ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica sulla via che porta verso il secolo dei Lumi III
4-5 maggio 2022 a Bagno a Ripoli e Tavarnuzze
a Firenze il primo gruppo il 6 maggio e il secondo gruppo il 13 maggio 2022
SULLA VIA CHE PORTA VERSO IL SECOLO DEI LUMI
SI SENTE L’ESIGENZA DI COSTRUIRE UN SISTEMA NEL QUALE SIA GARANTITA
TANTO L’UNITÀ DELLA REALTÀ QUANTO LA PLURALITÀ DEGLI ELEMENTI CHE LA COMPONGONO ...
Questo è il tredicesimo e penultimo itinerario del nostro viaggio sulla via che porta verso il secolo dei Lumi. Nell’itinerario precedente abbiamo fatto conoscenza con Gottfried Wilhelm Leibniz il quale, sebbene sia diventato una celebrità a livello internazionale, muore il 14 novembre 1716 ad Hannover in uno stato di completa emarginazione per aver criticato [come ricorderete] la casata dei duchi Brunswick-Luneburgo che governa la città: Leibniz, in particolare, diventa inviso a Giorgio I di Hannover che viene chiamato [come abbiamo detto la volta scorsa] ad assumere il titolo di re d’Inghilterra, ma Leibniz lo considera un pessimo governante e, quindi, in veste di bibliotecario della città di Hannover, si rifiuta di continuare a scrivere la storia della dinastia degli Hannover come era stato incaricato di fare perché considera questo incarico un atto di servilismo. Di conseguenza, nel 1714, Giorgio I di Hannover si vendica impedendo a Leibniz di andare a Londra per incontrare Newton al quale era stata concessa la priorità sulla scoperta del calcolo infinitesimale: Leibniz voleva dimostrare a Newton che questo tema aveva iniziato a studiarlo prima di lui, ma Giorgio I non solo vieta a Leibniz di andare a Londra, ma scatena una campagna denigratoria nei suoi confronti e lo fa sorvegliare dagli agenti dei servizi segreti perché non sbarchi come avrebbe tentato di fare clandestinamente in Inghilterra. Ci è voluto del tempo perché avvenisse un giusto processo di riabilitazione nei suoi confronti e perché le statue di Leibniz comparissero nelle città dove ha studiato e ha vissuto. Nell’itinerario di questa sera [come abbiamo anticipato quindici giorni fa] ci dobbiamo occupare del suo pensiero.
Gottfried Wilhelm Leibniz [1646-1716] è stato [come abbiamo studiato nell’itinerario precedente] un personaggio geniale che ha lasciato in eredità un’immensa produzione di materiali: nella biblioteca di Hannover si conservano più di duecentomila pagine manoscritte o dettate di Leibniz [delle quali solo una piccola parte è stata pubblicata] che contengono studi di matematica, di scienze, di metafisica, di fisica, di pedagogia, di filosofia.
Nei suoi scritti Leibniz dimostra una grande apertura mentale che supera il particolarismo feudale delle corti europee secentesche e il dogmatismo che ha causato le terribili guerre di religione che hanno insanguinato l’Europa. Leibniz è un traghettatore del pensiero dell’Umanesimo [dell’Umanesimo di Erasmo da Rotterdam, di Giordano Bruno, di fra’ Tommaso Campanella, di Cartesio e di Spinoza] in Età moderna, e propone soluzioni teologiche unitarie tra la varie confessioni, e cerca di unire il lavoro degli scienziati nelle Accademie creandone di nuove, facendo proseguire il lavoro di rete del Circolo Mersenne in Età moderna.
Leibniz propone ai politici progetti di unificazione non solo della Germania ma dell’intera Europa: un’unità da realizzarsi con trattative indirizzate al bene comune e alla cooperazione [qui ci cadono le braccia di fronte all’arretratezza in cui versa ancora oggi la politica internazionale!] e quello di Leibniz è un pensiero utopico che supera i tempi. Leibniz [influenzato anche da Spinoza, come sappiamo] ha vissuto una vita con il fervore del militante ma ha saputo trovare sempre i momenti di silenzio, di riflessione, di meditazione, di tranquillità necessari per costruire il suo sistema: un disegno filosofico che tiene conto anche dell’apporto di culture lontane, come quella cinese. Ricorderete che Leibniz giunge a Roma nel 1686 con la scusa di consultare documenti di archivio riguardanti la storia della casata dei duchi Brunswick-Luneburgo di Hannover [ma questi documenti non esistono]; in realtà Leibniz ha appuntamento con un suo amico gesuita [del quale non ha mai rivelato l’identità per non comprometterlo] che lo mette a conoscenza delle meraviglie della Cina, e gli fornisce, perché la legga, l’opera del padre gesuita Matteo Ricci [un personaggio che abbiamo incontrato recentemente e che ricompare sul nostro cammino perché Leibniz ne rimane affascinato e anche noi dobbiamo ristabilire un contatto con questa figura straordinaria che ha lasciato il segno nella Storia del Pensiero Umano moderno].
