendel che abita in un villaggio della Volinia russa ed ha una moglie che di chiama Deborah: una figura che Roth tratteggia in modo straordinario. Deborah, al contrario del marito - proprio come il personaggio di Debora, descritta nel capitolo 4 e 5 del Libro dei Giudici [andate a leggere questi due capitoli] - è volitiva, caparbia, risoluta, decisa, concreta. Mendel e Deborah hanno tre figli e un quarto in arrivo che avrà dei seri problemi di salute, sarà una persona disabile. Su questa semplice e povera famiglia si abbattono, come un uragano, molti mali, e ci sarebbe da disperarsi, da ribellarsi, da vendicarsi ma Mendel, novello Giobbe, e Debora, novella profetessa, con una saggezza equilibrata, con un rispetto per Dio che equivale al rispetto per la vita, riescono a non perdere mai la fiducia e a mantenere una grande forza vitale.
Mendel e Deborah utilizzano la memoria, utilizzano il ricordo degli affetti che hanno ricevuto, delle semplici gioie della vita quotidiana, delle abitudini infantili, dell’intimità goduta insieme e, di conseguenza, il ricordo evocato diventa “un midrash”, un grande racconto mitico, fiabesco, che li consola. Tutta la narrazione è tenuta insieme con una straordinaria ironia: ci sono sempre elementi di comicità nelle tragedie e, alla fine, Mendel Singer, rimasto solo e un po’ abbandonato a se stesso, conclude che, nonostante tutto, è valsa la pena “fare l’esperienza, pur sempre misteriosa, dell’esistenza” che, nonostante tutto, è valsa la pena emergere dal nulla eterno [e avere coscienza di essere stati] per gustare - anche se a fatica e per breve tempo - il sapore dell’essenza della vita.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Leggere Giobbe. Romanzo di un uomo semplice di Joseph Roth è un esercizio utile in quanto insegna a porsi una domanda essenziale: perché - nonostante l’esistenza riservi molti inconvenienti – vale comunque la pena vivere? .. Qual è uno dei motivi che vi fa dire che è valsa la pena vivere?... Scrivete quattro righe in proposito...
Sul Libro biblico di Giobbe dobbiamo ancora tornare brevemente in conclusione, ma ora proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo X della Favola di Filelfo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo X. Gli alleati degli esseri umani
Forse la tara originaria dell’essere umano non era la conoscenza, ma, al contrario, la dimenticanza. E non veniva dal frutto dell’albero ma dall’acqua, che non può essere contenuta in nessun vaso, di un ruscello chiamato Lete, che scorreva lì sotto, al quale la donna e l’uomo avevano bevuto. Questo li aveva resi diversi dagli altri animali, che si erano guardati dall’abbeverarsene, mentre gli umani avevano trasgredito al loro istinto. Non vi è sciagura più grave della dimenticanza. L’essere umano, assaggiata quell’acqua, aveva perso nozione del suo stato. Aveva cominciato a considerarsi umano, ossia un animale che però è altro dall’animale. A poco a poco aveva dimenticato tutto ciò che le bestie ricordavano e ricordano ancora dell’abissale passato, delle ère, delle glaciazioni e dei disgeli, dei diluvi e dei terremoti, del ricorso delle comete e dello schianto dei meteoriti, dell’emersione delle terre, del loro sussultare e plasmarsi in continue metamorfosi. L’essere umano aveva smarrito memoria dell’aggregarsi e coagularsi di acqua, aria, terra e fuoco in composti mutevoli, come il caglio fissa e lega il bianco latte. Solo nei sogni l’uomo e la donna avrebbero avuto frammenti di visioni delle vite precedenti, dello stato di pietra, cristallo, larva, insetto, uccello nel cielo, tigre nella foresta, grande albero in Asia, pesce muto che guizza dal mare. Ma avendo perso il ricordo di tutti i linguaggi della natura, delle sue regole, delle sue maniere, dei suoi divieti, delle sue connessioni, delle sue rotte, dei suoi indirizzi segreti, e non possedendo né memoria né prescienza, non conoscevano le conseguenze remote dei loro atti. Dotata di postura eretta e di pollice opponibile, questa