ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica nel secolo dei Lumi
26-27-28 ottobre e 2 novembre 2022
SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI
S’INCONTRA LA CORRENTE DELL’EMPIRISMO MODERNO …
Con il secondo itinerario, dopo aver celebrato il tradizionale rituale della partenza la volta scorsa, prendiamo il passo sul territorio del secolo dei Lumi.
Sappiamo che da Dublino, in Irlanda, stiamo per trasferirci a Edimburgo, in Scozia; poi, sempre nel corso di questo itinerario, ci sposteremo a Halle in Germania e dopo navigheremo in gondola sui canali di Venezia prima di raggiungere Parigi. Chi dobbiamo incontrare, in partenza, a Edimburgo, a Halle, a Venezia e a Parigi, e su quali temi dobbiamo cominciare a riflettere nel momento in cui ci accingiamo ad attraversare il territorio del secolo dei Lumi? Dall’Irlanda alla Scozia il passo è breve, e Edimburgo, la capitale amministrativa e culturale della Scozia, dove ora ci troviamo, merita una visita.
La città di Edimburgo è stata fondata attorno al VII secolo e a partire dal 1437 è diventata la capitale della Scozia. Dopo un periodo di decadenza riacquista importanza proprio nel ‘700 in seguito allo sviluppo delle attività del suo porto e a un efficace intervento urbanistico. A Edimburgo ci sono numerosi monumenti interessanti: il Castello del secolo XI, la chiesa di St. Giles del secolo XIV, il Palazzo Reale del secolo XVI costruito sulle rovine di un’antica abbazia agostiniana, e poi ci sono i famosi Palazzi del ‘700, soprattutto, quelli di Charlotte Square, terminati nel 1791. Se si visita la Galleria Nazionale Scozzese ci si sente a casa perché la parte del leone la fanno i dipinti di Scuola italiana del ‘600 oltre alle numerose opere di Scuola fiamminga sempre del XVII secolo, ed è anche una città che vanta un’antica tradizione per quanto rigarda l’industria tipografica ed editoriale. Edimburgo dà l’impressione di non essere “una grande città” sebbene conti più di 450mila abitanti, ma piuttosto un insieme di piccole città con caratteristiche storiche e architettoniche diverse tuttavia armonicamente affiancate nel corso dei secoli.
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Ma non fermatevi a questo breve e parziale resoconto… Consultando una “guida” della Scozia – oltre a navigare in rete - potete fare una passeggiata virtuale nella città di Edimburgo per conoscerla meglio… Divertitevi, ma non dimenticate l’ombrello!…
Ma perché siamo a Edimburgo: che cosa siamo venute e venuti a fare in Scozia?
Siamo a Edimburgo perché qui, nel 1711, in una famiglia della piccola nobiltà terriera è nato David Hume, il personaggio che dobbiamo incontrare questa sera per primo. David Hume dopo aver ricevuto una solida istruzione di base viene avviato dal padre verso la carriera giuridica, ma lui è attratto dallo studio dei Classici greci e latini, è attratto dalla Filosofia e, di conseguenza, trascura la giurisprudenza e comincia a scrivere accumulando migliaia di pagine - da prima annota solo appunti in ordine sparso che poi, dopo essere stati sviluppati, diventano testi ben oganizzati - che potrebbero dar corpo a molti volumi. Nel 1734 il giovane Hume lascia Edimburgo e per due anni soggiorna in Francia, prima a Reims e poi a Parigi nel famoso collegio de La Flèche gestito dai Gesuiti e frequentato dai figli dei nobili e dei grandi borghesi [perché questa è la Scuola dove viene formata la classe dirigente e dove - come forse ricorderete - hanno studiato Cartesio e padre Mersenne].
A Parigi Hume compone la sua prima opera intitolata Trattato sulla natura umana, pubblicata, però, anonima a Londra nel 1739. Quest’opera non passa inosservata e suscita scalpore nel mondo della cultura ricevendo anche molte critiche che, però, non demoralizzano il giovane autore ma stimolano la sua creatività per cui decide di dare inizio alla pubblicazione dei Saggi morali e politici, in numero di quindici nel 1741 che diventano ventisette nel 1742 e trenta nel 1748. I Saggi morali e politici di Hume innescano un serrato dibattito: c’è chi si schiera dalla sua parte [in pochi] e chi invece trova riprovevole il pensiero di Hume, un pensiero che viene attaccato in particolare dagli ambienti ecclesiastici anglicani che controllano il mondo universitario. Per questa opposizione, Hume non riesce, nel 1744, nonostante abbia tutti i requisiti richiesti, a occupare la cattedra di Etica e di Filosofia pneumatica all’Università di Edimburgo, e nel 1751 gli si impedisce di occupare la cattedra di Logica all’Università di Glasgow.