I Commentari della Cina del gesuita Matteo Ricci costituiscono un materiale di importanza straordinaria per le intellettuali e gli intellettuali occidentali [la Cina è nel Seicento un mondo tutto da scoprire da parte dell’Occidente!] ma quest’opera è considerata eretica dal tribunale dell’Inquisizione e di conseguenza circola clandestinamente. Leibniz si appassiona alla lettura e allo studio dell’opera di Matteo Ricci e scrive un opuscolo intitolato Recenti notizie sulla Cina che circola in tutta Europa, e Leibniz scrive nella prefazione: «Se è giusto che noi mandiamo dei missionari in Cina per farci conoscere, altrettanto giusto sarebbe che i saggi cinesi venissero a insegnarci le loro arti di governo e la loro teologia naturale che sono stati così capaci di perfezionare». Che cos’è “la teologia naturale” di cui parla Leibniz? Di fronte a questo interrogativo dobbiamo procedere con ordine.
Leibniz si mette a studiare [e noi lo seguiamo su questa strada] e viene a sapere che circa settant’anni prima nell’anno 1620 è stata pubblicata a Parigi un’opera intitolata Commentari della Cina che documenta “la sapienza del pensiero confuciano” redatta da un padre gesuita, tanto straordinario quanto sconosciuto, che si chiama Matteo Ricci. Nel ‘600 si sapeva [e oggi noi sappiamo] quasi tutto di Marco Polo che, insieme al padre e agli zii, giunge in Cina come mercante nel 1275. Il veneziano Marco Polo rimane in Cina diciassette anni, impara la lingua, svolge attività diplomatiche per conto dell’Imperatore, ma non penetra nella cultura cinese e, tornato in Europa, trasmette la memoria di quel suo viaggio straordinario in un Libro affascinante che tutte e tutti conosciamo intitolato Il Milione.
Ebbene, se di Marco Polo si sa quasi tutto di Matteo Ricci non si sa quasi nulla, eppure, nel 2001, l’Università di Pechino ha celebrato con una certa enfasi il quarto centenario dell’ingresso di Matteo Ricci nella cultura ufficiale della Cina, quella dei mandarini (dal termine sanscrito “mantrìn” che significa “consigliere”). Matteo Ricci è un gesuita [che ha la stessa mentalità di padre Mersenne] ed è nato a Macerata nel 1552, ed è un astronomo, un letterato, un cartografo, un matematico, un tecnico della memoria, un esegeta [e Leibniz si riconosce nella poliedricità di questo personaggio] che ha gettato un ponte tra la cultura occidentale e quella orientale.
Padre Matteo Ricci giunge in Cina nel 1583 [un secolo prima che Leibniz faccia la sua conoscenza] con un lungo viaggio per mare: parte da Lisbona su una linea gestita dalla marineria portoghese con una nave che circumnaviga l’Africa, arriva a Goa in India, approda in Malacca, poi a Macao da dove marcia verso Pechino.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e discrittura:
Con l’ausilio di una carta geografica che trovate sull’Atlante ripercorrete virtualmente l’itinerario Lisbona-Pechino compiuto da Matteo Ricci, buon viaggio …
Con quale intento il gesuita padre Matteo Ricci va in Cina, quanto tempo vi rimane e come viene accolto dalla classe intellettuale cinese?
Padre Matteo Ricci ufficialmente, per i suoi superiori europei, è un missionario ma in realtà diventa “un mediatore culturale” e con questo importante ruolo si presenta agli intellettuali cinesi che frequenta in amicizia. Matteo Ricci rimane in Cina per vent’anni facendo conoscere le idee e la Letteratura del Cristianesimo alla classe intellettuale cinese. Nei suoi primi dodici anni di permanenza Matteo Ricci studia la Lingua cinese e la apprende [parlata e scritta] perfettamente. Non avendo potuto portare un bagaglio pesante, non ha con sé neppure un Libro ma, essendo un tecnico della memoria, la sua biblioteca la tiene in mente. Come fa? [e qui la curiosità di Leibniz aumenta vertiginosamente].