scimmia nuda era condannata a un’illusoria e miope attività di pianificazione e previsione, che serviva solo i propri aneliti momentanei e individuali, scissi dall’unico grande palpito di desiderio cui tende il ciclo della natura, in cui ogni cosa muore d’amore per l’altra. Ma il cane e il gatto avevano adottato l’essere umano anche se lui ancora oggi pensa l’inverso e non comprende perché, ogni volta che guarda nei loro occhi, trae una sensazione di pace. - Ricordi? - dice lo sguardo, - noi eravamo con te quel giorno. Nei secoli veglieremo su di te, ti ricorderemo il tuo lignaggio animale. Ci farai dio egizio, santo levriero, esile sacerdotessa tigrata. I tuoi profeti si taglieranno la veste per non disturbare il nostro sonno. Abiteremo i tuoi templi e i tuoi fori, saremo compagni di maghi e taumaturghi, dormiremo tra i tuoi Libri e i tuoi alambicchi, perpetueremo con te la misericordiosa superfluità del gioco. Mendicheremo con te il pane agli angoli delle strade, la nostra effigie campeggerà sui vessilli dei tuoi re e nelle insegne delle locande del popolo. Dalle grandi sale dei tuoi castelli agli angoli più bui dei focolari delle tue capanne ci sentirai ansimare e fare le fusa, e vedrai il nostro sguardo seguirti. ...
La citazione collocata nelle prime righe del brano che abbiamo appena letto dice: «Forse la tara originaria dell’essere umano era la dimenticanza che veniva - secondo il mito - dall’acqua di un ruscello chiamato Lete al quale la donna e l’uomo avevano bevuto», ebbene, questa citazione apre uno scenario di vaste proporzioni che noi, adesso, possiamo solo osservare in uno dei suoi aspetti in quanto questa citazione rimanda al testo di un’opera tra le più importanti della Storia del Pensiero Umano, a uno dei più celebri Dialoghi di Platone intitolato Repubblica, ed è, infatti, nel Libro X [l’ultimo] di quest’opera che si trova la narrazione del “mito di Er”. Secondo il racconto allegorico di Platone, Er, il non ben identificato figlio di Armenio originario della Panfilia, dopo essere morto in battaglia, ritorna a vivere per raccontare ciò che ha visto nell’aldilà: «Ho visto [racconta Er] le anime che si avviavano tutte verso la pianura del Lete in una calura ardente e terribile, essendo il luogo spoglio di alberi e di quant’altro germoglia dalla terra. Quando fu scesa la sera si accamparono presso il fiume Amelete, la cui acqua non può essere contenuta in nessun vaso; cosicché bisogna bere una certa misura di quell’acqua dal corso stesso. Ma le anime, che non sono trattenute dalla prudenza, ne bevono sempre più della giusta misura, e via via che la bevono perdono memoria di ogni cosa». Platone, in particolare, utilizza il mito di Er per mettere in evidenza il valore politico della conoscenza: infatti ritiene che sia specifico compito dello Stato creare un sistema educativo efficace attraverso il quale tutte le persone possano acquisire le competenze necessarie per accedere alla conoscenza affinché possano essere in grado di governare tanto se stesse quanto la polis [e questa affermazione di Platone continua ad essere di grande attualità]. La quasi totalità delle cittadine e dei cittadini della polis, scrive Platone, sono ignoranti [soffrono di debolezza cognitiva] e si comportano come persone prive di memoria, ed è come se l’anima - dopo aver soggiornato nel Mondo delle Idee - fosse ricaduta imprigionata in un corpo materiale nel mondo sensibile dopo aver bevuto [secondo il mito di Er, afferma Platone] l’acqua del Lete per cui non ricorda più nulla dell’Idea di Bellezza, di Bontà e di Giustizia di cui aveva fatto esperienza nel Mondo dei concetti supremi, dei Valori universali, dei Diritti inalienabili, dei Doveri non eludibili, per cui risulta necessario che il governo della polis predisponga strumenti [matematica e filosofia, in primis] adatti a mettere in moto il procedimento della “anàmnesis”, della reminiscenza, che è il primo passo di un itinerario da percorrere sul terreno della conoscenza.
