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LA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA AFFIDATA AGLI ANIMALI - LA GRANDE QUARANTENA ...

Lezione N.: 
13

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34  -  «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI.»

PERCORSO DI STORIA DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

La sapienza poetica e filosofica dalla seconda metà del ‘600 al secolo dei Lumi

La sapienza poetica e filosofica affidata agli animali

Prof. Giuseppe Nibbi

UNDICESIMO  ITINERARIO [in attesa di tornare a viaggiare in presenza] ...   9 giugno 2021

LA GRANDE QUARANTENA ...

     Care compagne e cari compagni di Scuola, questo è l’ultimo itinerario di un Percorso iniziato a metà gennaio del corrente anno 2021 e che abbiamo definito: “sospeso in attesa di tornare a viaggiare in presenza”.

     Su consiglio di Jean de La Fontaine [che ci auguriamo di poter incontrare al più presto a Scuola] abbiamo, come sapete, cominciato a leggere - collocandolo sul tornio della nostra Officina di apprendistato cognitivo - il testo di una Favola intitolata L’assemblea degli animali composta da un autore che si fa chiamare Filelfo [come se fosse un umanista rinascimentale]. Fin dalla notte dei tempi, attraverso il genere letterario della fabula, “la Sapienza poetica e filosofica” viene affidata agli animali perché queste creature hanno contribuito a far riflettere gli umani sulla loro condizione esistenziale [de te fabula narratur - ci ricorda La Fontaine - la favola parla di ciascuna e di ciascuno di noi]. Questo esercizio di carattere ermeneutico deve servire per tenere attiva nella nostra mente la funzionalità delle principali azioni mediante le quali avviene il processo di apprendimento perché per andare incontro al pensiero scritto e per sostenere il carico della scrittura, tanto nelle sue forme quanto nei suoi contenuti, è necessario saper utilizzare le azioni cognitive [conoscere capire applicare analizzare sintetizzare valutare]. La lettura non è un’arte facile da praticare, per leggere “con competenza” è necessario conoscere il significato delle parole-chiave, capire la rilevanza delle idee-cardine, sapersi applicare metodicamente, saper analizzare i pensieri che il testo contiene, saper sintetizzare il contenuto del testo e saper valutare il grado di soddisfazione che si prova leggendo.

     Nell’itinerario scorso abbiamo letto e commentato il decimo capitolo della Favola di Filelfo dove è stato messo in evidenza il fatto che, forse, la tara originaria dell’essere umano non deriva dalla conoscenza ma, al contrario, dalla dimenticanza, e non vi è sciagura più grande che perdere la memoria.

     E ora leggiamo il testo di quello che per noi è l’undicesimo capitolo della Favola di Filelfo fermandoci a riflettere per compiere un esercizio di ermeneutica, di interpretazione, di spiegazione, di chiarimento, di complicazione, di analisi, di sintesi, di esegesi [una competenza, l’esegesi, che in greco significa “di lettura attenta”], e un testo va sempre letto con grande attenzione nell’ambito di un’Officina di apprendistato cognitivo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo XI. La grande quarantena

La gatta bianca apri gli occhi all’improvviso. La luce invadeva la stanza, era mattina inoltrata. Si allungò tutta sul letto e fece silenziosamente i suoi esercizi ginnici. Non percepiva alcun rumore, né di colazione né di traffico. Curioso, si disse. Ancora più curioso che lui, accanto, stesse dormendo. Non avrebbe dovuto essere a scuola? Si alzò agilmente e s’affacciò alla finestra. Il viale alberato lungo il fiume era deserto. Sui rami dei platani, tra i primi germogli, poteva distinguere con nitidezza una moltitudine di sagome di piccoli uccelli, e l’insolita varietà dei loro versi la confondeva. Decise che avrebbe ragionato meglio a stomaco pieno. Scivolò silenziosa verso la cucina. In quel momento sentì aprirsi la porta della camera da letto grande, la più fresca d’estate, e le sbarrarono il passo due caviglie che davanti a lei parvero quelle colossali di una statua di Iside patrona dei gatti, non fosse che si facevano strada, con la goffaggine tipica dell’andatura umana, sul suo tappeto da manicure felina preferito. Poteva resistere a tutto ma non alle tentazioni. Per tre volte affondò le unghie e le ritrasse velocemente provando il piacere acuto che il perfezionismo elargisce ai suoi adepti. Poi in un lampo raggiunse la donna.

