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SULLA VIA CHE PORTA VERSO IL SECOLO DEI LUMI NEL GENERE LETTERARIO DELLA FAVOLA VIENE AFFRONTATO IL TEMA DEL POPOLO OPPRESSO, MENTRE IL TEMA DELLE PASSIONI VIENE EVIDENZIATO NEL DRAMMA IN VERSI ...

Lezione N.: 
4

ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»

PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

La sapienza poetica e filosofica sulla via che porta verso il secolo dei Lumi III

Bagno a Ripoli 24 novembre - Tavarnuzze 25 novembre 2021

Firenze prima il 26 novembre 2021 e Firenze seconda il 03 dicembre  2021

SULLA VIA CHE PORTA VERSO IL SECOLO DEI LUMI

NEL GENERE LETTERARIO DELLA FAVOLA VIENE AFFRONTATO IL TEMA DEL POPOLO OPPRESSO,

MENTRE IL TEMA DELLE PASSIONI VIENE EVIDENZIATO NEL DRAMMA IN VERSI  ...

     Questo è il quarto itinerario del nostro viaggio sulla via che conduce dalla seconda metà del Seicento al secolo dei Lumi [il ‘700] e, come senz’altro ricorderete, ci troviamo ancora in compagnia di Jean de La Fontaine per parlare dei temi che emergono dalla sua opera più importante: le Favole, e abbiamo capito che le Favole di La Fontaine costituiscono un complesso apparato letterario: le Favole non sono semplicemente un prodotto a uso dell’infanzia, né una merce letteraria di seconda mano.

     Nelle Favole di La Fontaine, così come nel genere letterario della favola in generale, c’è un gruppo di animali [come abbiamo studiato nell’itinerario precedente] i quali risultano essere maggiormente protagonisti in quanto, secondo la tradizione, sono particolarmente funzionali alla narrazione come il leone, la volpe, il lupo, il topo e l’asino, e nell’itinerario precedente abbiamo lasciato in sospeso un tema che riguarda proprio l’asino, che è l’animale da cui si impara di più nelle Favole.

     L’asino nelle favole, tanto antiche che moderne, rappresenta anche “il popolo oppresso” [il popolo ignorante e beota che subisce senza ribellarsi gli effetti del sistema di distrazione di massa], e una conferma di ciò viene fornita da una delle composizioni più emblematiche di La Fontaine intitolata Il vecchio e l’asino e noi, ora, venendo a contatto con il testo di questa favola, cogliamo l’occasione per fare un esercizio di comparazione filologica in modo da comprendere meglio la differenza tra la favola antica [quella greca di Esopo e latina di Fedro] e la favola moderna. Per fare questo esercizio è utile leggere il testo [il cui contenuto lo conoscete certamente] de Il vecchio e l’asino sia nella versione antica di Fedro, che è simile a quella greca di Esopo vissuto sei secoli prima di Fedro, che nella versione moderna di La Fontaine: i due testi andrebbero letti in latino [quello di Fedro] e in francese [quello di La Fontaine] ma noi ci serviamo delle traduzioni in italiano, e iniziamo da Fedro che scrive all’inizio del I secolo, a Roma, durante l’Età di Augusto.

Fedro, Il vecchio e l’asino

Questa breve favola insegna che in ogni cambiamento di regime

per i poveri non cambia altro se non il nome del padrone.

Un vecchio, preoccupato di perdere la sua unica ricchezza,

a causa dell’arrivo dei nemici, si mise a persuadere il suo asino,

che stava pascolando, sulla necessità di fuggire, ma l’asino senza turbarsi

rispose che il vincitore non gli avrebbe messo in groppa due basti

e allora, dato che il carico sarebbe rimasto sempre dello stesso peso,

per un asino cambiare padrone quale vantaggio gli avrebbe reso? …

     Nel testo di Fedro pare proprio che il consiglio dato ai servi sia quello di rassegnarsi alla loro condizione, e durante l’età di Augusto c’è, infatti, una categoria [quella degli schiavi soggetti solo a imposizioni] di cui lo stesso poeta fa parte, che costringe i suoi membri a ragionare come l’asino il quale, se è vero che non ha nulla da perdere, è però altrettanto vero che nel suo atteggiamento non c’è nessun senso di ribellione ma c’è solo una definitiva rassegnazione a subire tutte le sconfitte e a prendere le legnate di tutti i padroni [si perpetua La servitù volontaria, come scrive Étienne de La Boétie dal 1576, l’amico fraterno di Montaigne che abbiamo incontrato recentemente].

     E ora leggiamo come interpreta La Fontaine questa favola: in modo da dare adito a una serie di riflessioni riguardanti la condizione umana che da 2500 anni a questa parte sembra aver cambiato poco i suoi connotati di base.

Jean de La Fontaine, Favole

Il vecchio e l’asino

Un vecchio sul suo asino passando vide un prato

pieno d’un’erba tenera, deliziosa da mangiare

e lasciò che la sua bestia entrasse a pascolare.

E l’asino saltando e ruzzolando e sgambettando,

mangiò dell’erba tanto e tanto ancor più tanto.

Ma tosto, sul più bello, arriva il padrone di quel campicello.

Allora il vecchio spronando l’asino colle calcagna

comanda: «Andiamo poltrone, fuggiamo per la compagna».

«Perché fuggire?» dice la bestia. «C’è forse il pericolo in sospeso

ch’io debba portare in groppa un basto di doppio peso?».

«Non dico questo» rispose il vecchio. «E allora lasciami in pace

perché voglio finire questo pasto che assai mi piace.