Sappiamo che essere un tecnico mnemonico significa costruire nella propria mente “un palazzo della memoria”, e sappiamo che l’apprendimento delle tecniche di memorizzazione ha una tradizione [che abbiamo studiato] fondata dal 1315 sulle Opere di Raimondo Lullo e poi sugli studi di Giordano Bruno e di fra’ Tommaso Campanella. Nel suo “palazzo mentale” Matteo Ricci conserva memoria di decine di Opere letterarie e scientifiche, e quando ha bisogno di informazioni le pesca nella sua mente. Ciò che è in memoria non pesa, non ingombra ed è sempre a disposizione, e Matteo Ricci, nei sei mesi di navigazione da Lisbona a Goa, non si è annoiato perché ha ripassato, poco per volta, tutto il materiale che aveva in mente, e poi, a Pechino, s’iscrive alla già bi-millenaria Scuola di Stato confuciana [fondata dal saggio Confucio, nato nel 551 a.C. che, dopo essere stato cancelliere del regno di Lu, viaggia come pellegrino negli altri regni dell’impero cinese esponendo la sua riforma morale e politica fino alla morte avvenuta nel 479 a.C.]. Matteo Ricci impara a leggere [a conoscere e a capire] i testi dei classici Quattro Libri di Confucio [I Discorsi o Dialoghi di Confucio, La Pietà Filiale, Il Grande Studio e L’Invariabile Mezzo], ne studia le interpretazioni, li traduce in Latino e li impara a memoria e, dopo aver ben assimilato la cultura cinese, inizia a esibire la sua competenza facendo carriera. Il grado più alto di intellettuale cinese è quello di “mandarino” [dal termine sanscrito “mantrìn” che significa “consigliere”] al quale si accede per concorso pubblico, e quello dei pubblici esami di concorso, in Cina, è un sistema esistente dal III secolo a.C..
L’accesso al titolo comprende tre esami principali, e sono prove molto importanti nella vita pubblica e privata della Cina, accompagnate da cerimonie festose in onore dei promossi. Tutte le città più grandi, capoluogo di provincia, hanno una casa degli esami: un grande edificio, simile al convento, con tante celle dove vengono isolati i candidati. Le prove sono molto selettive, prima si diventa “talento ornato”, al secondo esame “talento promettente” e al terzo “mandarino” [funzionario nella burocrazia imperiale]. L’èlite dei funzionari [o letterati] costituisce la nobiltà, un’aristocrazia del cuore e dello spirito [non del sangue] secondo il pensiero confuciano, e non ci sono distinzioni sociali o etniche, tutti possono [anzi devono] partecipare.
La memoria è di grande aiuto per superare gli esami e Matteo Ricci percorre senza difficoltà tutto il corso di studi laureandosi “mandarino” nel 1601. Il giorno della festa dei promossi Matteo Ricci [che viene particolarmente festeggiato] prega i presenti di scrivere tutte le parole [gli ideogrammi] che vogliono su un foglio, e lui, dopo averli letti una sola volta, li avrebbe ripetuti a memoria: viene compilata una bella lista e Ricci, dopo aver fatto scorrere lo sguardo sul foglio, recita tutto ciò che è stato scritto a memoria. Tutti rimangono stupiti, al che Ricci dice: «Adesso ripeto tutto al contrario» e così fa, e tutti applaudono e vorrebbero imparare “l’arte della memoria”, e così le autorità lo invitano a fondare “un magistero” in proposito, e lui scrive anche il più famoso trattato cinese di tecnica mnemonica e lo firma con il suo nome cinese Li Madu.
Quando gli domandano che cosa sia venuto a fare in Cina risponde che avrebbe voluto far conoscere al popolo cinese le idee e la Letteratura del Cristianesimo e, quindi, gli viene chiesto di tradurre in cinese i testi dei Vangeli e delle Lettere di Paolo di Tarso, e gli intellettuali cinesi trovano grandi affinità tra il pensiero di Confucio e quello cristiano [naturalmente tutto ciò piace molto a Leibniz che detesta le campagne di proselitismo e approva l’interscambio culturale]. Quando scrive ai suoi superiori [che non si ricordavano neppure più di lui] Matteo Ricci afferma: «Non c’è alcun bisogno di convertire i Cinesi, che sono già cristiani attraverso il pensiero di Confucio! Io sono qui a maggior gloria di Dio, che vuole fiorisca l’amicizia tra i popoli». E, in proposito, Matteo Ricci scrive in cinese un Trattato sull’amicizia. Matteo Ricci muore a Pechino l’11 maggio 1610 e viene sepolto con tutti gli onori che spettano a un mandarino.
Il tribunale dell’Inquisizione, dopo aver raccolto [attraverso l’Ordine dei Gesuiti] notizie su di lui, istruisce una causa ed emette una sentenza di condanna proclamandolo eretico. Quando nel 1620 l’opera di Matteo Ricci, con il titolo di Commentari della Cina, arriva in Europa [opera che viene messa all’Indice], suscita un grande interesse e viene accolta con entusiasmo soprattutto dai membri del movimento intellettuale libertino che la fanno circolare sotto traccia.
Quale immagine della Cina viene fuori dal resoconto di Matteo Ricci? La Cina dei Commentari si presenta come un paese totalmente autosufficiente e ricco di risorse naturali e di manufatti, con una classe intellettuale dedita alle Lettere e alle Scienze, e con un popolo laborioso e poco amante della guerra. I Cinesi, afferma Ricci nei Commentari, sono convinti di essere la più antica e grande civiltà del mondo e, per questo, preferiscono rimanere chiusi all’interno del loro vastissimo territorio. Tuttavia, Ricci entra facilmente in Cina perché gli intellettuali cinesi sono molto curiosi di conoscere la cultura europea e il contributo che Ricci dà alla conoscenza cinese dell’Europa è fondamentale: si pensi che fino a oggi gli studenti cinesi hanno imparato la Geometria di Euclide sulla traduzione di Matteo Ricci [Il Libro degli Elementi di Euclide, in Cina, si chiama il Li Madu, col nome cinese di Matteo Ricci].