Il grande schermo nero si animò prima ancora che si alzasse l’odore del caffè. Un rimbombo concitato svegliò il resto della casa e ne raccolse i tre abitanti intorno al tavolo vuoto, gli occhi spalancati davanti ai filmati che scorrevano. La gatta bianca si arrotolò con destrezza sul bordo estremo della credenza e cominciò a lavarsi con aria indifferente. È questo da sempre il trucco che i piccoli felini adottano per non tradire le loro emozioni e per passare inosservati mentre si concentrano intensamente su qualcosa fingendo di fare altro. Dunque, si disse, la grande quarantena aveva avuto inizio.  Man mano che il sole fuori avanzava, e che nell’ombra della casa le immagini si scomponevano e ricomponevano sui visori grandi e piccoli dei vari congegni che gli esseri umani usano per trasmetterle a distanza, avendo perduto il dono di comunicarle col pensiero come gran parte degli animali tra cui i gatti, qualcosa di impercettibilmente diverso dal solito prese a vibrare intorno a loro come un’aureola. Non era timore, non era stupore, come si sarebbe aspettata. Era euforia. ...

     Con il diffondersi dell’epidemia ha avuto inizio la grande quarantena che ha generato tra gli umani una situazione che la gatta bianca della Favola che stiamo leggendo ha definito con la parola “euforia”.

     Questa parola-chiave [che in greco traduce l’espressione “che porta (phérein) bene (eu)”] designa uno stato d’animo che ha suscitato [nel marzo dello scorso anno] in molte cittadine e molti cittadini di tutte le età il desiderio di esternare, cantando dai propri balconi e urlando da un caseggiato all’altro, frasi augurali che hanno trovato una sintesi nell’affermazione: “andrà tutto per il meglio, andrà tutto bene [euphérein]”. E un’iniziativa più suggestiva di questa non poteva essere presa ma, forse, da parte degli umani [se vogliamo interpretare il pensiero della gatta bianca] sarebbe stato necessario avere più consapevolezza nei confronti del concetto legato al termine “euforia” e anche del paesaggio intellettuale in cui questo termine - patrimonio della Storia del Pensiero Umano - è collocato, in quanto, un maggior livello di conoscenza porta sempre a far aumentare il grado di responsabilità personale di ogni singolo essere umano perché la gestione di quello stato d’animo che chiamiamo “euforia” richiede la massima attenzione da parte di ogni singola persona. E, in proposito, è opportuno esercitarsi all’interno di un’Officina di apprendistato cognitivo come la nostra cominciando col capire che la parola-chiave “euforia” è da considerarsi, in prima istanza, un termine ammantato di sublime bellezza, e la bellezza [perché possa salvare il mondo] non deve alienare la mente della persona ma deve farla risvegliare affinché la persona colga la straordinaria fertilità semantica di cui questa parola è portatrice perché sono numerose, e significative, le voci che il termine “euforia” fa sbocciare intorno a sé.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Il termine “euforia” rimanda alle parole: gioia, allegria, felicità, contentezza, vitalità, vivacità, esuberanza, esultanza, eccitazione, ebbrezza, gaudio, giubilo, tripudio...   Quale di queste parole volete scegliere per prima in quanto legata ad un avvenimento che ricordate con piacere? ...   Scrivete quattro righe in proposito...

     E, se poi volessimo puntare l’attenzione sulla parola “gioia” in funzione della didattica della lettura, possiamo dire che L’arte della gioia è il titolo dell’opera principale della scrittrice Goliarda Sapienza [1924-1996] un personaggio che abbiamo già incontrato nei nostri viaggi e con il quale è piacevole e istruttivo fare conoscenza [e potete, in proposito, utilizzare la rete]. Il manoscritto del testo di questo romanzo è rimasto per vent’anni abbandonato in una cassapanca e, dopo essere stato rifiutato dai principali editori italiani, è stato stampato nel 1998 in pochi esemplari da Stampa Alternativa, ma Goliarda Sapienza era già morta da due anni. In Italia questo romanzo è stato preso in considerazione solo dopo che in Francia, in Germania e in Spagna - dove il testo è stato subito tradotto - è diventato un caso editoriale e ha ricevuto molti riconoscimenti da parte della critica e del pubblico.

     Dovremmo provocatoriamente sottolineare l’incapacità dell’Italia di riconoscere e valorizzare le opere che ha in casa? Nel romanzo L’arte della gioia tutto ruota intorno alla figura di Modesta, la protagonista: una donna vitale e scomoda, potentemente immorale secondo la morale comune. Modesta è una donna siciliana, una “carusa tosta” nella quale si fondono la carnalità e l’intelletto, e nel profondo del suo animo il contrasto tra l’armonia [Apollo] e l’inquietudine [Dioniso] gioca un ruolo continuo nel bene e nel male. Modesta [che è nata il 1° gennaio 1900] attraversa le bufere storiche del cosiddetto secolo breve e affronta le sue tempeste sentimentali protetta da un infallibile talismano interiore: l’arte della gioia, un talismano che funziona se una persona acquisisce la capacità di essere molto autodisciplinata.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Il termine “euforia” rimanda anche alla parola “gioia” e, di conseguenza, richiedete in biblioteca, per leggerlo o per rileggerlo, il romanzo L’arte della gioia di Goliarda Sapienza...