Il nemico è il padrone certamente, ma per me è indifferente

servire a questo o a quello: e te lo dice, a chiare lettere, un asinello». …

     Questa è una delle Favole di La Fontaine su cui si sono maggiormente esercitate le commentatrici e i commentatori identificando l’asino con il popolo.

    Il testo della favola di La Fontaine intitolata Il vecchio e l’asino che abbiamo appena letto è stato interpretato in vari modi. C’è chi ha sostenuto che con questa favola l’autore abbia voluto comunicare direttamente un messaggio “rivoluzionario” [che si è concretizzato nel secolo successivo, il secolo dei Lumi] perché nessuno degli scrittori del suo tempo ha osato così esplicitamente attaccare l’autorità regia: il vecchio della favola simboleggerebbe il Re-Sole, il padrone per eccellenza, quindi, il nemico primario da combattere, a cui ribellarsi. C’è poi chi ha sostenuto, invece, che La Fontaine abbia voluto soltanto constatare la triste condizione del popolo [dell’asino] senza però tirare delle esplicite conseguenze politico-sociali e che il poeta, con il testo di questa favola, abbia voluto rappresentare l’eterna rivolta dei giovani contro i vecchi anche se quest’ultima interpretazione regge poco perché certi versi, come: «Il nemico è certamente il padrone ... te lo dice, a chiare lettere, un servo (un asinello)»] suonano come una sfida che richiama ogni individuo subalterno ad assumersi le proprie responsabilità politiche, in modo che la persona asservita prenda coscienza del fatto che la condizione della povera gente non migliorerà mai perché qualsiasi cambiamento di governo risulterà infruttuoso finché lo Stato sarà in mano alla monarchia assoluta, e la concessione apparentemente umanitaria di non portare un doppio basto e una doppia soma viene fatta a chi serve da qualsiasi padrone [allude La Fontaine] ma solo per evitare che il servitore schianti, in modo che possa continuare a servire [come deve ammettere anche il vecchio nella favola che abbiamo letto] e, quindi, sembra evidente che La Fontaine indichi come “nemiche” le classi padronali privilegiate e profittatrici. L’asino è l’animale per antonomasia che porta il basto e la soma [cioè, il peso delle classi privilegiate] ma si deve anche notare come La Fontaine voglia mettere in scena la straordinaria vivacità di questo allegorico animale che, vista la tenera erba del prato, ci si rotola dentro, strofinandosi tutto felice, «sgambettando, ragliando e brucando» e, di conseguenza, si comporta proprio come il gigante Gargantua in molte sequenze del romanzo Gargantua e Pantagruel di Rabelais: La Fontaine esige che la lettrice e il lettore riflettano e si domandino anche se questo asino “poltrone” [paillard] sia davvero un rivoluzionario oppure sia semplicemente un utilitarista di corte vedute che gode l’attimo fuggente di libertà senza preoccuparsi del domani. In La Fontaine il simbolo dell’asino si associa anche all’idea di una esplosione gioiosa di vita, quasi di un libertinaggio pieno di vigore e di salute e, quindi, questo animale non rappresenta solo “la sciocchezza del singolo” ma anche “il popolo che manifesta tutte le sue contraddizioni” [tanto inconsapevolmente rivoluzionario quanto perentoriamente utilitarista], e nel testo di questa favola Il vecchio e l’asino “il tema del popolo” è in evidenza come lo è in molte composizioni di La Fontaine e questo fatto fa di lui un precursore: stiamo percorrendo la via che porta dalla metà del ‘600 al secolo dei Lumi quando “il popolo” assumerà nel corso del ‘700 un ruolo sul terreno della politica.

     Nel ‘600 il popolo non ha parte alcuna nella vita politica ma nelle Favole di La Fontaine, sebbene emarginato sul piano istituzionale, il popolo appare come protagonista e possiamo constatare anche come il poeta abbia saputo utilizzare il vastissimo materiale linguistico che ha desunto dal repertorio popolare: nel lessico, nelle forme sintattiche, nei proverbi. E, leggendo le Favole di La Fontaine, ci si rende conto che esiste un vero e proprio “ciclo del popolo” nel corso del quale l’atteggiamento dell’autore si modifica volta per volta: è un atteggiamento corretto perché non è facile giudicare una categoria così complessa e sfuggente come quella di “popolo” e [come abbiamo già detto] La Fontaine si dimostra un precursore perché la sua riflessione è già proiettata verso il secolo dei Lumi, un’epoca in cui il popolo, come categoria, sembra avere un ruolo nella Storia.

     In proposito possiamo esaminare due favole esemplari nelle quali il popolo viene visto sia in modo sfavorevole che favorevole.

     Nel testo della favola Democrito e gli Abderiti il poeta mette in evidenza la deleteria mentalità della gente ignorante, vuole sottolineare la nefasta “asinità” dei popolani che non si sforzano di capire gli insegnamenti dei filosofi: infatti gli Abderiti [gli abitanti di Abdera, la città di Democrito] si credono saggi e pensano che Democrito - il quale esprime il suo pensiero atomistico - sia impazzito, ma naturalmente si ingannano perché “il giudizio del popolo è cieco” [non vede gli atomi, le particelle invisibili che formano la realtà] e La Fontaine si chiede, perplesso e sarcastico, se sia proprio vera la convinzione [vox populi vox Dei] che la voce del popolo sia la voce di Dio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su un volume contenente le Favole di La Fontaine [che sarà pure nella vostra biblioteca domestica] e navigando in rete leggete il testo di  Democrito e gli Abderiti...

