Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale 22-23-24 aprile 2015
Averroè - Andrea di Bonaiuto
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE
SI SVILUPPA LA PUNTIGLIOSA ARTE AVERROISTICA DEL COMMENTARE
E PRENDE FORMA LA GUIDA MAIMONIDEA PER DAR VALORE ALLA PERPLESSITÀ ...
Questo è il venticinquesimo itinerario del nostro viaggio di studio sul "territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale" e prelude alla pausa che faremo la prossima settimana in occasione della festività del 1° maggio.
La scorsa settimana abbiamo potuto constatare che nell’ambito della Filosofia scolastica, dalla metà del XII secolo, si vanno delineando due diverse correnti di pensiero: quella "mistico-devozionale" che privilegia la Fede e considera diaboliche le Opere di Aristotele [e questa è la linea di pensiero dei cistercensi] e la corrente "scientifico-naturalistica" che dà spazio alla Ragione e considera provvidenziali le Opere di Aristotele [questa è la linea tracciata dai maestri della Scuola di Chartres]. Abbiamo studiato che anche nel mondo della Scolastica arabo-islamica emergono e si sviluppano due simili linee di tendenza: sappiamo che il mondo della Scolastica arabo-islamica era dominato dal sistema di Avicenna che è destinato ad essere messo in discussione tanto dal lato religioso quanto da quello storico-filosofico. Ebbene, la polemica nei confronti del sistema di Avicenna viene condotta sul piano dell’ortodossia religiosa da al-Ghazāli [o Algazel, come si diceva nell’occidente latino] che abbiamo incontrato la scorsa settimana e del quale abbiamo studiato il pensiero, mentre sul piano filosofico in nome dell’autentico aristotelismo la discussione viene condotta da Abu ibn Rushd, uno studioso che come voi ben sapete, nell’occidente latino, viene chiamato Averroè il quale questa sera ci ha invitate e invitati a prendere un caffè a casa sua, a Cordova. Ma procediamo con ordine [è un caffè lungo].
La figura di Averroè in campo culturale emerge quando l’emiro del Marocco chiede al suo consigliere Abubace, amico fraterno di Averroè, di ritradurre le Opere di Aristotele in arabo [in un arabo più moderno rispetto a quello della Scuola di Toledo di un secolo e mezzo prima]; ma Abubacer [un personaggio che abbiamo incontrato la scorsa settimana, autore del celebre romanzo-filosofico "Il filosofo autodidatta" di cui abbiamo studiato il contenuto e i significati] dichiara di non sentirsi all’altezza di questa impresa [anche perché non ci vede quasi più] e allora manda a chiamare a Cordova il suo amico Averroè [sa che lui è all’altezza del compito] e gli fa assegnare l’incarico: Averroè traduce e comincia a commentare le Opere di Aristotele, e così ha inizio il movimento intellettuale de "l’aristotelismo arabo", e il lavoro, il grande sforzo intellettuale, di Averroè ha avuto una ripercussione positiva nell’ambito di tutta la Scolastica in generale [arabo-islamica, cristiano-latina, ebraico-talmudica, laico-razionalista, scientifico-naturalista]. Per il compito che ha portato a termine, Averroè è considerato uno dei più grandi pensatori della Storia della cultura.
Abu ibn Rushd detto Averroè [1126-1198] è originario di Cordova, un’affascinante città dell’Andalusia mussulmana che molte e molti di voi hanno senz’altro visitato.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Fate una ulteriore visita a Cordova utilizzando la guida della Spagna e navigando in rete …
Averroè appartiene ad una famiglia importante - il nonno e il padre sono stati giudici in Cordova - e Averroè è, a sua volta, un cadì [un giudice popolare], un giurista, un filosofo, un teologo e soprattutto un medico: è stato il medico del califfo di Cordova Abu Yakub Yussuf il quale è colui che, secondo la tradizione, lo ha spronato "a spiegare il pensiero di Aristotele", ed è lo stesso Averroè a raccontare che un giorno il califfo Yussuf lo ha fatto chiamare d’urgenza e si è lamentato con lui dell’oscurità di Aristotele [stava leggendo la Metafisica e non ci capiva nulla]. «Perché tu che conosci a fondo Aristotele - gli dice Yussuf - non lo spieghi anche agli altri? Tu possiedi tutti i requisiti per farlo». E, difatti, la fama di studioso di Averroè ha attraversato i secoli per la memorabile impresa culturale che ha compiuto, un’impresa esaltata anche da Dante Alighieri nel IV canto dell’Inferno della Divina Commedia: Averroè ha eseguito il "gran commento" delle opere di Aristotele, in particolare ha composto il Tafsir ma ba’d at-Tabi’at [il Grande commento alla Metafisica di Aristotele] redatto nel 1192. Scrive Averroè: «Se Aristotele [il "maestro di color che sanno", come lo chiama Dante], è venuto al mondo per insegnare al genere umano tutto ciò che si può conoscere, questo significa che ogni persona deve tentare la via della conoscenza».
Commentare le opere di Aristotele è un’impresa irta di ostacoli tanto per la complessità della materia, con la quale noi ci siamo cimentate e cimentati in questi anni, quanto per la difficoltà delle lingue [tradurre il greco in arabo e poi l’arabo in latino] e anche per i divieti imposti dagli ortodossi fondamentalisti [sia mussulmani che cristiani]. Ma Averroè lancia la sua sfida culturale e vuole dimostrare che l’Opera [l’Organon] di Aristotele, il quale "cerca la verità dell’essere e le sue cause", si concilia con "la verità che Allah [o Jahvè o il Padre Eterno] ha dato agli Uomini con la Letteratura del Corano [e con la Bibbia e con i Vangeli]". «Il ragionamento fondato sulla dimostrazione logica, scrive Averroè, non porta affatto a contraddire gli insegnamenti della Legge divina, infatti la verità non potrebbe essere contraria alla verità, ma si accorda con essa», dunque la Filosofia greca non solo non è in conflitto, ma, sostiene Averroè, si integra con le Sacre Scritture in genere [con la Bibbia, con i Vangeli e con il Corano].
Averroè si impegna a dimostrare la conciliabilità della Ragione con la Religione, della Filosofia con la Legge, spronando tutti gli intellettuali [mussulmani, ebrei, cristiani e laici] a cercare la Verità. «La ricerca è un impegno obbligatorio, scrive Averroè, per coloro che hanno i mezzi intellettuali per poterlo fare» e al collega al-Ghazāli, che alcuni anni prima, come abbiamo studiato la scorsa settimana, aveva scritto La distruzione dei filosofi [Tahāfut al-falāsifa] proprio per mettere sotto accusa Aristotele e i suoi seguaci, Averroè ha dedicato un libro intitolato Tahafut-ul-Tahafut [Distruzione della distruzione dei filosofi] in cui polemizza con chi, soprattutto nella cultura dell’Islam, condanna la ricerca filosofica. L’aver utilizzato e conciliato la filosofia greca con gli insegnamenti del Corano procura ad Averroè molte condanne da parte degli ortodossi islamici, e l’aver formulato la tesi dell’eternità del mondo, dell’anima mortale, dell’unità della sostanza divina [negando il concetto della Trinità] gli vale l’accusa di essere empio da parte delle gerarchie cristiane: Averroè è un fenomeno esemplare di "eretico a largo raggio, a tutto tondo".