     Lo stato euforico che la gioia spesso procura va sempre governato con grande autodisciplina e, a questo proposito, la riflessione che il termine “euforia” innesca ha un suo sèguito in quanto “la sensazione accentuata di esuberante e spensierata vivacità” che l’euforia produce porta sovente la persona a compiere azioni insensate dovute alla perdita del controllo che lo stato euforico [eùphoros] produce con conseguenze sempre nefaste [kakophoros, in greco] che provocano nella persona un senso di abbattimento, di depressione, di tristezza, di scontentezza, di avvilimento. E anche nel caso della pandemia è successo che l’euforia iniziale ha lasciato il posto all’abbattimento, alla depressione, alla tristezza, alla scontentezza, all’avvilimento: saranno in grado gli esseri umani [si domanda la gatta bianca della Favola che stiamo leggendo] di riflettere intellettualmente sulla dinamica del passaggio dall’euphoria alla kakophoria [la conseguenza nefasta dell’euforia, in greco] seguendo un ragionamento progressivo?

     Per dare corpo al ragionamento progressivo che dobbiamo imbastire, è necessario mettere sul tornio della nostra Officina di apprendistato cognitivo la parola-chiave “euforia” per studiarne la fisionomia che si presenta in modo piuttosto complesso.

     La parola-chiave “euforia” fa parte del voluminoso bagaglio della cultura orfica, e l’Orfismo è una dottrina che sta alla base della nostra cultura: infatti, le donne e gli uomini contemporanei continuano puntualmente a pensare e ad agire in chiave orfica, e molte manifestazioni della vita quotidiana degli umani - senza che se ne rendano conto - sono permeate di dottrina orfica, e lo si capisce pensando a quelle situazioni in cui si scatena l’euforia collettiva e l’entusiasmo travalica [e il termine “entusiasmo” è un’altra parola-chiave del ricco glossario orfico]. La cultura orfica è una dottrina profondamente radicata nella Storia del Pensiero Umano: infatti, l’Orfismo è alla base dell’insegnamento di Pitagora, di Eraclito, di Empedocle, e anche Socrate è influenzato dall’Orfismo, e Platone produce un pensiero autonomo rispetto all’Orfismo ma che, senza la cultura orfica, sarebbe incomprensibile E senza la cultura orfica sarebbe incomprensibile anche il pensiero del Cristianesimo [e questa questione l’abbiamo studiata a suo tempo sotto l’impulso di papa Giulio II, dal 1508 al 1511, osservando La Scuola di Atene di Raffaello].

     E allora, in che cosa consiste la dottrina orfica, che cos’è l’Orfismo? L’Orfismo è la religione fondamentale dell’antica Grecia, e quando sentiamo nominare la religione dell’antica Grecia pensiamo subito agli dèi e alle dèe dell’Olimpo, ma gli dèi e le dèe dell’Olimpo [come ci ha insegnato Erodoto nelle sue Storie] sono “figure nuove” perché sono un prodotto dell’Orfismo: è il culto orfico che genera gli attributi delle divinità olimpiche e, dal VI secolo a.C., per i Greci e per le popolazioni mediterranee ed europee, l’Orfismo rappresenta il più importante schema di Pensiero che ci sia stato lasciato in eredità, e dobbiamo sapere che alla radice dell’Orfismo c’è un culto più antico, un culto arcaico che l’Orfismo vuole riformare … 

     Il pensiero orfico comincia a svilupparsi nell’area Ellenica già dal X secolo a.C. e lo troviamo espresso, in modo esemplare, nei poemi di Omero, e si può già definire propriamente “orfico” il modo in cui viene concepito l’essere umano nel pensiero omerico contenuto nei testi dell’Iliade e dell’Odissea in quanto nel genere letterario omerico l’essere umano viene rappresentato in possesso delle “sue membra” e della “sua anima” e l’idea che la persona sia composta di corpo e di anima è l’elemento principale della cultura orfica, e questa idea noi, umani contemporanei, continuiamo a coltivarla nella nostra mente.

     L’anima è l’oggetto orfico per eccellenza e viene concepita come un’essenza che s’identifica con l’inconscio dell’essere umano, con il suo “dentro”; l’anima è una specie di fantasma, di larva, di crisalide: l’anima è l’essere umano senza la sua consistenza materiale, e noi, solitamente, abbiniamo l’anima alla dottrina del Cristianesimo ma il concetto dell’anima precede di circa mille anni il Cristianesimo, e il Cristianesimo ha mutuato, ha coltivato e ha divulgato il concetto orfico dell’anima.