     Un’altra favola significativa relativa al nostro tema s’intitola Il mercante, il nobile, il pastore e il principe. Il testo di questa composizione narra che nel corso di un naufragio si ritrovano insieme su un’isola al largo delle coste americane quattro personaggi di diversa estrazione sociale, i quali si consigliano sul da farsi, ed è il pastore [il rappresentante del popolo] quello in grado di prendere in mano la situazione per suggerire, con molto buon senso, che è necessario mettersi al lavoro, e siccome rispetto al mercante [esperto nel contar denaro], al nobile [che sa ballare bene] e al principe [che conosce l’araldica] l’unico provvisto di competenza per svolgere un lavoro manuale è il pastore [è il popolo], di conseguenza, è necessario sia lui - se vogliono farsi passar la fame - a governare le operazioni dirigendo la divisione del lavoro che va equamente ripartito. Qui La Fontaine dimostra tutta la sua vicinanza al popolo, un popolo che, in quello che viene chiamato “il gran secolo” [il ‘600], è decimato dalle continue guerre e, con esse, dalle carestie e dalle epidemie. In una società profondamente malata, nella quale si ringrazia Dio per le vittorie militari al canto del Te Deum mentre la gente muore di fame, La Fontaine si schiera con la gente del popolo: l’eco di Port-Royal [che si concretizza nell’ammonimento “Prima gli ultimi”] è entrato anche nella sua mente.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su un volume contenente le Favole di La Fontaine [che sarà pure nella vostra biblioteca domestica] e navigando in rete leggete il testo di  Il mercante, il nobile, il pastore e il principe...

     Di La Fontaine dobbiamo ancora conoscere due opere: la prima - davvero curiosa - lo mette anche in rapporto diretto con una delle attività praticate dall’abbazia di Port-Royal, quella della distribuzione di farmaci secondo il pensiero di Ildegarda di Bingen. Ma di che cosa si tratta, di che cosa stiamo parlando?

      Uno dei più curiosi poemi di La Fontaine [e del ‘600] s’intitola Poema della china [Poème du Quinquina]. I versi di questo componimento sono un po’ forzati perché l’argomento di cui tratta non si presta tanto facilmente alla poesia, tuttavia l’interesse di questa composizione risulta rilevante sul piano ideologico, e la genesi della sua elaborazione è assai curiosa. Dobbiamo sapere che quando dal 1632 viene introdotta in Europa una nuova pianta medicamentosa in Francia, scoppia una violenta polemica: stiamo parlando di una pianta arborea sempreverde [quinaquina o cinchona] della famiglia delle rubiacee originaria dell’America Meridionale dalla cui corteccia seccata al sole si ottiene una droga, una spezia amara antifebbrile, la china, nota in Europa anche con il nome di “corteccia dei Gesuiti” [che l’hanno portata in Europa] o “polvere della contessa” perché il termine “cinchona” deriva dal nome della contessa di Chinchón, una nobildonna spagnola moglie di uno dei viceré del Perù, Luis Jerónimo Fernández de Cabrera, che è guarita da un attacco di febbre terzana quando nel 1630 il suo medico, Juan de Vega, l’ha curata con la scorza [la china] de “l’albero delle febbri”, un rimedio conosciuto e utilizzato dagli Indios locali. Ebbene, quando questo medicamento ha fatto la sua comparsa in Europa, i medici conservatori, soprattutto in Francia, si oppongono al suo utilizzo, considerato come qualcosa di affatturato, di sciamanico [tutti i medicamenti che provengono dal mondo indigeno sono visti con sospetto] e difendono, in caso di febbre, il metodo tradizionale  fondato sulle purghe e sui salassi mentre alcuni medici, che aderiscono al movimento dei solitari di Port-Royal e insegnano alla facoltà di Medicina della Sorbona, hanno sperimentato [usando la ragionevolezza] le qualità terapeutiche del chinino, che è stato subito preparato e distribuito dalla farmacia dell’abbazia di Port-Royal con conseguenze positive sulla salute pubblica. La “disputa sulla china” trova linfa vitale nei salotti parigini, e nella polemica contro i detrattori del chinino interviene, con la sua consueta foga, l’irrequieta duchessa di Bouillon, che, affascinata da tutto ciò che arriva dal Nuovo Mondo, chiede a La Fontaine di scrivere un poema sull’efficacia medica di questa nuova droga: il poeta ubbidisce volentieri alla richiesta della duchessa legando per sempre il suo nome alla diffusione di un medicinale che si è dimostrato molto utile. Ma la cosa più significativa è che con Il poema sulla china La Fontaine ha fatto sì che una materia, che era fino ad allora riservata esclusivamente alla scienza e alla medicina, viene “conquistata” dalla poesia e, in effetti, occorreva coraggio per descrivere in versi la circolazione del sangue e il meccanismo della febbre: La Fontaine si è impegnato e, nonostante quest’opera non sia particolarmente facile e divertente da leggere, l’esperimento è riuscito.

     Bisogna anche dire che nel testo di questo poema [a conferma dell'audacia intellettuale dell’autore] La Fontaine fa riferimento “alla bontà dello stile di vita dei popoli [così detti] primitivi” [così chiamati dalle studiose e dagli studiosi di antropologia perché praticano la raccolta dei prodotti primari a diretto contatto con la Natura] e, oltre agli Indios del Sud-America, che hanno scoperto e usato il chinino prima dei civilissimi europei, cita anche il popolo nord-americano [canadese] degli Irochesi, contro i quali la monarchia francese sta conducendo una guerra di conquista [di sterminio], i quali «vivono felici e liberi per merito delle loro Leggi, Arti e Scienze che i colonizzatori europei non comprendono perché [afferma La Fontaine] si sentono erroneamente superiori e incomprensibilmente padroni della civiltà». Questo passo ci ricorda che anche Montaigne nei Saggi ha esaltato [se vi ricordate] la purezza incontaminata dei selvaggi [dei Tupinamba del Brasile] prima della così detta “civilizzazione” e, quindi, nel pensiero di La Fontaine, come in quello di Montaigne e di Pascal, affiora una scelta ideologica contro “la civiltà colonialista” che trova conferma nelle Favole, in particolare in quella vera e propria composizione anticolonialistica che è Il contadino del Danubio.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su un volume contenente le Favole di La Fontaine [che sarà pure nella vostra biblioteca domestica] e navigando in rete leggete il testo di Il contadino del Danubio...

