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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE NASCONO E SI SVILUPPANO I MOVIMENTI POPOLARI EVANGELICO-PAUPERISTI ...

Lezione N.: 
26

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale            6-7-8  maggio  2015

San Domenico di Guzman - (Beato Angelico)

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE

NASCONO E SI SVILUPPANO I MOVIMENTI POPOLARI EVANGELICO-PAUPERISTI  ...

 

   Ben tornate e ben tornati a Scuola! Con il ventiseiesimo itinerario del nostro viaggio che da ottobre dello scorso anno stiamo compiendo sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale”, entriamo nella fase finale di questo pellegrinaggio intellettuale ma la strada che dobbiamo percorrere è ancora lunga e assai impegnativa.

   Quando abbiamo intrapreso questo Percorso nel IX secolo eravamo agli albori del movimento della Scolastica e ora siamo giunte e siamo giunti all’inizio del XIII secolo, del 1200, che viene considerato il periodo della pienezza della Filosofia scolastica. All’inizio del 1200 sul territorio dell’Ecumene cristiana avvengono una serie di fatti di notevole importanza che c’interessano per la ricaduta che hanno sul piano della Storia del Pensiero Umano, e, come ben sapete, questa disciplina [la Storia del Pensiero Umano: una disciplina che non è ancora entrata a pieno titolo nella Scuola] è il filo conduttore del nostro tragitto: stiamo compiendo un viaggio nell’ambito della Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura per propiziare in noi la formazione di una testa ben fatta piuttosto che ben piena. E ora prendiamo il passo tracciando una linea di sviluppo del nostro cammino di studio.

   Il 1200 è il secolo dell’affermazione massima della cristianità e anche dell’inizio del suo disfacimento. Il secolo XIII si apre e si chiude con due papi simbolo: Innocenzo III [Lotario dei Conti di Segni, 1198-1215] e Bonifacio VIII [Benedetto Caetani, 1294-1303], e questi due papi esprimono la Teocrazia [l’ideologia creata da Gregorio VII con il “Dictatus Papae” del 1075, un argomento che abbiamo studiato strada facendo ai primi di marzo] che afferma il primato assoluto del Pontefice sui sovrani temporali per cui gli Stati della cristianità e del mondo [la politica] sono sottomessi al potere e al giudizio della Chiesa, mentre sul piano filosofico la Ragione è considerata sottomessa alla Fede e sul piano sociale il feudalesimo, con la sua gerarchia spesso inqualificabile è considerato il sistema ideale perché garantisce alle gerarchie ecclesiastiche dei privilegi.

   Ma c’è stato un momento in cui la Teocrazia ha vacillato perché prima di Bonifacio VIII c’è stato nel 1294 papa Celestino V, Pietro da Morrone, un monaco, un mistico fedelissimo al Vangelo ma troppo ingenuo e non adatto a gestire un apparato come quello pontificio, il quale viene messo da parte [incoraggiato a dare le dimissioni, come ben sapete] con metodi diciamo così sospetti dal suo successore Bonifacio VIII che però, a causa della sua arroganza teocratica portata alle estreme conseguenze, deve subire l’umiliazione di essere maltrattato dall’ambasciatore del re di Francia.

   Il 1200 è il secolo nel quale il flusso della storia, come abbiamo studiato incontrando l’Apocalisse di Giovanni ai primi di marzo, passa attraverso le città: la città è il nuovo e grande centro di attrazione degli interessi economici, politici, culturali e religiosi. Nelle città emergono le nuove figure politiche e sociali: quella dell’artigiano e quella del mercante, ed è nella città che, attraverso le Scuole [che diventano Università], passa il flusso culturale.

   Nel 1200 cresce ancora il potere del capitalismo mercantile e della nuova classe emergente: la borghesia. Nascono però, in seno alla borghesia, anche i cosiddetti “Movimenti popolari” perché queste organizzazioni si sviluppano dentro la crisi culturale e spirituale dei figli della prima generazione borghese [Francesco d’Assisi, Gioacchino da Fiore, Pietro Valdo da Lione, Domenico Guzmán da Burgos] sono tutti figli della prima generazione borghese che contestano la mentalità dei padri. I fondatori dei “Movimenti popolari” vogliono ridistribuire la ricchezza e dar voce alle masse di miserabili che non sono in grado di organizzarsi, e questa nuova ideologia si chiama “evangelismo pauperista” e chi vi aderisce combatte contro l’accumulo della ricchezza, imbastisce una lotta di classe contro il sistema feudale e contro la Chiesa verticale.

   Il 1200 è il secolo della spaccatura nella Chiesa in nome di una Riforma in senso evangelico e contro la visione giuridico-dottrinale che la curia romana vorrebbe imporre a tutta la cristianità. Nascono, quindi, i cosiddetti “Ordini mendicanti”: nasce e si sviluppa la corrente laica dei Valdesi, mentre i Francescani e i Domenicani escono dai monasteri e si radicano nelle città, rifiutano i benefici feudali e fondano Scuole di carattere religioso che però contribuiscono a creare i presupposti della cultura laica.

   Il 1200 è un secolo di paradossi e di complessità: vi si trova la razionalità ma anche l’irrazionalismo dei movimenti apocalittici, fermentano i germi dell’Umanesimo che portano verso la modernità ma esplode anche la ferocia delle guerre feudali, fiorisce l’armonia architettonica. ma cresce anche il disordine delle masse miserabili, s’impone il clericalismo teocratico ma germoglia anche la contestazione anti-ecclesiastica e si radicalizza il contrasto tra l’ortodossia e l’eresia.

   Il 1200 è un secolo in cui nel bacino del Mediterraneo tre grandi culture - l’ebraica, la cristiana e l’araba - si incontrano [e già questo avveniva dall’anno Mille] con risultati circoscritti ma straordinari e sotto traccia in molte città [che già abbiamo visitato] vengono creati veri e propri laboratori multiculturali e interculturali.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Frequentate o avete frequentato un laboratorio per esercitare la vostra creatività?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Come abbiamo detto è interessante, nell’ottica della Storia del Pensiero Umano, il fatto che i “Movimenti popolari” si strutturino in vere e proprie organizzazioni e che nascano in corrispondenza con la crisi culturale e spirituale dei figli della prima generazione borghese i quali contestano i padri perché ambiscono ad un nuovo e diverso stile di vita [anche in questo caso, per esempio. gioca un ruolo fondamentale la conoscenza dell’Apocalisse di Giovanni], uno stile di vita meno autoritario, più egualitario, fondato sulla solidarietà e la ridistribuzione dei beni e quindi si sviluppa un fenomeno complesso ed eterogeneo che prende il nome “pauperismo evangelico”. Abbiamo citato un elenco di personaggi coinvolti in questo complesso fenomeno [Francesco d’Assisi, Gioacchino da Fiore, Pietro Valdo, Domenico Guzmán] che caratterizzano la storia del XIII secolo ai suoi albori.

   Francesco d’Assisi lo abbiamo già incontrato qualche settimana fa [subito dopo la vacanza pasquale abbiamo letto il “Cantico delle creature”: uno dei brani di Letteratura più celebri nel mondo], siamo entrate ed entrati in contatto con questo personaggio universalmente conosciuto per studiare un aspetto della sua personalità che rimane sempre in ombra, vale a dire: l’effetto che ha avuto sulla sua formazione intellettuale il “naturalismo” della Scuola di Chartres - l’opinione che “la Natura porti in sé un afflato divino” [una particolare e benevola capacità creativa] -, un dato che è, dal punto di vista della Storia del Pensiero Umano, l’elemento più significativo dell’esperienza “spirituale dalle forti connotazioni materiali” di Francesco. Questi nel 1210 stila una “prima Regola” rigidamente conforme ai dettami evangelici che viene approvata [non poteva essere diversamente] da papa Innocenzo III che [con una certa dose di manifesta ipocrisia, mentre si sta impegnando a predicare crociate contro gli eretici, a cominciare da quelli di Provenza, come vedremo] apprezza la fedeltà del “poverello d’Assisi [come Francesco comincia ad essere chiamato]” ed elogia la sua ubbidienza nei confronti della gerarchia; d’altra parte Francesco, che non è un ingenuo e non vuole incorrere in accuse di eresia, mira ad ottenere che il suo “ordine” venga ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa ufficiale [vuole un riconoscimento istituzionale] in modo che, dall’interno, le sue “idee pauperiste di stretta osservanza evangelica” possano agire “come il lievito”. Successivamente, nel 1223, papa Onorio III approva la definitiva “Regola francescana” redatta in termini più giuridici [con la collaborazione di Ugolino dei Conti, il primo simpatizzante francescano nominato cardinale] e da queste momento nasce il “francescanesimo”. Francesco muore in odore di santità nel 1226 e, subito dopo la sua morte, il movimento francescano, come sempre succede in questi casi, comincia a frazionarsi in varie correnti, compresa quella femminile delle Clarisse.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per capire i principi di base [lo zoccolo duro] della “Regola francescana [in particolare la prima regola redatta da Francesco]” basta fare un semplice esercizio: leggete le due pagine che contengono i capitoli 5, 6 e 7 del “Vangelo secondo Matteo [il celebre “Discorso della montagna”]” che inizia con il brano della cosiddette “Beatitudini”...  