L’idea più provocatoria di Averroè, per l’ortodossia islamica e cristiana, riguarda, per le conseguenze che porta con sé, il concetto della "non nascita dell’Universo", e la provocazione sta nel fatto che il suo ragionamento trova un riscontro tanto nel Libro della Genesi quanto nella Letteratura del Corano perché in tutti e due questi apparati si capisce che "Dio e l’Universo ci sono da sempre" e, quindi, la creazione è un "tentativo di messa in ordine che comprende più di un fallimento con la necessità di ricominciare ciclicamente da capo". Scrive Averroè: «Per capire il principio che Dio e l’Universo ci sono da sempre - e quindi la prerogativa della nascita a loro non appartiene - bisogna accettare l’idea che l’eternità non è una dimensione che ha a che fare col tempo: non ha un inizio e una fine. Come è sbagliato dire "prima di Dio", così sarebbe realisticamente sbagliato dire "prima dell’Universo", giacché né Dio né l’Universo hanno un "prima" e un "dopo" e, quindi, non si può far credere ai viventi, afferma Averroè, che il tempo stia passando, perché in realtà non è il tempo che passa ma è il ciclo stagionale che si muove e la convenzione temporale è virtuale nella sua essenza, per cui tutto torna al punto di partenza e, di conseguenza, si domanda Averroè provocatoriamente, può esistere un Aldilà eterno e un Aldiqua non eterno come ci vien detto?».
Questa riflessione porta Averroè ad affermare che non ci può essere incompatibilità tra il Corano [e la Bibbia, visto che il testo del Corano nasce dall’esegesi biblica, come abbiamo studiato a suo tempo] e la Filosofia, e aggiunge che non è la Filosofia che deve cercare di aderire al testo del Corano [e della Bibbia] ma è il testo del Corano [e della Bibbia] che deve seguire la ricerca filosofica, ed elenca puntigliosamente tutti i passi della Letteratura del Corano [e sono molti i versetti che invitano a "fare ricerca"] e della Bibbia [qui gli basta citare il "Libro della Sapienza"] per giustificare questo fatto [la compatibilità tra Sacre Scritture e Filosofia].
Le sue idee innovative sul piano esegetico hanno fatto aumentare il numero dei suoi avversari e gli integralisti, tanto islamici quanto cristiani, lo considerano un vero nemico proprio perché lui dimostra testi alla mano che non c’è conflittualità tra la Filosofia e il Messaggio religioso, aggiungendo che «proibire la Filosofia con la scusa che potrebbe allontanare i fedeli da Dio è come proibire l’acqua a un assetato con la scusa che lo potrebbe affogare» e, per contro, è stato accusato di essere un cinico, un razionalista, un uomo "dalla doppia fede" e un parlatore dalla "doppia lingua". Averroè è un personaggio scomodo perché cerca di unire e non di dividere e viene perseguito per blasfemia ed è costretto a fuggire in Marocco, a Marrakech, dove muore a settantadue anni con grande soddisfazione dei suoi avversari.
Le sue opere vengono bruciate ma non vanno perdute, e ci sono pervenute, ricopiate in caratteri ebraici dai rabbini di Spagna, e tradotte in latino da molti intellettuali cristiani: «perché il pensiero ha le ali scrive Averroè e nessuno può arrestare il suo volo», e così è stato in barba a chi lo ha perseguitato.
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In cineteca si può trovare un film [che molte e molti di voi hanno visto, ma si rivede sempre volentieri] del regista egiziano Yousseh Chahine [scomparso nel 2008] che s’intitola “Il destino” [girato nel 1998]: è un film molto spettacolare sulla vita e l’opera di Averroè, ed è un manifesto a favore del dialogo tra le diverse culture e contro chi vuole “monopolizzare Dio per i propri interessi”, buona visione …
Il pensiero di Averroè ha innescato una riflessione per molti pensatori: mussulmani, ebrei, cristiani e laici, e anche Dante Alighieri, come già abbiamo detto, conosce l’opera di Averroè, prova ammirazione nei suoi confronti e come sappiamo lo cita nel Canto IV dell’Inferno della Divina Commedia, dove descrive il Limbo, nel quale ci sono le anime dei grandi saggi, non cristiani, non battezzati, ma comunque salvati, tutti riuniti intorno ad Aristotele: il "maestro di color che sanno". Il verso con cui Dante presenta Averroè - "Averroè che il gran commento feo" -contiene l’essenza dell’opera di questo intellettuale: il commento di Averroè alle Opere di Aristotele ha cambiato fondamentalmente il modo di concepire la trasmissione della cultura e, difatti, per far capire il pensiero di Aristotele, non facile da comprendere, Averroè predispone tre traduzioni diverse con tre livelli di leggibilità. Averroè è convinto [e Dante è influenzato da questo pensiero] che a questo mondo esistono tre tipi di comunicatori: i dotti accademici che parlano tra di loro, i teologi che parlano solo ai loro allievi e i maestri ambulanti di stampo platonico [forse Averroè sta pensando ad Ammonio Sacca] che parlano alla gente del popolo per la strada, ed ecco perché compone tre trattati: Il commento grande per gli Accademici, Il commento medio per i Teologi e Il commento piccolo per la divulgazione popolare nel quadro delle esigenze di Alfabetizzazione. Tutti i filosofi, secondo Averroè e secondo Dante, dovrebbero tener conto di questo metodo e fare di ogni saggio [in linea con il concetto dell’Alfabetizzazione] sempre tre versioni e questo sarebbe meglio per loro e sarebbe meglio per tutti.
Naturalmente del personaggio di Averroè si è occupata la Letteratura e, a questo proposito, non possiamo tralasciare la riflessione che ha fatto su di lui uno scrittore [che più volte abbiamo incontrato]: Jorge Luis Borges [1899-1986]. Nella raccolta intitolata L’Aleph [un’opera che stiamo leggendo a frammenti nel tempo] c’è un racconto che s’intitola La ricerca di Averroè e questo titolo, in relazione a ciò che abbiamo detto finora, non ci sorprende: Averroè, teorizza Borges, non conosce il significato di due parole greche contenenti due concetti letterari importanti della cultura ellenica; incontra queste due parole-chiave nelle Poetica di Aristotele che lui deve tradurre ma in arabo non esiste un corrispettivo [è una cultura senza teatro].