Non si può non ricordare che la china è anche una spezia utile per produrre un buon liquore digestivo .. Avete mai assaggiato un bicchierino di vermut-chinato o di barolo-chinato?... 

Il gusto di questi liquori [non più di moda] ci riporta all’epoca del Risorgimento e, magari, il loro sapore ci suggerisce [proustianamente] di scrivere quattro righe in proposito: un sorso di china merita una frase suggerita dalle papille gustative...

     C’è ancora un’opera di La Fontaine da prendere in considerazione: un’opera con la quale fa sentire la sua voce nel corso di un’epocale polemica intellettuale dai notevoli risvolti sia sul piano politico che letterario. Di che cosa stiamo parlando?

     Jean de La Fontaine nel 1687 compone un’opera in forma di Lettera, un’Epistola con la quale interviene nella “Querelle des Anciens et des Modernes [la Polemica degli Antichi e dei Moderni]. Questa disputa è famosa perché ha attraversato diverse epoche: è iniziata durante il Rinascimento in Italia e continua, in tutta Europa, fino in tarda età moderna. Noi [senza uscire dalla strada che stiamo percorrendo] ci atteniamo a ciò che succede in Francia alla metà del ‘600 quando, in proposito, si fronteggiano due opposte correnti: quella degli Antichi e quella dei Moderni.

     La corrente degli Antichi è capeggiata dal poeta e critico letterario Nicolas Boileau, e gli Antichi sono sostenitori di una concezione particolare della creazione artistica: ritengono che gli autori di opere [letterarie, musicali, teatrali] debbano far riferimento nella forma e nei contenuti ai Classici greci e latini che, secondo il loro parere, hanno raggiunto una volta per tutte la completezza artistica e che, pertanto, essendo quasi impossibile fare meglio, è utile e necessario imitarne lo stile. Per illustrare bene questa concezione sul piano letterario è esemplare la scelta del poeta Jean Racine [che incontreremo a breve] il quale decide di scrivere le sue Tragedie ispirandosi a soggetti già trattati dai tragediografi greci e latini, rispettando pienamente le regole elaborate dai poeti classici sulla scia della Poetica di Aristotele, tenendo anche conto del fatto che i grandi temi riguardanti la condizione umana, così come li hanno trattati gli Antichi nelle loro opere, si stanno riproponendo, pari pari, in Età moderna.

     La corrente dei Moderni è rappresentata da Charles Perrault, l’autore del famoso libro in cui Perrault riscrive le fiabe in forma moderna intitolato I racconti di Mamma Oca. I Moderni sostengono che gli autori contemporanei [gli artisti del secolo di Luigi XIV] possiedono alte qualità e, quindi, affermano che gli autori classici non sono affatto insuperabili e, di conseguenza, ritengono che gli scrittori debbano rinnovarsi per creare una Letteratura che sia interprete dell’epoca attuale esprimendosi in nuove forme artistiche.

     Queste sono le posizioni che emergono nel dibattito pubblico ma “la Polemica degli Antichi e dei Moderni” nasconde uno scontro ideologico più profondo che non riguarda solo l’estetica ma soprattutto la politica, perché gli Antichi, capeggiati da Boileau, condividono le idee di Port-Royal e, difendendo i Classici, vogliono difendere anche la libertà di pensiero [come fanno gli autori greci e latini nelle loro opere spesso orientate contro la tirannide] perché la monarchia assoluta intende restringere e reprimere l’autonomia degli autori e, difatti, sotto l’aspetto progressista dei Moderni,  capeggiati da Perrault, si nascondono i giochi di potere di chi sostiene l’operato autoritario del Re-Sole con la produzione di opere encomiastiche ed elogiative nei confronti dell’operato, non sempre da elogiare, del monarca assoluto che, naturalmente, dispensa favori [dando la patente di “moderno”] a chi lo glorifica.

     In definitiva, paradossalmente, succede che i sostenitori degli Antichi [che ascoltano l’eco di Port-Royal] sono i difensori dei valori libertari rispetto ai Moderni che [fedeli al potere monarchico assoluto] sostengono [a volte tappandosi il naso] le posizioni reazionarie della corte: la caccia agli infedeli, le guerre coloniali, il disinteresse per lo stato sociale. Quando nel 1687 Charles Perrault scrive un’opera per esaltare l’epoca di Luigi XIV La Fontaine [che, come sappiamo, è in conflitto con la corte] risponde con l’Epistola [Épître] a Huet, una Lettera indirizzata a Pierre Daniel Huet, un prelato [è stato vescovo di Soissons e di Avranches] e un letterato [ha curato la collezione Ad usum Delphini, la riduzione delle opere dei Classici per facilitare la formazione culturale del figlio del re di Francia, il Delfino, il futuro monarca, che avrebbe dovuto essere una persona istruita].