In tutte le biblioteche domestiche c’è una Bibbia che contiene la Letteratura dei Vangeli, utilizzatela per comprendere i presupposti dell’ideologia pauperista...     

 

   Non meno importante per la fondazione del “movimento pauperista” e del rinnovamento della Chiesa è un personaggio che si chiama Valdo [nominato erroneamente Pietro Valdo in documenti a lui posteriori]

   Valdo [1140 circa - 1217] è il fondatore di quello che si chiama il movimento valdese ed è stato un ricco mercante, un potente borghese di Lione che, verso il 1173, all’età di 33 anni, nel pieno della maturità, ha deciso di cambiare stile di vita dopo aver letto, con sempre maggior interesse, la Letteratura dei Vangeli [in particolare il testo “Secondo Giovanni”] e la Letteratura dell’Antico Testamento [in primo luogo il “Libro dell’Esodo”]. Valdo, con razionalità, distribuisce tutte le sue ricchezze ai poveri e comincia a predicare la “buona notizia della risurrezione di Gesù” praticando l’assoluta povertà. Valdo frequenta le chiese di Lione e al termine dei riti prende la parola mentre la gente esce di chiesa e traduce il Vangelo in lingua volgare: predica con semplicità e con spirito critico nei confronti della poca aderenza tra la parola del Vangelo e il comportamento degli ecclesiastici, e molte persone, appartenenti al popolo minuto, lo stanno ad ascoltare e altrettante si aggregano a lui dando vita ad un movimento detto dei “poveri di Lione”. Nel 1177 l’arcivescovo Guichard proibisce a Valdo di predicare perché non appartiene ai quadri della gerarchia e soprattutto perché il suo messaggio è fortemente anticlericale: il sacerdozio non può essere il privilegio di una classe, sostiene Valdo alla luce del Vangelo, ma appartiene a tutti i credenti e l’obbligo della povertà [di uno stile di vita sobrio e solidale] è tassativo per tutti i cristiani e tutti [uomini e donne] hanno il dovere di predicare: ciò che conta è il merito e non l’ordinazione, e si può pregare anche in una stalla [non è nato forse Gesù in una stalla? Sostiene Valdo] purché lo si faccia con “cuore sincero” e i sacramenti amministrati da preti indegni non sono validi così come è un atto sacrilego vendere le indulgenze per i defunti e vendere il perdono dei peccati. I “poveri di Lione”, inizialmente, continuano a frequentare le chiese e a mescolarsi ai fedeli non solo per sfuggire alle condanne dei vescovi ma anche per ricevere quei sacramenti che essi considerano essenziali per la loro salvezza reputandosi, nonostante la persecuzione, membri della Chiesa di Roma. Valdo si rivolge al papa, Alessandro III, Rolando Bandinelli che si era dovuto rifugiare in Francia a causa del dissidio con l’imperatore Federico Barbarossa, e ottiene l’approvazione del “voto di povertà” e la “possibilità di predicare anche nelle chiese” solo se i sacerdoti lo avessero richiesto. I “poveri di Lione”, che si sono organizzati in comunità, predicano in tutti gli angoli della città, e vengono ascoltati soprattutto dal popolo minuto, ma il loro operato non viene approvato dall’arcivescovo che, con un decreto, ordina che Valdo e i suoi seguaci vengano cacciati dalla città: la Chiesa gerarchica teme questo movimento popolare di carattere pauperista che applica con coerenza l’evangelico “Discorso della montagna” e, quindi, i Valdesi [alla luce di ciò che sta succedendo in Provenza, e fra un po’ ne parleremo] vengono condannati come eretici dal sinodo di Verona [1184] e dal IV Concilio lateranense [1215], ma il movimento valdese, così come quello francescano che però non subisce condanne ma solo censure, si diffonde nella Francia meridionale, in Boemia e nell’Italia settentrionale.

   Valdo muore intorno al 1217, secondo la leggenda in Boemia, lasciando alle comunità che sono sorte in ragione della sua predicazione, attraverso tutta una serie di documenti tramandati, un monito a condurre uno stile di vita [a livello materiale ed intellettuale] secondo una maggiore aderenza possibile ai dettami evangelici [e grande importanza viene data all’alfabetizzazione in modo che ciascuno possa leggere la Bibbia e i Vangeli] per conoscere e per capire quali sono le Regole di comportamento a cui attenersi in modo da poter partecipare consapevolmente alla consultazione permanente tra tutti i credenti [uomini e donne] della comunità così da regolarne il funzionamento in modo armonico e aderente al Vangelo [con una positiva ricaduta sociale]: questo è il concetto della “riforma permanente [un’idea che continuerà a svilupparsi nel corso della modernità]”.

   Inoltre Valdo esorta ad esorcizzare la violenza [anche a non mettere in condizione i persecutori di esercitarla] ed invita le comunità dei credenti a non esporsi ma a mettersi in cammino sulla via dell’Esodo: che senso ha questo invito [sul piano della Storia del Pensiero Umano]? Anche Valdo s’ispira al capitolo 21 dell’Apocalisse [argomento che abbiamo studiato ai primi di marzo] affermando però che “i cieli nuovi e la terra nuova [la Santa Gerusalemme]” bisogna andarla a costruire [Dio, attraverso la visione di Giovanni, ha rivelato - apokalipsèin - ai cristiani come si devono comportare in proposito] “uscendo dalla schiavitù [sottraendosi alla persecuzione]” mettendosi in marcia nel deserto [Valdo pensa che la città borghese e vescovile non corrisponde certo alla Gerusalemme celeste!]; quindi, i credenti devono mettersi in cammino - così come hanno fatto gli Ebrei prigionieri in Egitto guidati da Mosè che ascoltava la voce di Dio [kol ha-El] -,  secondo il racconto del Libro dell’Esodo perché la Chiesa non è lo Stato pontificio, afferma Valdo, ma è “il popolo di Dio in cammino [e questa definizione della Chiesa diventa patrimonio dei movimenti popolari]”. Ed è così che le comunità valdesi, in modo ricorrente nel corso del tempo e del momento storico, si mettono in cammino e si stabiliscono in zone inospitali del territorio, soprattutto montane, dove possono fuggire dalle persecuzioni [decretate dai documenti sinodali e conciliari] e sopratutto dove possono stabilirsi per edificare - inizialmente conducendo una vita durissima ma poi sempre più ben organizzata tanto da diventare un modello - la “comunità evangelica [la città di Dio]”.

   Ed è per questo motivo che se noi oggi in Italia vogliamo visitare il mondo valdese dobbiamo risalire le valli Alpine [la zona delle Alpi Cozie]: la val Péllice, la val Germanasca.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida del Piemonte e navigando in rete andate a fare un’escursione in val Péllice, visitate il paese di Torre Péllice [in provincia di Torino] che si trova all’imboccatura della valle omonima… 

 

   Noi ora - sempre sulla scia di Valdo - dobbiamo ancora [essendo il nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura] puntare l’attenzione sul tema della Letteratura medioevale: sappiamo, perché lo abbiamo studiato, che il Libro più importante del Medioevo è l’Apocalisse di Giovanni, poi viene il Vangelo secondo Giovanni [del cui Prologo ci occuperemo a breve] seguito dal Libro della Genesi [il cui testo, contenendo nella sua prima parte il tema della creazione, viene utilizzato nelle Scuole, come abbiamo potuto constatare ultimamente a Chartres, per essere messo in parallelo e a confronto con il dialogo “Timeo” di Platone e con la “Fisica” e la “Metafisica” di Aristotele]; al quarto posto nella graduatoria dei Libri più significativi del Medioevo [la tètrade letteraria più utilizzata in Età medioevale] si pone - anche per impulso di Valdo e dei “movimenti popolari pauperisti” - il Libro dell’Esodo, e dobbiamo, quindi, fare alcune considerazioni su questo testo per capire soprattutto come entra nell’ottica della Scolastica.