Prima di leggere questo racconto che ci porta nell’affascinante città di Cordova, ospiti in casa di Averroè [non ci ha forse invitate ed invitati a prendere un caffè? Riusciremo a prenderlo questo caffè?], credo sia opportuno rinfrescare a grandi linee la nostra memoria in relazione a Jorge Luis Borges e alla sua opera [anche se più di una volta abbiamo fatto questo esercizio ma, come ben sapete: "repetita iuvant, le cose ripetute sono di giovamento, l’esercizio della ripetizione giova alle azioni dell’apprendimento"].
Jorge Luis Borges è nato a Buenos Aires nel 1899 in una famiglia dell’alta borghesia, è vissuto a Ginevra [1914-18] e in Spagna [1919-21] dove ha partecipato al movimento d’avanguardia dell’Ultraismo [dal latino ultra, al di là] e «gli Ultraisti scrive Borghes fanno calare il proprio Intelletto - che si identifica con l’Io narratore - in molteplici Anime, andando oltre se stessi [quante volte è successo anche a noi di immedesimarci in un personaggio tanto da farlo diventare un nostro alter-ego!]». Borges, insieme a sua madre e a sua sorella, è stato in Argentina un oppositore della dittatura di Perón [1946-55] e, per punizione, subisce il trasferimento dalla Biblioteca di Buenos Aires, in cui lavorava da tempo, alla sovrintendenza delle fiere del pollame [dai libri ai polli]. Quando cade la dittatura peronista viene nominato direttore della Biblioteca nazionale e docente di Letteratura inglese all’Università. A partire dai primi anni ’60 la sua fama di scrittore aumenta a livello internazionale nella misura in cui diminuisce, a causa di una malattia ereditaria, la sua vista tanto che diviene progressivamente cieco; tuttavia questa condizione non limita i suoi viaggi per tenere conferenze negli Stati Uniti e soprattutto in Europa. Nel 1974, con il ritorno del peronismo, si dimette dalla Biblioteca nazionale argentina e riprende la via dell’esilio [ha soggiornato più volte in Italia dal 1977 al 1985]. Torna, un’ultima volta, a Buenos Aires per fondare la rivista murale Prisma e poi si trasferisce in Svizzera dove muore, a Ginevra, nel 1986.
Tra le molte opere in poesia e in prosa che Borges ha scritto ricordiamo Antologia di letteratura fantastica [1940], i racconti gialli Sei problemi per Isidoro Parodi [1942], e poi i due libri di racconti intitolati Finzioni [1944] e L’Aleph [1949] che sono universalmente considerati i suoi capolavori.
L’Aleph è una raccolta di diciassette brevi racconti e un epilogo, e questi testi potrebbero essere "veritieri" perché contengono dati reali [di storia, di letteratura, di filosofia] e presentano autentici e documentati argomenti ma l’Io-narratore dell’autore s’intrufola [s’intromette] nel racconto con la sua soggettività e s’immedesima nei personaggi [storici, letterari, filosofici, mitici, inventati] trascendendo, mistificando, intellettualmente la realtà in modo da tirare in ballo i grandi temi universali - il tempo, l’eternità, la morte, la personalità e il suo sdoppiamento, la pazzia, il dolore, il destino - che lo angustiano e che condizionano l’esperienza individuale di ogni persona. Il termine "aleph" - che dà il titolo alla raccolta - richiama la prima lettera dell’alfabeto ebraico e, come simbolo numerico, equivale all’Uno nel senso del numero cardinale che caratterizza la potenza di un insieme [la nostra Unicità nasce dall’azione dell’Io-narratore che è un Aleph: un insieme che contiene tutti i racconti che creiamo per fare di noi Una-persona, e la narrazione dà forma non tanto alla persona che siamo ma a quella che vorremmo essere].
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Il termine “Uno”, dal punto di vista dei significati, ci invita a riflettere e questo esercizio lo abbiamo fatto altre volte ma va ripetuto periodicamente: quale di questi termini - unico, solo, distinto, singolare, isolato, selezionato, esclusivo, distaccato, scelto - mettereste per primo accanto alla parola “Uno” ? ... Scrivete, date espressione alla vostra scelta ...
Nella storia di quale personaggio, nella vita di quale figura si cala la vostra anima ? ...
Scrivete quattro righe in proposito ...
E ora leggiamo il racconto intitolato La ricerca di Averroè da L’Aleph di Jorge Luis Borges. Ma prima dobbiamo fare una riflessione metodologica partendo da un interrogativo: leggere i testi di Borges è difficile? Non è difficile: è difficilissimo, anche perché è uno di quegli autori che non mira a "raccontare" ma pretende di "creare un linguaggio" e per Borges le "parole" sono delle "porte" che fanno entrare la lettrice e il lettore dentro una Biblioteca nella quale esiste un numero infinito di Libri, quella che Borges chiama "la Biblioteca di Babele [un modo poetico per definire l’Intelletto universale]", ed è per questo motivo che ogni pagina da lui composta contiene un ricco catalogo di autrici e di autori con riferimento alle loro opere letterarie dalle quali trae "parole-chiave" e fa sgorgare "concetti-cardine" che, a loro volta, generano "intrecci filologici" che fluttuano in una spirale senza fine e che andrebbero dipanati [ne andrebbe conosciuto il contenuto e compreso il senso] per poter accedere a tutti i significati del testo. Borges vuol far capire che la lettura ha una sua "esistenza" che consiste nel decodificare i simboli alfabetici, e poi ha una sua "essenza" che consiste nel capire ciò che si legge, o meglio, che consiste nel comprendere di non essere spesso a conoscenza delle citazioni che l’autore fa e, di conseguenza, di non essere in contatto con il deposito dell’Intelletto universale [con la Biblioteca di Babele]: leggere, sostiene Borges, è un’attività che rimanda [che deve rimandare] a riflettere sulla necessità di intraprendere la via della ricerca [stiamo per leggere un racconto difficile intitolato appunto "La ricerca di Averroè" - come tradurre in arabo due parole greche di cui Averroè non conosce il senso? - ma, forse, stiamo anche entrando nell’ordine di idee che qualche difficoltà si può smussare]. Leggere, sostiene Borges, è saper inserire i coefficienti che possiedono la stessa caratteristica nello stesso insieme, cioè è la capacità di dare forma ad un "aleph [una struttura cognitiva unitaria]": ecco perché è necessario promuovere la didattica della lettura e della scrittura in concomitanza allo studio della Storia del Pensiero Umano e forse - visto che noi stiamo percorrendo una strada di questo genere - potrebbe succedere che non ci si perda del tutto nella Biblioteca, senza fine, di Babele. Leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Jorge Luis Borges, La ricerca di Averroè in L’Aleph
S’imaginant que la tragèdie n’est autre chose que l’art de louer ...
[S’immaginano che la tragedia non sia altro che l’arte di lodare...]