     Nella Epistola [Épître] a Huet La Fontaine si schiera dalla parte degli Antichi e dimostra come Omero, Virgilio, Terenzio e Orazio siano dei modelli letterari ineguagliabili perché gli stessi autori moderni - che lui apprezza e ai quali s’ispira come Boccaccio, Machiavelli, Ariosto e Tasso [tanto per citarne alcuni] - sono diventati “moderni” [evoluti sul piano intellettuale] proprio perché hanno fatto tesoro dell’insegnamento dei Classici e, quindi [afferma La Fontaine], non si può prescindere dalle opere degli Antichi se si vuole diventare autori moderni [capaci di investire in intelligenza].

     E ora dobbiamo aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura: chi vuole approfondire la molto interessante questione riguardante “La polemica degli Antichi e dei Moderni” può utilizzare il saggio dell’eminente studioso Marc Fumaroli intitolato Le api e i ragni, tenendo conto del fatto che il curioso titolo di quest’opera deriva da una citazione allegorica proveniente da un celebre testo intitolato La battaglia dei libri di Jonathan Swift [lo scrittore nato nel 1667 e morto nel 1745 a Dublino che tutti conoscete come autore de I viaggi di Gulliver in cui mette in luce quanto possa essere nefasta la presunzione umana]. Swift scrive: «Gli Antichi sono come le api che traggono dalla natura il miele che fabbricano e i Moderni sono come i ragni che attingono ai loro stessi escrementi per filare la propria scienza». La Battaglia che Swift racconta nel suo libro è il simbolo stesso della epocale disputa tra gli Antichi e i Moderni, e il suo racconto non può che essere satirico [con forte vena sarcastica] secondo il suo stile. Sono i libri e non le persone a combattere l’epica battaglia tra gli Antichi e i Moderni: sono i libri a versare l’inchiostro, a perdere le pagine, a vedere ferite le loro copertine, sono i libri ad essere considerati pericolosi tanto da essere rinchiusi in gabbie perché “le parole” sono una delle armi più potenti che l’essere umano ha a disposizione, e la penna, la carta e l’inchiostro sono gli strumenti più importanti e più autorevoli di cui servirsi. Jonathan Swift mostra come il passato rivaleggi sempre con il presente, e dimostra quanto sia virtuoso questo scontro generazionale perché senza conoscere il passato [i Libri che contengono le opere degli Antichi] non può esserci “un tempo che sia autenticamente odierno” [esistente nei Libri che contengono le opere della modernità].

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca potete richiedere Le api e i ragni di Marc Fumaroli e La battaglia dei libri di Jonathan Swift: due opere che anche Jean de La Fontaine avrebbe letto con piacere…

     Adriana Zarri, che ci sta accompagnando in questo viaggio è fortemente interessata a vivere pienamente il presente e per attuare il suo progetto sceglie - e questo può sembrare paradossale - l’eremitaggio. E, quindi, non ci resta che ascoltare le sue riflessioni in proposito: perché l’eremita non inquadrato [si domanda Adriana Zarri] diventa una figura sospetta: all’eremitaggio, al monachesimo è utile e necessario l’inquadramento canonico? [Né i Padri del deserto né i Solitari di Port-Royal erano inquadrati].

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca

Qui, al Molinasso, la mia vita è molto semplice; e il lavoro si alterna alla preghiera.

È una vita che segue alcune norme e soprattutto s’impegna a incarnare dei valori; ma senza forme né strutture speciali. Anche se faccio professione monastica, spero che non mi penserete con un saio o una qualsiasi divisa. E qui io non vorrei confondervi le idee perché, da troppi secoli, il monaco s’è fatto religioso: si è, cioè, dato una struttura e una costituzione riconosciuta e vigilata dalla Chiesa, attraverso i suoi organi ufficiali. Ed è questa struttura, questa gerarchia, questo riconoscimento giuridico che rende i monaci religiosi. 

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     Uno degli esponenti più significativi della corrente degli Antichi [come abbiamo detto] è il poeta Jean Racine, grande amico di La Fontaine, che decide di scrivere le sue Tragedie ispirandosi, nelle forme e nei contenuti, ai Classici ma il quadro della situazione, quando entra in scena Racine, si presenta in modo molto più complesso.

     Chi è Jean Racine, che valore hanno le sue opere ma, soprattutto, perché è da considerarsi un personaggio emblematico a causa della sua ambiguità?

     Jean Racine è il massimo esponente [assieme a Pierre Corneille] del teatro tragico francese del Seicento ed è un personaggio emblematico a causa della sua ambiguità [e la figura di Racine va studiata tenendo conto di questa caratteristica].

     Le scelte ambigue che Racine ha fatto nel corso della sua esistenza illustrano bene il comportamento spesso incoerente degli intellettuali che abitano nella zona grigia del territorio che stiamo attraversando, compreso cronologicamente tra la metà del ‘600 e il secolo dei Lumi. Racine è il personaggio che, rispetto a Molière e a La Fontaine, vive in modo più drammatico la contraddizione [di cui è consapevole] che viene a crearsi nel momento in cui sente una forte attrazione tanto per le idee maturate a Port-Royal che ne condizionano il pensiero quanto per il consenso che, come artista, ama ricevere da “il bel mondo” della corte. Racine vorrebbe tenere il piede in due staffe ma non ci può essere una conciliazione tra due realtà così differenti [il pensiero giansenista di Port-Royal da una parte e l’ideologia assolutista della corte dall’altra], e un atteggiamento altalenante non può che generare sensi di colpa e pensieri tragici [caratteri che si riverberano sul dramma]: Racine decide di convivere con questa discrepanza diventando un personaggio emblematico per la sua ambiguità, e questo lo rende una figura utile per capire la complessità della modernità. Ma chi è Jean Racine?

