ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica sulla via che porta verso il secolo dei Lumi III
23-24 febbraio 2022 a Bagno a Ripoli e Tavarnuzze
a Firenze il primo gruppo il 25 febbraio 2022 e il secondo gruppo il 04 marzo 2022
SULLA VIA CHE PORTA VERSO IL SECOLO DEI LUMI,
LE QUARANTENE - DOVUTE ALLE EPIDEMIE - POSSONO ESSERE
UN TEMPO PROFICUO PER LO STUDIO E PER LA RICERCA ...
Questo è il nono itinerario del nostro viaggio sulla via che porta dalla metà del Seicento al secolo dei Lumi. A volte può succedere - nel corso di quegli eventi che si sono manifestati con una certa frequenza nella storia dell’Umanità - che le quarantene dovute alle epidemie diventano proficue per lo studio e per la ricerca: ebbene, come abbiamo detto alla fine dell’itinerario scorso, una quarantena assai proficua è stata quella di Isaac Newton [un personaggio che tutte e tutti voi avete sentito nominare], una delle menti più brillanti del XVII secolo.
All’epoca, nel 1666, Isaac Newton ha solo 24 anni, si è appena laureato all’Università di Cambridge e sta per cambiare il mondo perché l’episodio leggendario della mela che gli cade in testa e gli esperimenti in camera oscura che lo porteranno, nei decenni successivi, a elaborare le sue teorie sul calcolo, sull’ottica e sulla gravità, risalgono proprio a questo periodo di isolamento in seguito alla terribile epidemia di peste scoppiata a Londra [quando disegnavo l’itinerario di questo viaggio, sul finire dalla primavera di tre anni fa, non avrei mai pensato che questo dettaglio secentesco si sarebbe amplificato a causa di un avvenimento di portata planetaria!].
Tra il 1665 e il 1666 in Inghilterra si è diffusa un’epidemia di peste che ha sterminato più di 100.000 persone solo a Londra: circa un quinto dell’intera popolazione della città. Isaac Newton si rifugia in campagna nella contea di Lincoln, dove è nato, e dove riesce a scampare all’epidemia e a concentrarsi sulle proprie ricerche che lo portano a elaborare le sue teorie sul calcolo, sull’ottica e sulla gravità.
In funzione della didattica della lettura e della scrittura dobbiamo registrare il fatto che, nel 1722, Daniel Defoe [che tutte e tutti voi conoscete], l’autore di Robinson Crusoe e Moll Flanders [due opere che abbiamo incontrato a suo tempo in altri contesti], noto polemista e agente segreto, pubblica un libro-inchiesta molto interessante intitolato Il diario dell’anno della peste. Daniel Defoe racconta l’epidemia che ha colpito Londra e gran parte dell’Inghilterra tra la fine del 1664 e l’inizio del 1666, raggiungendo l’apice nel 1665 e provocando un enorme numero di morti tanto nella capitale quanto nei borghi periferici. Ciò che scrive Daniel Defoe ci avrebbe lasciato quasi indifferenti se non ci fossimo trovati a vivere un’esperienza che ha inquietanti analogie con quella che lo scrittore descrive; scrive Defoe nell’incipit del suo Diario: «In verità l’infezione non si diffondeva tanto per via dei malati quanto per via dei sani, o meglio delle persone apparentemente sane. I malati erano riconosciuti per tali, stavano nei loro letti e ognuno aveva modo di guardarsi da loro. Ma molte altre persone avevano preso il contagio e lo maturavano nel sangue senza mostrarlo in alcun modo, e anzi senza saperlo essi stessi. Queste persone recavano morte ovunque con il loro respiro, e la procuravano a ogni persona che incontravano, e la lasciavano in agguato, per il sudore delle mani, su ogni oggetto che toccavano. Questo fatto dimostra come durante un’epidemia non ci si possa fidare delle apparenze, e come la gente possa effettivamente avere il morbo senza saperlo, per cui non serve isolare i malati, e chiudere le case in cui qualcuno si è ammalato, se non si rinchiudono del pari tutte le persone che il malato stesso ha avuto occasione di avvicinare prima di accorgersi della propria malattia.». Nel 1664 sono passati trentaquattro anni dalla peste di Milano [descritta da Alessandro Manzoni nel capitolo XXXII de I promessi sposi, rileggetevelo] e oltre sessant’anni dall’epidemia che ha colpito la corte londinese di re Giacomo I Stuart nel 1603. Defoe, che è nato a Londra il 6 maggio 1660, ha appena quattro anni quando scoppia il contagio e nel suo Diario dell’anno della peste si serve di un personaggio fittizio, che di mestiere fa il sellaio, per esporre, insieme al racconto degli episodi della vita quotidiana, statistiche scrupolosamente documentate attraverso gli archivi anagrafici delle parrocchie.
L’Inghilterra sta vivendo gli anni della restaurazione monarchica dopo la rivoluzione di Oliver Cromwell [episodi che abbiamo citato nel viaggio di tre anni fa] e la capitale inglese, scrive Defoe, si è riempita di reduci di guerra, molti dei quali si sono dati ai commerci. La città è sovraffollata, piena di mescite e di trattorie dove i londinesi si danno alla bella vita, scrive Defoe, dopo aver vissuto le rigidità del puritanesimo rivoluzionario della Repubblica di Cromwell. Lo sfarzo della corte reale tornata al potere ha provocato un’onda consumistica che ha attirato nella cintura della capitale centomila artigiani tessili per la sola produzione di nastri. Questa è la situazione quando, nel 1663, ad Amsterdam e a Rotterdam scoppia l’epidemia nel momento in cui Londra ha scambi commerciali quotidiani con l’Olanda. Già a settembre del 1664, scrive Defoe, c’è una riunione segreta del governo per affrontare l’ipotesi di un contagio, e vengono approntati provvedimenti di emergenza in accordo con le autorità locali [con gli sceriffi e i membri dei consigli di zona] in base, scrive Defoe, all’esperienza fatta durante l’epidemia meno grave del 1656. A novembre del 1664, scrive Defoe, due francesi muoiono in un quartiere non lontano dalla riva del Tamigi nella casa della famiglia che li ospita ed è quasi certo, scrive Defoe, che siano morti di peste ma, in quanto stranieri, non vengono registrati. Nella notte tra il 20 e il 21 dicembre 1664 il paziente 1 muore in una casa privata, sempre nel medesimo quartiere dove sono morti i due francesi e Defoe accredita l’opinione che il morbo sia arrivato con un carico di seta importata dall’Oriente [dalla Cina?] fino in Olanda e da lì spedita a Londra.