Hume, per mantenersi, è costretto ad andare a servizio: fa l’uomo di compagnia del marchese di Annandale, malato di mente, e poi il segretario del generale di St. Clair in missioni diplomatiche a Vienna e a Torino dal 1746 al 1748. Nel 1748 Hume fa pubblicare la Ricerca sull’intelletto umano, nel 1751 la Ricerca sui principi della morale e nel 1752 i Discorsi politici. Queste tre opere di Hume vengono bersagliate dalla critica e viene accusato per scetticismo e ateismo rischiando una severa condanna.
L’unico suo fedele amico che lo sostiene e lo difende è il giurista Henry Home ma anche lui viene duramente attaccato e accusato di essere un individuo pericoloso per la società. Ma Hume e Home non si lasciano intimorire e Hume, in virtù delle sue competenze, trova un posto presso la Sede degli avvocati di Edimburgo e in questa biblioteca scrive un’opera monumentale: Storia d’Inghilterra dall’invasione di Giulio Cesare alla ascesa di Enrico VII. Quest’opera, pubblicata tra il 1754 e il 1761, ha un grande successo editoriale, ma quando, nel 1757, scrive Quattro dissertazioni [Sulle passioni. Sulla tragedia. Storia naturale della religione. La regola del gusto.] riesplode, violenta, la polemica nei suoi confronti. Ma Hume è un uomo di valore e dal 1763 al 1766 è a Parigi come segretario dell’ambasciatore inglese in Francia.
A Parigi Hume è conosciuto [le sue opere vengono apprezzate da molti] e viene accolto con interesse e simpatia nei salotti e nei circoli; diventa amico dei filosofi parigini [che incontreremo strada facendo] e torna in Inghilterra in compagnia di Rousseau [che incontreremo a suo tempo] a cui offre ospitalità, ma non è il loro un rapporto facile. Anche in Inghilterra e in Scozia il numero di estimatori di Hume aumenta e nel 1767 entra in Parlamento e gli vengono affidati alcuni importanti incarichi di governo e, quindi, ha diritto a ricevere pure una seppur modesta pensione, per cui, nel 1770, si ritira a Edimburgo a riordinare la sua Opera. Hume muore nel 1776 e, tre anni dopo, nel 1779, viene pubblicata postuma [della pubblicazione se ne occupa Henry Home] la sua ultima opera: Dialoghi sulla religione naturale.
Abbiamo citato, come amico e protettore di Hume, Henry Home [1696-1782], una figura di spicco del secolo dei Lumi in Scozia che almeno a grandi linee merita di essere conosciuta.
Henry Home [Lord Kames], oltre a essere un avvocato e un giurita che si è battuto contro la schiavitù [ha fatto storia la sua difesa dello schiavo americano Joseph Knight, un caso in cui viene stabilito - con una senteza esemplare - che non ci poteva essere schiavitù in Scozia]; ebbene, Henry Home è stato anche uno scrittore, un filosofo e un agronomo. Inoltre Home era un poligenista con una mentalità da antropologo: credeva che Dio non avesse creato una sola coppia [il Concilio di Trento obbligava a credere al monogenismo] ma diverse coppie con caratteri differenziati [il poligenismo] come si poteva constatare osservando i vari ceppi umani; e - in polemica con le istituzioni religiose - sosteneva, da esegeta biblico, la teoria preadamitica secondo la quale Dio, prima di Adamo, aveva già creato altri esseri umani come fa intendere anche Paolo di Tarso nei versetti 12, 13 e 14 del capitolo 5 della Lettera ai Romani [e, ultimamente, dal 1965, i teologi riuniti nel Concilio Ecumenico Vaticano II hanno considerato il poligenismo coerente con la dottrina].
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Con l’enciclopedia e navigando in rete andate a far conoscenza in modo più approfondito di Henry Home, ne vale la pena…
E ora torniamo a occuparci di David Hume per domandarci: ma che cosa ha scritto di così provocatorio per essere quasi perseguitato? Hume ha invitato i membri del mondo della cultura del suo tempo a riflettere su una serie di temi importanti. Hume è uno studioso delle opere di Cartesio, di Berkeley e di Locke e costruisce il suo pensiero utilizzando proprio le tesi di questi autori.
Con un linguaggio dal carattere fortemente allusivo Hume vuole ribadire con grande determinazione che sul piano della conoscenza solo la sensazione “fresca e vivace” è l’elemento forte mentre il pensiero che ne deriva è la componente debole nel processo della conoscenza, e di questo limite la persona deve essere consapevole se vuole dare valore al pensiero.