     Jean Racine nasce il 22 dicembre 1639 a La Ferté-Milon, una piccola cittadina [oggi di circa 2500 abitanti] nel dipartimento dell’Aisne nella regione dell’Alta Francia, situata sulle rive del fiume Ourcq e sovrastata dalla grande facciata di un imponente castello [il castello del duca d’Orleans, uno scenario che merita di essere visto].

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Con una guida della Francia e navigando in rete fate un’escursione a La Ferté-Milon dove – oltre alle chiese di Saint-Nicolas e di Notre-Dame - c’è da visitare anche il Museo dedicato a Jean Racine ospitato nella casa della nonna paterna, buon viaggio… 

     Quella di Racine è una famiglia di fede giansenista, coltivata in primis dalla nonna paterna, e, quindi, profondamente legata al pensiero di Port-Royal. Anche il padre di Racine si chiama Jean e la madre Jeanne Sconin la quale, purtroppo - essendo rimasta nuovamente incinta poco dopo la nascita di Jean - muore [nel gennaio 1641 quando Jean ha tredici mesi] dando alla luce una bambina alla quale viene dato il nome di Marie. Due anni dopo muore anche il padre e il piccolo Jean viene affidato ai nonni paterni [Jean Racine e Marie Desmoulins], mentre Marie viene accolta dai nonni materni. La nonna Marie Desmoulins [nella cui casa oggi è ospitato il Museo Jean Racine di La Ferté-Milon] è un’assidua frequentatrice di Port-Royal e, quindi, porta con sé, fin da bambino, durante i suoi ritiri spirituali, anche Jean che nel 1646 comincia a frequentare le Piccole Scuole [les Petites Écoles] di Port-Royal. Poi Jean dal 1653 al 1655 frequenta anche due collegi parigini e dopo continua i suoi studi a Port-Royal per completare, in particolare, la sua formazione retorica e classica, e studia con i migliori insegnanti [tutti giansenisti] di quest’epoca [il grammatico Lancelot, il pedagogista Nicole, il giurista Lemaistre, il filosofo Arnauld, l’umanista Arnauld de Sacy, il medico Hamon].

     Jean Racine è ancora un adolescente quando inizia a comporre i suoi primi testi: sono odi e inni di carattere religioso che esaltano lo spirito di Port-Royal e fanno pensare che lui possa abbracciare la carriera ecclesiastica e, quindi, nell’ottobre 1661 Jean si trasferisce a Uzès, cittadina del sud della Francia, in Provenza, ospite dello zio Antoine Sconin che è vicario generale del vescovado e intende prepararlo al sacerdozio in modo che possa anche usufruire di un beneficio ecclesiastico; ma Jean dopo un anno ci ripensa e si rifiuta di intraprendere questa strada perché è consapevole di non avere una vocazione religiosa ma preferisce acquisire un ruolo nella vita mondana [che si svolge nei salotti dei palazzi nobiliari e nella corte]. In proposito [per farsi notare] compone un’ode intitolata Alla Ninfa della Senna scritta in occasione delle nozze di Luigi XIV con l’infanta Maria Teresa d’Austria [alla quale l’ode è dedicata], e quest’operetta in versi - che è veramente ben riuscita - gli procura una certa notorietà nel mondo intellettuale parigino per cui, quando compone altre due odi encomiastiche intitolate Sulla convalescenza del Re [che era stato malato] e La fama delle Muse, ottiene l’ingresso a corte [e il Re-Sole gratifica anche il giovane poeta con un premio in denaro] e fa la conoscenza con l’illustre critico Jean Chapelain, con il già celebre scrittore Charles Perrault e con Jean de la Fontaine con il quale stringe una duratura amicizia.

     A questo punto Racine, che ha acquisito una certa popolarità, pensa di potersi emancipare sul piano economico dedicandosi a scrivere per il teatro, e si sente pronto per comporre delle Tragedie: ha, infatti, ben appreso la cultura classica alla Scuola di Port-Royal. La prima tragedia che Racine compone [nel 1664, forse consigliato da Boileau e La Fontaine] s’intitola La Tebaide o i Fratelli nemici e le vicende legate alla prima composizione di Racine sono assai curiose. Il soggetto di quest’opera, di genere edipico, è piuttosto ardito e racconta che, dopo essere stato cacciato da Tebe, Polinice guida una spedizione di armati con l’intenzione di scalzare dal trono suo fratello Eteocle che ne è l’erede legittimo. Eteocle, che gode del favore del popolo, è disposto a fare la pace con Polinice e pensa di associarlo al regno, e questo fatto riscuote il sostegno del loro zio Creonte il quale però ha un piano: opera per far nascere e crescere l’odio tra i due fratelli in modo che si eliminino a vicenda e lui, Creonte, possa prendere il loro posto.