Ernest Renan, Averroès, 48 (1861)
Abulgualid Mohammed Ibn-Ahmed Ibn-Mohammed Ibn-Rushd (un secolo avrebbe impiegato questo lungo nome a divenire Averroè, passando per Benraist e per Avernriz, per Aben-Rassed e Filius Rosadis) stendeva l’undicesimo capitolo dell’opera Tahafut-ul-Tahafut [Distruzione della distruzione] nel quale si afferma, contro l’asceta persiano Ghazali, autore di Tahafut-ul-Falasifa [Distruzione dei filosofi], che la divinità conosce solo le leggi generali dell’universo, quel che si riferisce alla specie, non all’individuo. Scriveva con lenta sicurezza, da destra a sinistra; l’esercizio di formare sillogismi e di concatenare vasti paragrafi non gl’impediva di sentire con benessere la fresca e spaziosa casa che lo circondava. Il meriggio risuonava del roco tubare di amorose colombe; da un patio invisibile si levava il rumore d’una fontana; qualcosa nella carne di Averroè, i cui antenati venivano dai deserti d’Arabia, era grato al fluire dell’acqua. In basso erano i giardini, l’orto; in basso, il Guadalquivir percorso da imbarcazioni e l’amata città di Cordava, non meno illustre di Bagdad o del Cairo, simile a un complesso e delicato strumento, e intorno (anche questo sentiva Averroè) si ampliava fino alle frontiere la terra di Spagna, nella quale sono poche cose, ma dove ciascuna sembra starvi in modo sostanziale ed eterno.
... continua la lettura ...
Se sparisce Averroè: non ci tocca più il caffè! Siete perplesse, siete perplessi? Non dico per il caffè perduto che tuttavia resta sempre un "caffè commentato", ma per il "senso ritrovato" di questo complesso testo ricco di motivi su cui fare ricerca [nonostante abbia letto diverse volte questo testo tuttavia permangono ancora cinque motivi su cui dovrei fare ricerca per capirne meglio le sfumature]. Fra poco torneremo sul concetto della "perplessità". Ora lasciamo "l’Averroè alter-ego di Borges" e riflettiamo sulle idee elaborate da "Averroè filosofo scolastico" nel suo Grande commento alle opere di Aristotele.
Averroè sostiene che il primo dono fatto da Dio all’Essere umano è la Ragione e questo significa che, attraverso la Ragione, ogni persona può dar vita alla propria anima e ogni persona può [e deve] coltivare la propria anima come se fosse un giardino, "il giardino dell’Intelletto", dedicandosi ad investire in intelligenza. Averroè, dopo secoli, chiarisce - senza più commistioni - la diversità tra il sistema di Platone e quello di Aristotele [finora Aristotele veniva sempre letto in termini neoplatonici]. Averroè puntualizza che nel sistema di Platone l’anima è creata da Dio, è spirituale, e viene insufflata nell’Essere umano mentre nel sistema di Aristotele l’anima è una creazione del pensiero umano, è un oggetto raziocinante che si riflette nell’Intelletto universale. E Averroè rafforza, in senso laico sotto l’influsso dell’opera di Aristotele, il concetto aristotelico di "Intelletto universale" definendolo come "la somma virtuosa dei pensieri elaborati dagli Esseri umani quando si dedicano allo studio", perché lo studio è l’attività fondamentale, utile e necessaria, per creare e per curare la propria anima: l’anima non viene creata da Dio ma è lo studio che le dà forma.
Questa idea laica e prettamente culturale dell’Intelletto universale così come la disegna Averroè - un’idea che si diffonde e fa cambiare la prospettiva con cui la Scolastica si rapporta con la realtà - ha stimolato un vivace dibattito e, ancora oggi, ci si domanda come [in che modo] i risultati delle nostre ricerche e i prodotti dell’Intelligenza umana rimangano [possano rimanere] sospesi come patrimonio dell’Umanità a cui tutti possano attingere.
Averroè - sulla scia dell’autentico pensiero di Aristotele non contaminato dal Neoplatonismo - capovolge il concetto del Mondo delle idee di Platone che dominava in campo filosofico: nel sistema platonico l’Intelligenza scende dall’alto [dall’Iperuranio] verso il basso mentre nel sistema [logico-categoriale] aristotelico l’Intelligenza sale dal basso verso l’alto [verso l’Intelletto universale] e aver fatto chiarezza su questi argomenti - divulgando l’autentico pensiero di Aristotele - mette a rischio la vita di Averroè perché i fondamentalisti [islamici e cristiani] lo attaccano inesorabilmente. L’Intelletto universale, spiega Averroè, si è costituito come "il grande deposito della Storia del Pensiero", un cantiere che l’Intelletto umano continua ad arricchire e a cui l’Intelletto umano attinge per sviluppare nuova ricerca. L’Intelletto universale, in quanto patrimonio culturale e intellettuale dell’Umanità, scrive Averroè, è immortale e trascendente, quindi ha gli stessi attributi di Dio, ed è attraverso questo patrimonio, scrive Averroè, che la persona entra in contatto con Dio. L’anima umana [l’intelletto umano] muore col corpo perché quando si spegne la Ragione si spegne anche l’anima: l’anima è mortale, afferma Averroè, e di immortale rimane il Pensiero che la persona è stata capace di elaborare e di lasciare in eredità.
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Preferite pensare che l’anima sia un oggetto spirituale e immortale oppure che sia un oggetto intellettuale e mortale? Basta una riga per rispondere… Averroè ha scritto: «Il pensiero ha le ali, e nessuno può arrestare il suo volo» … Verso che cosa o verso chi vola, in questo momento, il vostro pensiero?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Intanto il nostro pensiero vola di nuovo verso Dante Alighieri, perché il nostro poeta all’inizio del 1300 - siamo già in pieno Umanesimo [spostiamoci per un momento in avanti di un secolo] - sebbene lui debba e voglia sostenere l’immortalità dell’anima [vuole essere fedele alla dottrina del Dionigi Areopagita], è fortemente affascinato dall’idea dell’Intelletto universale così come la propone Averroè, e questa idea è per lui motivo d’ispirazione. Che cos’è la Commedia di Dante? E non a caso Borges fa cercare ad Averroè il significato di questo termine.
La Divina Commedia di Dante è soprattutto uno straordinario deposito di intelligenza a cui attingere [e nel modo in cui Borges scrive c’è qualcosa di dantesco], e la Divina Commedia funziona come un itinerario di studio che favorisce l’avvicinarsi a Dio: il pensiero di Averroè pesa sulla formazione culturale di Dante. Il Limbo di Dante - descritto nel canto IV dell’Inferno [rileggetevi questa pagina] - è come l’immagine, è come la figura dell’Intelletto universale proposta da Averroè: un grande contenitore di intelligenza e di saggezza. Il Limbo di Dante si presenta come se fosse il modello di un grande piano di studio di Storia del Pensiero Umano [sono anche lì le radici della nostra esperienza didattica, e sono lì le radici del ruolo universale che la Scuola deve avere]: difatti, il Limbo dantesco ha la struttura di una Scuola [Dante vuole esaltare il fenomeno della Scolastica che ha portato verso l’Umanesimo], e il poeta lo scrive in un verso lapidario: «Così vidi adunar la bella scuola, di quei signor dell’altissimo canto che sovra gli altri com’aquila vola» [e sta parlando anche di voi che avete la rettitudine di animare la Scuola per rivendicare il diritto all’Apprendimento permanente in modo da assolvere al vostro dovere di dedicarvi allo studio!]. La Chiesa ha [dopo un lungo dibattito che è iniziato, nel 1962, con il Concilio Ecumenico Vaticano II] rimosso il Limbo dalla sua dottrina e, di conseguenza, dopo averlo tolto dall’Aldilà, lo ha giustamente restituito, con una oculata scelta averroistica e dantesca, al mondo della cultura, al mondo dell’al di qua.
