ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica sulla via che porta verso il secolo dei Lumi III
26-27 gennaio 2022 a Bagno a Ripoli e Tavarnuzze
a Firenze per il primo gruppo il 28 gennaio 2022 e per il secondo gruppo il 04 febbraio 2022
SULLA VIA CHE PORTA VERSO IL SECOLO DEI LUMI
ENTRA IN SCENA IL CONCETTO DI MECCANICISMO ...
Questo è il settimo itinerario del nostro viaggio sulla via che porta dalla metà del ‘600 al secolo dei Lumi. Nel corso dell’itinerario scorso - dopo aver visitato Amsterdam e Londra - abbiamo incontrato uno studioso olandese che, come ricorderete, si chiama Huig de Groot, meglio conosciuto con il nome latino [che è la lingua internazionale dell’epoca] di Ugo Grozio, il quale, nel 1625, ha pubblicato la sua opera più importante intitolata De iure belli ac pacis [Sul diritto di guerra e di pace] che è il trattato fondamentale del pensiero del giusnaturalismo.
Il giusnaturalismo, scrive Ugo Grozio, è la corrente di pensiero che sostiene l’esistenza di norme di diritto naturale: regole fondate sulla natura razionale della persona, quindi, principi anteriori alla formazione delle istituzioni. Le norme di diritto naturale [sostiene Grozio, il diritto alla vita, alla libertà personale, alla proprietà dei beni essenziali] sono patrimonio dell’Umanità e, prima di essere scritte nei Documenti, sono incise su quella “Tavola di bronzo”, afferma Grozio, che è la ragione: la principale facoltà umana [la ragionevolezza] che la persona ha avuto in dono dalla Natura. Grozio è considerato il fondatore del diritto internazionale e ha auspicato la creazione di “una Società degli Stati mondiali”.
Le idee virtuose contenute nel pensiero giuridico di Ugo Grozio non riescono a far sì che s’instauri una situazione generalizzata di concordia e di giustizia nell’ambito della società europea perché il vizio che hanno i potenti di lasciarsi guidare dall’astuzia della ragione sussiste sempre, tuttavia le idee virtuose contenute nel pensiero giuridico di Ugo Grozio un effetto positivo lo creano.
Le idee della corrente del “giusnaturalismo” - formulate da Ugo Grozio nella sua opera intitolata De iure belli ac pacis [Sul diritto di guerra e di pace] pubblicata a Parigi nel 1625 - ratificano l’inizio del pensiero laico nella Storia dell’Europa, e la guerra dei Trent’anni, iniziata nel 1618, si conclude nel 1648 con una serie di accordi che vengono chiamati Pace di Westfalia. La Westfalia è una storica regione della Germania occidentale tra il Reno a est e il confine con l’Olanda a nord-ovest, il cui capoluogo storico è Münster.
Ebbene, la Pace di Westfalia ribadisce l’indipendenza degli Stati e la libertà di culto. Termina dopo 130 anni dalle Tesi di Lutero del 1517 lo scontro sanguinoso tra cattolici e protestanti, e tutto ciò perché alcuni princìpi del giusnaturalismo penetrano nella coscienza europea: Grozio però, come sappiamo, non ha fatto a tempo a vedere gli effetti positivi del suo pensiero perché è morto tre anni prima, a Rostock, il 28 agosto 1645.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Münster è la principale città della Westfalia, e il centro storico di questa città è ricco di monumenti: potete visitarlo utilizzando una guida della Germania e navigando in rete così potrete anche sapere in quale importante edificio del centro di Münster è stata firmata la pace di Westfalia nel 1648... Non rinunciate a fare questo viaggio perché i luoghi dove viene firmata la pace sono importanti, più importanti dei luoghi dove vengono combattute delle battaglie...
La Pace di Westfalia dichiara finita l’egemonia che, dal 1559, era esercitata dalla Spagna in Europa, mentre nell’Italia Meridionale il dominio spagnolo continuerà ancora per più di mezzo secolo.
E, quindi, ora [come abbiamo anticipato nell’itinerario precedente], cogliamo l’occasione per puntare la nostra attenzione sulla Spagna perché dobbiamo incontrare tre personaggi: due personaggi letterari e, prima ancora, lo scrittore che ha creato il primo personaggio di cui ci occupiamo. Lo scrittore che stiamo per incontrare ha una storia di vita che va di pari passo, nel bene e nel male, con quella del potere spagnolo e, in particolare, con la storia del dominio spagnolo in Italia, e questo scrittore si chiama Francisco de Quevedo e non è escluso che lo abbiate sentito nominare, anche perché, a suo tempo, lo abbiamo già incontrato.
Francisco de Quevedo è nato a Madrid il 14 settembre 1580 in una famiglia nobile e suo padre, Pedro Gómez de Quevedo, ricopre la carica di segretario della regina Anna d’Austria, moglie di Filippo II, e sua madre, Maria de Santibáñez, fa parte della corte dell’infanta Isabella Clara. Francisco de Quevedo riceve la sua prima formazione alla Scuola dei Gesuiti di Madrid e poi frequenta l’Università di Alcalá de Henares dove compie gli studi classici e poi si perfeziona in Teologia, in Filosofia, in Logica, in Matematica e in Fisica presso l’Università di Valladolid.