     Ma perché la cultura orfica ha preso il nome di Orfismo? Il termine “Orfismo” deriva dal nome di Orfeo, un personaggio notissimo, legato a un modello letterario potentissimo e, a questo proposito, viene subito in mente la dicitura: “Orfeo all’Inferno” ed è in questa situazione di rapporto con gl’Inferi che questo personaggio deve fare i conti, nel bene e nel male, con la gestione dell’euforia. Orfeo all’Inferno è il titolo di un’opera composta nel 1858 dal musicista Jacques Offenbach [1819-1880] su Libretto di Hector-Jonathan Crémieux e Ludovic Halévy. Le musiche che possiamo definire orfiche di quest’opera-comica - che gioca in modo impertinente sul mito di Orfeo - hanno anche contribuito al successo di Parigi nel XIX secolo: con l’ironia di Offenbach scopriamo che all’Inferno si balla il famoso Cancan [con tutta l’eufonia che scaturisce dall’euforia] e ci si ammanta di malinconia con la struggente Barcarola [quando con l’eufonia si rimpiange di aver troppo concesso all’euforia].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Potete utilizzare la rete per ascoltare e veder rappresentata l’opera Orfeo all’Inferno di Jacques Offenbach…  

     Il termine “Orfeo”, seguendo il glossario della lingua greca, significa “escluso, colui che è solo, solo e abbandonato da tutti” e definisce un personaggio mitico e letterario che, metaforicamente, si identifica con la poesia: Orfeo è la poesia stessa che si manifesta attraverso un racconto mitico che vuole anche insegnare a utilizzare lo stato euforico a vantaggio della creatività poetica [l’euforia in funzione dell’eufonia, della buona musica e del bel canto] senza però travalicare il perimetro oltre il quale viene a determinarsi una deleteria perdita del controllo sulle proprie azioni [la kakophoria]. Quindi - nel racconto mitico di cui è protagonista - Orfeo è un poeta che mette in musica i suoi versi e li canta, ed è figlio del dio Apollo e della musa Calliope, e siccome “kallas” in greco significa “bella” e “opè” in greco significa “voce” il nome “Calliope” significa: “dalla bella voce” che Orfeo eredita da sua madre. Il racconto mitico in cui Orfeo è protagonista contiene gli elementi di una dottrina religiosa diffusasi tra il VI e il V secolo a.C. in Tracia, la regione pianeggiante e agricola situata nel cuore della Grecia. L’Orfismo è una dottrina religiosa che, come abbiamo detto, vuole riformare in senso spirituale una religione più antica, dai caratteri arcaici, che si manifesta con un culto piuttosto violento e materiale: la dottrina orfica vuole dare un’anima [un’etica, un equilibrio e un messaggio di salvezza] alla religione perché al centro della riforma religiosa orfica c’è un mistero, c’è un culto legato all’enigma della morte e della resurrezione in quanto l’homo sapiens, da quando ha maturato coscienza di sé, non si è mai rassegnato all’idea della morte. L’Orfismo predica che la persona non muore interamente ma qualcosa di lei si ricicla, si trasforma e, quindi, un qualcosa della persona è destinato a risorgere come avviene per i fenomeni della Natura che si riproducono in uno stato di incessante trasformazione passando dalla morte alla vita nel ciclo delle stagioni, e il sentire delle mutazioni stagionali lo abbiamo ereditato dalla cultura orfica. Anche se le stagioni non sono più quelle di una volta [come spesso ripetiamo], pur tuttavia le allegorie che la dottrina orfica ha attribuito all’autunno, all’inverno, alla primavera e all’estate continuano a condizionare fondamentalmente la nostra vita.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Quale momento stagionale, quale ciclo della Natura preferite? ...  Gli avvenimenti della nostra vita e i nostri ricordi sono profondamente legati alle stagioni, quindi, scrivete quattro righe in proposito …

     Conoscete senz’altro il famosissimo racconto che narra il mito di Orfeo: un racconto simbolico che ha ispirato la composizione di poemi, di romanzi, di opere liriche, di sinfonie, di drammi, di commedie, e la realizzazione di opere di pittura, di scultura, di architettura, di filmografia e via dicendo.

     Ma prima di rievocare il racconto che narra il mito di Orfeo - in cui il termine “euforia” gioca un ruolo - proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo XI  della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo XI. La grande quarantena

Gli umani credono che gli animali non decifrino il loro linguaggio. Non è così. La gatta bianca comprendeva e soppesava ogni parola. Al figlio non pareva vero di non andare a scuola. La madre aveva annunciato che non sarebbe tornata in ufficio ma avrebbe potuto lavorare da casa. L’uomo le rivolgeva parole affettuose. Le sue giornate non sarebbero cambiate, ma tutti avrebbero potuto concedersi almeno due ore di sonno in più ogni mattina e di sera guardare fino a tardi la tv come fosse sempre la vigilia di un giorno di festa. Il più giovane neanche ascoltava, preso dai continui scampanellii, ronzii, tamburellii e fruscii che facevano sobbalzare il suo cellulare. Lo sguardo obliquo della gatta sorvegliava lo scorrere vertiginoso di frasi, foto, link e commenti disseminati di faccine gialle.