La reminiscenza [l’anàmnesis] è un procedimento attivo, afferma Platone, con cui la mente della persona impara gradualmente a ricostruire la relazione che c’è tra le Idee e le cose. Nella polis, afferma Platone, la Scuola [lo studio della Filosofia] ha il compito di curare la memoria delle cittadine e dei cittadini perché la memoria [«Il ricordo della luminosità rilasciata dall’Idea del Bene», scrive Platone] è l’antidoto necessario a eliminare il più possibile il contagio creato dalle apparenze [dalle false conoscenze e dalle illusioni] che tendono ad offuscare la mente della persona, a contaminarne il pensiero e a limitare inesorabilmente il processo dell’Apprendimento. Il tema della conoscenza, quindi, è, afferma Platone, di natura politica ed è strettamente legato alla questione della costruzione dello Stato-ideale [della Res-pubblica (della Cosa-pubblica, dell’Ente-collettivo)] perché uno Stato che non cura l’educazione dei suoi membri si dimostra inadeguato e va rigettato. Se ciascuna persona [allude ironicamente Platone] tornasse dall’aldilà senza che la propria anima abbia bevuto l’acqua del Lete - come è successo a Er che, per volere dei giudici dell’Ade, non ha bevuto e non ha perso la memoria per poter tornare a raccontare - ciascuna persona, tornata memore dall’aldilà, capirebbe che nella vita reale vengono indicati dei falsi obiettivi quando, in una polis non adeguata al suo compito educativo [una polis che non sia “Res-pubblica”], vengono additati ai singoli individui [da governanti incapaci e millantatori] dei traguardi deleteri da perseguire come: l’accumulo di più denaro possibile, come la conquista del potere con ogni mezzo, come il raggiungimento del successo ad ogni costo. Questi sono dei simulacri [falsi valori] rispetto alla realtà ideale dalla quale emana, scrive Platone, una sorgente di luce generata dell’Idea del Bene che deve illuminare l’intelletto della persona la quale, in quanto cittadina della polis, deve saper prendere la vita con filosofia e, di conseguenza, deve saper distinguere che un conto è apprezzare una persona bella, una cosa buona, una situazione giusta ma un altro conto è sapere che cosa sia veramente la Bellezza, la Bontà e la Giustizia: per poter raggiungere questo difficile traguardo [la piena conoscenza della qualità delle cose] le persone devono percorrere un opportuno ed efficace cammino di studio, un permanente viaggio intellettuale.
Platone è senza dubbio un laico e come laico affronta il tema dell’immortalità dell’anima [che lui teorizza] e il tema dell’aldilà [che ipotizza in termini non religiosi] utilizzando il mito, avvalendosi, secondo la tradizione orfica e biblica, del racconto sapienziale e poetico. Platone, riflettendo intellettualmente, spera che l’anima sia immortale e che nell’aldilà ci sia un luogo in cui l’anima possa dimorare, ma afferma di non essere sicuro che l’anima sia immortale e che nell’aldilà ci sia un posto dove tutte le anime si possano ritrovare insieme. Platone racconta [fa raccontare a Socrate] il mito in cui descrive come è fatto l’aldilà e come vengono giudicate le anime che vi giungono: come saranno punite [sprofondate nel Tartaro] o premiate se «hanno partecipato ad educarsi alla virtù e a maturare la propria saggezza nella vita perché [afferma Platone] bello è il premio e grande la speranza» ma, subito dopo, in modo veramente emblematico, Platone scrive [fa dire a Socrate]: «Certamente, sostenere che le cose siano veramente come io le ho esposte, non si conviene a una persona che abbia buon senso; ma sostenere che o questo o qualcosa di simile a questo debba accadere delle nostre anime e delle loro dimore, dal momento che abbiamo riflettuto sul fatto che l’anima possa essere immortale: ebbene, questo mi pare che convenga, e che si possa rischiare di crederlo, perché il rischio è bello! E bisogna che con queste credenze noi facciamo l’incantesimo a noi medesimi: ed è per questo che io, da un pezzo, mi raffiguro questo mito. Per questi motivi, deve avere ferma fiducia riguardo alla sua anima, la persona che durante la sua vita ha rinunciato a fare il male e, invece, si è curata