Daniel Defoe nel suo libro-inchiesta denuncia il negazionismo della cittadinanza [meglio far finta che la peste non ci sia], i ritardi della politica [non si può ostacolare l’attività di mercato], i provvedimenti contraddittori [ognuno vuol proporre rimedi che non ledano gli interessi della propria categoria], denuncia la caccia all’untore straniero [la colpa è sempre di qualcun altro], insomma, le stesse situazioni, gli stessi meccanismi che si verificano a Milano in occasione dell’epidemia del 1629-1630.
A Londra, scrive Defoe, i bollettini non segnalano morti di peste per sette settimane, fino al 9 febbraio 1665. Il secondo decesso [o presunto secondo] avviene nella stessa casa del primo, poi nulla per altre nove settimane. Il 22 aprile ci sono due morti e da lì la pestilenza prende velocità: si sposta dalla zona occidentale verso oriente e poi verso sud, fino a investire il centro, la City. Questi intervalli così lunghi sono definiti e denunciati da Defoe come “una frode”, e lo scrittore lo dimostra analizzando i documenti delle varie parrocchie che, tradizionalmente, in un registro, tengono il conto dei morti nei vari distretti londinesi e mette in evidenza che il numero di morti settimanali in tutta Londra, 300 in media, aumenta fino a quattro o cinque volte e che, anche a luglio e agosto del 1665, con l’epidemia in pieno sviluppo, oltre ai decessi per peste ci sono impennate gigantesche fra i morti di altre patologie [colica, febbre viscerale, febbre ordinaria, vecchiaia e febbre purpurea, la più affine alla peste bubbonica], che cosa sta succedendo? Sta succedendo, denuncia Defoe, che per non subire la quarantena «molte famiglie riescono col denaro a fare registrare i loro morti di peste come morti di altre malattie», e trionfa, scrive Defoe, il metodo suicida del negazionismo interessato. Nella settimana dal 2 all’8 maggio c’è il primo morto nella City, il cuore della capitale, e la seconda settimana di maggio i morti di peste registrati sono solo tre, e l’ultima settimana di maggio salgono di poco, a diciassette. A questo punto le autorità ordinano un’inchiesta sui numeri perché si capisce che sono palesemente fasulli.
Intanto, decine di migliaia di persone, compreso Newton, abbandonano la città sull’esempio di re Carlo II, figlio di Carlo I, il monarca decapitato durante la cosiddetta prima rivoluzione inglese nel 1649. Mentre la famiglia reale è rinchiusa a Oxford con tutto l’esercito, nella capitale, scrive Defoe, si muore per la strada, e coloro che scappano finiscono a vivere in condizioni seminomadi, in attendamenti di fortuna dentro le foreste, o vagando di paese in paese accolti [quindi, respinti] dalla crescente ostilità di chi teme, non a torto, che i profughi siano i portatori di morte. A giugno “la truffa” dei numeri, scrive Defoe, non può più continuare e l’esplosione della malattia ha investito i quartieri da ovest a est e poi arriva anche sulla riva sud del Tamigi e, a fine giugno, vengono finalmente prese, scrive Defoe, misure drastiche: vengono nominati gli ispettori che devono sapere chi sono i malati, dove abitano e imporre l’isolamento, e chi rifiuta la carica di ispettore, scrive Defoe, finisce in carcere.
Le case con persone in isolamento vengono sorvegliate da due guardiani divisi in turni [dalle 6 alle 22 e dalle 22 alle 6] che hanno ordine di non lasciare uscire o entrare nessuno esclusi gli autorizzati: i medici, gli infermieri, i cerusici che fanno visite a casa oppure nell’unico lazzaretto cittadino che dispone appena di trecento posti. Sulle facciate delle case dove la peste ha ucciso, scrive Defoe, viene dipinta una croce rossa alta trenta centimetri con la scritta: “Signore, abbi pietà di noi”. I funerali si possono fare tra il tramonto e l’alba, anche se presto, scrive Defoe, i riti diventano impossibili per la quantità di deceduti che finiscono in fosse comuni. L’immondizia viene ritirata ogni giorno, è vietato l’accattonaggio e tenere animali come gatti, piccioni, conigli, maiali, mentre, scrive Defoe, i cani randagi vengono eliminati …
Si chiudono i locali pubblici e le bettole, mentre i forni e i mercati, dove, scrive Defoe, i contadini portano a vendere i prodotti della campagna, restano aperti, e per pagare si buttano le monete in un secchio pieno di aceto. Non c’è mai stata, registra Defoe, penuria di alimenti: il pane mantiene il prezzo precedente all’epidemia salvo un minimo aumento, ma, scrive Defoe, ci sono molte vittime sia nei forni, dove si poteva portare e cuocere il pane impastato in casa, sia fra i piccoli commercianti che, nel loro andirivieni, distribuiscono il contagio nei borghi fuori città.