Perché l’Inquisizione lo condanna? Il tribunale dell’Inquisizione è sempre molto preciso quando emette le sue sentenze: si contesta a padre Ricci di aver concesso ai cinesi che hanno deciso di aderire al cristianesimo di continuare a praticare i loro riti, in particolare quelli per celebrare il culto degli antenati. Inoltre Ricci viene accusato di aver tradotto il termine “Dio” con il vocabolo cinese “Cielo” benché, in questa cultura, definisca perfettamente il concetto di divinità. Infine Ricci viene accusato di aver giudicato “come già cristiane” tutte le norme etiche del pensiero confuciano che mette al centro la parola-chiave “rettitudine”, in evidente affinità con la morale cristiana, e naturalmente Leibniz non può che approvare questo pensiero.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e discrittura:
Dalla parola-chiave “rettitudine” [particolarmente significativa per la morale cristiana e per l’etica confuciana] derivano molti termini significativi: l’onestà, la probità, la giustizia, la lealtà, l’integrità, la correttezza, la serietà, l’incorruttibilità, l’irreprensibilità, la chiarezza, la semplicità, la trasparenza, la schiettezza, la sincerità… Quali di queste parole [due o tre] mettereste per prime accanto alla parola “rettitudine”?…
Scrivetele…
L’imperatore cinese dell’epoca - che si chiama Wanli - secondo le ancora superstiziose regole di corte non può ricevere di persona i visitatori stranieri. Matteo Ricci, tuttavia, viene invitato a corte ma si può inchinare solo davanti al trono vuoto, ma Wanli è curioso [avrebbe voluto parlare con lui] e vuole sapere com’è questo gesuita che sente nominare come “il Saggio venuto a portare un Messaggio di pace e di amicizia dal Grande Oceano occidentale”, un Oceano che non è raffigurato sulle carte imperiali. Wanli ordina ai pittori di corte di andare a ritrarre in piedi il mandarino europeo e, difatti, ci sono molti ritratti di Matteo Ricci [e non è difficile vederne qualcuno navigando in rete]. Quando Wanli vede i ritratti di Li Madu dice: «Ma è un Huihui!», gli Huihui, in cinese, sono gli ebrei e i mussulmani e, per l’imperatore cinese, ebrei, mussulmani, cristiani sono la stessa cosa perché Ricci porta la barba come gli ebrei e i mussulmani. In risposta Li Madu disegna per Wanli una carta geografica che raffigura la Terra con il Grande Oceano occidentale e, a questo punto, la Cina diventa vicina.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e discrittura:
Nel 2001 è stata curata una nuova edizione dei Commentari della Cina di Matteo Ricci [edita da Quodlibet] e si tratta di un evento perché le precedenti due edizioni erano del 1911 e del 1949… Date un’occhiata in biblioteca in proposito ...
Leibniz ne deduce che i Discorsi di Confucio, le Lettere di Epicuro, la Letteratura dei Vangeli hanno in comune concetti etici simili e l’avvicinamento di culture diverse produce ricchezza intellettuale e oggi noi, cittadine e cittadini del terzo millennio, dobbiamo seguire l’esempio di tutte le molte e i molti “mediatori culturali” che hanno operato sul sentiero della Storia del Pensiero Umano. Leggiamo un brano tratto da I Dialoghi di Confucio riportato da Matteo Ricci nel quale Leibniz ritrova una serie di temi su cui le pensatrici e i pensatori dell’Età moderna hanno a lungo dibattuto e sui quali oggi, in Età post-moderna, si continua a dibattere: il tema della memoria, quello dello studio in relazione ai desideri del proprio cuore, il tema della rettitudine e del saper vivere in solitudine coltivando il silenzio per poter costruire una società fondata su un autentico comunitarismo.
Confucio, I Dialoghi
Confucio disse: - Se la persona saggia manca di memoria non è rispettata, la sua cultura non è solida. La persona saggia considera essenziali la lealtà e la sincerità, e se sbaglia non teme di correggersi. Confucio disse: - La persona saggia non cerca la sazietà nel mangiare né la comodità nella dimora, ed è accorta nel fare e prudente nel dire, segue chi è sulla Via per correggersi, segue chi è sulla Via della memoria. Così la persona saggia può dirsi amante del sapere. Confucio disse: - Ricordo che a quindici anni la mia volontà fu rivolta allo studio, ricordo che a trenta fui fermo nei propositi, ricordo che a quaranta non ebbi più incertezze, ricordo che a cinquanta compresi i decreti del Cielo, ricordo che a sessanta il mio orecchio divenne un organo obbediente perché fu capace di ascoltare, ricordo che a settanta seguii i desideri del mio cuore senza uscire di squadra, senza perdere la memoria.