Per concludere il nostro incontro con Averroè leggiamo una pagina di bella prosa tratta dal Grande commento alla Fisica di Aristotele dove emergono due temi sui quali i pensatori che verranno [Alberto Magno, Tommaso d’Aquino] punteranno a lungo l’attenzione.
LEGERE MULTUM….
Averroè, Grande commento alla Fisica di Aristotele Libro VIII
La Fisica di Aristotele si conclude nell’ottavo libro con la dimostrazione dell’esistenza di un principio primo del movimento, cioè di un Motore immobile, che muove senza essere mosso.
La struttura argomentativa del libro pone in primo luogo che il movimento è eterno, in quanto esso non ha né inizio né fine; quindi dall’eternità del tempo e del movimento Aristotele deduce l’eternità del mondo. Già nel libro precedente, il settimo della Fisica, Aristotele aveva affermato che "tutto ciò che è in movimento è mosso da altro", con questa asserzione si dimostra che anche il movimento degli esseri viventi, che sembra movimento del tutto autonomo, in realtà anch’esso è mosso da altro, e quindi richiede un principio ulteriore del movimento. Ma quest’ultimo principio, a sua volta, deve essere infine non mosso, altrimenti l’intero movimento rimarrebbe senza alcuna giustificazione. Dunque in questa catena che congiunge motore e mosso, si deve infine pervenire a un principio primo e assoluto del movimento, che deve essere eterno e non mosso. Inoltre, ciò che è mosso da questo principio eterno, deve essere eternamente in movimento, in quanto effetto di una causa eterna. Ma a questi requisiti un solo movimento risponde, cioè il moto locale circolare, infatti tra i diversi moti locali, soltanto il moto circolare ha il requisito dell’eternità, dell’uniformità e dell’identità. Dunque il movimento locale circolare è il primo di tutti i movimenti. Ma questo moto circolare eterno, richiede un principio a sua volta eterno, a sua volta non mosso e incorporeo. Quindi ci deve essere un primo Motore immobile, collocato nella sfera più esterna dell’universo.
Perciò dobbiamo commentare che la Fisica si conclude con il rinvenimento di un principio di carattere metafisico, analogamente a quanto avviene nel XII libro della Metafisica. Un principio primo che è eterno, immobile, incorporeo, cioè una realtà che trascende la totalità del divenire, anche se a questo è strettamente legato, in quanto sua condizione incondizionata. …
In questo nostro viaggio abbiamo studiato come nel corso di tre secoli gli intellettuali latini, greci, ebrei e arabi [religiosi e laici] si siano incontrati [a Toledo, a Salerno, a Cordova, a Chartres] ed abbiano elaborato, nel rispetto delle reciproche differenze, un pensiero di base, uno zoccolo antropologico comune di grande valore, e l’elemento che li accomuna è il commento delle Opere di Aristotele: un’operazione che trova il suo apice nel lavoro di traduzione e di esegesi svolto da Averroè. Platone, come sappiamo, era già entrato in circolo da tempo [con Filone Alessandrino nell’ebraismo, con Avicenna nella cultura araba e con il Neoplatonismo nel cristianesimo]. E, ora, l’ingresso in scena di Aristotele: che cosa rappresenta? Aristotele rappresenta il valore che ha la Ragione, il valore che ha una Filosofia prodotta dall’essere umano senza aiuti divini. Aristotele, per tutti gli apparati religiosi al potere, rappresenta una minaccia ma per i Movimenti di base, soprattutto per quelli cristiani [fra poco entrano in scena i Valdesi, i Catari, i Francescani e i Domenicani], le Opere di Aristotele diventano uno strumento nella lotta contro il mondo feudale e contro la Chiesa verticale. Aristotele [e chi lo studia] subisce una lunga serie di condanne fino a che non si realizza la sua integrazione totale [e di questo argomento ce ne occuperemo alla fine di questo viaggio] ed è fonte di "perplessità" che non sia garantita l’autonomia dello studio.
Ma ora proseguiamo il nostro itinerario occupandoci della "perplessità". Il tema della "perplessità" ci fa incontrare un personaggio [che sta sulla scia di Averroè] il quale ci porta nel territorio della Scolastica ebraico-talmudica che è uno spazio ulteriore che dobbiamo esplorare. Che cosa c’entra la "perplessità"? Il concetto della "perplessità" è legato ad un’opera, che ha avuto un notevole successo nel mondo della Scolastica in generale.
Guida dei perplessi è il titolo dell’opera filosofica principale di Mósèh ben Majmón detto Maimonide [1138circa-1204] il più importante esponente della scolastica ebraico-talmudica. Maimonide, come Averroè, è nato a Cordova e svolge la professione di medico e, quindi la sua lingua è l’arabo, ed è in arabo che, nel 1190, scrive la sua opera Dalàlat al-Ha’irìn, la quale poi è stata tradotta in ebraico Moreh Nebukhim da Samuèl ben Tibbòn e, subito dopo, dall’ebraico è stata tradotta in latino e, in seguito, in molte lingue. Il titolo di quest’opera indica chiaramente l’intento dell’autore, il quale vuole farsi guida di chi resti perplesso o smarrito nel dover scegliere tra la Fede e la Filosofia, e in modo particolare tra la Tradizione dell’ebraismo e l’insegnamento della Filosofia aristotelica. Maimonide si pone con mentalità ebraica lo stesso problema che si pone Averroè con mentalità islamica perché sostiene la tesi che c’è un’identità sostanziale tra la Filosofia e la Religione, e per spiegare come è fatto il Mondo creato, astronomicamente e fisicamente, Maimonide adotta l’aristotelismo con qualche elemento neoplatonico, così come ha fatto Averroè e come hanno cominciato a fare alla Scuola di Chartres.
Per quanto riguarda la verità religiosa la Guida dei perplessi vuole rispettare la dottrina e la Legge dell’ebraismo tradizionale [la toràh]. Maimonide utilizza il metodo con cui è andato componendosi il libro del Talmud, uno dei grandi apparati della Storia del Pensiero Umano di cui Maimonide è uno studioso: la sua formazione filosofica è legata al libro del Talmud e, difatti, il concetto della "perplessità" fa parte del patrimonio di questo apparato e fra poco rifletteremo su questo argomento.