Il contraccolpo sull’occupazione risulta micidiale: tutti gli operai del manifatturiero, scrive Defoe, vengono licenziati, e restano senza lavoro i facchini, i barcaioli, i carrettieri, gli edili, i marinai. Le “persone di qualità” [come chiama Defoe i nobili] buttano sul lastrico la servitù e si trasferiscono a vivere sulle chiatte ancorate in mezzo al Tamigi che formano una fila chilometrica. Solo in parte i mestieri dell’emergenza - come i guardiani - compensano la perdita di posti di lavoro, e fra i mestieri non autorizzati aumentano di numero, scrive Defoe, gli astrologi, gli indovini, i venditori di rimedi infallibili, di filtri e di amuleti, e gli angoli delle strade sono tappezzati di avvisi dove si pubblicizzano pillole, pozioni, antidoti, cordiali e persino, scrive Defoe, “vera acqua per la peste” [per farla venire o per mandarla via, ci domandiamo?]. Prosperano gli pseudoscienziati, locali e importati come un medico olandese, scrive Defoe, di cui non fa il nome, che l’anno prima ha guarito innumerevoli persone nel suo paese o come una gentildonna italiana [anche di costei Defoe non fa il nome] che ha un metodo segreto applicato durante la peste di Napoli [che in realtà era il colera] dove in pochi giorni morirono più di ventimila persone. Diventano popolari certi predicatori, scrive Defoe, che si aggirano seminudi per la città con un pentolino di carbone acceso sulla testa per tenere lontano il morbo, e i ciarlatani nel loro complesso, scrive Defoe, contribuiscono allo sterminio.
Nella seconda metà di settembre il contagio tocca il picco [in una sola settimana si registrano 8297 morti], e il dottor Heath spiega all’immaginario protagonista del Diario di Defoe che il morbo sta perdendo forza rispetto alla fine di agosto: allora uccideva in due o tre giorni mentre a settembre in otto o dieci giorni, prima guariva un malato su cinque, adesso guarivano tre malati su cinque: il dottor Heath indovina la tendenza e nell’ultima settimana di settembre si registrano duemila decessi in meno e il calo continua per tutto ottobre.
Ma la divulgazione di queste “buone” notizie ha un effetto disastroso perché i londinesi che erano scappati fuori città e quelli che vivevano segregati si abbandonano all’entusiasmo: «Ognuno [scrive Defoe] diventò di punto in bianco coraggioso e, messa da parte ogni precauzione, cominciò a frequentare le persone infette, e a mangiare e bere con loro, visitarle nelle case, e persino penetrare nelle camere dove giacevano a letto i malati ancora gravi. Riaprirono le botteghe, si ricominciò a fare affari e tornò la folla in piazza e nei locali pubblici». E così c’è un rapido ritorno di fiamma del contagio che investe con violenza la città in novembre con centinaia di nuovi morti. Le autorità tentano di impedire il rientro dei profughi dal resto del paese, dove intanto sono scoppiati altri focolai [a Norwich, a Colchester, a Lincoln dove si è rifugiato Newton] ma devono desistere perché il mercato e i commerci, scrive Defoe, hanno la meglio su ogni altra considerazione sia per questioni di sopravvivenza elementare, non del tutto garantita dalla Casa Reale che si occupa solo di ridistribuire ai vivi i beni dei morti, sia per questioni di concorrenza perché gli altri paesi europei [in primis l’Olanda, scrive Defoe] sfruttano senza pietà il vantaggio competitivo dei mesi di pestilenza. «Il nostro commercio [scrive Defoe] ne risentì le conseguenze fino a molto tempo dopo la peste, specie per via dei fiamminghi e degli olandesi i quali, approfittando della situazione, ci soppiantarono quasi ovunque anche comprando le nostre manifatture nelle città inglesi risparmiate dall’epidemia, e dall’Olanda e le Fiandre poi trasportandole in Italia e Spagna come prodotti loro».
Nonostante le imprudenze l’epidemia, che ha fatto il suo corso, riprende a declinare e a febbraio del 1666 ha termine, e solo “la gente di qualità” mantiene le famiglie nelle residenze di campagna fino alla primavera: ad aprile, scrive Defoe, Londra può tornare a vivere.
Ebbene, quando preparavo questa Lezione [a suo tempo] pensavo che il popolo della Scuola si sarebbe annoiato a seguire, senza alcun coinvolgimento, il resoconto seppur d’autore di un avvenimento preso in esame in relazione alla figura di Isaac Newton, ma oggi, che abbiamo fatto esperienza di una pandemia di maggior portata, possiamo constatare che lo studio della Storia del Pensiero Umano, soprattutto quando è funzionale alla didattica della lettura e della scrittura, ha la peculiarità di far ampliare l’orizzonte della nostra vita.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se volete potete richiedere in biblioteca il Diario di Daniel Defoe che è stato tradotto nel 1940 da Elio Vittorini e pubblicato con il titolo di La peste di Londra...
Ma soprattutto scrivete quattro righe per comunicare che cosa vi ha insegnato l’aver vissuto in tempo di pandemia... La scrittura è un ricostituente...
Dopo aver usufruito della narrazione di Defoe su La peste di Londra e prima di incontrare Newton dobbiamo occuparci di un’opera, pubblicata in Baviera nel 1669, che ci fa entrare in contatto con molti aspetti della vita popolare del Seicento narrati con lo stile della Letteratura picaresca che ha avuto oltre che nel sud dell’Europa [come sappiamo] anche uno sviluppo nel nord: quest’opera straordinaria, tra le più significative della Storia della Letteratura universale, s’intitola L’avventuroso Simplicissimus.
L’avventuroso Simplicissimus è il titolo di uno straordinario romanzo, che abbiamo già incontrato in un altro contesto qualche anno fa, pubblicato a Norimberga, in Baviera, nel 1669. Il testo di questo celebre romanzo del ‘600 è stato oggetto, oltre che di letture appassionate, anche di innumerevoli studi filologici e letterari che continuano ancora. Chi è l’autore di questo romanzo, in che modo costruisce la sua narrazione e quali sono gli argomenti contenuti in quest’opera?