Confucio disse: - La persona saggia è universale e non smemorata, dedicarsi a coltivare la memoria è incamminarsi sulla Via della rettitudine.
Confucio disse: - La persona saggia, se vuole ampliare la propria memoria, deve saper vivere in solitudine e saper coltivare il silenzio, in quanto, chi non è capace di solitudine e di silenzio non è maturo per la comunità, e la comunità non è un farsi gregge ma è uno stare insieme legati da una memoria comune. …
I temi emergenti in questo brano, e dibattuti in Età moderna, continuano a essere all’ordine del giorno e, prima di conoscere e di capire come Leibniz applica il pensiero neoconfuciano che acquisisce attraverso l’opera di Matteo Ricci, ascoltiamo, in proposito, la voce come sempre provocatoria della nostra compagna di viaggio, Adriana Zarri, leggendo un brano dal suo Libro.
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca
A questo punto già intuisco un’obiezione: «Se è così - se l’essere umano ha la sua patria tra gli esseri umani - perché esiliarsi nel silenzio? E che senso ha la solitudine in un mondo che parla tanto di comunità?». Sì, di comunità si parla molto, forse troppo, ma la si pratica poco. E io ho qualche riserva nei confronti di certa facile euforia per cui parrebbe che la comunità, fisicamente intesa (e la comunità è sempre «fisicamente intesa», altrimenti è la comunione) sia la sola maniera in cui la comunione si può vivere. Certo in una comunità siamo nati, in una comunità viviamo e moriremo, anche facendo professione di solitudine. Non si può mai prescindere (né, del resto, si deve) dal contesto culturale nel quale siamo immersi e che è il luogo d’esercizio della carità.
... continua la lettura ....
In che modo Leibniz fa tesoro del pensiero neoconfuciano che ha acquisito attraverso lo studio dell’opera di Matteo Ricci?
Leibniz, studiando i Commentari della Cina di Matteo Ricci, apprende il pensiero del neoconfucianesimo che [come riporta Matteo Ricci nella sua opera] è stato elaborato da un maestro della scolastica medioevale cinese che si chiama Chu Hsi, vissuto tra il 1130 e il 1200. Chu Hsi [uno dei maestri neoconfuciani per eccellenza che noi abbiamo già incontrato, un po’ di anni fa, in uno dei nostri viaggi verso Oriente al tempo della Scolastica medioevale] ha fondato la cosiddetta Scuola dei Principi Universali.
Che cosa insegna la Scuola di Chu Hsi, che si chiama anche Scuola dei Li [il termine Li, in cinese, definisce “il Principio o i Principi di carattere universale” e, per capire meglio, potremmo paragonare i Li alle Idee di Platone] e, di conseguenza, che cosa impara Leibniz dall’insegnamento della Scuola di Chu Hsi attraverso lo studio dell’opera di Matteo Ricci? Chu Hsi insegna che la realtà, l’Universo, la totalità dell’Essere è la rappresentazione materiale di infiniti Principi Universali detti Li [nel pensiero cinese tradizionale di Confucio il termine “Li” indica un presupposto - un concetto, una norma, un comportamento - di carattere universale. Per Confucio i Li sono le regole universali che ogni singola persona deve rispettare per il Bene della collettività]. Chu Hsi sostiene, in termini metafisici, che a ogni oggetto [a ogni essere materiale] esistente nella realtà particolare [nel molteplice] corrisponde un Li universale [come dire, se parlassimo in termini platonici, che sopra a ogni oggetto particolare c’è un’Idea universale che ne permette l’esistenza]: quindi, ogni cosa materiale, afferma Chu Hsi, ha il suo Li, il suo Principio universale, che può essere nominato sia al singolare che al plurale perché l’insieme di tutti i Li va a costituire un’armonia unitaria, il Li universale [c’è un Li dei Li che si riflette in ogni Li, e se parlassimo in termini platonici potremmo dire che al vertice della piramide c’è l’Idea del Bene che illumina tutte le altre idee]. Gli esseri e le cose nascono e muoiono, afferma Chu Hsi, ma il loro Li specifico non subisce mutamento [come l’Atto puro in Aristotele che unifica in sé tutte le forme e come l’Idea del Bene in Platone che unifica in sé tutte le Idee]. Scrive Chu Hsi: «È “Li” ciò che è al di là delle forme, tale da essere senza forma o corpo, tale da essere al di fuori del tempo, preesistendo alle cose, e sussistendo anche senza le cose stesse».