La carriera politica di Quevedo ha inizio a Palermo [dove gli Spagnoli governano] al seguito come segretario del suo amico Pedro Téllez-Girón duca di Osuna che ricopre la carica di governatore del capoluogo siciliano e poi, quando il duca viene nominato Viceré di Napoli, Quevedo diventa sovrintendente alle Finanze. A Napoli viene accolto nell’Accademia degli Oziosi [e conosciamo il fenomeno della diffusione delle Accademie su tutto il territorio europeo ed italiano in particolare] che era stata fondata dal precedente Viceré, il conte di Lemos, e Quevedo stringe amicizia con molti intellettuali partenopei e dà, scrivendo le sue opere, un forte contributo alla vita culturale di questa istituzione perché ha un’ottima formazione umanistica. Conosce perfettamente l’italiano [ha letto Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto e Tasso], conosce il francese [ha letto i Saggi di Montaigne], conosce il latino [tiene una corrispondenza in latino con il filologo fiammingo Giusto Lipsio, insegnante all’Università di Jena, Leida e Lovanio che lo elogia per i suoi vasti interessi, e perché traduce le Tragedie di Seneca e le Satire di Giovenale], conosce il greco [traduce le Odi di Anacreonte e il Manuale di Epiteto], conosce l’arabo [legge in lingua originale le opere di Avicenna e di Averroè] e conosce l’ebraico. Quando nel 1618 viene sospettato di aver preso parte a una congiura ordita insieme al duca di Osuna per annettere la Serenissima Repubblica di Venezia alla corona spagnola, sembra che sia riuscito a sfuggire alla cattura travestito da mendicante senza essere riconosciuto grazie al suo perfetto accento italiano.
Tuttavia, a un certo punto della sua brillante carriera politica [sale fino a diventare segretario del re di Spagna Filippo IV il Grande], cade in disgrazia presso la Corte sia per il suo coinvolgimento [facendosi molti nemici] in una serie di acrimoniose polemiche letterarie [polemizza con il grande poeta manierista Luis de Góngora e con il drammaturgo Juan Pérez de Montalbán] e sia perché si trova coinvolto in una serie di velenose polemiche personali soprattutto in relazione al chiacchierato matrimonio che Quevedo contrae con una ricca vedova, Esperanza de Mendoza, dalla quale si separa ben presto, e alla quale, secondo i pettegolezzi dell’epoca, avrebbe tentato di sottrarre almeno una parte del cospicuo patrimonio. A questo proposito si scontra, con la spada in mano, con Luis Pacheco de Narváez, il suo avversario più ostinato e pericoloso, che lo accusa di ogni nefandezza, diffondendo false notizie tra cui quella di avere contatti segreti con degli agenti francesi che avrebbero operato a danno della monarchia spagnola. Ma la causa principale della caduta in disgrazia di Quevedo è, molto probabilmente, quella di aver scritto un memoriale - che avrebbe dovuto rimanere anonimo - contro il sistema coloniale spagnolo, la corruzione dei nobili e degli ecclesiastici, la mancanza di spirito evangelico degli inquisitori [tutti temi già presenti nelle sue opere]:, dal 1639, viene imprigionato nel carcere di San Marcos a León per cinque anni senza una vera e propria accusa e senza alcun processo, e muore, due anni dopo essere stato liberato, l’8 settembre 1645, a Villanueva de los Infantes dove si è ritirato nel convento domenicano di questa cittadina per continuare a studiare, a scrivere e a riordinare le sue opere di Storia, di Filosofia, e i suoi poetici sonetti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Spagna e navigando in rete fate un’escursione nella cittadina [di circa 5400 abitanti] di Villanueva de los Infantes nella regione Castiglia-La Mancia, un luogo dove ha abitato anche Miguel de Cervantes e, in proposito, potete visitare la Casa del Caballero del Verde Gabàn che Cervantes ha descritto nella seconda parte del Don Chisciotte e poi potete anche visitare il Convento de San Domingo in cui si conserva la cella dove ha alloggiato ed è morto, l’8 settembre 1645, Francisco de Quevedo… Buon viaggio…
Francisco de Quevedo ha composto le sue opere di Storia e di Filosofia utilizzando lo stile dei Saggi di Montaigne e i suoi Scritti contengono sempre una violenta e impietosa satira contro i vizi e la corruzione degli uomini di potere del suo tempo: Quevedo gli ambienti del potere li conosce bene [è coinvolto] e ci fornisce una testimonianza di prima mano della crisi di valori in atto nella società secentesca.