   Se dovessimo occuparci del Libro dell’Esodo in modo approfondito ci vorrebbe un intero Percorso: questo argomento lo abbiamo trattato in modo approfondito attraversando, sette anni fa se ricordo bene, il territorio della sapienza poetica beritica. Ci avviciniamo a questo Libro anche perché, procedendo in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura, si può cogliere [e questo è il momento] l’occasione per leggere o per rileggere quest’opera: la trama dell’Esodo è molto nota [è il più importante manifesto che sia stato scritto sul tema della liberazione degli oppressi] e ora noi facciamo solo alcuni riferimenti su quest’opera fondamentale della Storia del Pensiero Umano in relazione al ruolo che questo testo ha nella storia dei “Movimenti popolari evangelico-pauperisti” sorti in Età medioevale.

   Il Libro dell’Esodo - che in ebraico s’intitola Shmot, Nomi - è formato da 40 capitoli [è un Libro di circa 40 pagine] e si divide in tre parti: i primi 20 capitoli raccolgono quella straordinaria sequenza narrativa, universalmente nota più che altro per sentito dire, che racconta l’oppressione a cui gli Israeliti sono sottoposti in Egitto, la nascita di Mosè [“salvato dalle acque”, il grande protagonista del Libro], lo scontro con il Faraone, i famosi castighi [le cosiddette piaghe] nei confronti degli Egiziani perché lascino partire gli Ebrei, l’attraversamento del Mar Rosso e poi del deserto fino al Monte Sinai dove viene stipulato il patto di solidarietà con Dio [la berit primordiale], che si concretizza con la consegna della Legge, la toràh [termine che letteralmente in ebraico significa “la Legge uguale per tutti”]. La seconda parte del Libro dell’Esodo, dal capitolo 20 [il capitolo dei dieci comandamenti] al capitolo 34, contiene legislazione, regole per la liturgia ma anche la prima rottura del patto [la costruzione del vitello d’oro]. La terza parte, dal capitolo 35 al capitolo 40 [la meno coinvolgente perché di carattere burocratico], descrive la creazione di una serie di istituzioni per la realizzazione del culto. Ebbene, noi ci siamo avvicinati al Libro dell’Esodo perché Valdo di Lione si è soffermato, secondo quanto dicono i documenti e le testimonianze raccolte su di lui, a fare l’esegesi del Libro dell’Esodo in relazione alla sua esperienza di conversione soffermandosi su alcuni temi inaspettati, meno convenzionali, e molto interessanti perché hanno trovato un riscontro nel comportamento delle comunità valdesi [e non solo]: è su questo aspetto che dobbiamo puntare la nostra attenzione.

   Per esempio dalla riflessione di Valdo emerge che il Libro dell’Esodo-Nomi è pieno di kolòt, che in ebraico significa “voci”. Gli scrivani che hanno composto questo Libro [gli scrivani della seconda generazione in esilio a Babilonia e poi gli scrivani del Codice Priester (Sacerdotale), e di questo argomento ce ne siamo occupate ed occupati a suo tempo] ci fanno ascoltare molte voci: quella incerta di Mosè [e veniamo a sapere che è anche balbuziente], la voce fragorosa del popolo e, soprattutto, la voce misteriosa del liberatore divino, di Colui che fa uscire gli Israeliti dalla terra d’Egitto [Colui che li esorta a spezzare le loro catene], e uno dei motivi [di carattere letterario] per dedicarsi alla lettura di questo Libro [visto che la trama del Libro dell’Esodo-Nomi è molto conosciuta, per lo meno nelle sue grandi linee] è proprio quello di esercitarsi a catturare le “voci” che emergono da questo testo.

   La parola “kolòt” indica anche i suoni prodotti da un corno d’ariete, dai sonagli di un gregge, dai fragori dei tuoni, dallo spirare del vento, quindi il testo del Libro dell’Esodo-Nomi propone questo termine - kolòt [le voci] - per indicare una pluralità di situazioni, e gli scrivani d’Israele, nella semplicità di una parola sola che dice tante cose, vogliono custodire un concetto: coltivano l’idea che la loro “lingua sacra” è capace di affermare che il Mondo creato sa parlare incessantemente ed è necessario imparare ad ascoltarlo, nelle voci dei pastori [il suono del corno], nelle voci sul monte [i boati dei tuoni], nelle voci del gregge [il tintinnio dei sonagli], nelle voci della valle [il sospiro della brezza], nelle voci del fuoco [Dio che parla]. Quando i Valdesi hanno risalito con fatica e sacrificio le valli alpine [attraversando il deserto] in cerca di salvezza hanno trovato la forza per farlo nella parola kolòt [le voci]: hanno saputo ascoltare le voci del Mondo creato e si sono immedesimati nel popolo dell’Esodo: hanno affinato il concetto che la Chiesa è “il popolo di Dio in cammino” che percorre un mondo insidioso ma pieno di “voci salvifiche”.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Nella Letteratura beritica - in particolare nel Libro dell’Esodo-Nomi – emergono le voci della natura oggi sommerse dai rumori della civiltà caotica…

Quali sono le voci della natura a cui siete più affezionate e affezionati perché meglio si sono inserite nella vostra autobiografia?…

Scrivete quattro righe in proposito…  

 

   Nel Libro dell’Esodo-Nomi troviamo un dubbio che assume i contorni del paradosso perché chi ha scritto questo Libro lascia che le lettrici e i lettori non possano fare a meno di coltivarlo questo dubbio: ma Mosè, sul Sinai [il capitolo 19 e il 20 dell’Esodo], ha davvero ricevuto le tavole dal Signore oppure se le è dovute scolpire da solo? Perché: se il Signore si fosse davvero manifestato nel sua pienezza, Mosè da quel monte non sarebbe più potuto scendere. Sopra il monte, nel deserto, è il dito divino che scalpella il Codice o è lo stilo di Mosè che compone la Legge e si assume la responsabilità di interpretare il disegno di Dio con l’afflizione di non essere stato all’altezza di questo compito?

   Formidabile è, nel testo del Libro dell’Esodo-Nomi, la presenza di questo dubbio che aleggia e investe le coscienze degli scrivani compositori del testo che riversano sulla figura mitica di Mosè la stessa responsabilità che loro si sono assunti perché - una cosa è certa - è il loro stilo, in realtà, che costruisce il testo della Legge. Gli scrivani d’Israele - con il loro spiccato senso dell’ironia - alludono al fatto che i miracoli corrispondono a una “illegalità della natura” che fa da contrasto all’azione di Mosè: Dio può permettersi di trasgredire alle regole della natura [con le piaghe d’Egitto, aprendo il Mar Rosso, facendo scaturire l’acqua dalle pietre del deserto, facendo piovere la manna e via dicendo], Mosè invece, come gli scrivani d’Israele autori di questo significativo testo, non può fare i miracoli [tutt’al più può compiere qualche gioco di prestigio col suo bastone] ma deve essere realista in modo da costruire “la legalità nella società” perché l’autentico “miracolo” è che tutti rispettino la Legge e rispettino il principio che “la Legge è uguale per tutti [e questo è il significato del termine Toràh]”. E su questo tema, il tema della legalità [il fatto che la Legge sia uguale per tutti], i Valdesi e i Movimenti popolari evangelico-pauperisti hanno avviato una riflessione che è andata ben oltre il Medioevo.

   E ora, visto che abbiamo in mano il Libro dell’Esodo-Nomi pratichiamo una deviazione in funzione della didattica della lettura e della scrittura perché non possiamo non celebrare un anniversario: nel mese di maggio dell’anno 1615 [quattrocento anni fa esatti] è stata pubblicata la seconda parte [la prima parte era stata pubblicata nel 1605 e noi abbiamo celebrato l’evento a suo tempo, nel 2005] di quello che viene considerato il primo grande romanzo della Storia della Letteratura moderna, che andrebbe periodicamente riletto e meditato, intitolato: El ingegnoso hidalgo Don Quijote de la Mancha [Il fantastico cavaliere don Chisciotte de la Mancha], semplificato poi in Don Chisciotte, e Don Chisciotte è tra i più celebri, se non il più famoso, personaggio della Storia della Letteratura, universalmente conosciuto anche se un numero molto ridotto di persone ha letto il testo del romanzo che contiene le sue “fantastiche avventure”.