E questa è la teoria: ora facciamo un esempio pratico con un oggetto caro a Chu Hsi. In Cina, al tempo di Chu Hsi, si scrive col pennello e, di conseguenza, lui - come tutti i maestri della Scolastica neoconfuciana - tiene sempre in mano un pennello e ce lo mostra. «Ad un pennello materiale, per esempio [scrive Chu Hsi], corrispondono: il Li universale del legno, il Li universale delle setole, il Li universale del cerchietto di metallo, poi, questi Li particolari si integrano nel Li del pennello intero che, a sua volta, si integra con gli altri Li - in relazione all’uso che viene fatto del pennello - in modo da entrare in armonia con l’unico Li universale [con la Realtà Ultima] che corrisponde al Principio dei Principi, al modello ultimo della realtà, il Tutto, che Chu Hsi chiama il T’ai Chi » [e questo termine - che in cinese letteralmente significa “Grande Trave di Sostegno” - non ci è nuovo, ed è stato esportato in Occidente in tempi recenti per indicare una disciplina che ha una lunghissima tradizione alle spalle]. «Il T’ai Chi [“la Grande Trave di Sostegno”] è una forza trascendente che [scrive Chu Hsi poeticamente] abbraccia il Li del Cielo e della Terra, e in questo abbraccio si sprigiona un’energia che fa vivere tutte le cose collegate insieme in armonia e, quindi [sostiene Chu Hsi], il T’ai Chi è anche una forza immanente, un’energia concreta che investe e vivifica ogni singolo essere, per cui ciascun essere e ciascuna cosa nell’Universo ha in sé non solo il Li specifico della sua particolare categoria ma ha in sé anche la Realtà Ultima, il T’ai Chi [“la Grande Trave di Sostegno”], nella sua indivisibile interezza». Scrive Chu Hsi con gli accenti poetici tipici della prosa cinese: «C’è un’unica Realtà Ultima che viene ricevuta dalle singole cose di tutte le categorie. Tale Realtà Ultima è accolta da ciascun oggetto intera e indivisa. È simile alla luna che risplende nei cieli e di cui, nonostante sia riflessa nei fiumi, nei laghi, nei pozzi e sia visibile ovunque, non possiamo certo dire che sia molteplice». Il Li, quindi, è l’agente immateriale che travasa nell’ordine dell’esistente le forme di tutti gli esseri che già esistono in potenza in seno al T’ai Chi, di cui il Li svolge la funzione di razionalità immanente nell’Universo [è come il Logos, come il Pensiero universale nella Filosofia degli stoici e degli epicurei, per cui il nostro Pensiero individuale deve entrare in relazione con il Pensiero universale per poter riconoscere le forme delle cose materiali].
Leibniz è affascinato dal pensiero neoconfuciano di Chu Hsi che apprende [come ben sappiamo], tradotto in latino, studiando l’opera di Matteo Ricci, e decide di elaborarlo in chiave moderna nell’ambito della filosofia occidentale. Noi sappiamo [e ce ne siamo occupate e occupati nell’itinerario scorso] che Leibniz ha studiato e ha criticato tanto il sistema di Spinoza che ha unificato tutta la realtà nella Sostanza fino però ad annullare il molteplice, quanto il sistema di Cartesio che ha concepito la realtà divisa in tre elementi - Dio, il pensiero e la materia - che però non possono comunicare tra loro: nel sistema di Spinoza, di conseguenza, non si giustifica la molteplicità, e nel sistema di Cartesio non si giustifica l’unicità.
Leibniz vuole costruire un sistema nel quale sia garantita tanto l’unità della realtà quanto la pluralità degli elementi che la compongono e inizia la sua riflessione affermando che la realtà è formata sì dalla Sostanza, ma che la Sostanza non è un’estensione [come pensano Spinoza e Cartesio] ma è una forza [un’energia] e, quindi, la realtà è formata [sostiene Leibniz influenzato dal pensiero neoconfuciano di Chu Hsi] da un insieme di infiniti “centri di forza”, formati da una sostanza inestesa, indivisibile, semplice e attiva [energetica]: Leibniz, per dare un nome a questo “centro di forza” [che ha caratteristiche simili al Li] utilizza la parola “monade”, dal greco “monos” che significa “unità”. Quindi, secondo Leibniz, la realtà, tutto l’Universo è composto da infinite monadi [da unità sostanziali] e la monade [afferma Leibniz] riunisce in sé le caratteristiche dell’atomo fisico e del punto matematico [metafisico]: quindi, la monade è un soggetto indivisibile, reale ed esatto e, di conseguenza, non ha né nascita né morte [come i Li cinesi e come la Sostanza per Spinoza: ogni monade esiste da sempre]. Ogni monade, inoltre, essendo inestesa, risulta essere secondo Leibniz impenetrabile all’azione delle altre monadi, e per spiegare questo concetto Leibniz fa un’affermazione che è diventata celebre [una delle asserzioni famose in Filosofia]: «La monade non ha finestre», e questo celebre enunciato fa, inevitabilmente, venire in mente qualcosa di asfittico [si pensa a un basso, a una caverna, a una cella, a uno spazio chiuso] anche perché, concretamente, quello di “guardare dalla finestra” [e anche verso le altre finestre] è un esercizio al quale tutte e tutti noi ci dedichiamo e sul quale possiamo fare una riflessione prima di proseguire.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e discrittura:
Che cosa vedete [e che cosa immaginate] affacciandovi alle finestre di casa vostra?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Leibniz per affermare che ogni monade è inestesa - per cui risulta essere impenetrabile all’azione delle altre monadi - utilizza un’affermazione che è diventata celebre, scrive: «La monade non ha finestre», e siccome si rende conto che questa enunciazione può condurre a un fraintendimento si dedica anche a spiegare il senso metaforico che ha questa affermazione.