Francisco de Quevedo nelle sue molte opere vuole mettere bene in evidenza [ed è anche una sorta di confessione e di lucida autocritica la sua] come la classe dominante abbia dato, e continui a dare, un cattivo esempio al popolo, e “cattivi soggetti” si diventa quando si riceve dall’alto una pessima lezione morale. Scrive Quevedo in Sogni e discorsi morali: «La popolazione più umile, che vive in condizioni di miseria materiale, dalla classe nobile al potere non impara che a comportarsi peggio di come già è costretta a comportarsi a causa della grama esistenza che deve sopportare». E un esempio magistrale della situazione che lui vuole denunciare è rappresentato dalla sua opera più famosa [una delle opere più importanti della Letteratura spagnola e universale], il romanzo intitolato Historia de la vida del Buscón [Storia della vita del briccone, chiamato don Pablos, esempio di vagabondi e specchio di taccagni]. Il Buscón è il briccone, il pitocco, il mariuolo, il furfante, quello che, in Letteratura, è stato chiamato “il pìcaro”, un malandrino vagabondo a caccia di avventure. Il romanzo di Francisco de Quevedo è stato stampato a Barcellona nel 1626 e in quest’opera esemplare l’autore racconta in modo comico e sarcastico l’affannoso tentativo di questo personaggio, don Pablos di Segovia, di dare la scalata alla società. Non è il primo pìcaro della Letteratura spagnola perché, più di settant’anni prima nel 1554, era comparso sulla scena editoriale [a Burgos, ad Anversa e ad Alcalá de Henares] un testo che racconta, a episodi, la Vita di Lazarillo de Tormes, e l’autore di quest’opera, che per il modo brillante con cui è scritta e per le avventure che racconta può essere considerata un vero e proprio romanzo moderno, è ignoto, e Francisco de Quevedo nella rappresentazione del suo Buscón, del suo pìcaro, tiene conto del modello del Lazarillo de Tormes e, dopo aver imparato la lezione, s’impegna affinché il suo personaggio [il Buscón] sia molto più completo psicologicamente, abbia più umore popolare, sia più realista e più sarcastico, e Quevedo riesce nel suo intento.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Richiedete in biblioteca e leggete Vita di Lazarillo de Tormes, un romanzo che si presenta composto da un Prologo e sette capitoli detti “tratados”...
Il Buscón di Quevedo è figlio di un truffatore e di una fattucchiera dai quali ha ereditato i ruoli in ugual misura e, nel suo essere fedele alle caratteristiche che ha ereditato, compie tutta una serie di azioni ciniche, di beffe, di recite ingannatrici, di frodi ai danni del prossimo. Francisco de Quevedo, attraverso il Buscón, come fa Dante, fa visitare alla lettrice e al lettore tutti “i gironi infernali” del mondo secentesco, e grazie a questa Letteratura noi possiamo capire che cosa c’è, fuori dallo splendore delle Corti e fuori dai centri di potere, nel Seicento. Il Buscón appare come un bullo-malandrino ma, in realtà, è un vinto perché [e questo è il messaggio più ironico che Quevedo veicola] non può nulla contro i veri potenti che lo usano per i loro scopi nefandi ma non gli permettono di compiere la scalata sociale come lui, anche un po’ ingenuamente, vorrebbe e s’illude di poter fare e, alla fine, non gli resta che salpare per il Nuovo Mondo, emigrare oltre Oceano: chissà [ci propone di pensare Quevedo] se «mutando mundo y tierra» riuscirà a capovolgere, come emigrante, il suo destino di sconfitto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Richiedete in biblioteca e leggete Vita del briccone di Francisco de Quevedo, un romanzo che si presenta diviso in tre parti [tre Libri] per complessivi ventitré brevi capitoli …
Leggendo questo romanzo il comportamento del protagonista, Pablos di Segovia, non può non far nascere nella nostra mente pensieri di natura manzoniana: il Buscón di Quevedo è affine alle figure dei “bravi” [«Le maggiori scelleraggini procedono da quelli che chiamano bravi», dice la grida firmata dal governatore spagnolo di Milano il 13 febbraio 1632] che impongono al timoroso don Abbondio che il matrimonio dei promessi sposi, Renzo Tramaglino e Lucia Mondella, non si debba fare. «Che i due descritti di sopra [scrive Alessandro Manzoni nel Capitolo I del suo romanzo] stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio fu il dover accorgersi, per certi atti, che l’aspettato era lui. Perché, al suo apparire, coloro s’eran guardati in viso, alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt’e due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a cavalcioni s’era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l’altro s’era staccato dal muro; e tutt’e due gli s’avviavano incontro.».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La Scuola aveva già consigliato a suo tempo di mettere, o rimettere, in lettura “I promessi sposi” al ritmo di quattro pagine al giorno: la storia, ambientata nel ‘600, corre parallela al viaggio che stiamo facendo e, di conseguenza, bisogna cogliere l’occasione …
Sul Moliner, che è il principale dizionario della Lingua spagnola moderna, si legge: «Quevedos, nome dato anticamente agli occhiali, dal nome dello scrittore Quevedo che li portava». Nei ritratti che di lui ci sono rimasti, infatti, Quevedo appare sempre con dei particolari occhiali tondi a stanghetta dalle lenti un po’ oscurate e, con questo, sembra voler alludere al fatto che il mondo merita di essere osservato con attenzione ma quel gioco di luci e di ombre può anche rovinare la vista e, quindi, è meglio premunirsi e usare lenti, seppur leggermente, opache adatte alla zona grigia nella quale anche Francisco de Quevedo abita.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con un catalogo che trovate in biblioteca e navigando in rete andate a osservare il ritratto dipinto da Diego Velázquez [1599-1660] che raffigura Quevedo con gli occhiali perché lo scrittore è, prima di tutto, affetto da una grave miopia [ma è uomo moderno e usa la tecnologia]…
E ora leggiamo due pagine da Storia della vita del briccone.