L’autore di questo romanzo fa finta di essere un poeta contadino, dà a intendere di essere un ingenuo semianalfabeta che si mette a scrivere un libro popolare, mentre, in realtà, lo scrittore di quest’opera, che si chiama Hans Grimmelshausen [1621-1676], è un colto intellettuale, ed è un acutissimo osservatore della società europea del suo tempo sulla quale ha esercitato una satira caustica e formidabile. Grimmelshausen è stato nella prima parte della sua vita un militare di professione e ha combattuto [dal 1646] nell’ultima fase della guerra dei Trent’anni, ed è stata sicuramente [per lui come per tutti] un’esperienza drammatica, fatta di sopraffazioni, di abusi, di violenze da parte degli eserciti contro i civili inermi, e il suo romanzo documenta e denuncia anche questa situazione. Dopo la guerra, che termina nel 1648 con la Pace di Westfalia, Grimmelshausen ha una profonda crisi di coscienza che lo porta ad avvicinarsi al cristianesimo cistercense e, in modo laico, come Pascal e i Solitari di Port-Royal [una realtà di cui percepisce l’eco], si avvicina alle correnti mistiche e caritatevoli del cristianesimo tedesco. Nel 1649 si sposa e si guadagna da vivere facendo l’amministratore, il locandiere, e poi il pretore nella cittadina di Renchen, nell’alta valle del Reno, dove muore nel 1676.
Che cosa narra il suo famoso romanzo intitolato L’avventuroso Simplicissimus? In prima istanza c’è da dire che Grimmelshausen scrive con uno stile ricco di elementi picareschi, e nel suo racconto s’intrecciano suggestive allegorie di carattere apocalittico, grandi visioni drammatiche e utopie di carattere rinascimentale, mescolate ad avventure comiche descritte con un linguaggio ricco di battute umoristiche di carattere popolare e pervaso di una satira pungente nei confronti delle ridicole superstizioni fatte credere alle ingenue e agli ingenui popolani analfabeti dell’epoca [ma si potrebbe dire di tutte le epoche!]. Grimmelshausen crea - con la forma che dà alla sua opera - come un grande mosaico letterario di carattere grottesco e di straordinario vigore, e affida a un personaggio che si chiama “Simplicissimus” [un nome che è tutto un programma, sinonimo di Candido] il compito di accompagnare la lettrice e il lettore a osservare un tassello dopo l’altro di questo enorme “mosaico scritto”. Simplicissimus è un ragazzo che, dopo aver combattuto come soldato e dopo aver vissuto tante avventure, scopre di essere profondamente deluso dalla stupidità e dalla malvagità degli esseri umani che fanno diventare la vita un inferno quando potrebbe essere, se non un paradiso, almeno un purgatorio. Simplicissimus è un pìcaro nordico, meno triste e meno malinconico dei pìcari iberici [Lazzarillo e il Buscòn dei quali abbiamo già conosciuto le storie].
L’autore fa compiere a Simplicissimus un lungo cammino di formazione e di redenzione: Simplicissimus [non è solo una metafora, una figura allegorica] è una persona che si prepara a maturare gradualmente dentro di sé delle scelte morali e politiche che rivoluzionano la sua vita, e che non si presenta come un noioso moralista, ma è una specie di folletto dalle mille trovate, è un godibile contastorie che svela come, in mezzo a tante sciagure e a tante ingiustizie, la condizione umana possa avere un aspetto positivo. Simplicissimus trova pace e consolazione prendendosi cura di sé, diventando un eremita [perché è quando si sperimenta la solitudine che poi si desidera incontrare altri, come ci spiega anche Adriana Zarri]: pregando nella natura [quattro ore per riflettere, meditare e contemplare], coltivando il suo campicello [quattro ore per lavorare], e scrivendo il suo Libro di avventure [quattro ore per studiare].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In biblioteca potete richiedere L’avventuroso Simplicissimus di Hans Grimmelshausen che, nella forma, si presenta come un’opera scritta apposta per essere letta al ritmo di quattro pagine al giorno perché è suddivisa in sei Libri per complessivi 166 capitoli di due, tre, massimo quattro pagine ciascuno .. Questo Libro ci porta – con la metodologia del LEGERE MULTUM - nel cuore popolare del Seicento, e ci fa sentire tanto i battiti cadenzati quanto quelli irregolari di questo cuore…
E, ora, leggiamo l’incipit di questo romanzo [il primo capitolo] in cui Simplicio racconta la rustica condizione di suo padre e sua [nell’abitare, nel lavorare, nell’educarsi] ironizzando sull’aspirazione che domina tra la gente di bassa estrazione di diventare nobili e benestanti come se fosse questo il modo per emanciparsi.