Il mondo accademico dominante dell’epoca non vuole riconoscere il fatto che sia la sensazione a dare valore al pensiero, ci si ostinava a sostenere che doveva essere il pensiero a dare valore alla sensazione.
David Hume è un pensatore che, dai manuali di Storia della Filosofia, viene presentato come un “empirista”. Che cosa significa essere “empirista”? Significa essere una studiosa o uno studioso che colloca l’esperienza alla base della conoscenza, e il termine “en-peìra” deriva dal greco εν-πεΐρα in quanto la parola “esperienza”, in greco, si traduce “πεΐρα”. Per Hume la persona giunge alla conoscenza della realtà, del mondo, delle cose attraverso l’esperienza sensibile e l’esperienza sensibile poggia secondo Hume su due elementi costitutivi: le impressioni e le idee.
Quelle che Hume chiama “impressioni” sono le sensazioni vere e proprie che hanno due caratteristiche fondamentali: la freschezza e la vivacità, e un’impressione fresca e vivace provoca la conoscenza. Le idee invece sono il ricordo di quelle impressioni o l’anticipazione d’impressioni di cui la persona ha già fatto esperienza, quindi sono copie, sono immagini sbiadite delle impressioni, composte da ricordi più o meno frammentari e, di conseguenza, le impressioni, sostiene Hume, sono conoscenze allo stato forte a cui la persona crede, dà il suo consenso in virtù della loro freschezza e vivacità perché le impressioni che risultano chiare ed evidenti non danno adito a discussioni- Le idee invece, sostiene Hume, sono conoscenze allo stato debole e danno adito a molte discussioni-
Ora noi, a questo punto, ci domandiamo che cosa possa esserci di scandalolo in queste considerazioni di Hume ma noi sappaimo anche che già le correnti dell’empirismo antico [quello dei Sofisti, quello di Empedocle] avevano suscitato delle reazioni avverse [una condanna per scetticismo e ateismo]. Dobbiamo invece riflettere sul fatto che il ragionamento imbastito da Hume risulta particolarmente significativo perché pone le basi per l’edificazione del concetto moderno di ideologia e dei concetti di “pensiero forte” e “pensiero debole” che sono temi dibattuti dalla Filosofia contemporanea dei quali ci occuperemo a suo tempo.
Ma adesso continuiamo a seguire la riflessione di Hume: se le impressioni sono “conoscenza forte” e le idee sono “conoscenza debole” significa, sostiene Hume, che la realtà che il pensiero coglie è di grado inferiore e meno attendibile della realtà concretamente sentita con i sensi: la conoscenza che una persona ha di un oggetto impressionato dai suoi sensi [questa graffetta, ora] è superiore alla conoscenza che la persona ha quando pensa quell’oggetto con la mente, e Hume, in proposito, scrive che non vuole porsi neppure il problema dell’origine delle impressioni. Che importanza può avere, sostiene Hume, stabilire se le impressioni provengono dagli oggetti stessi o siano prodotte dalla mente o dallo spirito, oppure se derivino da un eventuale Autore dell’Essere. L’importante, afferma Hume, è capire che le impressioni sono dati originari, istinti fondamentali, elementi necessari del conoscere, limiti precisi degli atti della mente, difatti la persona può pensare un animale immaginario come una chimera perché, cucendo insieme esperienze reali [impressioni fresche e vivaci], la sua mente ha potuto elaborare una sintesi fantastica. Scrive Hume: «Non possiamo pensare una cosa senza averla prima vista fuori di noi o sentita nella nostra mente».
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Quale oggetto ha recentemente lasciato nella vostra mente un’impressione particolarmente fresca e vivace?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Hume vuole dimostrare che le conoscenze semplici derivate dalle impressioni e dalle idee ubbidiscono a determinate Leggi che lui chiama “Leggi di associazioni” [si domanda: come si associano le impressioni e le idee dando luogo a conoscenze più complesse?]. Hume vorrebbe fare sul piano psichico ciò che, con la scoperta della Legge di gravitazione universale che regola i fenomeni del mondo fisico, ha fatto Newton.