   Il Don Chisciotte [El ingegnoso hidalgo Don Quijote de la Mancha (Il fantastico cavaliere don Chisciotte de la Mancha)] ricalca, così come avviene per molte altre opere letterarie, gli elementi fondamentali - l’investitura, il viaggio vagabondo, i prodigi e la terra promessa - che costituiscono la struttura del Libro dell’Esodo e questo impianto infonde energia narrativa alla trama di quest’opera. Chi s’imbatte in Don Chisciotte incontra anche Sancho Panza, la sua indispensabile spalla, e dietro a questi due straordinari personaggi c’è uno scrittore che tutti conosciamo, almeno di nome: Miguel de Cervantes Saavedra, nato ad Alcalà de Henares nel 1547 e morto a Madrid nel 1616. Cervantes è un personaggio dalla vita movimentata: dal 1568 è in Italia per sfuggire a una condanna nel suo paese.

   Intraprende la vita militare e partecipa a diverse famose battaglie [Lepanto, Navarino, Biserta, Tunisi] nelle quali viene ferito più volte. Viene anche catturato dai pirati Barbareschi e vive prigioniero a Tunisi per cinque anni prima di essere riscattato: torna in Spagna dove finisce ancora due volte in prigione. Negli ultimi anni della sua vita è oppresso da difficoltà economiche e familiari, ma riesce a trovare un po’ di consolazione dandosi ad una intensa vita letteraria.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Per conoscere meglio Miguel de Cervantes Saavedra potete utilizzare l’enciclopedia, la biblioteca o navigare in rete

 

   Il Don Chisciotte di Cervantes non è solo il primo vero romanzo moderno [la prima parte è stata pubblicata nell’aprile del 1605 e la seconda parte nel maggio del 1615] ma è anche una delle più importanti opere della Storia del Pensiero. Cervantes compone questo romanzo con lo stile della satira letteraria [conosce bene le opere satiriche latine] e ha in mente, possedendo una vasta cultura biblica, gli elementi fondamentali [l’investitura, il vagabondaggio, i prodigi e la terra promessa] del Libro dell’Esodo, il testo più avventuroso della Letteratura beritica [dell’Antico Testamento].

   Il romanzo di Cervantes, come tutti sanno, racconta la storia tragicomica di un oscuro cavaliere [un nobiluomo un po’ spiantato] di un borgo della Mancha: questo oscuro cavaliere è un vorace lettore di romanzi cavallereschi, legge così tanto che s’immedesima completamente, perdendo il senso della realtà,] nel personaggio del “cavaliere errante [il cavaliere medioevale senza macchia e senza paura]”, di un puro e coerente cavaliere errante che persegue con tenacia ideali d’amore, di onestà [sempre fedele al patto di solidarietà] e di giustizia [per il rispetto della Legge che deve tutelare tutti a cominciare dai più deboli]. Don Chisciotte pensa che sono questi [l’amore, l’onestà, la giustizia] i valori che danno senso alla vita ma la sua purezza cavalleresca contrasta con la realtà: la realtà in cui vive è triviale, è volgare, è ipocrita, è violenta, e gioca senza pietà con la dolorosa e ingenua follia di questo “candido” personaggio. L’unico sollievo per lui viene dal popolare buon senso del suo scudiero Sancho Panza, che è la sua spalla premurosa.

   Il Don Chisciotte è un’opera che riflette non solo sulla decadenza e la crisi di una società: la società dell’aristocrazia spagnola del suo tempo. Ma è un’opera che - in linea con il pensiero dei Movimenti popolari evangelico-pauperisti, ai quali Cervantes guarda con attenzione - contiene un’ampia riflessione sulla crisi dei valori, sul senso tragico di una società che non è capace di costruire la solidarietà, l’accoglienza, la giustizia sociale, la condivisione. Quando non ci sono questi valori [e questo è il significato di fondo del Don Chisciotte] la vita finisce per avere un senso tragico, un risvolto doloroso.

   Don Chisciotte è diventato un personaggio universale perché Cervantes ha saputo porre attraverso questa straordinaria figura una domanda fondamentale: sono un po’ pazzi coloro i quali vogliono lottare perché l’amore, l’onestà, la giustizia e la pace abbiano un ruolo nel mondo? Sono solo dei visionari [degli apocalittici] costoro?

   Cervantes, in periodo di Contoriforma [un periodo che ristudieremo a suo tempo], costruisce un personaggio da romanzo apparentemente “innocuo”, ma Don Chisciotte non è un personaggio innocuo e tanto meno solo comico [per giunta la sua comicità è involontaria]: Don Chisciotte si rivela come una persona molto seria che fa le cose con un grande impegno intellettuale, morale e civile, e ha poca voglia di scherzare e lo si ama anche per la malinconia e la nostalgia che ci regala.

   Leggere il romanzo che racconta le avventure di Don Quijote de la Mancha è una bella impresa [la Scuola consiglia di leggerne due pagine al giorno] perché ci fa capire che il pazzo non è Don Chisciotte, ma il pazzo, insegna Cervantes, è chi calpesta i grandi valori dell’Umanesimo che sono entrati in incubazione nel periodo della Scolastica, territorio che stiamo attraversando dall’ottobre scorso. Per questo Don Chisciotte è un personaggio “scolastico” che riceve la sua investitura [non in un palazzo reale, non in una cattedrale] ma in una Biblioteca e l’elezione gli proviene dai romanzi cavallereschi che raccontano storie di soprusi riparati da salvatori erranti. Nel cuore di questo eroe intrepido e inadatto ci sono le tavole di una Legge che lui vuole rispettare ad ogni costo andando anche allo sbaraglio e vagabondando in ogni luogo dove possa incontrare un prodigio: ma questo prodigio avviene solo nella sua mente capace di svelare a lui soltanto mostri fantastici e avventure straordinarie.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Come faremmo a sopravvivere se anche noi, ogni tanto, non immaginassimo avventure straordinarie: ne avete qualcuna da raccontare?

Scrivetela...

 

   Infine Don Chisciotte ha come obiettivo quello di conquistare un’isola [una terra promessa] da donare al suo popolo che è formato da una persona sola: il suo scudiero Sancho, l’incredulo, il duro di cervice ma tenace in fedeltà, in spirito di servizio e in senso del dovere. Cervantes mira a riprodurre quelle storie grandiose [presenti nella Letteratura classica: ebraica, greca e latina] che richiamano gli esseri umani allo spirito di servizio e al senso del dovere.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - necessità, bisogno, convenienza, opportunità, compito, obbligo, o quale altra - mettereste per prima accanto alle espressioni “spirito di servizio” e “senso del dovere”?...

Scrivetela...

 

   E ora leggiamo una pagina [la nostra razione giornaliera] dal Don Chisciotte.

 

LEGERE MULTUM….

Miguel de Cervantes,  Don Chisciotte

In quello stesso tempo Don Chisciotte si mise a circuire un contadino del vicinato; un uomo dabbene (seppure si può dare questo nome a un povero) ma con molto poco sale nella zucca.  In conclusione tanto disse, tanto lo persuase e tante promesse gli fece, che il pover’uomo si decise a partire con lui e a fargli da scudiero.

Gli diceva fra l’altro Don Chisciotte che lo seguisse volentieri, perché poteva capitargli qualche avventura da guadagnarsi in quattro e quattr’otto un’isola, di cui allora lo avrebbe nominato governatore.

Con queste e altre simili promesse, Sancho Panza, così si chiamava il contadino, lasciò la moglie e i figliuoli, e si collocò come scudiero presso il suo vicino; poi Don Chisciotte si mise a far quattrini, e vendendo una cosa, impegnandone un’altra, ma tutte con molto scapito, mise insieme una discreta sommetta.

Si provvide anche di uno scudo rotondo che chiese in prestito ad un amico, e rabberciata meglio che poté la celata rotta, avvisò il suo scudiero Sancho del giorno e dell'ora che pensava di mettersi in cammino, perché anche lui si provvedesse del necessario, e gli disse di portar delle bisacce.