Francisco de Quevedo, Storia della vita del briccone
Feci il percorso da Toledo a Siviglia felicemente. Giunto in questa città presi alloggio all’osteria del Moro, dove m’incontrai con un altro mio compagno di scuola di Alcalá, il quale allora si chiamava Mata, ma ora, sembrandogli quel suo nome poco sonoro, si faceva chiamare Matorral. Esercitava esso il commercio delle vite umane ed aveva negozio di coltelli. E se la passava ottimamente. Recava sulla sua faccia i segni di quella sua merce, e dalle cicatrici si poteva arguire la grandezza e la profondità delle coltellate che aveva ricevute. Soleva dire: «Non v’è miglior maestro di chi è stato accoltellato per bene». E aveva ragione, perché se la sua faccia era una giubba di pelle, lui era addirittura un otre. Mi disse che dovevo andare a cena con lui e con altri suoi compari, e che poi tutti insieme mi avrebbero ricondotto all’osteria. Mi ci recai e quando giunsi alla sua abitazione, mi disse: «Animo! Toglietevi il mantello e fatevi veder uomo, perché questa notte vedrete qui tutti i migliori ragazzi di Siviglia. E perché non abbiano a scambiarvi per un damerino, rovesciate codesto collare, curvate le spalle, tenete giù il mantello - che noi sempre camminiamo trascinandolo -, cercate poi di tenere il mento in fuori e sforzatevi più che potete a far smorfie di qua e di là». Mi prestò un machete, che a giudicarlo dalla larghezza, aveva piuttosto l’aspetto di una scimitarra e, dalla lunghezza, poteva anche sembrare in certo qual modo una spada. «Bevetevi ora» aggiunse «questo mezzo boccale di vino, perché se quelli non vi sentiranno avvinazzato non vi potranno credere uomo d’azione». Mentre stavamo così chiacchierando, e io per di più un po’ stordito dalla bevuta, entrarono quattro dei mariuoli che attendevamo, quattro facce simili a scarpe di gottosi, con un’andatura barcollante, coi mantelli non già sulle spalle ma avvolti intorno ai fianchi, coi capelli alzati sulla fronte e la tesa anteriore sollevata a guisa di diadema. Avevano i pugnali e le spade in stretto contatto col tallone destro, gli occhi a terra, l’aspetto fiero, i baffi aguzzi e ritorti come un paio di corna, le barbe alla turca, come i cavalli. Fecero un cenno con la bocca e poi rivolti al mio amico, gli dissero con voce sdegnosa e mangiandosi le parole: «Sor nostro!». «Compari miei» rispose il mio amico. Si sedettero e per chiedere chi ero io non apersero bocca, ma uno di essi, dopo avermi guardato, mi indicò, levando la testa, a Matorral, col labbro inferiore. Al che il mio maestro rispose afferrando la sua barba con le mani e guardando a terra. Dopo di che, i quattro si alzarono e con aria soddisfatta, mi abbracciarono e mi fecero molte feste. Io mi comportai come quelli, sicché mi sembrò di aver assaggiato quattro diverse qualità di vino. Giunta l’ora della cena, fummo serviti a tavola da certi mocciosi grandi e grossi che i mariuoli chiamavano “cannoni”. Ci mettemmo tutti insieme a tavola. Venne subito servito un piatto di capperi e con questi, per darmi il benvenuto, incominciarono a brindare in mio onore, onore che io in nessun modo, benché su di esso vi si bevesse, non credevo di possederne tanto. Seguì del pesce e della carne, tutto preparato in modo da doverci bere su. C’era a terra una tinozza piena di vino, e chi aveva sete non doveva far altro che mettercisi sopra carponi. Io mi accontentai del mio boccaletto. Dopo due di quelle sorsate, i mariuoli non si conoscevano più fra di loro. Cominciarono allora i discorsi bellicosi. Le bestemmie si susseguivano alle bestemmie, tra un brindisi e l’altro. Più di venti o trenta persone erano condannate a morire senza prete. Vennero quindi assegnate al governatore mille pugnalate. Ricordarono con dolore le anime di Domingo Tiznado e di Gayòn, e tracannarono vino in quantità in onore dell’anima di Escamilla. Alcuni di essi piansero teneramente l’infelice Alonso Alvàrez.
Tutte queste parole avevano finito per mettere a soqquadro il congegno della testa del mio amico, il quale, con una voce rauca, prendendo un pane con tutte e due le mani e guardando alla luce, si mise a salmodiare: «Per questo pane, che è la faccia di Dio, e per quella luce, che uscì dalla bocca dell’Angelo, se voi tutti lo volete, questa notte dobbiamo suonarle ben bene alla guardia che ha arrestato il povero Guercio».