     Racine per mettere in scena l’opera [in cinque atti con una trama assai complessa] si rivolge alla compagnia del Teatro dell’Hôtel de Bourgogne che è rinomata per la rappresentazione di tragedie ma gli attori, dopo aver accettato l’incarico e studiato il testo, temporeggiano perché temono che il personaggio di Creonte [il cattivo] possa far pensare al Re-Sole, e allora Racine, in seguito a questo tentennamento, impaziente, si rivolge a Molière che vuole rivaleggiare anche sul piano della tragedia con i suoi avversari del Teatro dell’Hôtel de Bourgogne, ma il fatto è che anche Molière ha la sensazione che il personaggio di Creonte richiami il Re-Sole e, di conseguenza, emenda tutta una serie di parti dell’opera e, forse [ma questo non lo sappiamo], senza il consenso di Racine. Il 20 giugno 1664 la tragedia viene rappresentata al Palais Royal di Parigi e riscuote uno scarso successo tanto che Molière, per tenerla in scena per qualche settimana, deve affiancare alla tragedia una sua farsa per trattenere i pochi spettatori. Racine in una Lettera all’abate Le Vasseur si giustifica scrivendo: «Ero molto giovane, ero ingenuo, e non avevo alcuna esperienza». E, difatti, Racine si adegua [capisce di dover adattare il suo linguaggio al gusto della corte] e, dopo l’insuccesso de La Tebaide, compone la tragedia Alessandro il Grande che, da prima nel dicembre del 1665, affida a Molière ma poi, dopo due rappresentazioni, rompe con lui perché la compagnia di Molière recita la tragedia con una vena ironica, con un accento sarcastico [nello stile delle Commedie di Molière] e la affida alla compagnia del Teatro dell’Hôtel de Bourgogne che la interpreta evidenziando bene il gusto eroico-galante che Racine sa dare al testo della sua opera: in essa Alessandro Magno emerge non solo come guerriero ma soprattutto come un perfetto amante che sa parlare con una prodigiosa grazia amorosa, e appare anche come un personaggio che allude alla grandezza del Re-Sole il quale manifesta pubblicamente il suo entusiasmo dopo aver assistito alla rappresentazione di quest’opera [s’immedesima], e il suo giudizio molto positivo consacra il giovane Racine come grande autore.

     Però all’entusiasmo del re e della corte fanno riscontro le critiche e gli attacchi di inaudita violenza che Racine subisce da parte di quegli intellettuali che appartengono alla corrente dei Moderni capeggiata da Perrault e da Molière: sono attacchi motivati dalla gelosia ma il successo di Racine è dovuto, in realtà, alla sua competenza e, visto che è difficile attaccarlo su questo piano, non resta che calunniarlo. Anche gli intellettuali di Port-Royal [i suoi vecchi maestri] lo criticano sul piano politico: gli rinfacciano di essere asservito alla monarchia assoluta. Racine reagisce stringendo amicizia e collaborando con La Fontaine e con Boileau [l’animatore della corrente degli Antichi alla quale Racine aderisce con convinzione], e risponde alle critiche formulando una teoria che esalta i principi fondamentali della dottrina classica riguardante la composizione della tragedia. Contemporaneamente, questa dottrina la mette in pratica dando vita a quello che è stato chiamato “il decennio miracoloso” di Racine durante il quale compone una serie di tragedie che lasciano il segno nella Storia della Letteratura, e “la [così detta] formula raciniana” prevede: il rispetto [con ragionevolezza, secondo la Poetica di Aristotele] delle regole classiche, un’azione semplice nello svolgimento della trama, l’esplicita manifestazione della vita interiore dei personaggi, l’esternazione del conflitto dei sentimenti, la proposta di temi che esaltino al massimo grado le passioni, a cominciare da quella amorosa, con risvolti spesso foschi e addirittura truculenti].

     Racine dal 1667 al 1677 compone sette capolavori tragici [che possiamo semplicemente elencare]: Andromaca, Britannico, Berenice [che rende definitiva la superiorità di Racine su Corneille che lo aveva sfidato con una tragedia simile ma senza successo], Bajazet [un’autentica tragedia dell’orrore], Mitridate [un dramma che elogia la generosità che prevale sul male esaltando insieme la gloria militare e l’amore, e quest’opera piace molto al re il quale pensa che sia stata davvero scritta per esaltare la sua potenza], Ifigenia in Aulide e Fedra.

     Racine, dopo la rappresentazione di Fedra [che ottiene un successo straordinario], decide nel 1677 di abbandonare il teatro, e la sua decisione suscita scalpore anche perché torna ad avvicinarsi agli ambienti giansenisti e comincia a scrivere una Storia di Port-Royal. Nello stesso anno [dopo che, nel decennio precedente, aveva convissuto con due attrici] si sposa con una giovane di famiglia borghese, Catherine de Romanet, da cui ha avuto sette figli. Il re, per trattenerlo nell’ambito della corte, ne favorisce l’ingresso all’Accademia di Francia e lo nomina, insieme a Boileau, storiografo del Regno, un incarico che Racine svolge in modo puntiglioso ma rimanendo appartato.

     Per due volte torna ancora a scrivere per la recitazione quando Madame de Maintenon gli chiede di comporre due tragedie di carattere biblico che possano contribuire alla formazione delle ragazze del Collegio di Saint-Cyr e queste due opere di grande forza drammatica, intitolate Ester [del 1689] e Atalia [del 1691], esaltano il carattere di due donne intraprendenti e coraggiose.

     Racine trascorre gli ultimi anni della sua vita in solitudine [seguendo con premura la crescita dei suoi figli e delle sue figlie] intervenendo occasionalmente nella Polemica degli Antichi e dei Moderni e nella difesa di Port-Royal.

     Nella Prefazione a Fedra ci ha lasciato un commento della sua attività di poeta tragico e scrive: «I personaggi del mio teatro sono degli antieroi a differenza di quelli delle tragedie di Corneille, e li ho voluti rappresentare in balìa delle primitive passioni dell’animo umano, dell’odio, dei torbidi rapporti di sangue dove ci si uccide tra fratelli, ho rappresentato uomini incapaci di volontà, travolti dai propri insanabili conflitti interiori, e ho rappresentato la passione come una fatalità inesorabile che piega i destini degli uomini, e ho rappresentato l’amore, come sentimento devastante e sempre esasperato dalla gelosia».