Hans Grimmelshausen, L’avventuroso Simplicissimus
LIBRO PRIMO CAPITOLO I
Simplicio narra il suo rustico stato: come vi nacque e qual vi fu educato
Ai nostri tempi (che taluni considerano l’ultima èra del mondo), domina, tra la gente di bassa estrazione, una mania per cui, quelli che ne sono affetti, quando hanno racimolato e rubacchiato quel tanto che basta a sentirsi risuonar qualche pillaro in saccoccia e a comprarsi un pazzo vestito all’ultima moda con nastri e fronzoli di seta, o son riusciti a mettersi un po’ in vista grazie a qualche fortunata combinazione, vogliono passar per cavalieri e nobili di antichissimo lignaggio; ma spesso spesso, dopo diligenti ricerche, si trova solo che i loro ascendenti erano spazzacamini, braccianti, carrettieri e facchini, i loro cugini mulattieri, giocolieri, ciarlatani e saltimbanchi, i loro fratelli sbirri e carcerieri, le sorelle cucitrici, lavandaie, granataie, o addirittura puttane, le madri ruffiane o magari streghe, insomma, tutta la sequela dei loro trentadue antenati era così sporca e maculata quanto può esserlo la corporazione dei frittellai di Praga; già, questi nuovi nobili, il più delle volte, sono addirittura neri come se fossero nati e cresciuti nella Guinea. Ma io non voglio mettermi a paro con questi pazzi, sebbene a dire il vero, mi sia spesso immaginato di discendere dritto dritto da qualche gran signore o per lo meno da un semplice nobile, perché sarei portato per natura a fare il mestiere del signorotto se appena ne avessi i mezzi e la possibilità. Ma lasciamo da parte gli scherzi. La mia nascita e la mia educazione possono esser paragonate a quelle di un principe, sol che non si voglia badare alla gran differenza. Sarebbe a dire? … Mi’ pa’ (così nello Spessart [la regione più boscosa e inospitale della Germania] si chiamano i padri) possedeva anche lui il suo bravo palazzo tal quale come un altro, e, anzi, così fatto quale nessun re, fosse anche più potente del grande Alessandro, saprebbe costruirsi con le proprie mani e dovrebbe lasciarlo a mezzo per l’eternità; era intonacato di mota, e, anziché di sterile ardesia, di freddo piombo e di rosso rame, era ricoperto di paglia su cui cresce il nobile frumento. E, per poter fare bella mostra della sua rispettabilissima nobiltà, discendente nientemeno che da Adamo, e della sua ricchezza, mi’ pa’ fece innalzar le mura di cinta del suo castello non già con le pietre che si trovano per la strada o che si scavano dalla terra in luoghi sterili, e tantomeno con miserabili mattoni che cotti possono essere fabbricati e arsi in breve tempo, come sogliono fare gli altri grandi signori; usò invece legno di quercia, nobile e utile albero su cui crescono salsicce e grassi prosciutti e che deve, in conseguenza, avere almeno cent’anni per raggiungere la piena età. Dov’è quel monarca che possa imitarlo? Dove quel potente che ambisca attuare una cosa simile? Aveva lasciato che le sue stanze, camere e sale fossero interamente annerite dal fumo, solo perché questo colore è il più solido del mondo e ci vuol più tempo a terminare completamente questa tinteggiatura di quanto ne impieghi un pittore d’arte con le sue pregevoli opere. Le tappezzerie erano del più delicato tessuto della terra [ragnatele], perché ce le aveva fatte colei che, in un giorno lontano, aveva osato mettersi in gara con la stessa Minerva nell’arte del tessere [Aracne]. Le finestre erano dedicate a San Non-vetro per la sola ragione che, com’egli sapeva bene, per chiudere una finestra con un telo a cominciare dal seme della canapa o del lino per giungere fino alla completa fabbricazione, occorrono molto maggior tempo e fatica che per il migliore e più trasparente vetro di Murano; la sua condizione, infatti, lo induceva a credere che tutto ciò che viene fatto con fatica fosse, appunto per questo, quanto mai pregevole e prezioso, e che ciò che è prezioso fosse anche il più conveniente alla nobiltà e le si addicesse nel miglior modo. In luogo di paggi, lacchè e stallieri, aveva pecore, caproni e scrofe, ognuno elegantemente vestito della sua livrea naturale; i quali stavano ai miei ordini durante il pascolo, finché io stanco dei loro servigi, li cacciavo da me e li spingevo a casa. La sala d’armi era abbondantemente e bellamente fornita di aratri, zappe, asce, marre, badili, forche da concime e da fieno, e con tali armi egli quotidianamente si esercitava perché la sua disciplina militaris consisteva nello zappare e vangare come usavano gli antichi Romani in tempo di pace; aggiogare i buoi era il suo comando di capitano, spargere il letame la sua arte della fortificazione, e lavorar la terra la sua spedizione militare; spaccar legna il suo quotidiano exercitium corporis e pulire la stalla il suo nobile passatempo e il suo torneo. Così percorse combattendo tutto il globo terrestre fin dove poté arrivare, e ne strappò a ogni raccolto ricco bottino. Ma non faccio conto di tutto questo e non ne insuperbisco affatto per non dar motivo ad alcuno di ridere alle mie spalle come a quelle di tanti altri nuovi nobili: poiché io non mi reputo dappiù di mi’ pa’ che aveva questa sua abitazione in un amenissimo luogo, cioè nello Spessart (dove i lupi si augurano la buona notte). … Considerato, ora, con quanta distinzione sia stato descritto punto per punto l’andamento della casa di mi’ pa’, ognuno che abbia fior d’intelletto può facilmente dedurre che la mia educazione fu simile e conforme; e chi pensa così non s’inganna, perché fin dal mio decimo anno avevo già appreso i principia dei nobili esercizi sunnominati. Ma, quanto agli studi, potevo essere messo a paro di quel famoso Anfistide di cui Suida [è il nome di un vocabolario bizantino del X secolo, ricco di informazioni] racconta che non sapeva contare più in là di cinque; perché mi’ pa’ aveva forse uno spirito troppo elevato e seguiva quindi le usanze abituali del tempo nostro in cui molte persone di ceto elevato non si preoccupano eccessivamente degli studi o, come dicono, delle bazzecole di scuola, avendo a loro disposizione