Si levarono da essi grida e urla strepitose e tirando fuori i pugnali, posarono le loro mani sull’orlo della tinozza, mettendovisi a carponi, a turno. Dopo aver ben bene sorseggiato, esclamarono: «Così come beviamo questo vino, dobbiamo succhiare il sangue di tutte le spie». «Chi è quest’Alonso Alvàrez» chiesi «la cui morte tanto vi rattrista?». «Era un giovane» mi risposero «ardimentoso, abilissimo e ottimo compare. E ora affrettiamoci a uscire, perché altrimenti i demòni ci tentano di nuovo». E allora uscimmo dal locale, per andare a caccia delle guardie. Ma …
Ma … perché c’è “un ma” [che si profila nella nostra mente di viaggiatrici e di viaggiatori in cammino sul territorio di quel “gran secolo” che è il Seicento], “un ma” legato a un interrogativo, che si esplicita non solo dopo aver letto queste due pagine di Quevedo “sulla malavita” ma anche dopo aver frequentato i Saggi di Montaigne, i Pensieri di Pascal e molte altre opere: ma è mai possibile [ci si domanda] che dopo tante scoperte [di natura materiale, intellettuale, morale, spirituale] avvenute nel secolo della Scienza utili a migliorare le condizioni di vita, il grado della condizione umana, che è il tema dominante della modernità, continui a far riferimento a una inquietante definizione espressa con queste parole: «La condizione umana è vincolata al fatto che l’uomo è un lupo per l’altro uomo»? Chi - dopo aver analizzato, secondo il suo punto di vista, la realtà - mette ancora una volta in primo piano questa espressione già sottolineata nelle Favole di La Fontaine, motivandola filosoficamente? Procediamo con ordine.
Nei viaggi di questi ultimi anni abbiamo incontrato Leonardo da Vinci, Galileo Galilei, Renato Cartesio, Biagio Pascal [tanto per fare alcuni nomi] e abbiamo potuto constatare che questi personaggi sono stati anche dei grandi “tecnici”, vale a dire degli ingegnosi costruttori di strumenti. E, nell’epoca nella quale stiamo viaggiando [nella prima metà del XVII secolo] si crea una sinergia tra la Lezione dei filosofi, l’attività economica dei mercanti borghesi e l’abilità degli artigiani che porta alla realizzazione dell’oggetto per eccellenza: lo strumento meccanico, la macchina, e, sia essa un orologio o un cannocchiale o una calcolatrice o un termometro o un barometro [e abbiamo assistito all’invenzione e alla costruzione di questi strumenti strada facendo], ebbene, l’invenzione e la messa a punto di nuove macchine stimola la ragione, crea l’investimento in intelligenza. E “la macchina” esercita un forte fascino sul Pensiero umano, e la costruzione di strumenti meccanici sempre più sofisticati è una sfida che rimanda alla costruzione di una realtà, aliena dalla Natura, e prodotta artificialmente dalla Ragione: una realtà creata interamente dalla volontà di potenza dell’Essere umano.
Oggi queste affermazioni fanno un po’ sorridere perché ci siamo abituate e abituati a vivere da tempo in una situazione in cui gli strumenti meccanici hanno preso il sopravvento migliorando le nostre condizioni di vita, ma noi persone post-moderne stiamo già pensando da qualche decennio che “l’eccessiva meccanizzazione a tutti i livelli” ha dato un tono schizofrenico all’esistenza contemporanea [come sempre gli eccessi finiscono per dimostrarsi dannosi] e si riflette sul fatto che dovremmo “cambiare stile di vita”. Ma, tuttavia, anche per cambiare è necessario andare avanti [indietro non si torna], e per andare avanti [come da 2500 anni insegna la Storia del Pensiero Umano] è necessario dare spazio allo studio [la cura è lo studio] perché, per migliorare la qualità della vita, dobbiamo imparare a conoscere il valore reale di quegli oggetti che migliorano effettivamente la condizione umana [“Niente sarà più come prima”, abbiamo sentito ripetere in questi mesi. Ma potrà esserci un cambiamento senza promuovere forme di apprendistato cognitivo per imparare a investire in intelligenza?].
Ma riprendiamo il cammino sul sentiero del nostro Percorso che attraversa il territorio del XVII secolo per comprendere da dove ha inizio il cammino che mette in moto i processi che portano, nel bene e nel male, al fenomeno [che diventerà dirompente] della “meccanizzazione”. E tutto ha inizio quando, nel corso della prima metà del ‘600, gli scienziati e i filosofi si domandano fino a che punto l’essere umano possa essere considerato “una macchina”:’erano, in proposito, i disegni di Leonardo e gli studi di Cartesio sul funzionamento della “macchina umana”.
Il pensatore che sposta l’essere umano dall’asse della metafisica al piano della meccanica è Thomas Hobbes. Chi è questo personaggio che certamente avete sentito nominare?