Il contadino rispose che l’avrebbe portate, e che pensava anche di portare con sé un suo asino bravissimo, perché lui di camminare a piedi non era buono. Su questo affare dell’asino Don Chisciotte stette un po’ perplesso, cercando di ricordarsi se c’era stato mai un cavaliere errante che si fosse menato dietro uno scudiero montato all’asinesca, e non gliene venne in mente punti; tuttavia gli disse di portarlo, col proposito di sistemar poi il suo scudiero su una più onorevole cavalcatura alla prima occasione in cui potesse togliere il cavallo a qualche poco cortese cavaliere in cui s’imbattesse.

Si provvide di camicie e di quante altre cose poté, conforme al consiglio che gli aveva dato l’oste, e fatti tutti questi preparativi, una bella notte, senza nemmeno dire addio, Sancho alla moglie e ai figliuoli, Don Chisciotte alla nipote e alla governante, uscirono dal paese senza essere visti da nessuno, e camminaron tanto che all’alba si tennero sicuri che, se anche li avessero cercati, non li avrebbero trovati. Andava Sancho Panza sulla sua cavalcatura come un patriarca, con le bisacce, con l’otre e con una gran voglia di vedersi governatore dell'isola che il suo padrone gli aveva promessa.

Don Chisciotte prese la medesima strada che aveva preso nel primo viaggio, cioè attraverso la pianura di Montiel, ma procedeva con minore oppressione della prima volta, perché era di mattina presto, e i raggi del sole, venendo di traverso, non davano tanta noia.

Sancio Panza intanto a un certo punto disse: Guardi bene, signor cavaliere errante, di non dimenticarsi dell’isola che mi ha promesso, perché io la saprò governare benissimo, per quanto grande possa essere.

Amico Sancho gli rispose Don Chisciotte tu devi sapere che fu un uso molto comune tra gli antichi cavalieri erranti quello di nominare i loro scudieri governatori delle isole e dei regni che conquistavano, ed io sono deciso a impedire che un uso così lodevole, vada perduto per colpa mia.

Anzi penso di andar più in là, perché gli antichi molte volte, e forse le più, aspettavano che i loro scudieri fossero vecchi, e quando erano stanchi di servire e di passare giorni cattivi e peggiori notti, davan loro qualche titolo di conte, o tutt’al più di marchese, di qualche valle o provincia più o meno importante; ma se Dio ci dà vita, potrebbe essere benissimo che prima di sei giorni io conquistassi un regno, da cui ne dipendessero degli altri, in modo che l’occasione si prestasse proprio bene per darne uno a te.

E non credere che questa sia cosa straordinaria, perché accadono ai cavalieri erranti cose e casi mai visti e così impensati, che facilmente ti potrei dare anche di più di quel che ti prometto.

Allora rispose Sancho Panza se per qualche miracolo di quelli che dice lei, io diventassi re, la mia donna, Giannina Gutierrez, verrebbe per lo meno ad essere regina, e i miei figliuoli principi ereditari.

E chi lo mette in dubbio? rispose Don Chisciotte.

Io, lo metto in dubbio replicò Sancho Panza perchè io credo che se anche Iddio facesse piovere regni sulla terra, in capo a Maria Gutierrez non ce ne starebbero punti. Lei deve sapere che come regina non vale due soldi; contessa andrebbe un po’ meglio, e magari volesse Iddio!

Lascia fare a Dio, Sancho rispose Don Chisciotte e lui le darà quel che conviene di più, ma non ti umiliare tanto da contentarti d’essere di meno che governatore.

Oh, no! non dubiti rispose Sancho tanto più che lei è un padrone così buono e così potente, che mi saprà dare tutto quello che mi starà bene a mano, e che sarò capace di reggere.” …

 

   A volte ci si domanda: che cosa c’è “di nuovo” da leggere?

   Ebbene, El ingegnoso hidalgo Don Quijote de la Mancha [Il fantastico cavaliere don Chisciotte de la Mancha] ci riserva, ad ogni ulteriore lettura, sempre qualcosa di nuovo da scoprire, ed è utile sapere che quest’opera è una delle più riuscite parafrasi [tra tutte quelle che sono state scritte] del Libro dell’Esodo e, naturalmente, è un testo che contiene anche un evidente spirito “apocalittico [visionario]”. E l’aggettivo “apocalittico” ci riporta sul nostro sentiero specifico sul quale dobbiamo incontrare un altro importante personaggio legato ai Movimenti popolari evangelico-pauperisti.

   Ed ora questo personaggio lo andiamo addirittura ad incontrare partendo dal Paradiso, da quel Paradiso che [in teoria, perché in pratica è necessario saper leggere] è accessibile, in vita, a tutte e a tutti noi: quello composto da Dante Alighieri con la sua sapienza poetica. La lettura del Paradiso della Divina Commedia di Dante è anche un’operazione complicata per il fatto che questa Cantica raccoglie - tra molti altri temi - l’esaltazione che il poeta fa della Filosofia scolastica e dei suoi rappresentanti che, essendo molti di loro stati santificati [San Bernardo, San Francesco, San Tommaso, San Bonaventura, San Domenico], non possono che trovarsi in Paradiso insieme a molti altri intellettuali [anche in odore di eresia] che hanno avuto un ruolo importante nell’evoluzione della Storia del Pensiero umano in Età medioevale.

   Il personaggio che dobbiamo incontrare lo troviamo in buona compagnia collocato nel canto XII del Paradiso che ora non abbiamo il tempo di commentare nella sua interezza [ci vorrebbe un itinerario intero, ma questo è un esercizio che potete fare per conto vostro: non c’è biblioteca domestica che non contenga una Divina Commedia con tanto di note esplicative e di commenti, non lasciate inattivo questo volume].

   Negli ultimi 19 versi del canto XII del Paradiso, davanti a Dante accompagnato da Beatrice [ci troviamo nel Cielo quarto o del Sole dove stanno i dottori di Filosofia e Teologia], prende ancora la parola il filosofo e teologo francescano San Bonaventura da Bagnoregio [al quale Dante ha già fatto tessere l’elogio di San Domenico  e la deplorazione di quei Francescani che non seguono le orme del fondatore del loro ordine, del “poverello d’Assisi”] e, quindi, presenta se stesso e gli undici suoi compagni che formano una luminosa corona di beati [che hanno circondato Dante e Beatrice], e il santo dice: «Io sono l’anima [la vita] di Bonaventura da Bagnoregio che nei diversi e importanti incarichi che ho ricoperto [è stato generale dei Francescani, cardinale, autore di opere filosofiche] ho sempre messo in secondo piano [posposte] le [sinistre] cose temporali  … Le anime luminose che stanno accanto alla mia, dice Bonaventura, sono quelle di undici personaggi che ora vi presento: ci sono alla mia destra i due frati Illuminato da Rieti e Agostino da Assisi che sono stati i primi a mettersi il cordone [il capestro] di San Francesco; poi c’è Ugo da San Vittore [che abbiamo incontrato a suo tempo] filosofo e teologo parigino; poi c’è Pietro Comestor [Dante traduce il Mangiadore, dal latino] filosofo e autore di numerosi trattati; poi c’è Pietro di Giuliano da Lisbona detto Pietro Ispano, medico, teologo e papa Giovanni XXI, autore [giù in terra] di un’opera in dodici libretti intitolata Summulae logicales; poi c’è il profeta Natan [che ha rimproverato il re Davide per il suo stile di vita poco consono al suo ruolo]; poi c’è Giovanni detto Crisostomo [dalla bocca d’oro], patriarca di Costantinopoli e grandissimo oratore; poi c’è Anselmo d’Aosta [nostra vecchia conoscenza] insieme ad Elio Donato, celebre grammatico latino [e “la prima arte” - ribadisce Bonaventura - è appunto la grammatica]; poi c’è ancora il filosofo benedettino Rabano Mauro [arcivescovo di Magonza, discepolo di Alcuino, studente alla Scuola di Tours, pellegrino a Gerusalemme, invitato ai convegni della Scuola di Toledo, teologo, enciclopedista, poeta e musico, che abbiamo incontrato l’ultima settimana dell’ottobre scorso come autore di un celebre trattato “Sull’anima”] e, infine, dice Bonaventura da Bagnoregio, vi presento “il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato”». Ed è proprio quest’ultimo personaggio che noi dobbiamo incontrare.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La lettura integrale del canto XII del “Paradiso” di Dante Alighieri [per la sua impronta tipicamente “scolastica”] è un esercizio interessante da fare che potete compiere per conto vostro: non c’è biblioteca domestica che non contenga una “Divina Commedia” con tanto di note esplicative e di commenti, non lasciate inattivo questo testo…

 

   E ora leggiamo insieme i quindici versi che abbiamo commentato.