nelle gioie dell’apprendere e avendo ornato la sua anima non di ornamenti che le sono estranei ma di pregi che sono a lei propri, cioè di temperanza, giustizia, fortezza, libertà e verità, così aspetta l’ora del suo viaggio nell’Ade, pronta a mettersi in cammino quando verrà il suo giorno». Platone, con il racconto mitico, evoca la speranza nell’aldilà ma, nel momento in cui costruisce il concetto dell’aldilà, sta parlando dell’al di qua per invitare allo studio [a gustare le gioie dell’apprendere] che è sinonimo di cura per l’anima ed è fonte di acquisizione delle virtù [le virtù civili, le virtù politiche] utili per costruire quella che Platone chiama “la bella città”, in greco, kallipolis.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Per Platone le qualità necessarie per costruire “la bella città, kallipolis” sono: la modestia, la rettitudine, l’equità, la volontà, la regola, la sincerità…
Voi quale di queste qualità scegliereste per prima?... Scrivetela…
Le stesse caratteristiche che Platone ritiene necessarie per costruire “la bella città, kallipolis” si possono pure attribuire a una persona, e lo scrittore scozzese Bruce Marshall [1899-1987], nel suo romanzo intitolato Ad ogni uomo un soldo, queste qualità le ha assegnate al protagonista: l’abate parigino Giovanni Gaston, amante – nonostante le sue piccole ingordigie, i suoi velati orgogli, i suoi numerosi insuccessi - di tutte le creature [in particolare dei gatti].
Richiedete in biblioteca questo ironico e piacevole romanzo e così capirete anche perché il padrone della vigna [dal Vangelo secondo Matteo capitolo 20 versetto 9] pagherà con lo stesso salario [un soldo] tanto gli operai che hanno lavorato dall’alba [con i quali ha patteggiato questa retribuzione] quanto quelli ingaggiati all’ultima ora.
Ma adesso è l’ora di proseguire nella lettura del testo del Capitolo X della Favola di Filelfo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo X. Gli alleati degli esseri umani
Anche se da allora in poi - perché non vi è sciagura più grave della dimenticanza - l’inclinazione dell’umanità fu una perpetua e irrequieta brama di potere dopo potere, onore dopo onore, ricchezza dopo ricchezza, che cessava solo con la morte, il cane e il gatto non rinnegarono mai la loro scelta. Sapevano che gli esseri umani non trovano la felicità in una condizione di pace mentale, né nel Sommo Bene di cui parlano gli antichi filosofi ma, al contrario, in un continuo scorrere del desiderio da un oggetto all’altro. La conquista del primo non fa che aprire la via al successivo, cosicché, accecati dal loro tornaconto, sono destinati a desiderare senza tregua a costo di distruggere gli altri e alla fine se stessi. L’anima degli animali è più felicemente disposta al formarsi della virtù. A differenza che per l’essere umano, per le bestie il Bene comune non è diverso da quello dei singoli. Spinte per natura a cercare il bene privato, procurano il bene di tutti. ...
Abbiamo detto che sul Libro biblico di Giobbe saremmo ancora tornate e tornati in conclusione per dire che la frase: «Gli esseri umani non trovano la felicità in una condizione di pace mentale, né nel Sommo Bene di cui parlano gli antichi filosofi ma, al contrario, in un continuo scorrere del desiderio da un oggetto all’altro...» è del filosofo Thomas Hobbes - che incontreremo quando riprenderemo a viaggiare in presenza sul nostro Percorso canonico - il quale tratta il tema della politica in un’opera [la sua opera più famosa] nella quale riassume tutto il suo pensiero: quest’opera s’intitola Leviathan, o della materia, forma e potere dello Stato ecclesiastico e civile [e quest’opera viene comunemente chiamata Leviatano] pubblicata in inglese a Londra nel 1651 e in latino ad Amsterdam nel 1668, e a che cosa corrisponde il termine “Leviatano” che dà il nome al titolo di quest’opera? “Leviathan” è il nome di un mostro mitologico che compare nella Letteratura biblica [in particolare nel Libro di Giobbe] ma, prima ancora, lo si trova nei testi della Letteratura fenicia detta “ugaritica” perché composti nella città di Ugarit [l’odierna città siriana di Ras Shamra].