Quando l’uomo tornò sovraccarico di buste della spesa era quasi ora di cena. La gatta bianca ne approfittò per scivolare sul ballatoio e da lì guadagnare la grondaia. Sono due le ragioni principali per cui i gatti frequentano i tetti: avere la visuale più ampia possibile e raccogliere informazioni. Si dice che ciascun gatto abbia tre nomi: quello con cui viene al mondo, quello che gli danno gli umani e un terzo nome segreto. I primi due servono a identificarlo, rispettivamente, tra i suoi simili e nella società degli umani, il terzo ad accreditarlo presso le altre specie animali (e, in certi casi, anche vegetali), quali appunto i numerosi pennuti che si incrociano sulle cime dei palazzi. E un gatto, che ama passeggiare in equilibro sull’orlo dei tetti, potrà mai essere incline all’euforia? ...  

     Che cosa racconta il mito di Orfeo, in cui la parola “euforia” insieme alla parola “eufonia” ha un ruolo? Ebbene, è ancora una volta Ovidio [che abbiamo già incontrato nel corso di questo viaggio, come ricorderete] a raccontarci, magistralmente in versi, traducendola in latino nel Libro X de Le metamorfosi, la famosa Favola di Orfeo ed Euridice che contiene il mito orfico. La traduzione italiana non restituisce l’armonia del verso latino di Ovidio ma ci assicura la comprensione del significato del testo [il latino è la nonna dell’italiano e, tradurre dal latino, è come ascoltare la nonna che racconta]. Scrive Ovidio: «C’era una volta Orfeo, il mitico insuperabile cantore, il soave poeta, | figlio del divino Apollo e di Calliope, la musa dalla bella voce. | Orfeo, col canto della sua poesia [con l’eufonia], fa innamorare la bellissima Euridice, | che troppo presto muore, uccisa dalle Baccanti astiose, e lui non riesce a darsi pace, | e disperato decide di tentare l’impossibile impresa per ogni essere mortale: | scendere agl’Inferi per riportare ancora in vita, accanto a lui, la dolce sposa. | Orfeo, accarezzando le corde della lira, i guardiani infernali riesce a placare | e Caronte e Cerbero, ammansiti dal dolce suono e dalla bella voce, lo lasciano passare | e Persefone, regina d’Oltretomba, affascinata anch’essa dal melodioso canto, | concede ad Euridice il ritorno alla luce, seguendo Orfeo, standogli accanto. | C’è solo un divieto che impone la regina: lungo il tragitto di ritorno | Orfeo non si dovrà voltare a guardare se Euridice lo segue lieta e fiduciosa. | Perché Orfeo non resiste alla tentazione di lanciare uno sguardo alla sua sposa? | Per un attimo incontra i suoi occhi e in un attimo perde la cosa per lui più preziosa. | Euridice sconvolta viene trascinata indietro nell’Ade e muore così per la seconda volta. | Orfeo torna solo e desolato dal suo viaggio, | lui che con l’eufonia, con la straordinaria bellezza del suo canto, aveva volto al bene un tragico destino | ha ceduto all’euforia per la vittoria ottenuta compiendo un gesto insensato che gli ha fatto smarrire il cammino. | Ogni donna gli offre l’amore, ma Orfeo rifiuta: solo nel canto sfoga il suo dolore | e solo il canto lo può consolare, e la sua musica è sempre più suadente, | e distrae dal dovere coniugale tutti gli uomini che lo stanno affascinati ad ascoltare. | Si sentono assai trascurate le donne di Tracia e si vendicano: catturano Orfeo, | lo sbranano, fanno a pezzi le sue tenere membra e, squartato, lo gettano in mare. | Ma non è un’orribile fine la sua, perché Orfeo non muore, non può morire del tutto, | è il suo corpo che muore: la sua anima armoniosa vive, l’armonia non può morire perché l’anima poetica è immortale, e questa voce, la voce suadente di Orfeo, | l’amore, l’amore per Euridice, continua, e continuerà per sempre a cantare».  Questo mito - tradotto in versi latini con grande bravura da Ovidio - contiene in embrione un messaggio di salvezza eterna: un messaggio basato sulla speranza che l’anima non muore con la morte del corpo, e la cultura orfica [di stampo pitagorico] prevede che, dopo la morte del corpo, l’anima sia sottoposta a un giudizio, per cui ci può essere un castigo con una nuova reincarnazione dell’anima in un corpo materiale, oppure ci può essere un premio, cioè la liberazione dal ciclo delle incarnazioni, la liberazione dal peso della carne con il ritorno definitivo dell’anima a essere spirito, riunita per sempre all’Essere come era in origine. Ma, per meritare il premio, è necessaria una forte tensione etica: la persona deve coltivare la volontà di fare il bene, e su questo punto l’Orfismo diventa un movimento riformatore.