Una parte della Guida dei perplessi di Maimonide è dedicata alla spiegazione delle espressioni antropomorfiche della Bibbia [di come viene rappresentato Dio in forme umane] dando a queste "forme simboliche" un’interpretazione conforme al vero concetto della "natura metafisica" di Dio e questo ha portato Maimonide a formulare, in modo specifico [e qui, ancora una volta, c’è l’influsso del Dionigi Areopagita] la teoria degli attributi negativi della Divinità [di Dio possiamo dire solo ciò che non è].
Per quanto riguarda i rapporti tra Dio e l’essere umano, Maimonide sviluppa il concetto della "profezia" come facoltà naturale che può esser acquistata da chiunque attraverso la necessaria preparazione intellettuale che deve formare il senso morale della persona: e questa idea è contenuta nell’Etica Nicomachea di Aristotele per cui Maimonide ritiene che ci sia un’identità tra il pensiero greco e quello biblico: per questa sua convinzione anche lui, così come Averroè, ha dovuto subire molti attacchi da parte dei fondamentalisti che, in particolare, hanno messo in discussione il testo della terza parte della Guida dei perplessi che tratta dei "sacrifici" dove Maimonide sostiene che nel Pentateuco [nei primi cinque Libri della Bibbia: Genesi, Esodo, Numeri, Levitico, Deuteronomio] i sacrifici, a cominciare da quello di Isacco, non sono stati comandati da Dio [che è clemente e misericordioso nella sua essenza tanto per l’ebraismo che per il cristianesimo e per l’islam] ma piuttosto sono stati offerti dall’essere umano ancora in preda ad una mentalità animalesca.
Guida dei perplessi è un’opera che ha esercitato una notevole influenza nel mondo della cultura scolastica in generale e, per quanto il suo contenuto possa essere superato, lo spirito contenuto in essa ha costituito un incentivo notevole sul piano della ricerca: la serenità del giudizio, la rettitudine del criterio, il rigore delle dimostrazioni e la chiarezza dello stile, hanno fatto sì che quest’opera sia stata accolta con grande favore dagli scolastici ebrei, da quelli islamici e dai cristiani come Alberto Magno e Tommaso d’Aquino, due figure che incontreremo a fine maggio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole - incertezza, indecisione, dubbio, esitazione, tentennamento, titubanza - mettereste per prima accanto alla parola “perplessità”?...
Scrivetela ...
Di fronte a quale situazione siete rimaste perplesse, siete rimasti perplessi?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Che cosa significa che Maimonide [Mósèh ben Majmón] si forma sul libro del Talmud, che cos’è il Talmud? E che cosa significa che il concetto della "perplessità" fa parte del patrimonio di questo apparato culturale? Dobbiamo dire che la Scolastica ebraico-talmudica in Età medioevale si dedica ad un incessante lavoro di esegesi [di commento] sui testi biblici e, a questo proposito, è necessario imbastire una riflessione rimettendo piede in un vasto spazio che abbiamo attraversato in lungo e in largo in questi anni: il "territorio della sapienza poetica beritica" e la maggior parte di voi sa che la Letteratura beritica è l’insieme dei generi letterari con cui sono stati composti i Libri dell’Antico Testamento [l’Antico Testamento si compone di 49 testi, mentre il Nuovo Testamento di 27]. L’aggettivo qualificativo "beritico - beritica" deriva dalla parola-chiave "berit" che, in ebraico, significa "patto, alleanza" e unifica tutti i libri della Bibbia: il termine "berit" sintetizza il contenuto biblico perché questa parola fa da filo conduttore di tutta la Letteratura biblica dando un senso alla complessità e alla eterogeneità di questo grande apparato.
I Libri della Bibbia narrano e rievocano il patto di alleanza [la berit] tra Dio e un popolo, ma gli intellettuali ebrei [che in Età tardo-antica e medioevale vivono nella diaspora sul territorio dell’Ecumene cristiana e soprattutto islamica] pensano, in modo secolarizzato, che esista un patto [una berit] intellettuale tra lo straordinario apparato letterario dei Libri biblici [la Parola di Dio] e la persona che incessantemente cerca in questa Scrittura dei significati per dare un senso all’esistenza umana, e il Talmud [formato da un numero imprecisato di libri] è la raccolta di tutto questo enorme lavoro di interpretazione: c’è un "primo periodo talmudico" che produce e raccoglie commenti accumulatisi in otto secoli di ricerca [dal III secolo a.C. al VI secolo d.C.] e c’è un "secondo momento talmudico" che, nel corso dell’Età medioevale, riflette sulle esposizioni del primo movimento talmudico producendo interpretazioni delle interpretazioni.
Il Talmud - parola ebraica che significa "studio" - viene definito paradossalmente "un libro non-libro" perché non è mai concluso, ed è il risultato di secoli di discussioni di centinaia di Maestri e, quindi, contiene tutti i pareri: quelli "che hanno prevalso", quelli "che non hanno prevalso" e anche tutti quelli "che sono emersi nel corso delle controversie" e, in potenza, contiene anche già "quelli che emergeranno" perché il Talmud è molto probabilmente l’unico libro sacro che accetti la propria continua rimessa in discussione [ecco da dove emerge il senso della perplessità]: anzi, in quest’opera si sollecita caldamente la lettrice e il lettore a rimettere sempre in discussione le [presunte] conclusioni a cui si perviene. Il Talmud è il risultato di uno straordinario sforzo di riflessione sulla parola scritta contenuta nella Letteratura beritica [nei Libri della Bibbia] e lo studio del Talmud deve essere "polemico" e ha bisogno di confronto, ed è per questo motivo che non può essere uno studio solitario ma necessita di almeno due persone che, con assillo, si critichino in modo da dare dinamismo al pensiero e alla ricerca, e per impedire che la sclerosi li irrigidisca: il Talmud è un esercizio di igiene mentale ed è un antidoto contro il pensiero unico. Il Talmud è una disciplina che sviluppa una grande sottigliezza dialettica [e si capisce perché l’ebraismo abbia avuto una così importante influenza nella Storia della Letteratura e della Cultura in generale]. Il Talmud è una disciplina che mette in guardia dal delirio dell’autocompiacimento ed è per questo motivo che la Scolastica ebraico-talmudica prescrive di imparare a coltivare la modestia: la persona che studia, che interpreta, che ricerca, che riflette deve possedere questa virtù indispensabile.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Lo studio del “Talmud” ha bisogno di confronto, non può essere uno studio solitario: voi avete studiato con qualcuna delle vostre compagne o qualcuno dei vostri compagni di Scuola?...
Scrivete quattro righe in proposito ...
E ora leggiamo un frammento da uno dei tantissimi Libri che costituiscono il patrimonio del Talmud nel quale confluiscono dottrina e morale, sentenze e letteratura sapienziale, leggi, tradizioni, arguzia e, naturalmente, umorismo [l’unico farmaco capace di curare davvero].