Il mostro Leviathan ha l’aspetto di un animale primordiale dalla forma di rettile, ed è nemico del Còsmos [dell’ordine] e fautore del Kaos [dell’agitazione, del turbamento, del rimescolamento], ed è una figura sempre connessa con le acque primordiali [con l’abisso nel quale vive e dal quale emerge]. Tanto gli scrivani ugaritici quanto quelli ebraici utilizzano la figura di questo essere favoloso come una metafora che serve per rappresentare “qualcosa di opprimente” [e Hobbes - e speriamo di poterlo incontrare presto in presenza - usa questa metafora come segno di un’oppressione dovuta, quella dello Stato, un apparato che impone delle regole spesso ferree limitando la libertà della singola persona in caso di necessità, ma al quale la persona può chiedere aiuto, soprattutto in situazioni di emergenza].
Il Leviathan [e ora mettete all’opera le vostre azioni cognitive!] compare due volte nel Libro di Giobbe [un testo di riferimento per Hobbes, ateo e materialista] e in altri Libri biblici.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura
Nel capitolo 3 del Libro di Giobbe, al versetto 8, compare il nome del Leviathan in un contesto drammatico [e molto famoso] in cui Giobbe maledice il giorno della sua nascita visto che “la vita è un coacervo di dolori”…
Poi il Leviathan compare dal capitolo 38 al capitolo 41 nel celebre “Dialogo tra il Signore e Giobbe” [in realtà è un interrogatorio]dove la figura del Leviathan viene paragonata a quella di un coccodrillo ma, siccome sputa fuoco dalle narici, potrebbe anche essere un drago, comunque è «un rettile enorme e mostruoso che non ha eguale sulla terra e che è stato creato da Dio per suscitare timore, ma anche per ammonire che la presenza del male non deve far perdere la fiducia in Dio»…
Spero che potremo riprendere questo discorso quando torneremo a viaggiare in presenza sul nostro Percorso canonico dove incontreremo Thomas Hobbes e studieremo in modo esaustivo il suo pensiero.
E adesso terminiamo la lettura del testo del Capitolo X della Favola di Filelfo.
Filelfo, L’assemblea degli animali
Capitolo X. Gli alleati degli esseri umani
Il cane e il gatto conoscevano le tenebre che avvolgono il cuore dell’essere umano da quando il germe della dimenticanza lo aveva offuscato e allontanato dagli altri animali finendo per renderlo il loro oppressore. Ma adesso la decisione dell’assemblea, lo stratagemma del topo, la peste diffusa dal pipistrello, la calamità, l’emergenza, il terrore avrebbero obbligato la specie umana a una scelta: ricordare, implementando il ricordo con l’esercizio dello studio, oppure perseverare nell’ignoranza rischiando di distruggere non solo la propria specie ma la terra intera.
Non perdete la prossima tappa di questo viaggio virtuale che si avvia verso la sua conclusione. Vi invito a esercitarvi rileggendo il testo del decimo capitolo della Favola di Filelfo, e poi vi esorto a fare il compito come è richiesto da ogni punto del REPERTORIO ... perché il desiderio di apprendere stimola il sistema immunitario e corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito.
Non ci sentiremo tra due settimane, secondo la cadenza dei nostri itinerari [che abbiamo sempre rispettato puntualmente], perché tra due settimane è il 2 giugno, la festa della Repubblica, o meglio della Res-pubblica, quindi ci risentiremo tra tre settimane per compiere l’undicesimo e ultimo itinerario di questo Percorso sospeso che ci ha permesso di continuare a studiare insieme in attesa di poter riprendere, speriamo in autunno, a viaggiare in presenza perché lo studio è cura.
E, infine, un abbraccio a tutte e a tutti voi, nell’ambito di quel significativo paradosso che consiste nel mantenere le distanze restando uniti…