     La riforma religiosa orfica prescrive di coltivare ideali di vita basati sull’euritmia cioè sull’armonia, sulla concordia, sull’equilibrio, che sono le qualità del dio Apollo [ed ecco come nasce la figura del dio Apollo dagli elementi della dottrina orfica]. Orfeo, il figlio di Apollo, canta con la sua “bella voce” [con Calliope, che è la sua mamma] per celebrare le virtù apollinee ma, come abbiamo letto, il racconto del mito di Orfeo contiene un tarlo che rode [e sappiamo come Ovidio sia bravo a produrre giochi di parole per innescare la riflessione sulla condizione esistenziale della persona] perché Orfeo è capace a far sì che l’euforia [la gioia, l’allegria, la felicità, la contentezza] si manifesti attraverso l’eufonia [attraverso una musica e un canto poetico avvincente e suadente] ed è proprio con l’eufonia [con la bellezza del suo canto] che Orfeo vince la partita più difficile ottenendo di poter riportare Euridice alla vita, ma poi succede che l’euforia per la vittoria acquisita lo porta a compiere un gesto insensato e Orfeo trasgredisce alla regola mettendo in condizione l’euforia di mostrare il suo volto peggiore. Il racconto del mito di Orfeo mostra la complessità della cultura orfica perché, nonostante il suo slancio riformatore, rimane legata a una religione più antica, materiale, impregnata di animalità. L’Orfismo rinnova questa religione primordiale ma se ne porta dietro l’eredità e, di conseguenza, non è soltanto depositario delle virtù di Apollo: l’armonia, la concordia, la proporzione, l’equilibrio, l’euritmia.

     L’Orfismo è un movimento religioso che vuole rinnovare un culto che lo precede, un mistero arcaico e ben radicato sul territorio, con il quale s’intreccia: l’Orfismo vuole riformare il culto di Dioniso. L’Orfismo nasce da una riforma interna ai riti dionisiaci e promuove, nei confronti del culto di Dioniso, un rinnovamento in senso spirituale, ascetico, che impone una forte tensione etica, prescrive di fare il bene per dare più leggerezza e più valore all’anima e prescrive uno stile di vita ordinato in cui si deve coltivare la temperanza, l’equilibrio, la sobrietà, l’igiene personale e una dieta vegetariana perché l’Orfismo vieta l’omofagia cioè il cibarsi di carne cruda, che era una pratica rituale diffusa nel culto di Dioniso.

     Di cultura dionisiaca torneremo a parlare diffusamente quando, strada facendo, rimetteremo al centro della nostra attenzione la parola-chiave “tragedia”. Si deve affermare [e per ora ci fermiamo qui] che la riscoperta di Dioniso e dei riti dionisiaci è una scoperta culturale recente e gran parte del merito va dato a Friedrich Nietzsche, il cui saggio La nascita della tragedia del 1872 ha inaugurato un modo nuovo di considerare la Grecità: secondo Nietzsche [1844-1900] la grandezza della cultura greca è il risultato della sintesi delle contrastanti caratteristiche di Apollo e di Dioniso. La cultura greca che abbiamo ereditato è una sintesi tra la spiritualità di Apollo fatta di equilibrio, di armonia, di euritmia e la spiritualità dionisiaca, simmetrica e contraria, fatta di irrazionalità, «derivante [scrive Nietzsche] dallo stato di vigore animale che ciascuno possiede perché la vita ha un suo lato oscuro e istintuale che è necessario alla sopportazione dell’esistenza e allo sviluppo della creatività». Per dare “umanità”, in modo equilibrato e armonico, alla nostra esistenza dobbiamo imparare a confrontarci con la nostra “animalità istintuale”: siamo insieme benignità e crudeltà, siamo contemporaneamente armonia e schizofrenia, persone angeliche e diaboliche allo stesso tempo, siamo simultaneamente Apollo e Dioniso, siamo insieme ragione e istinto!

     Al termine di questo lungo ragionamento, ci dobbiamo domandare: gli umani hanno davvero approfittato della pandemia per riflettere su ciò che sono, oppure continuano a brancolare nel buio perché la debolezza cognitiva, fenomeno largamente diffuso tra gli umani, non permette di fare luce?