Thomas Hobbes è nato nel villaggio di Westport presso Malmesbury, una piccola ma importante città di circa 6mila abitanti situata nel sud-ovest dell’Inghilterra.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Gran Bretagna e navigando in rete andate a far visita a Malmesbury che viene considerato un posto speciale, sacro [c’è una famosa abbazia], amato e ricco di storia perché è la più antica città inglese che è stata popolata in continuazione per più di due millenni e mezzo, quindi, conserva un patrimonio inestimabile di memorie… Buon viaggio…
Thomas Hobbes nasce il 5 aprile 1588 con un parto avvenuto prematuramente perché la madre si spaventa moltissimo per le notizie che davano per imminente l’arrivo dell’Invincibile Armata spagnola di Filippo II [centotrenta navi con 24mila soldati] sulle coste inglesi e, in proposito, Hobbes ha scritto: «Io e il terrore siamo nati insieme, mia madre ha partorito due gemelli: Me e la Paura». L’infanzia di Thomas è stata disturbata dall’assenza del padre, che era il parroco di Westport e che, dopo essere stato licenziato dalla parrocchia, ha abbandonato la moglie e i tre figli [morirà in circostanze misteriose qualche anno dopo] lasciandoli in affidamento a suo fratello Francis il quale si è occupato di dare un’educazione a Thomas che ha percorso tutto il ciclo scolastico fino all’Università di Oxford, dove consegue il diploma di baccelliere, e poi di Cambridge dove, però, dopo essersi iscritto, non frequenta come avrebbe voluto fare il corso di Filosofia ritenendolo troppo accademico, molto antiquato e poco interessante, ma segue quello di Matematica [e la sua qualifica è quella di matematico]; poi, su raccomandazione di un suo insegnante che ne stima le competenze, trova lavoro: viene assunto come precettore nella famiglia nobile dei Cavendish alla quale rimarrà attaccato tutta la vita.
In qualità di tutore del giovane duca William Cavendish prende parte dal 1610 a un grand tour, un viaggio di istruzione [seguito da molti altri viaggi] tipico della nobiltà inglese di quei tempi e, quindi, Hobbes ha potuto viaggiare molto nella sua vita attraverso la Francia, la Germania e naturalmente in Italia [che era una meta molto ambita] dove ha potuto anche incontrare nel corso di uno di questi viaggi Galileo Galilei ad Arcetri del quale è un grande ammiratore.
Gli interessi intellettuali di Hobbes nel primo periodo della sua vita sono soprattutto indirizzati verso un attento studio [un’esegesi] degli autori Classici greci e latini che lo portano a produrre nel 1629 la prima traduzione in inglese de La guerra del Peloponneso di Tucidide: Hobbes da quest’opera desume [anche un po’ arbitrariamente] che il regime democratico è indesiderabile perché decade inevitabilmente nella demagogia [nel populismo] favorendo lo svilupparsi di un sistema di corruzione, ma c’è da dire che Hobbes più che sfiducia nei sistemi di governo non ha fiducia nella natura umana che considera fondamentalmente orientata verso la cattiveria [l’essere umano - secondo Hobbes - è malvagio per natura].
Hobbes ha viaggiato non solo per motivi di studio ma anche per fuggire alle lotte che, in questo periodo [come si è detto nell’itinerario scorso], insanguinano l’Inghilterra. Hobbes è filo-monarchico e, a causa della sua diffidenza nei confronti della democrazia e della repubblica, matura una concezione assolutista dello Stato e, quando il Parlamento inglese proclama la Repubblica, ritiene di doversi tenere prudentemente lontano da Londra e, di conseguenza, si trasferisce [fugge] a Parigi dove vive, in esilio, dal 1640 al 1651 ma non rimane intellettualmente inattivo perché frequenta assiduamente il circolo Mersenne [Scrive Hobbes: «L’Accademia Parisiensis fondata da Marin Mersenne è il polo intorno al quale ruotano tutte le stelle del mondo della scienza»], conosce Gassendi e Cartesio dai quali impara molte cose.
In questo periodo - influenzato dagli avvenimenti politici che si verificano in Inghilterra e in Europa e dalle sue esperienze culturali parigine - scrive due opere significative: Elementi di legge naturale e politica [nella quale sostiene i principi del giusnaturalismo, che conosciamo] e Elementi di filosofia un trattato diviso in tre parti intitolate De corpore [Sul corpo], De homine [Sull’individuo], De cive [Sul cittadino].
Nel 1651, col favore di un’amnistia, Hobbes torna a Londra e fa pubblicare la sua opera più importante intitolata Leviathan [Leviatano] e viene assunto per curare l’educazione classica e matematica di un gruppo di giovani aristocratici.
Con il ritorno al potere in Inghilterra della monarchia nel 1660, il nuovo re Carlo II Stuart, che era uno dei suoi discepoli, lo protegge dalle violente polemiche che si scatenano contro di lui a causa della sua pubblica professione di materialismo e di ateismo [il Parlamento inglese nel 1666 introduce un disegno di legge contro l’ateismo] e, per non subire ritorsioni, Hobbes ritiene di doversi defilare vivendo nella contea di Derby, appartato [teme soprattutto di essere dichiarato eretico e che le sue opere vengano distrutte]. Hobbes muore il 4 dicembre 1679 alla bella età [un record per l’epoca] di 91 anni!
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Thomas Hobbes [come studieremo tra poco] ritiene che «tutta la realtà è materiale», e allora prendiamo spunto da questa affermazione per riflettere [come ha già fatto Adriana Zarri nell’itinerario precedente] sui “materiali”... Voi quale materiale preferite: la terra, la pietra, il vetro, il legno, il metallo, la plastica o quale altro?...