Per Leibniz la realtà universale è composta da infinite monadi, e la monade come abbiamo detto è “un centro di forza” [di energia] formato da una sostanza inestesa, indivisibile, semplice e attiva [energetica], impenetrabile all’azione delle altre monadi, per cui Leibniz afferma che «La monade non ha finestre» spiegando che questa affermazione ha anche un significato metaforico per cui - oltre a quella fisica [che rende la monade simile all’atomo] e a quella metafisica [che equipara la monade al punto matematico] - quale altra dimensione Leibniz vuol far assumere alla monade? Leibniz ritiene che la monade debba far risaltare la dimensione dell’interiorità [la monade è un’entità che sa essere concentrata in se stessa], e debba mettere in risalto l’esercizio del “guardarsi dentro” [per questo non necessita di finestre]: Leibniz vuole mettere in evidenza che la monade - in quanto elemento costitutivo della realtà, dell’Universo, dell’Essere - è soprattutto la manifestazione di un universale intento educativo, perché Leibniz coltiva l’aspirazione [derivante dalla lettura delle Enneadi di Plotino e de L’Ethica di Spinoza] di dar vita a una realtà che abbia un’essenza eminentemente spirituale e intellettuale: «La realtà materiale [scrive Leibniz] è sostanza nella misura in cui contribuisce a far elevare spiritualmente e moralmente la persona e a sollecitare la sua volontà di imparare». Ogni monade [afferma Leibniz] è la sede di due attività fondamentali: l’attività di percezione [che permette di conoscere] e l’attività di appetizione [che permette di imparare]: Leibniz introduce nel glossario moderno della Filosofia il termine “appetizione” [che deriva dal verbo latino “appetere” che significa “desiderare”] e lo mutua dalla Scolastica medioevale che, a sua volta, riprende un concetto di Aristotele che indica la tendenza della sostanza ad attuare pienamente la propria natura sia in senso fisico che intellettuale e morale.
Per Leibniz “l’appetizione” è l’azione che, nella monade, produce il passaggio da una percezione all’altra, in modo che il preciso riconoscimento di ogni percezione favorisca la qualità della conoscenza della realtà da parte della persona e, in virtù di questo, ogni monade è “un centro di forza rappresentativa” in quanto ogni monade rappresenta in sé tutto l’Universo. Ma [scrive Leibniz in un’opera intitolata Monadologia, pubblicata nel 1714] non tutte le monadi rappresentano l’Universo con la stessa intensità: ci sono monadi a più alto tasso di rappresentazione e monadi con più basso tasso di rappresentazione e, in base a questa intensità rappresentativa le monadi formano un’infinita gerarchia, che va dalla monade a più bassa rappresentazione, portatrice di una percezione più oscura e confusa, fino alla monade cui tutto appare chiaro e distinto. Leibniz afferma che la gerarchia della realtà universale va dalla monade oscura e confusa della materia prima fino alla monade suprema, chiara e distinta in senso assoluto, che possiamo chiamare Dio. L’atto della creazione da parte della Monade suprema, da parte di Dio, consiste [scrive Leibniz] nell’aver fatto sì che tutte le monadi si armonizzassero tra loro pur non influenzandosi reciprocamente. Le monadi [afferma Leibniz] si integrano a vicenda con un’armonia prestabilita data dal diverso grado di rappresentazione che ogni monade ha in sé della realtà, e la persona è formata da tante monadi, e la più importante è quella così detta “egemone”: la monade egemone, afferma Leibniz, è l’Anima.
L’Anima [la monade egemone di ogni persona] porta in sé, innate, tante piccole percezioni oscure e confuse chiamate da Leibniz “virtualità”. Le virtualità dell’Anima [scrive Leibniz] si sviluppano con le esperienze che la persona fa a contatto con il mondo esteriore e con la riflessione che la persona è in grado di produrre nel suo mondo interiore, in modo tale che le virtualità possano diventare idee vere e proprie, necessarie e universali.
Naturalmente, afferma Leibniz, l’atto di armonizzazione delle monadi è voluto da Dio, è predisposto dalla Monade suprema in cui tutto è chiaro e distinto, e la Monade suprema in cui tutto è chiaro e distinto è unica perché se vi fossero due monadi, in cui l’Universo fosse rappresentato col massimo di chiarezza e distinzione, queste due monadi finirebbero inevitabilmente per identificarsi e formarne una sola. L’armonia voluta e rappresentata dalla Monade suprema fa sì [afferma Leibniz] che questo Mondo sia il migliore dei mondi, e con questa affermazione Leibniz costruisce una dottrina che è stata chiamata de “l’assoluto ottimismo metafisico”. Nel nostro Mondo, afferma Leibniz, tutto si svolge nel miglior modo possibile, e se noi abbiamo delle perplessità nei confronti di questa asserzione, Leibniz risponde che sono gli esseri umani incapaci di vedere e di usufruire di tutto il Bene che hanno a disposizione anche perché non credono di essere in grado di poter attuare tutto il Bene che sarebbero capaci di produrre.