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

A volte diciamo: “quella volta ho agito d’impulso, ed è andato tutto bene”.  Oppure diciamo: “quella volta ho agito d’impulso, e ho sbagliato”...  

Scrivete quattro righe in proposito …

     E ora proseguiamo nella lettura del testo del Capitolo XI  della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo XI. La grande quarantena

La gatta bianca guadagnò la torretta irta di antenne arrugginite di vecchi televisori, reclinate e intrecciate come ossa in un cimitero di belve, e invasa dalle parabole cresciute come giganteschi funghi velenosi in un bosco pietrificato. La prima cosa che notò fu che non era presidiata come al solito dal bieco gabbiano di guardia, enorme organismo mutante che dell’uccello marino conservava ormai solo il grido sgraziato. Con l’andare degli anni aveva allenato l’udito a ignorarlo, per non farsi sfuggire i sempre meno numerosi messaggi degli uccelli più piccoli. Ma non fece in tempo a dirsi altro che oltre il bordo della torretta si spalancò la visione.

La grande città si dominava quasi tutta dalla cima della casa - il che non era estraneo alla scelta di farsi accudire dai suoi inquilini, se pure senza impegno e conservando la sua libertà di movimento, indipendenza di giudizio, licenza di lunghe sortite non annunciate e peraltro mai particolarmente notate da quel distratto nucleo umano.

I rumori della città in genere salivano fin lassù, solo un po’ attutiti, insieme all’odore del fumo delle automobili che brulicavano nei viali lungo il fiume attraverso i ponti e fino alle strade laterali, spartendosi come una colonna di formiche, arrotolandosi intorno alle piazze come una colonia di lombrichi, scalando e scavalcando i colli, senza diradarsi, ma anzi infittendosi nelle tangenziali e riversandosi nelle periferie per poi confluire in parte nelle arterie suburbane. Un unico getto di metallo pervadeva d’abitudine la grande città in ogni suo capillare. Ma adesso quel sistema circolatorio era completamente sgombro. Solo il soffio del vento e la luce scarlatta del sole scorrevano come sangue fresco, pulito, nelle sue vene. Notò un piccolo stormo di rondini planare dal fiume verso la sua postazione, lente, composte e pettegole come suore. Quando le salutò gentilmente e domandò loro che nuove portassero, fu tutto un accavallarsi e un rincorrersi di cinguettii. Gli umani erano imprigionati nelle loro case, in ogni quartiere della città, annunciò una. Gli uffici, le scuole, i bar, i negozi erano chiusi, tranne quelli di medicine e alimentari e fortunatamente i negozi di cibo per animali. Lo erano in tutte le città, e non solo di quella regione, aggiunse un’altra, che lo aveva saputo da una cinciallegra in transito. Non c’era bisogno di interpellare i migranti, la rimbeccò una terza: in quel silenzio bastava ascoltare i segnali delle colonie di uccelli che di ramo in ramo, di tetto in tetto, di traliccio in traliccio avevano cominciato a trasmettere, per fare luce, le nuove, sconvolgenti, esclusive notizie da tutta la terra. ...

     La raccolta di dodici racconti intitolata Gesù, fate luce dello scrittore Domenico Rea [1921-1994] è stata pubblicata per la prima volta nel 1950. Questi racconti sono ambientati a Napoli e provincia nel periodo tra la caduta del fascismo e la partenza degli Alleati anglo-americani dal Sud: un periodo difficile e, forse, più gravoso di quello che stiamo vivendo oggi. Sono storie che parlano di un’umanità sofferente e molto affaticata, colta nella sua quotidianità [c’è la coppia che litiga in modo scomposto, il tipo che sbarca il lunario facendo il finto-zoppo, c’è il mendicante che sfama i suoi rubando dalla cantina di un convento, c’è il contadino che coltiva una passione selvaggia e rovinosa per una sua coetanea, e così via].

     Domenico Rea riesce sempre [secondo lo stile di Euripide] a far procedere ogni suo racconto sulla linea sottile del confine che c’è tra il tragico e il comico.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura

Richiedete in biblioteca Gesù, fate luce di Domenico Rea e leggetene qualche pagina perché, nonostante siano passati più di settantacinque anni, in questi racconti non manca l’attualità...

     E adesso terminiamo la lettura del testo del Capitolo XI  della Favola di Filelfo.

Filelfo, L’assemblea degli animali

Capitolo XI. La grande quarantena

Gli uccelli che di ramo in ramo, di tetto in tetto, di traliccio in traliccio avevano cominciato a trasmettere le nuove, sconvolgenti, esclusive notizie da tutta la terra furono interrotti, e questo sorprese anche la gatta, cosa che avveniva di rado, da un suono che si alzava dai balconi intorno. Era musica. Gli umani chiusi nelle loro gabbie stavano cantando proprio come gli uccelli. O, meglio, come uccelli in gabbia.