Scegliete il materiale che voi privilegiate e scrivete quattro righe in proposito...
L’esagerata misantropia [la mancanza di fiducia nell’essere umano] di Hobbes è diventata proverbiale: si racconta che un giorno a un religioso che lo aveva visto fare l’elemosina a un povero disse: «Non ho voluto rispettare alcun precetto né alleviare le sofferenze di quest’uomo ma solo esercitare il mio egoismo perché dietro a ogni atto di altruismo si nasconde sempre l’egoismo umano». La misantropia di Hobbes è diversa da quella più temperata di Machiavelli e da quella di Schopenhauer che [come vedremo a suo tempo quando in futuro lo incontreremo] ammette il sentimento della compassione altruistica che Hobbes dice [ma sarà poi vero?] di non aver mai provato. Hobbes afferma di provare pietà solo per gli animali, e che - è lui che lo confessa - non sarebbe capace di uccidere né un pollo né un coniglio, e disdegna soprattutto il fatto che gli animali vengano sacrificati alle divinità e approva [con la sua esegesi biblica di carattere materialista e ateista] che la figura di Dio [El-nebijim] - così come viene descritto nei Libri dei Profeti - non voglia sacrifici di animali ma desideri che gli venga offerto “un cuore puro” da parte della persona, “un cuore autenticamente umano”.
Ebbene noi siamo portate e portati a pensare che Adriana Zarri - della quale abbiamo conosciuto il suo viscerale amore per gli animali fino a teorizzare che abbiano un’anima, specialmente i gatti - sia vegetariana e non osi neppure pensare di macellare un pollo o un coniglio. Ma forse sarà meglio che ascoltiamo che cosa ha da dire in proposito: si sa che gli eremiti sono dei provocatori e sappiamo bene che i Padri del deserto hanno anticipato il futuro consumo di insetti [e anche di serpenti].
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca
So che qualcuno mi contesta il mio amore per gli animali, ma non mi scompongo. Mi sembra che in clima di passione ecologica e di rapporti cosmici più intensi sia un elemento di cultura alternativa. E so che altri mi ha difeso affermando che, in tanta solitudine, la bestia era compagnia necessaria, per non nevrotizzarmi. Lo ringrazio, ma è una difesa sbagliata. Sono rimasta, per tanti anni, senza animali e, credo, senza nevrosi; anche se, allora, la mia solitudine era certo minore. Ma credo che potrei starci benissimo anche adesso, e per tutta la vita, senza problemi psicologici (magari con qualche problema alimentare, poiché polli e conigli mi forniscono il cibo quotidiano). Potrei forse anche meglio testimoniare la solitudine e il distacco: dimostrare che Dio basta e che, con lui, si può fare a meno di tutto.
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Prima di ascoltare la descrizione, le motivazioni e le ragioni profonde di questo dramma, l’uccisione delle bestie, occupiamoci dei punti salienti del pensiero meccanicista di Thomas Hobbes.
Thomas Hobbes, in particolare nel trattato intitolato Elementi di filosofia. Sul corpo, sull’individuo e sul cittadino, afferma che tutta la realtà è materiale e, quindi, mette in discussione il concetto di “spirito” così come finora è stato interpretato: Hobbes sostiene che anche “lo spirito” è materiale [sia pure fatto di materia sottilissima] e, con questa affermazione, vuole contraddire Cartesio che, come abbiamo studiato lo scorso anno, propone due tipi di sostanza: la res cogitans [la sostanza spirituale] e la res extensa [la sostanza materiale]. Per Hobbes concepire [come fa Cartesio] una sostanza “non materiale e inestesa” è un assurdo, è una contraddizione perché: «Non ci può essere [scrive Hobbes] differenza tra materia e spirito in quanto tutta le realtà è materiale, e tutto nella realtà è causato da qualcosa di materiale e, di conseguenza, tutta la realtà è dominata dal “meccanicismo”: tutto l’esistente corrisponde a una grande macchina che per esprimersi [per esistere] ha bisogno del movimento». Il movimento è, secondo Hobbes, la causa efficiente che spiega tutto ciò che accade [Dio è escluso, la creazione è esclusa]: senza movimento [così come lo ha studiato Galileo Galilei in tutte le sue forme, afferma Hobbes] l’intero processo meccanicistico si arresterebbe e la vita verrebbe a cessare. Hobbes, quindi, a fondamento della sua visione della realtà, pone due principi elementari secondo i quali: tutto ciò che esiste è corporeo e tutto ciò che accade si spiega col movimento.
E anche il processo della conoscenza, afferma Hobbes, è inevitabilmente legato a questi due principi, e poiché tutto ciò che esiste è corporeo, l’unica fonte di conoscenza alla quale la persona può attingere, afferma Hobbes, è l’esperienza sensibile che mette la persona a contatto immediato con i corpi materiali: non esistono, quindi, le idee innate [non sono le idee a creare la realtà, afferma Hobbes] ma le idee esistono in quanto derivano dalla sensazione, e il processo attraverso il quale [afferma Hobbes] si realizza la conoscenza sensoriale si sviluppa secondo gli schemi previsti dal meccanicismo. Esiste, sostiene Hobbes, un movimento meccanico esterno che impressiona i nostri organi sensoriali [l’occhio per la vista, l’orecchio per l’udito, il naso per l’olfatto, la pelle per il tatto, le papille gustative per il gusto], e questo movimento produce nelle particelle che compongono ogni organo sensoriale un movimento interno che si trasmette al cervello, e nel cervello si determina una reazione che Hobbes chiama “il sentire” e che consiste in una rappresentazione di ciò che è stato “sentito, captato” che Hobbes chiama “fantasma”, e questa rappresentazione [il fantasma] costituisce il supporto di tutte le forme di conoscenza: l’immaginazione, la memoria, la fantasia, la ragione.