Con Leibniz, all’inizio del Settecento, irrompe sulla scena della Storia del Pensiero Umano un significativo concetto che si traduce con il termine “ottimismo”. Siamo all’inizio del secolo dei Lumi [la “Monadologia” di Leibniz è stata pubblicata nel 1714] nel corso del quale si svilupperà come vedremo strada facendo, un serrato dibattito intorno a un [tuttora d’attualità] interrogativo esistenziale: la ragione umana esorta la persona a guardare il Mondo con ottimismo o sollecita la persona a guardare il Mondo con pessimismo? Leibniz, in virtù del sistema che ha elaborato, propende per l’ottimismo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e discrittura:
Riuscite a vedere dei segnali che v’inducono a essere ottimiste e ottimisti sulla possibilità che il Mondo in cui viviamo possa diventare migliore?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Leibniz, come sappiamo, propende per l’ottimismo in virtù del sistema che ha elaborato, ma è riuscito [ci domandiamo] - con la sua visione della realtà incentrata sulle monadi - a risolvere le contraddizioni presenti nel sistema di Spinoza [in cui non si giustifica la molteplicità della realtà] e nel sistema di Cartesio [in cui non si giustifica l’unicità della realtà]? In teoria ci sarebbe riuscito ma con un sistema nel quale non mancano le contraddizioni. Per esempio, se le monadi sono individualità spirituali senza estensione: come può sussistere il concetto di estensione che è presente nella realtà? E se ciascuna monade costituisce una sostanza unica, individuale, “senza finestre”, e se gli oggetti, i corpi, sono formati da più monadi: come possono stare insieme le monadi? Se così fosse, gli oggetti e i corpi sarebbero illusori. E se le monadi non s’influenzano a vicenda e svolgono un’azione armoniosa predisposta da Dio, allora il principio di causa è Dio [è la Monade suprema] e non come afferma Leibniz “la forza” [l’energia] che ciascuna monade ha in sé.
Naturalmente il punto più facilmente criticabile riguarda “la dottrina dell’assoluto ottimismo teologico” perché se Dio, in quanto perfettamente buono, crea il Mondo migliore possibile dovrebbe essere inevitabile che la volontà umana non possa che seguire il Bene maggiore, ma come mai ci sono continue variazioni in tono minore che rendono temeraria l’affermazione che considera questo Mondo il Mondo migliore possibile? Pur con queste incongruenze il sistema di Leibniz inaugura un’idea significativa: l’idea che vi possa essere un principio intellettuale, un principio attivo e incondizionato che governa la realtà, e questa idea avrà successo nel tempo come vedremo sulla via della Storia del Pensiero Umano. C’è da dire, infine, che l’ottimismo di Leibniz non ha però niente in comune con l’ottimismo ormonico della faciloneria o della superficialità che passa sopra al dramma, senza sfiorarlo: ma, a questo punto, per concludere, diamo la parola ad Adriana Zarri che riflette [e ci fa riflettere] in proposito.
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca
Talvolta qualche persona, che arriva per caso o per sbaglio - un cacciatore, un cercatore di funghi, uno che ha smarrito la strada -, esclama: «Beata lei, che abita in questo paradiso, lontano dalla città e dalla cattiveria del mondo!». È un altro di quei discorsi cui reagisco con una certa irritazione, come se sentissi tagliarmi le radici. E rispondo, di solito: «Vuole venirci d’inverno?». Il tizio s’informa della situazione; e quando sente che è umido, freddo, senza la luce elettrica e con disagi vari, declina subito l’invito. È facile apprezzare la campagna, quando si arriva in un giorno di sole e si riparte prima che venga nuvoloso; oppure ci si ferma per la villeggiatura, in una casa confortevole.
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E ora davanti a noi si estende un vastissimo territorio: il territorio della Sapienza poetica e filosofica del XVIII secolo, del Millesettecento. E sono talmente tanti e variegati i paesaggi intellettuali presenti su questo territorio che ci vorrebbe un anno di studio anche soltanto per farne il catalogo, e quando pensiamo al Settecento ci vengono in mente molte parole-chiave! Il confine virtuale tra il ‘600 e il ‘700 è illuminato da una significativa parola-chiave: di che parola si tratta?
Per rispondere a questa e a molte altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, per questo la Scuola è stata ed è ancora qui.
Fra quindici giorni, come da Calendario, percorreremo l’ultima tappa di questo Percorso: non perdete l’itinerario conclusivo di questo viaggio ma partecipate con la mente orientata tanto alla vacanza estiva quanto alla prossima partenza autunnale quando le nostre menti riprenderanno il cammino sulla via dell’apprendistato cognitivo nei vasti territori della Storia del Pensiero Umano…