E la gatta bianca pensava che - invece che perdere tempo in retorici canti, in sentimentalistici incoraggiamenti e schizofreniche dichiarazioni di intenti - ci sarebbe voluta una nuova grande assemblea dove il cane sarebbe riuscito a parlare e se la sarebbe cavata molto bene. La montagna sarebbe stata gremita e così la baia.

Nel luogo segreto in cui prima si riunivano solo gli animali adesso sarebbero arrivati anche gli umani - uomini donne, bambine e bambini - ma solo quelli che avevano compreso che la cura dipende dallo studio: costoro sarebbero stati i nuovi giusti e non importava che avessero vere ali di uccello o pinne di pesce o orecchie di cane, ma che le sentissero in sé e avessero compreso, come sosteneva Plutarco, che ogni virtù esiste negli animali in misura maggiore che nella più grande persona sapiente. Spacca un legno e l’anima del mondo è là dentro, alza una pietra e lì la troverai.

E la gatta bianca, mentre si guardava intorno, confidava ci fossero davvero queste persone di buona volontà, presenti e confuse tra la gente comune e, sebbene fossero prese in mille fatiche e problemi, sperava fossero pronte e disposte a investire in intelligenza per poter ricostruire umilmente una nuova arca: un’arca nuova che potesse contenere l’Umanità intera finché sarebbe durata la Terra. ...

     Queste sono le ultime parole della Favola di Filelfo da noi utilizzate, e di questa Favola intitolata L’assemblea degli animali] potete completare la lettura per conto vostro: trovate il Libro che ne contiene il testo integrale in biblioteca, e poi vi invito a fare “i compiti per le vacanze” seguendo le indicazioni dei REPERTORI ... degli itinerari di questo Percorso sospeso perché [come sapete] l’esercizio dell’apprendimento corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito.

     Le parole riassuntive della Favola [di tutte le Favole, ci suggerisce La Fontaine] non possono che essere: de te fabula narratur, perché, da sempre, il genere letterario della favola parla di ciascuna e di ciascuno di noi e, in senso lato, della decisione che abbiamo preso: la decisione di frequentare la Scuola e di non perdere mai la volontà di imparare perché lo studio è cura.

     Prima di concludere dobbiamo ricordare brevemente due tristi avvenimenti, il primo riguarda il disastroso incendio che, venerdì scorso, ha distrutto il tetto del centro commerciale della Coop. di Ponte a Greve. Lo Spazio-Soci di questo grande edificio è il punto d’incontro del gruppo più numeroso della nostra esperienza didattica: si parla di mesi prima che questa struttura possa tornare agibile e questa notizia ci lascia, per il momento, senza parole.

     Il secondo avvenimento riguarda la scomparsa di una persona amica della nostra esperienza scolastica: la mattina del 21 maggio ci ha lasciato, poco prima di compiere 86 anni, Giuliano Scabia: poeta luminoso, inventore di teatro fuori dai ranghi e fantastico narratore. Giuliano, con la sua solita bravura, nel 1988 e nel 1989, nel corso di due manifestazioni pubbliche tenute nelle Sale dei Consigli comunali di Impruneta e di Bagno a Ripoli, ha presentato i nostri Libri A due passi da San Gersolè e Scrivere a mezzanotte. A lui dedichiamo questo itinerario, e voi potete, navigando in rete, far conoscenza con questo personaggio e potete - dopo averli richiesti in biblioteca - leggere i suoi Libri.

     A breve riceverete un messaggio contenente il testo del tradizionale Questionario di fine anno. Il Questionario, come sapete, è uno strumento che serve per dare una forma al territorio che abbiamo attraversato: il Questionario di quest’anno contiene venti parole e - dopo averle lette con attenzione - potete sceglierne due a vostro piacimento e, dopo averle scritte, potete rispedire il messaggio all’indirizzo dell’Associazione. Vi invito a fare diligentemente la vostra scelta.

     Al termine di questo Percorso sospeso auspichiamo di poter ricevere, dopo l’estate, il buon annuncio che la Scuola riprende a viaggiare in presenza secondo il ritmo che le è proprio sulla via che porta dalla metà del Seicento al secolo dei Lumi.

     Con questa speranza nella mente e nel cuore ricevete, care compagne e cari compagni di Scuola, il mio affettuoso abbraccio anche se ancora - per doverosa e necessaria prudenza - nell’ambito di quel significativo paradosso che consiste nel mantenere le distanze restando uniti.

     E, infine, scenda su di voi l’augurio che possiate trascorrere una buona estate di studio perché lo studio corrobora, rinfranca e ritempra lo spirito!

     Arrivederci…

 

Lezione del: 
Mercoledì, Giugno 9, 2021