LEGERE MULTUM….
Talmud [Bereshit rabbà - Trattato sul Libro della Genesi]
I maestri discutevano … Se un uccellino viene trovato entro cinquanta cubiti della proprietà di un uomo, l’uccellino appartiene al titolare della proprietà. Se viene trovato oltre i cinquanta cubiti, l’uccellino appartiene a chi lo ha trovato. Rabbi Jirimiah pose una domanda: «E se viene trovato con una zampina di qua e l’altra di là dei cinquanta cubiti?» … Per questa domanda rabbi Jirimiah, quel giorno, fu buttato fuori dalla casa di studio perché non si era ben capito se il suo fosse senso dell’umorismo o vero attaccamento per la Legge. …
Il ricorso all’umorismo è un metodo: è un invito a riflettere sul fatto che ci sono situazioni in cui si rimane perplessi o smarriti quando dobbiamo scegliere.
Anche Maimonide nella Guida dei perplessi segue le riflessioni dei maestri del Bereshit rabbà - che è il trattato del Talmud che commenta il Libro della Genesi - i quali si pongono una domanda provocatoria: «Cosa faceva Dio prima di creare questo mondo?». La risposta che si danno è paradossale [ma fino a un certo punto]: «Dio creava mondi e li distruggeva perché era alla ricerca di un mondo che fosse buono in tutti i suoi aspetti». Non era facile creare un mondo che fosse buono in tutti i suoi aspetti [a volte rimane perplesso anche Dio, afferma Maimonide] e Dio stesso, secondo i maestri del Bereshit rabbà, allude alle difficoltà della Creazione quando risponde a Giobbe [e abbiamo incontrato il Libro di Giobbe più volte in questi anni] che si lamenta per l’imperfezione del mondo creato. Sembra - secondo i maestri del Bereshit rabbà - che il nostro mondo sia il risultato del ventottesimo tentativo e che, contemplandolo, il Signore, sospirando, abbia pronunciato le seguenti parole ebraiche: «Halevay sheyaamod!» che vogliono dire: «Speriamo che tenga!». Con queste parole - che alle orecchie di qualche benpensante possono suonare un po’ blasfeme - il Talmud traduce, con umorismo [dando un senso alla perplessità], la fatica di vivere e invita a non perdersi d’animo. Quest’idea che l’Essere supremo si sia esposto ad un rischio con la Creazione, tentandola più volte, è grandiosa, come è grandiosa - affermano i maestri del Bereshit rabbà - la decisione di creare l’essere umano con tutte le sue debolezze, ma libero. E la riflessione su questa impresa rischiosa che è la Creazione, secondo gli intellettuali della Scolastica ebraico-talmudica, non può non scatenare il senso dell’umorismo [il metodo umoristico] in chi ha tentato l’impresa, ancora più rischiosa, di raccontarla la Creazione.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è un’impresa che avete dovuto tentare più volte per poterla realizzare ? ...
Scrivete quattro righe in proposito ...
Maimonide nella Guida dei perplessi riflette in termini eclettici [si sente anche lui un nano che tende a salire sulle spalle di quei giganti che sono i classici, a cominciare da Aristotele fino a Cicerone] e invita a respingere sia la credenza religiosa sia l’ateismo e afferma che è utile e necessario fare delle ipotesi, anche ottimistiche, e poi sperare che si avverino, e considera il credente e l’ateo due presuntuosi che si dichiarano sicuri di certi principi, ma che in pratica tirano a indovinare: per tutta una serie di vantaggi psicologici, allude Maimonide, sarebbe preferibile essere credenti ma la posizione che lui assume è quella dell’agnosticismo [della problematicità, del dubbio positivo, e se potesse direbbe: «Grazie a Dio, sono ateo! Non sono schiavo degli idoli!», un concetto che ha avuto una grande rilevanza nel Pensiero del ‘900 e ce ne occuperemo a suo tempo].
Ed è quindi significativo il fatto che sul territorio della Scolastica appaia uno studioso che abbia dedicato un intero libro ai perplessi: alle persone che fanno i conti con l’incertezza che è l’atteggiamento più stimolante per dedicarsi alla ricerca. Maimonide cerca di conciliare la Filosofia, quella di Aristotele, con la Bibbia, con i Vangeli e con il Corano e, sebbene non riesca a far sì che si superino le barriere ideologiche, tuttavia, con la sua scrittura "malleabile", crea i presupposti perché certi problemi possano essere discussi in pubblico dagli intellettuali scolastici senza che siano considerati eretici o miscredenti.
Guida dei perplessi di Maimonide introduce - sebbene ancora in fase allusiva - il concetto di "tolleranza" e l’idea che il "dubbio" crea non una chiusura ma un’apertura mentale e questo è un atteggiamento che si ritrova in tutta la cultura talmudica. Gli autori del Talmud - e gli intellettuali della Scolastica ebraico-talmudica, compreso Maimonide - in particolare chi ha composto il Bereshit rabbà [il commento del Talmud al Libro della Genesi] allude al fatto che: «Dio ha creato gli esseri umani perché ama udire raccontare storie». E perché Dio ama sentir raccontare? Perché, sostengono gli autori del Bereshit rabbà, il "racconto [il midrash]" porta con sé sempre un insegnamento e come può l’insegnamento divino diventare comprensibile se non attraverso il racconto umano? Leggiamo una storia dal Bereshit rabbà.
LEGERE MULTUM….
Talmud [Bereshit rabbà - Trattato sul Libro della Genesi]
Un pagano che voleva convertirsi all’ebraismo si era recato da un rabbino - un grande maestro - allo scopo di manifestargli la sua intenzione ma anche per confessargli l’unica perplessità che lo tratteneva dall’intraprendere l’arduo cammino della conversione: le scarse notizie sulla natura reale del paradiso nel pensiero ebraico.
Il rabbino constatò attraverso una serie di domande che le intenzioni del pagano erano oneste e sincere. Verificò anche che il pagano aveva intuito molti aspetti della Toràh in modo davvero singolare. Quindi si rese disponibile a chiarirgli quell’ultima perplessità. «Dunque dici che per sciogliere ogni tuo dubbio riguardo a ciò che siamo e vogliamo, hai bisogno di vedere il nostro paradiso. Bene, non è un problema. Vai a casa e prepara tutto ciò che è necessario per un lungo viaggio, e poi torna da me».
Il pagano fece ciò che il rabbino gli aveva chiesto, poi ritornò da lui e si misero in cammino. Più si allontanavano dalla loro ridente cittadina, più le terre e i luoghi che incontravano si facevano impervi e inospitali: zone aride, deserti gelidi, foreste pietrificate, montagne aspre senza traccia alcuna di vegetazione. Dopo tre settimane di cammino massacrante il pagano, sfinito, protestò con il rabbino: «Sono giorni e giorni che marciamo senza sosta. Rabbino, non ne posso più. Dov’è dunque il paradiso che hai promesso di mostrarmi?» Il rabbino sospirò: «Il raggiungimento del paradiso richiede pazienza e abnegazione. Dobbiamo proseguire il cammino».