 

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Paradiso  Canto XII  127-141

Io son la vita [l’anima] di Bonaventura

da Bagnoregio, che ne’ grandi offici

sempre pospuosi la sinistra cura.

 

Illuminato e Augustin son quinci,

che fur de’ primi scalzi poverelli

che nel capestro a Dio si fero amici.

 

Ugo da San Vittore è qui con elli,

e Pietro Mangiadore e Pietro Ispano

lo qual giù [sulla terra] luce in dodici libelli;

 

Natan profeta e ‘l metropolitano

Crisostomo e Anselmo e quel Donato

ch’a la prim’arte [la grammatica] degnò porre mano.

 

Rabano è qui, e lucemi da lato

il calavrese abate Giovacchino

di spirito profetico dotato.

 

   Chi è “il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato”? Intanto sappiamo che a Dante questo personaggio - che è vissuto un secolo prima di lui - sta simpatico, e sappiamo che ne condivide il pensiero, contrariamente non avrebbe messo un “eretico” in Paradiso: Dante [sebbene stia molto attento a non uscire dall’ortodossia], come molti intellettuali laici del Trecento [ce ne occuperemo nel prossimo viaggio] è un ammiratore dei Movimenti popolari evangelico-pauperisti.

   Gioacchino da Fiore, «il calavrese abate Giovacchino di spirito profetico dotato [Paradiso, canto XII, 140-141]» è nato a Celico in provincia di Cosenza nel 1130 ed è morto in una cittadina della Sila chiamata San Giovanni in Fiore nel 1202 dove, nel 1189, aveva fondato un’abbazia e un proprio ordine religioso. Gioacchino da Fiore dopo essersi fatto monaco cistercense si rende conto che un frate non può restare chiuso tutta la vita in un monastero e, quindi, decide di mettersi in cammino pellegrinando per tutta l’Italia per dedicarsi alla predicazione. Gioacchino nel corso della vita non ha fatto altro che litigare con le autorità religiose per le sue posizioni di carattere esegetico e teologico. Lo scontro tra Gioacchino da Fiore e i tribunali ecclesiastici per la difesa dell’ortodossia ha inizio quando lui compone il Libellus de unitate et essentia Trinitatis [Libretto sull’unità e l’essenza della Trinità] in cui aderisce alla tesi “triteista” di Roscellino di Compiègne apportandovi delle modifiche [Roscellino lo abbiamo incontrato a metà marzo insieme ad Abelardo, ve lo ricordate?]. Sappiamo che l’unico scritto di Roscellino che ci sia rimasto s’intitola Lettera di Roscellino ad Abelardo sulla Trinità nel quale riporta il suo pensiero sulla natura della Trinità affermando che le tre persone [Padre, Figlio e Spirito Santo] non sono fatte della stessa sostanza ma hanno sostanze differenziate [quella superdivina del Padre, quella a media divinità del Figlio e quella a bassa divinità dello Spirito Santo] e, quindi, il Dio Trinitario, afferma Roscellino, non può essere definito “Uno in tre persone” ma “Tre persone in comunione unitaria”. Sappiamo che Abelardo [compiaciuto del fatto che Roscellino lo abbia interpellato, pur avendolo a suo tempo scacciato dalla sua Scuola] risponde al suo ex maestro consigliandolo di modificare questa posizione e, difatti, la tesi “triteista” di Roscellino viene condannata dal concilio di Soisson e lui, per evitare la sanzione, è costretto a ritrattare.

   Gioacchino da Fiore condivide la posizione “triteista” di Roscellino [Dio è in Tre persone in comunione unitaria piuttosto che Uno in tre persone] ma vi apporta una modifica sostanziale: Gioacchino rivaluta la figura dello Spirito Santo e, dopo aver studiato approfonditamente la Letteratura dell’Antico e del Nuovo Testamento, afferma che la Storia dell’umanità può essere divisa in tre Ère consecutive, l’una diversa dall’altra: la prima, quella che va dalla Creazione del Universo alla nascita di Gesù, dove a comandare è stato il Padre, la seconda, dalla nascita di Gesù a oggi [l’oggi di Gioacchino], caratterizzata dal Figlio, e la terza, quella che sta per iniziare proprio in questi giorni, afferma Gioacchino, gestita dallo Spirito Santo. E tre, sostiene Gioacchino, sono anche gli ideali relativi a cui ispirarsi: la Legge [l’ideale del Padre, dell’Antico Testamento], la Grazia [l’ideale del Figlio, della Letteratura dei Vangeli] e la Libertà [l’ideale dello Spirito Santo e dell’Apocalisse di Giovanni]».

   Per spiegare la sua posizione Gioacchino scrive un’opera che ha suscitato grande interesse [in Età medioevale, moderna e continua a suscitarne anche in Età contemporanea] e che s’intitola Libro della concordanza fra il Nuovo e il Vecchio Testamento [Liber Concordiae Novi ac Veteris Testamenti] nella quale descrive la terza Età [l’Età dello Spirito Santo], il cui inizio, secondo i suoi calcoli complicati, avrebbe dovuto cadere attorno al 1260. Infatti Gioacchino pensa, in questo caso un po’ ingenuamente, che la misura di ognuna delle tre Età [del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo] sia di 1260 anni: tanti ne sarebbero passati da Adamo a Cristo, tanti ne sarebbero passati da Cristo alla nuova era, l’era dello Spirito Santo.

   Naturalmente la tesi “triteista” di Gioacchino da Fiore viene condannata per eresia da tutti i tribunali ecclesiastici e i suoi scritti vengono messi all’indice e la condanna definitiva nei suoi confronti viene ribadita da papa Innocenzo III durante il Concilio lateranense del 1215 perché l’utopia di Gioacchino [lui è morto da più di un decennio] fa paura all’autorità costituita in quanto dà forma e legittimità spirituale al pensiero [evangelico-pauperista] della contestazione antiecclesiastica che molti Papi tentano, a più riprese, di interrompere.

   Gioacchino, dopo la condanna, si era trasferito in Oriente ma poi torna in Calabria, sulla Sila, nell’abbazia che aveva fondato e scrive la Regola - tutta imperniata sulla contemplazione - del suo ordine religioso detto dei Florensi o dei Gioachimiti al quale aderiscono in molti.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Calabria e navigando in rete fate una visita alla cittadina di San Giovanni in Fiore [30 mila abitanti circa, in provincia di Cosenza] posta [a 1049 metri] in bella posizione sul margine orientale dell’altopiano silano presso la confluenza del fiume Neto con l’Arvo...

Nella parte bassa del paese c’è la Badia Florense [recentemente restaurata] in stile cistercense, fondata nel 1189 dall’abate Gioacchino, oggi sede anche del “Centro internazionale di Studi gioachimiti”, mettetevi in viaggio ...

 

   Leggiamo ora un frammento dal Libro della concordanza fra il Nuovo e il Vecchio Testamento [Liber Concordiae Novi ac Veteris Testamenti]: questo, insieme ad altri brani, è diventato uno dei manifesti dell’eterogeneo Movimento popolare evangelico-pauperista che introduce nel tessuto della Scolastica medioevale lo “spirito profetico” per cui nel Duecento nasce una sorta di “attesa” che si traduce in un desiderio per un profondo cambiamento della società [anche Dante, sebbene deluso, auspica che ci sia questo cambiamento nel Trecento], e il compito della persona è quello di capire che ciascuno - per quanto povero, umile e derelitto - può e deve partecipare ad edificare [secondo il monito dell’Apocalisse] la Gerusalemme celeste qui sulla terra. Leggiamo.

 

LEGERE MULTUM….

Gioacchino da Fiore,

Libro della concordanza fra il Nuovo e il Vecchio Testamento

La storia dell’umanità si divide in tre stati.