un personale stipendiato appunto per far scarabocchi. Ero però ottimo musicista nel suonar la zampogna sulla quale sapevo comporre bei canti funebri, e in questo non cedevo per nulla al meraviglioso Orfeo, eccelso con la mia piva quanto lui con la sua arpa. Per quel che riguarda poi la teologia non c’è chi mi convinca che esistesse in tutta la cristianità qualcuno della mia età capace di starmi a pari, perché non conoscevo né Dio né uomini, né paradiso né inferno, né angeli né diavoli e non sapevo distinguere né il bene né il male. Non è dunque difficile immaginare che, con tali conoscenze teologiche, io vivessi come i nostri progenitori nel paradiso terrestre, i quali, nella loro innocenza, non sapevano nulla di malattia, di morte, di trapasso e tanto meno di resurrezione. Oh, nobile vita! (puoi ben dire vita da somaro [in tedesco c’è un gioco di parole tra “edels Leben, nobile vita” e “Eselsleben, vita da somaro”]) nella quale, inoltre, non ci si preoccupava affatto della medicina. Da questo schizzo si può misurare quanto fossi meravigliosamente versato nello studium legum [studio delle leggi, giurisprudenza] e in tutte le altre arti e scienze che esistono al mondo. Proprio così: ero tanto perfetto e completo nella mia ignoranza che mi era impossibile sapere di non saper nulla. Ripeto: oh nobile vita che conducevo allora! Ma mi’ pa’ non volle che godessi oltre di tale beatitudine, e giudicò opportuno che io, in conformità alla mia nobile nascita, nobilmente agissi e vivessi; cominciò così a iniziarmi a cose superiori e a propormi lectiones più difficili. …
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Proseguite al ritmo di un capitolo al giorno, facendo attenzione a cogliere tra le righe il carattere eversivo di quest’opera nel secondo capitolo Simplicio vien pastore nominato. E fa l’elogio del suo alto stato … questo è il titolo; e in questo capitolo l’autore compone un vero è proprio saggio [ricordate Montaigne?] sull’importanza tanto materiale quanto culturale della pastorizia, andate a leggerlo …
E ora il tema che riguarda l’allevamento del bestiame capita a puntino perché dobbiamo incontrare Isaac Newton: che cosa c’entra [direte voi] l’allevamento del bestiame con Newton?
Isaac Newton, secondo il calendario giuliano, nasce il 25 dicembre 1642 che corrisponde al 4 gennaio 1643 secondo il calendario gregoriano. Newton nasce a Wollsthorpe, nella campestre contea di Lincoln, ed è il figlio di un allevatore di bestiame, di un piccolo proprietario terriero che muore tre mesi prima della nascita del figlio [si chiamava Isaac e il figlio ne ha ereditato il nome]. Tre anni dopo sua madre Hannah si risposa e va a convivere con un agiato chierico sessantenne di nome Barnabas Smith e il piccolo Isaac viene affidato ai nonni materni e, a sette anni, quando si rende conto della situazione, comincia a odiare il suo patrigno che, secondo lui, gli ha portato via la madre, e sembra che abbia tentato anche, più di una volta, di incendiargli la casa. Nel 1652 il patrigno muore e gli lascia in eredità un buon patrimonio con la clausola che lui studi e, difatti, dopo le Scuole primarie [elementari e medie] Isaac si può [molto volentieri perché è versato per lo studio] iscrivere al Collegio Reale di Grantham, una cittadina a pochi chilometri da dove lui è nato, per frequentare le Scuole superiori. Qui alloggia presso la famiglia Clarke [i Clarke erano amici dei Newton] e intesse una relazione sentimentale con Catherine Storer, la figliastra del padrone di casa, e questa, probabilmente, è stata l’unica relazione sentimentale che Isaac ha avuto nella sua vita con una donna, e si ipotizza che fosse omosessuale ma questo è un dettaglio irrilevante. Dal 1661 compie i suoi studi all’Università di Cambridge e nel 1665 acquisisce il titolo di baccelliere.
A Cambridge gli insegnamenti di carattere scientifico sono, come nella maggior parte delle Università, sclerotizzati perché si basano ancora sulla Fisica di Aristotele [e Aristotele stesso si sarebbe indignato!] ma Isaac - visto che ha acquisito delle solide competenze di base - preferisce, per conto proprio, studiare i filosofi moderni: Cartesio, Galileo, Copernico, Keplero. Quando nel 1665 a Londra scoppia l’epidemia di peste, prima ancora che tutte le Scuole vengano chiuse, Newton si rifugia in campagna, nella contea di LIncon dove è nato, e durante questo periodo di isolamento imposta tutto il suo programma di studioso: un programma di ricerca sul quale continuerà a lavorare per decenni. Newton approfitta della quarantena per consolidare la sua formazione intellettuale e, a questo proposito, inizia a studiare sistematicamente le opere del grande astronomo e matematico Giovanni Keplero [che abbiamo incontrato a suo tempo].
Keplero [1571-1630] - dopo aver studiato e aver insegnato all’Università di Tubinga - ha vissuto appartato ed è morto a Ratisbona [Regensburg, una città che - con la guida della Germania e navigando in rete - potete visitare] e da lì si è impegnato per divulgare l’opera fondamentale di Niccolò Copernico [1473-1543], intitolata De Rivolutionibus orbium caelestium [sul movimento dei pianeti, compresa la Terra, intorno al Sole], un’opera che, come ben sapetem ha ridisegnato [rivoluzionato] l’assetto del sistema planetario [con il Sole al centro del sistema] rispetto a quello tolemaico [con la Terra al centro del sistema]. Newton, che vuole consolidare la sua formazione intellettuale, si appassiona nello studio di questi argomenti di carattere matematico-astronomico che non fanno ancora ufficialmente parte dei programmi universitari, anche perché bisogna tener conto del fatto che l’opera di Copernico [il sistema copernicano, e ricordate il caso di Galileo?] era all’Indice dal 1616 e, quindi, Keplero ha avuto il coraggio di sfidare, con accortezza, l’Inquisizione cattolica e anche la diffidenza degli ambienti protestanti verso il sistema copernicano [che rivoluzionava, mettendolo in discussione, anche il racconto del Libro della Genesi sulla creazione del mondo].