Camminarono ancora per una settimana, e raggiunsero un acquitrino paludoso. Era un luogo infernale mefitico, avvolto di umori malsani. Zanzare di dimensioni allarmanti tormentavano senza posa ogni essere vivente che si trovasse in quella landa spettrale, e un lezzo nauseabondo quasi insopportabile impregnava l’atmosfera. La malaria vi regnava sovrana. Su piccoli atolli di terra appena emergenti dall’acqua limacciosa di colore malato, erano appoggiate capanne traballanti trasudanti un’umidità venefica e all’interno di questi abituri, seduti su sgabelli precari stavano gli scrivani dell’ebraismo, chini su tavolacci instabili dove erano appoggiati i rotoli della Torah.
La visione era quanto di più desolante l’occhio umano potesse incontrare. Il pagano guardò incredulo il rabbino, il quale esclamò raggiante: «Eccoci!». Il pagano era esterrefatto. Lo stupore, misto all’indignazione gli aveva mozzato il fiato: «Noo, non è possibile!» Poi sbottò: «Tu, rabbino, devi essere uscito di senno! Tu appartieni a un popolo di dementi in libera uscita. Questo è il paradiso? Questo luogo ripugnante? E poi …tutto questo niente …quello che non posso credere che anche qui in questa palude, che tu chiami "Eden", loro…i vostri maestri…i santi…siano ancora chini su quei rotoli tutto il tempo!». Il rabbino sbatté lentamente le palpebre con la sorniona lentezza di un gatto ricco di molti anni, poi, con un impercettibile sorriso, disse: «Sì! È così! Solo che adesso finalmente capiscono quello che leggono e un’ora nel mondo a venire è meglio di tutta la vita in questo mondo, ma è meglio un’ora di buone azioni in questo mondo di tutta l’eternità nel mondo a venire». …
Questo brano, molto significativo, insegna a non farsi delle idee alienanti del paradiso e a non contrattare la propria conversione pensando di poterne avere un tornaconto! "Meglio un’ora di buone azioni in questo mondo - questo corrisponde al paradiso! - di tutta l’eternità nel mondo a venire".
Il Talmud - che è il prodotto in continua evoluzione della Scolastica ebraico-talmudica - nel suo complesso indica di assumere uno stile di vita che sia permeato da due fattori: "imparare a fare buone azioni" e, soprattutto, "combattere contro la pigrizia [la sclerotizzazione] del proprio pensiero". Il Talmud propone un itinerario attraverso il quale la persona possa imparare ad essere solidale [ad applicare la berit, il patto di solidarietà] e ad essere studiosa [perché è studiando che si possono scrivete Leggi, la Torah, che garantiscono la giustizia sociale]. Il Talmud insiste sul fatto che bisogna "studiare" e "studiare disinteressatamente" senza pensare che, in fondo, non ci voglia tutta questa grande preparazione per accedere ai segreti dello studio.
A questo proposito leggiamo un brano scritto, nel 1968, dal filosofo lituano naturalizzato francese Emmanuel Lévinas (1906-1995), studioso anche del Talmud [un personaggio contemporaneo che incontreremo a suo tempo - «la Filosofia è conoscenza dell’amore prima di essere amore della conoscenza» - per ora utilizziamo la sua sapienza talmudica].
LEGERE MULTUM….
Emmanuel Lévinas, Quattro letture talmudiche
Un giovanotto ebreo, figlio di "buona famiglia", dopo la laurea in logica e dialettica socratica, vuole darsi un’infarinatura di cose ebraiche. Sì sa…fa così chic!
Si reca dunque da un grande rabbino e gli dice: «Rabbino, vorrei arrotondare la mia cultura con un po’ di ebraismo. Mi darebbe qualche lezioncina?»
«Capisco giovanotto», risponde il rabbino, «ma tu lo hai studiato il nostro Talmud?»
«Andiamo rabbino! Io sono laureato in Logica e Dialettica socratica! Non so se mi spiego!»
«D’accordo figliolo questa è un bella cosa, ma la nostra lingua santa, l’ebraico, la conosci?»
... continua la lettura ...
Grazie a tutte e a tutti voi che non avete ceduto alla pigrizia e state compiendo questo viaggio faticoso per dare dinamicità al vostro pensiero e per dare un senso alla "perplessità" che spesso ci coglie. È bene non cedere alla pigrizia di quello che oggi viene chiamato "il pensiero corto" per non lasciare tutto lo spazio alla "dittatura dell’ignoranza" [al regime del "manganello mediatico", come lo la chiamato Karl Popper].
Emmanuel Lévinas nel famigerato anno 1968 [e me lo ricordo, anche se è passato quasi mezzo secolo] chiamava le giovani generazioni ad opporsi contro "l’imbecillità [una delle più gravi malattie di cui il genere umano possa soffrire]". La Scuola pubblica degli Adulti - le persone che la animano, voi [ed io con voi] - può fare qualcosa, oggi, contro l’imbecillità dilagante? Non lo so, e, a pensarci, sono perplesso ed è per questo che, per concludere, vorrei ancora leggere tratto dal grande serbatoio della Letteratura yiddish, che ha ereditato lo spirito della Scolastica ebraico-talmudica, il testo di una Storiella con il quale salutiamo Mósèh ben Majmón [Maimonade].
LEGERE MULTUM….
A cura di Ferruccio Fölkel, Storielle ebraiche
Finita la Lezione Shlojme domanda al rabbino: «Rabbino, perdonerà l’Eterno nostro Dio le perplessità di Mósèh ben Majmón [Maimonade] oppure lo farà sprofondare nella Gheenna?».
«Caro Shlojme - risponde il rabbino - sono convinto che quando Mósèh ben Majmón [Maimonade] si è presentato davanti a Dio, l’Eterno gli abbia detto "Hai visto che ci sono?". E che lui abbia risposto "Sì, e mi fa piacere, ma soprattutto per lei, per me fa lo stesso"». …
E, in ogni caso, il compito istituzionale della Scuola è quello di agire per insegnare a studiare perché si possa imparare ad investire in intelligenza.
Agli albori del XIII secolo grandi avvenimenti storici e intellettuali si verificano in Età medioevale sul territorio della Scolastica e noi ci dobbiamo essere tra quindici giorni [mercoledì 6, giovedì 7 e venerdì 8 maggio] quando si verificano.
L’investire in intelligenza [il giusto equilibrio tra i diritti e i doveri] dovrebbe essere l’azione fondamentale che dà valore al "lavoro" che è il presupposto sostanziale su cui - secondo il primo articolo della Costituzione - si fonda la Repubblica democratica nata dalla Resistenza.
La Scuola è qui, il viaggio continua: "eppur bisogna andar ..."…
Viva il 25 aprile! Viva il 1° maggio!