Ma, in questo quadro meccanicistico, il concetto di “scienza” [come disciplina della conoscenza assoluta della realtà, afferma Hobbes] entra in crisi perché “le nozioni generali” [i principi universali e costitutivi di tutte le cose] sono solo delle convenzioni, sono dei “segni”, [per essere precisi, afferma Hobbes] sono dei “nomi” con i quali le persone si accordano per indicare ciò che vi è di simile nei vari fantasmi [nelle varie rappresentazioni delle cose sentite]: per cui “le nozioni generali” [i principi universali e costitutivi di tutte le cose] non hanno alcuna validità oggettiva.
Hobbes scrive che la scienza è “semeiotica”, termine che in greco significa “un calcolo di segni”, e questo concetto, in futuro, permetterà al linguaggio [la semiotica] di assumere la stessa valenza della matematica nella comprensione della realtà [e ci occuperemo di “semiotica” quando attraverseremo il territorio del ‘900]. Anche la volontà, afferma Hobbes, è una manifestazione del movimento perché le sensazioni, che il movimento genera e che il cervello trasmette al cuore, possono favorire o turbare il “moto vitale” della persona causando il piacere o il dolore, e producendo l’attrazione o la repulsione della persona verso l’oggetto che ha prodotto il movimento stesso ed è, quindi, dal piacere o dal dolore provato dalla persona che derivano [afferma Hobbes] tutte le facoltà che interessano la morale e che mettono in funzione la volontà.
Siccome convenzionalmente ciò che dà piacere è bene e ciò che dà dolore è male è chiaro, afferma Hobbes, che la nostra volontà tende verso ciò che dà piacere, e la rinuncia di un piacere attuale, si giustifica solo con l’aspettativa di un piacere maggiore in futuro.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Vi è capitato di rinunciare a un beneficio per ottenere una gratificazione maggiore in futuro?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Quindi, afferma Hobbes, anche la morale è soggetta al meccanicismo e si basa sull’egoismo, non un egoismo brutale ma ipocrita: un genere di egoismo che Hobbes chiama “ben inteso e calcolato”. La vita morale [afferma Hobbes] deve essere regolamentata dal ragionamento, dal calcolo, e non affidata né all’impulso passionale né allo stato di natura ed è, quindi, necessario creare delle convenzioni morali perché si possa passare dallo stato di natura allo stato di convivenza civile [ed è da questa considerazione che nasce l’opera più significativa di Hobbes].
E ora lasciamo la parola ad Adriana Zarri che deve affrontare un tema altrettanto complesso [e non è lontano dalla riflessione morale di Hobbes] riguardante il dramma dell’uccisione delle bestie.
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca
Per chi pensasse che la vita al Molinasso è perennemente idilliaca ricorderò che c’è un dramma ricorrente, ed è l’uccisione delle bestie. Quando qualcuno vede il rapporto profondo che intrattengo con loro quasi sempre mi chiede: «Le uccidi tu?» Sì, le uccido io, e non certo senza ripugnanza e problematicità. Mi domando spessissimo se ho il diritto di farlo. Non ho mai pensato di essere «la padrona» delle bestie, di possederle. Ogni animale appartiene a se stesso e va rispettato nella sua individualità e nei suoi desideri. Ciò nonostante spesso li assoggettiamo ai nostri, fino all’estremo di disporre di loro: della loro esistenza, della loro vita e della loro morte. C’è una contraddizione che non riesco a risolvere e, in me, un conflitto non chiarito. Perciò l’ipotesi vegetariana è ricorrente.
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La vita morale, afferma Hobbes, deve essere regolamentata dal ragionamento, dal calcolo, e non affidata né all’impulso passionale né allo stato di natura ed è, quindi, necessario creare delle convenzioni morali perché si possa passare dallo stato di natura allo stato di convivenza civile. Ed è chiaro che per Hobbes la convivenza civile non si realizza per iniziativa del singolo individuo [che è cattivo per natura, secondo lui] ma trova la sua applicazione con l’intervento severo e inflessibile da parte dello Stato. E il tema della politica [del primato della politica] costituisce l’elemento determinante del pensiero di Hobbes: un argomento che Hobbes tratta nell’opera molto famosa, ma poco conosciuta, intitolata Leviathan: ebbene, i punti salienti di questo celebre trattato piuttosto complesso li tratteremo nel prossimo itinerario. Perché continua ad essere è di attualità il Leviatano di Hobbes?
Per rispondere a questa e ad altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé e, quindi, consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare: la Scuola è qui, e il viaggio continua…