Newton poi studia con grande interesse il trattato di Keplero [pubblicato nel 1619, in cui lo scienziato riassume i risultati delle sue ricerche] intitolato L’armonia del mondo, un’opera di teoria musicale nella quale spiega come gli intervalli tonali di quinta [tra il do e il sol] corrispondano all’armonia con la quale si spostano i corpi celesti: spostamenti che lui ha giustificato matematicamente con le sue celebri tre Leggi [le Leggi di Keplero] con le quali giustifica il fatto che le orbite dei pianeti, che ruotano intorno al Sole, non sono circolari [come gli aristotelici si ostinano a credere] ma sono ellittiche, e poi formula la teoria [che a Newton interessa moltissimo] de “la forza attrattiva materiale”. Keplero capisce che l’equilibrio planetario dipende dal fatto che i corpi celesti si attraggono, e che l’energia magnetica proviene dal Sole che, girando su se stesso, comunica ai pianeti la forza motrice, e anche i corpi in generale si attraggono, per cui la Terra attrae una pietra così come la pietra attrae la Terra [Newton - secondo la leggenda - preferisce dire che la Terra attrae la mela che cade dall’albero così come anche la mela attrae la Terra, e vorrebbe scoprire qual è il rapporto di attrazione tra i due oggetti, e gli piacerebbe trovare la formula che regola questo rapporto]. Keplero, che è uno scienziato dallo spirito mistico, pensa che Dio sia il direttore d’orchestra dell’Opera del Cosmo, e pensa [pitagoricamente] che i pianeti eseguano armoniosamente la sua musica e il giovane Newton, senza nessuna velleità di carattere teologico, si propone di sviluppare le ricerche che Keplero, quarant’anni prima, ha intrapreso: Keplero [per esempio] ha anche analizzato l’andamento di una cometa e ha catalogato le caratteristiche di una stella supernova, e ha disegnato una mappa delle macchie solari e, naturalmente, come abbiamo detto, si è occupato, con l’ausilio della matematica e della geometria, delle orbite dei pianeti, orbite ellittiche, che non sono per nulla facili da manovrare, e ha concentrato la sua attenzione sulla forza magnetica del Sole, problema posto nella sua terza Legge.
Newton [rallegrandosi per essere scampato all’epidemia] si convince che sia stato proprio questo studio a proteggerlo e si sente chiamato a proseguire i lavori [i temi aperti e i problemi irrisolti] che Keplero ha lasciato in eredità e, con le conoscenze matematiche che ha acquisito, proprio studiando il meccanismo della terza Legge di Keplero riesce abbastanza facilmente a dedurre la forma della formula matematica dell’attrazione solare sulle orbite circolari dei pianeti. Ma Newton sa che bisogna risolvere il problema tenendo conto delle orbite ellittiche dei pianeti, e questo fatto crea delle difficoltà anche a lui sebbene sia un volenteroso, creativo e intuitivo ricercatore e, quindi, Newton non demorde e risolve anche questo problema ma se ne disinteressa soprattutto dopo aver ottenuto [ed è un posto di prestigio molto ambito], nel 1669, la cattedra di Matematica all’Università di Cambridge.
Newton ci mette vent’anni a svelare il legame tra le tre Leggi di Keplero e “la [cosiddetta] Legge di gravitazione”. Ebbene, per chi non è addetto ai lavori [e parlo per me che sono ignorante in materia] non è facile comprendere sotto il profilo scientifico in tutti i suoi aspetti questo argomento [che io non sono in grado di approfondire] ma, secondo la natura del nostro Percorso, noi dobbiamo soprattutto conoscere, capire e applicarci su quelli che sono i risvolti di carattere umanistico che la ricerca scientifica ci propone e, di conseguenza, procediamo con cautela, e per procedere dobbiamo incontrare un personaggio che tutte e tutti voi avete sentito nominare perché si tratta di un astronomo molto famoso che, periodicamente [ogni 75 anni e mezzo circa], continuerà a essere citato: si chiama Edmund Halley [1656-1742] ed è diventato celebre perché ha studiato e calcolato la periodicità di quella cometa, individuata nel 1682, alla quale ha dato il suo nome. La cometa di Halley nel 1986 ci è passata [si fa per dire] vicina e quando ripasserà nel 2062 speriamo di poterla vedere ancor meglio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Nel 1986 avete avuto la possibilità di scrutare la cometa di Halley?... Che cosa vi fa venire in mente la parola “cometa”?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Questa parola fa venire in mente il romanzo del 1984 intitolato “La notte della cometa” di Sebastiano Vassalli sulla vita del poeta Dino Campana ...
Questo Libro lo trovate in biblioteca ...
Per quale motivo abbiamo tirato in ballo Edmund Halley? Per domandarci: in quale circostanza il ventottenne e già noto astronomo Edmund Halley e il quarantaduenne affermato matematico Isaac Newton fanno conoscenza, e perchè?