Il primo stato fu quello in cui fummo sotto il dominio della legge, il secondo quello in cui siamo sotto il dominio della grazia, il terzo - che attendiamo imminente - quello in cui ci sarà elargita una grazia anche maggiore, secondo la testimonianza di Giovanni: Egli ci elargì grazia su grazia.

Il primo stato visse nella conoscenza, il secondo nel possesso della sapienza, il terzo vivrà nella perfetta intelligenza.

Il primo fu il tempo dell’obbedienza servile, il secondo di quella filiale, il terzo sarà l’epoca della libertà.

Il primo visse nei flagelli, il secondo nell’azione, il terzo vivrà nell’estasi della contemplazione.

Il primo trascorse nel timore, il secondo nella fede, il terzo trascorrerà nell’amore.

Il primo fu l’età degli schiavi, il secondo dei liberi, il terzo sarà quello degli amici.

Il primo fu il tempo dei vecchi, il secondo dei giovani, il terzo sarà l’età dei fanciulli. Il primo fu illuminato dal chiarore delle stelle, il secondo dalla luce dell’aurora, nel terzo risplenderà il meriggio.

 

   Nella sua opera Gioacchino da Fiore usa più volte l’espressione “il sole dell’avvenire” che diventerà patrimonio ideale del movimenti popolari dell’Ottocento d’ispirazione socialista.

   Il Milleduecento - che è il secolo della razionalità, della misura umana, dell’armonia architettonica - è anche il secolo della profezia di Gioacchino da Fiore, il quale ritiene, facendosi portavoce di un movimento [ed è per questo che Dante lo mette in Paradiso], che la Chiesa, nel corso degli ultimi secoli, abbia subìto una grave involuzione: da “una vita fatta di rinunce e di preghiere [quella dei Padri della Chiesa]” era passata, afferma Gioacchino, a “uno sfoggio di rilassatezze degno della peggiore corte feudale”, e tutto questo avveniva, sostiene Gioacchino, per colpa delle autorità ecclesiastiche che “avevano preso [indegnamente] il potere temporale perdendo il dono spirituale della grazia”. Gioacchino, con l’annuncio dell’avvento dell’Era dello Spirito Santo, vuole mettere in guardia tutti i capi della cristianità, Papa compreso, affinché recuperino l’antico spirito “di servizio” dei Padri della Chiesa. Il potere ecclesiastico si chiude a riccio nei confronti di Gioacchino da Fiore e dei Movimenti popolari evangelico-pauperisti dei quali si fa portavoce. Per giunta il massimo desiderio di Gioacchino è quello di poter vedere camminare insieme i cristiani e gli ebrei dopo aver reso l’Antico e il Nuovo Testamento un unico testo: «Se Dio esiste, afferma Gioacchino, non può essere che Uno, e allora che senso ha chiamarlo con nomi diversi?».Ovviamente il progetto di Gioacchino non viene neppure discusso ma viene solo osteggiato dagli apparati gerarchici.

   Gioacchino da Fiore muore proprio alle soglie del Duecento, nel 1202, ma, attraverso le sue opere che hanno un’ampia diffusione, diventa la guida spirituale dei Movimenti popolari evangelico-pauperisti che si diffondono sul territorio della cristianità in modo eterogeneo e contraddittorio [fuori dalla Chiesa e dentro la Chiesa] in un’altalena che oscilla in uno spazio dove si mescolano esperienze riformatrici considerate “eretiche” a violenti rigurgiti reazionari improntati alla difesa spesso presunta dell’ortodossia.

   Uno degli aspetti più importanti che emerge dal pensiero di Gioacchino da Fiore è la richiesta di autonomia da parte dei laici che sono insofferenti nei confronti del monopolio clericale e monastico in tutti i campi: i laici aspirano all’indipendenza culturale e desiderano l’autonomia spirituale, e la “spiritualità laica” si basa sulla convinzione che “per ricevere la grazia divina è doveroso dedicarsi allo studio” piuttosto che aspettare la discesa della grazia divina per poi mettersi a studiare.

   E, sicuramente, un esempio di “spiritualità laica” lo ha dato Dante Alighieri [i frutti della predicazione di Gioacchino da Fiore si vedono un secolo dopo] al quale ritorniamo in conclusione per propiziare l’incontro con un altro importante personaggio: il fondatore di un movimento che caratterizza in modo determinante tanto la Filosofia scolastica quanto la Storia della Chiesa. Il personaggio centrale del canto XII del Paradiso, di cui abbiamo già letto un frammento [per introdurre Gioacchino da Fiore], è San Domenico.

   Nel canto XII del Paradiso Dante fa compiere al francescano Bonaventura da Bagnoregio l’elogio di San Domenico così come nel canto precedente, l’XI del Paradiso, ha fatto tessere l’elogio di San Francesco al domenicano San Tommaso. Dante considera San Francesco e San Domenico, due tra le figure più importanti agli albori del Duecento per lo sviluppo della Storia del Pensiero, per l’opera compiuta nella loro vita mortale i “i due pilastri della fede”, le “due ruote del Carro mistico”. E il poeta li presenta con le loro “diverse caratteristiche” proprio per mettere in evidenza [come fa sempre Dante] il carattere eterogeneo della Chiesa [quell’aspirazione all’unità nella diversità che - secondo Dante - dovrebbe ispirare la tolleranza piuttosto che l’intransigenza] per cui San Francesco è “tutto serafico in ardore” e per questo Dante nel racconto della sua vita non parla che “di concordia, di amore, di matrimonio con la povertà, l’umiltà e la pace. Mentre a San Domenico – che, scrive Dante, “per sapienza in terra fue di cherubica luce uno splendore” - Dante riserva espressioni di carattere epico presentandolo come il campione, il santo atleta, il paladino che combatte con indomito vigore una guerra spirituale perché il popolo cristiano non cada nell’eresia, e Dante usa una terminologia di “carattere militaresco” per far risaltare ancor di più il fatto che San Domenico [però] deplora il fatto che gli eretici debbano essere combattuti militarmente [con la guerra che invece il papa promuove contro gli eretici] per essere invece messi a conoscenza della “corretta dottrina” attraverso la predicazione, lo studio e facendo anche tesoro delle loro critiche e del loro stile di vita: sono diventati “eretici [hanno fatto un’altra scelta, eresis]” a causa, afferma San Domenico, dell’incoerenza e dell’ignoranza degli ecclesiastici nel presentare [con la parola e con l’azione] l’insegnamento del Vangelo.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Si consiglia, quindi [ancora una volta], di leggere i versi dal 31 al 105 del canto XII del “Paradiso” dove Dante fa descrivere a San Bonaventura la vita e l’opera di San Domenico...

 

   Ma chi è San Domenico, il fondatore dell’ordine monastico più importante - insieme a quello dei Francescani - nella Storia del Medioevo?

   Domenico di Guzmán è nato a Caleruega [Calaroga, la chiama Dante] vicino a Burgos, nella regione della Vecchia Castiglia, nel 1170: appartiene ad una nobile famiglia iberica, figlio di Felice di Guzmán e di Giovanna d’Aza, e, quindi, può permettersi di studiare a Palencia. A ventiquattro anni entra nell’ordine agostiniano assumendo la carica di canonico presso la cattedrale di Osma. Nel 1203 Domenico accompagna il suo vescovo, Diego di Acevedo, in Danimarca per una missione diplomatica e al ritorno i due viaggiatori sostano nel sud della Francia, in Linguadoca e in Provenza, dove, in seno alla borghesia, si è diffuso da tempo in larghi strati della popolazione il movimento popolare riformatore evangelico-pauperista [detto] dei Catari [“càtaros” in greco significa “puro”] che ha prodotto - attraverso l’interpretazione del Vangelo secondo Giovanni - una dottrina di impronta “gnostica” [e di questo tema ce ne occuperemo la prossima settimana]. Il papa Innocenzo III ha mandato i suoi legati a minacciare la “crociata” contro i Catari i quali non intendono recedere dalle loro posizioni [esegetiche, teologiche e politiche]: sostengono le ragioni della loro “riforma [dottrinale, sacramentale e liturgica]”, e denunciano come la Chiesa romana abbia perso il suo spirito profetico a vantaggio del potere temporale e si comporti ormai come una qualsiasi corte feudale in difesa dei propri privilegi e lontana sempre di più dall’insegnamento evangelico. Domenico comprende che bisogna capire la posizione dei Catari [intanto il vescovo Diego muore] e lui si ferma ad Albi, la capitale del catarismo; sebbene non condivida “la dottrina catara di stampo gnostico [sappiamo che c’era già stato uno scontro tra gli gnostici ed Agostino nel V secolo]”, vuole misurarsi sul piano culturale con gli Albigesi, e deplora il fatto che il papa indìca una “crociata” contro di loro [a vantaggio della rapacità dei feudatari del nord della Francia che non vedono l’ora di attaccare la ricca Provenza per saccheggiarla]; nel 1206 Domenico fonda un monastero [gestito da un gruppo di suore] a Notre-Dame-de-Prouille ai piedi dei Pirenei per promuovere la sua attività missionaria, ma nel 1208 il papa promuove la crociata contro i Catari [sollecita i feudatari europei ad attaccare la Provenza] e si aprono le ostilità con una serie di massacri: Domenico si distingue nel condannare questa guerra ma non può far nulla se non radunare a Tolosa, con l’aiuto del vescovo Folco, un gruppetto di suoi compagni che intendono essere “pacifici predicatori” e questo è il primo nucleo di quello che sarà l’ordine domenicano.