     Racine ha una visione pessimistica dell’esistenza - l’animo umano è debole e ha costante bisogno della grazia di Dio - e nel fondo del suo animo Racine è rimasto sempre un giansenista e quando muore, il 21 aprile 1699, per sua espressa volontà viene sepolto a Port-Royal des Champs.

     Non è facile tradurre i testi dei drammi di Racine rispettando la verseggiatura, tuttavia si possono leggere e poi, anche partendo solo dai titoli, è possibile risalire alle fonti e, utilizzando l’enciclopedia e la rete, si può accedere alla storia delle figure [reali, edipiche, bibliche] che l’autore ha messo in scena. Di Racine leggiamo solo un verso, famosissimo, che raccoglie il pensiero di questo autore, è il verso finale della Fedra: «Odiosi adulatori voi siete il dono più funesto che la collera divina possa fare ai re [Détestables flatteurs, présent le plus funeste | Que puisse faire aux rois la colère céleste]».

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ma, a proposito di tragedie, potete richiedere in biblioteca le Tragedie in due battute” di Achille Campanile, un testo che ha un carattere pedagogico perché leggendolo invita a giocare con le parole: un utile esercizio per imparare sempre meglio a leggere [e anche Racine si sarebbe divertito] ...

     Leggiamo tre Tragedie in due battute di Achille Campanile.

DRAMMA DELL’OCEANO

Personaggi:    IL BACCALÀ   NESSUN ALTRO

La scena si svolge in mezzo all’Oceano, ai nostri giorni. Il mare è in tempesta. Ondate come montagne s’innalzano fino al cielo.

In lontananza si vede una nave in pericolo. Marinai e passeggeri s’agitano invocando salvezza.

All’alzarsi del sipario IL BACCALÀ fa capolino fra le onde infuriate e fissa la scena con sguardo perplesso.

IL BACCALÀ tra sé: Non arrivo a capire se la nave è in pericolo perché il mare è agitato o se il mare è agitato perché la nave è in pericolo.            

(Sipario)

 

CAPRICCIO

Personaggi:    IL PICCINO    SUO PADRE

IL PICCINO Papà, io non ho mai ammazzato nessuno. Potrei ammazzare il signor Giuseppe?

IL PADRE  Va bene, ma il signor Giuseppe soltanto.   

 (Sipario)

 

L’ASINO E IL CONTADINO  [abbiamo iniziato con l’asino e concludiamo con l’asino]

Personaggi:    IL CONTADINO    L’ASINO

IL CONTADINO  È mezz’ora che lo sto bastonando, e quest’asino non si decide a camminare.

L’ASINO  Benedetto uomo, poteva spiegarsi. Io credevo che mi bastonasse per farmi stare fermo.                                    

(Sipario)

     Di Racine abbiamo letto il celebre verso finale della Fedra che raccoglie il pensiero di questo autore: «Odiosi adulatori voi siete il dono più funesto che la collera divina possa fare ai re». E Adriana Zarri ci ricorda che gli eremiti hanno molto amato gli animali perché gli animali non conoscono l’adulazione. Leggiamo questa pagina.

Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca

Una cascina che si rispetti, abbiamo detto, è piena di animali; e la mia non fa certo eccezione. L’amore per gli animali è molto forte tra gli eremiti perché gli animali non sono degli adulatori. E una cascina che si rispetti ha la stalla. Quando sono venuta e ho visto questa, grande e bella, con le mangiatoie in legno antico coi fori per le catene delle bestie, ho pensato di adibirla a qualche funzione degna della sua bellezza. Per un momento ho progettato di farne una biblioteca. Era un’idea da intellettuale, nel senso peggiore del termine: un'idea di cui adesso mi vergogno. Perché niente è più degno di una stalla, del corteo di animali per cui è stata concepita: il salto lepresco dei conigli, la lenta processione dei tacchini, l’andatura ondulante dei paperi, il razzolare dei polli, il pigolio dei pulcini … E adesso è tutta viva, pigolante e odorante com’è una stalla in piena attività.

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     E, per concludere, leggiamo ancora una Tragedia in due battute di Achille Campanile che, immagino, sarebbe piaciuta molto alla teologa Adriana Zarri.

Achille Campanile, Tragedie in due battute

LA SCOPERTA  [e chiudiamo definitivamente tornado alle origini nel giardino dell’Eden]

Personaggi:    EVA    IL SERPENTE

EVA  Siamo perduti! Adamo ha scoperto tutto.

IL SERPENTE  Cielo! E come mai?

EVA  Ha mangiato la foglia.      

(Sipario)

     A proposito di “giardino dell’Eden”, gli scrivani che hanno redatto il Libro della Genesi hanno utilizzato l’antichissimo genere letterario della fiaba, sul quale - dopo quello della favola - dobbiamo puntare l’attenzione [una cosa sono le favole, altra cosa sono le fiabe].

     Sappiamo che Charles Perrault ha riscritto le fiabe in forma moderna, [pubblicate nel famoso libro intitolato I racconti di Mamma Oca, ma dobbiamo sapere che nel suo lavoro è stato influenzato da un’Opera proveniente da una grande capitale europea del ‘600: Napoli  e dall’autore che ha scritto quest’opera esemplare. Che cosa succede nel napoletano - sulla via che porta dalla metà del ‘600 al secolo dei Lumi [il ‘700] - per quanto riguarda il genere letterario della fiaba?

     Per rispondere a questa domanda - che ci permette di entrare in un fiabesco paesaggio intellettuale - dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, e per questo la Scuola è qui e il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 3, 2021