Nel gennaio del 1684 il giovane astronomo Edmund Halley riceve una sfida da quaranta scellini [voi sapete che gli Inglesi da sempre scommettono su tutto!] in cui per vincere avrebbe dovuto, entro due mesi, dimostrare l’espressione matematica della forza con cui il Sole attrae i pianeti. Halley perde la scommessa ma vorrebbe risolvere questo problema e per farlo pensa di sottoporlo a un matematico esperto, cattedratico di Cambridge: Isaac Newton. E nell’agosto del 1684 Halley cerca Newton ma viene a sapere che si trova in campagna nella contea di Lincoln, e allora Halley decide di raggiungerlo per fare la sua conoscenza e proporgli il quesito che lui non è riuscito a risolvere. Halley trova Newton, si presenta, e gli propone [senza scommettere nulla] di dimostrare l’espressione matematica della forza con cui il Sole attrae i pianeti, e Halley riceve da Newton una risposta sorprendente, gli dice che lui ha già risolto questo problema vent’anni prima [al tempo dell’epidemia di peste] ma non ricorda dove ha messo il quaderno con le operazioni e la soluzione, rassicurandolo che l’avrebbe cercata. Intanto Newton propone a Halley di visitare la città di Lincoln, il capoluogo dell'omonima contea. Che cosa c'è di interessante in questa città che Newton vuol far vedere a Halley?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La città di Lincoln, che oggi ha circa 83 mila abitanti, ha origini romane [i Romani nel primo secolo hanno fortificato il villaggio celtico di Lindon trasformandolo nella colonia di Lindum] e conserva molti monumenti e, tra questi, c’è [quella che viene considerata] la Cattedrale più spettacolare della Gran Bretagna sia per la sua posizione strategica [i suoi torrioni si vedono da lontano] sia per la mirabile sintesi tra romanico e gotico che ne caratterizza la forma …
Con una guida della Gran Bretagna e navigando in rete fate, in compagnia di Edmund Halley e di Isaac Newton, una visita alla città di Lincoln, buon viaggio...
Halley torna a Londra incredulo, ma a novembre riceve una Lettera di poche pagine in cui Newton riporta, in sintesi, la dimostrazione che: «Il Sole attrae i pianeti con una forza inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza», e Halley rimane impressionato dalla precisione e [aggiunge] dall’eleganza della dimostrazione, e incita Newton a scrivere una tesi su questo argomento. Dopo tre anni, Newton gli invia 460 pagine con formule e diagrammi: è un trattato, scritto in latino, che contiene una delle più impressionanti esplosioni creative del Pensiero Umano. Halley legge queste pagine [vi aggiunge alcune considerazioni da astronomo] e le fa pubblicare a sue spese e, nel 1687, esce in 350 copie quello che viene considerato il Libro più importante di tutta la Storia della Fisica: Principi matematici della filosofia naturale [è scritto in latino: “Philosophiae naturalis principia mathematica”]. Voi sapete che, secondo la leggenda, Newton avrebbe intuito la soluzione del problema della gravitazione quando gli è caduta in testa una di quelle mele che troviamo, come oggetto mitico, in mano a grandi figure letterarie: da Eva a Biancaneve, da Paride a Guglielmo Tell, fino ad Alan Touring, tanto per fare alcuni esempi. Perché è nata questa leggenda? Forse perché nella contea di Lincoln ci sono molti meli e, quindi si produce molto sidro [bevanda assai utilizzata nei romanzi cavallereschi].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avendo negli occhi l’immagine della mela che cade in testa a Newton appisolato sotto un albero non possiamo certo farci scappare l’occasione per riflettere su questo frutto speciale, ebbene, come vi piace mangiare le mele: crude, cotte, nella torta, nello stufato, ridotte in succo, e qual è la qualità di mele che vi piace di più, quelle più pastose o quelle più croccanti?...
Che cosa vi fa venire in mente la parola “mela”?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Nel 1666, al tempo della quarantena, Newton ha avuto un’altra intuizione creativa dalla quale è nato “il calcolo infinitesimale” che, ancor oggi, si studia nelle Scuole a indirizzo scientifico [e di questo argomento ce ne occuperemo strada facendo, nell’ambito di una grande polemica].
Ora dobbiamo domandarci: qual è la tesi contenuta nell’opera Principi matematici della filosofia naturale di Newton? E risponderemo, a mente fresca, nel corso del prossimo itinerario che sarà, ancora in parte, newtoniano.
Ora dobbiamo riflettere sul fatto che la “Legge dell’attrazione universale di Newton” non si occupa - se non indirettamente - dell’attrazione tra esseri umani ma regola i movimenti del Cielo e della Terra [e il concetto di “attrazione” è stato messo a dura prova ultimamente dal doveroso rispetto delle regole del distanziamento sociale]. La nostra compagna di viaggio Adriana Zarri - che ha scelto di vivere coltivando in primo luogo il silenzio e la solitudine - che cosa ha da dire in relazione al fenomeno dell’attrazione tra esseri umani, apparentemente stridente con la sua scelta di vita?
Leggiamo, tratto dai suoi appunti [come lei li chiama], questo brano.
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca
D’inverno, nell’eremo del Molinasso, il silenzio è più profondo, la solitudine più piena. Di solito è una concentrazione gioiosa; qualche volta può essere anche uno sgomento in relazione al benedetto fenomeno dell’attrazione tra umani.
Non so se gli eremiti abbiano coniato qualche assioma che possa bilanciare quello dei cenobiti: «Vita communis maxima poenitentia» ma certo lo si potrebbe fare, anche solo parafrasandolo: «Solitudo maxima poenitentia». Ed è una penitenza che ha aspetti minori, minimi, addirittura umoristici, e altri invece drammatici.
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Anche uno scienziato come Newton è attratto dall’esperienza dell’eterno che può essere fatta sulla terra, e quando si rende conto che anche la “Legge sulla gravitazione universale”, che lui ha codificato, non ha un valore assoluto, crede opportuno fare appello [come vedremo] a Dio, a quel grande personaggio che, anche in campo scientifico, nella seconda metà del Seicento, continua a essere protagonista come Artefice supremo della natura. Un secolo dopo [nel 1788] un matematico francese nato a Torino, Giuseppe Luigi Lagrange, dirà: «Beato Newton. C’era una sola Legge universale di natura, e l’ha scoperta lui!». E lo dice con una certa invidia! Anche se è consapevole - così come è consapevole Newton - che la scoperta di questa legge è un passo decisivo per conoscere il funzionamento dell’Universo ma non spiega tutto!
In che cosa consiste “la Legge dell’attrazione universale di Isaac Newton”?
Per rispondere a questa e a molte altre domande dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, e per questo la Scuola è qui e il viaggio continua...