   Nel 1215 Domenico propone al papa la “Regola dell’ordine dei frati predicatori” ma Innocenzo III - mentre si rende conto che la “crociata” contro i Catari è diventata una terribile guerra civile [ed è responsabile di averla scatenata] - non concede, nel corso del IV concilio lateranense, una legittimazione a Domenico del quale non si fida. Allora lui decide di applicare al suo gruppo la Regola agostiniana che adatta secondo il suo pensiero riformatore e, quindi, i “compagni di Domenico” [all’inizio sono sedici] sono chiamati a dedicarsi: alla predicazione, allo studio, a vivere in povertà mendicante, a fare vita comune in piccoli gruppi e a peregrinare sul territorio sempre in missione.

   Il 22 dicembre del 1216 papa Onorio III [il romano Cencio Savelli, tesoriere della Chiesa, uomo già anziano e più conciliante del suo predecessore, ma che non riesce più a fermare le varie crociate contro gli eretici utilizzate dai feudatari come guerre di carattere predatorio] approva solennemente la Regola di Domenico [nel 1223 approverà anche la Regola francescana]. Domenico si mette subito in viaggio per predicare e per organizzare il suo ordine: va a Parigi [dove i Domenicani vengono chiamati “giacobini” perché il loro convento è in via di San Giacomo], poi va a Madrid, poi va a Bologna dove muore il 6 agosto 1221.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

A Bologna c’è “la basilica di San Domenico” che contiene la famosa “Arca di San Domenico”, la sua tomba, opera di Nicola Pisano con il contributo di vari importanti artisti

Utilizzando la guida di Bologna e navigando in rete fate visita a questo monumento che riveste una notevole importanza sul piano culturale e, per giunta, Bologna non è lontana da qui

Buon viaggio

 

   Per concludere leggiamo e commentiamo ventisei versi [dal verso 46 al 72] dal canto XII del Paradiso con i quali Dante comincia a far narrare, a San Bonaventura di Bagnoregio, la vita di San Domenico.

 

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Paradiso  Canto XII  46-72

In quella parte ove surge ad aprire

Zefiro dolce le novelle fronde

di che si vede Europa rivestire,

In quella parte [nella Spagna], in cui il dolce Zefiro spira per far aprire le novelle fronde di cui l’Europa si riveste ...

non molto lungi al percuoter dell’onde

dietro alle quali, per la lunga foga,

lo sol talvolta ad ogni uom si nasconde,

Non molto lontano dalla riva [dell’Oceano Atlantico] dove s’infrangono le onde, dietro alle quali, quasi stanco per la lunga, affannosa corsa, il sole talvolta [nel solstizio d’estate] si nasconde ad ogni uomo [le cognizioni astronomiche di Dante sono ancora quelle di Tolomeo] ...

siede la fortunata Calaroga,

sotto la protezion del grande scudo

in che soggiace il leone e soggioga.

Siede la fortunata Calaroga, sotto la protezione del grande scudo di Leon e di Castiglia in cui sono inquadrati due leoni e due castelli su due bande orizzontali, dove nell’una il leone sta sotto al castello [soggiace] e nell’altra sta sopra al castello [soggioga] ...

Dentro vi nacque l’amoroso drudo

della Fede cristiana, il santo atleta

benigno a’ suoi ed a’ nemici crudo;

In Calaroga nacque San Domenico, il santo campione della Fede cristiana, benigno con i suoi e molto severo con gli eretici ...

e come fu creata, fu repleta

sì la sua mente di viva virtute,

che nella madre lei fece profeta.

E appena fu creata l'anima di San Domenico fu piena [repleta] di tale virtù che, essendo ancora nel grembo della madre egli diede a lei ispirazione profetica, e si narra [secondo la Leggenda Aurea di Iacopo da Varagine]  che, prima che Domenico nascesse, la madre abbia veduto in sogno che ella doveva dare alla luce un cagnolino bianco e nero con in bocca una fiaccola accesa con la quale incendiva tutto quanto il mondo ...

Poi che le sposalizie fur compiute

al sacro fonte intra lui e la Fede,

u’ si dotâr di mutua salute;

Poiché al sacro fonte battesimale furono celebrate le nozze [le sposalizie] tra lui e la Fede, nelle quali essi si diedero in dote la mutua salute [col battesimo Domenico si liberò del peccato originale e la Chiesa acquistò un valoroso difensore della Fede] ...

la donna che per lui l’assenso diede,

vide nel sonno il mirabile frutto

c’uscir dovea di lui e delle rede.

La madrina che per lui, durante il Battesimo, diede l’assenso, sogna di vedere [vide nel sonno] brillare una stella sulla fronte del figlioccio: il mirabile frutto che doveva derivare da lui e dai suoi eredi [i frati domenicani, le rede] ...

E perché fosse, qual era, in costrutto,

quinci si mosse spirito a nomarlo

del possessivo di cui era tutto.

E perché nell’espressione del nome [in costrutto] fosse quale egli era [in realtà], dal cielo [quinci] venne l’ispirazione [si mosse spirito] di imporgli il nome [a nomarlo] dal possessivo [dall’aggettivo] del Signore, a cui era tutto dedicato, perché Dominicus è l’aggettivo [detto qui possessivo”] che indica ciò che appartiene al Dominus, al Signore ...

Domenico fu detto; ed io ne parlo

sì come dell’agricola che Cristo

elesse all’orto suo per aiutarlo.

Fu chiamato Domenico, e Dante, con la voce di San Bonaventura, ne parla [ne vuole parlare] come dell’agricoltore - e non del guerriero - che Cristo elesse per curare il suo orto [la Chiesa] ...

 

   In Provenza - pensa Dante - la Chiesa di Roma avrebbe dovuto inviare degli “agricoltori”, dei “missionari”, ma non ha ascoltato il parere di Domenico di Guzmán, e ha scelto ai suoi massimi vertici di fomentare una terribile guerra che è durata circa quarant’anni: un insieme di avvenimenti drammatici sul quale la cristianità ha sempre voluto stendere un velo pietoso.

   Che cos’è il movimento dei Catari? Come influisce l’esegesi gnostica del Vangelo di Giovanni su questo movimento? Che rilevanza ha la crociata contro i Catari [o contro gli Albigesi] per la cristianità che ha cercato di nascondere a lungo questo avvenimento? La crociata contro i Catari inizia con un massacro, a Béziers, nell’assolato Midi della Francia, nel cuore della Linguadoca, il giorno 22 luglio dell’anno 1209. Perché mai? Ci domandiamo ancora oggi insieme a Domenico di Guzmán che è stato il primo allora a domandarsi: è Dio che vuole questo?

   Ebbene, anche questo drammatico interrogativo c’invita a coltivare lo spirito utopico che lo studio porta con sé camminando sulla via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale, consapevoli del fatto che non si deve mai perdere “la volontà d’imparare” perché, come ha scritto un [esordiente e giovane] autore russo di nome Leone Tolstoj, in un libretto [di 1890 pagine] intitolato Guerra e pace: «La volontà d’imparare è sempre stato e sempre sarà il principale deterrente contro la violenza».

   In linea con questa considerazione la Scuola è qui, e il viaggio entra in dirittura d’arrivo ma il cammino continua e c’è ancora tanta strada da fare…

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 8, 2015