David Hume vorrebbe scoprire le Leggi che regolano il mondo psichico: quelle Leggi che regolano i rapporti associativi tra le impressioni e le idee [come si stabilisce la relazione tra i sensi e il pensiero]. Queste “Leggi [così dette] di associazioni”, secondo Hume, sono tre: la Legge della contiguità nel tempo e nello spazio, la Legge della somiglianza e la Legge del rapporto di causa. In base a queste Leggi avviene che le impressioni fornite dai sensi riversano la loro freschezza e vivacità sulle idee che ne derivano [che fioriscono nel pensiero]: per esempio se nel nostro gruppo una persona [qualcuna o qualcuno di voi] si assumesse l’incarico di raccogliere le firme sull’apposito foglio delle presenze prima dell’inizio della Lezione succederebbe che secondo “la Legge della contiguità nel tempo e nello spazio” ogni volta che questa persona appare ed entra in azione si produce “un’impressione” che fa fiorire nella mente degli astanti l’idea del foglio delle firme [anche se non lo si vede] perché questa idea è resa fresca e viva dal rapporto associativo esistente tra i sensi e il pensiero. E poi secondo “la Legge della somiglianza” se vedessimo una persona che assomiglia a quella che raccoglie le firme, o sentissimo che una persona si chiama come lei non solo avremmo un’idea fresca e viva di lei ma si produrrebbe anche nella nostra mente l’idea del foglio delle firme. E ancora secondo “la Legge del rapporto di causa” tutte le volte che vediamo, o sentiamo parlare, di un foglio delle firme, ci aspettiamo anche di vedere la persona che le raccoglie e ci rappresentiamo proprio quella persona.
Queste Leggi, afferma Hume, generano “l’abitudine” [habitus mentis], e l’abitudine genera la fiducia e la fiducia dà origine all’aspettativa: all’aspettativa che l’impressione si riproduca, e questo meccanismo psicologico, sostiene Hume, genera il fenomeno della fede, e il fenomeno della fede, afferma Hume, produce idee di relazione che, a loro volta, provocano lo sviluppo di forme di conoscenza più complesse come l’idea di causa, di sostanza, di spazio, di tempo.
Ma esistono davvero, si domanda Hume, queste idee in modo oggettivo o esistono soltanto come aspettativa della nostra fede? Con questa riflessione semplice e lineare [graffiante e originale tanto da spaventare tutti gli apparati fideistici del tempo] Hume demolisce la certezza che esistano grandi idee oggettive e immutabili sulle quali si basa l’impalcatura di tutte le nostre relazioni. Se prendiamo in considerazione l’idea di causa, scrive Hume, sulla quale si basa la Scienza succede che quando una persona vede il lampo precedere il tuono pensa che tale successione sia sempre stata così e lo sarà anche in futuro, inoltre pensa che tra il lampo e il tuono non ci sia solo un rapporto cronologico ma esista anche tra questi due fenomeni un rapporto intimo, metafisico, come se il lampo producesse il tuono e non si limitasse a precederlo. In realtà questi due fenomeni [il lampo e il tuono], come tutti i fenomeni, avvengono in quanto tali perché ci sono le condizioni, non uno come causa dell’altro, e allora [si domanda Hume] da dove nasce il concetto di causa? A forza di vedere il lampo precedere il tuono, scrive Hume, la persona si abitua a questa successione, se l’aspetta, e ogni volta che vede “questo” ha fiducia [ha fede] di vedere anche “quello”, ed è l’associazione tra “questo” e “quello”, tra lampo e tuono, che genera un’abitudine e, quindi, si crea una fiducia e, di conseguenza, nasce la fede. Lo stesso, scrive Hume, vale per l’idea di sostanza, di spazio, di tempo: è l’abitudine che le fa esistere, è l’associazione tra l’abitudine e la fede che fa credere alla persona che esistano davvero queste grandi idee oggettive, quando invece tutta la realtà materiale e spirituale [afferma Hume] si dissolve in impressioni forti e idee deboli.
E la risposta finale di Hume è ironica [e attira su di sé le ire dei benpensanti] ed è improntata allo scetticismo: che cosa suggerisce la ragione? La ragione suggerisce alla persona di tenere a bada la propria ragione, suggerisce che, se vuole vivere senza avere problemi, sarà meglio che la persona [sostiene Hume sarcastico] s’inganni e creda nelle abitudini acquisite anche se sono cattive abitudini e nelle grandi idee oggettive anche se non esistono! Scrive Hume: «Nell’Europa di oggi le cittadine e i cittadini di tutte le classi sociali sono stati abituati a coltivare i propri vizi privati, a ripiegarsi sul proprio individualismo e a manifestare il proprio egoismo e, di conseguenza, sarà difficile costruire una società veramente umana se le cittadine e i cittadini non sapranno coltivare il sentimento della “simpatia” non nel senso dell’attrattiva sentimentale ma secondo il significato di “trovare un accordo” per far sì che i beni materiali fondamentali possano toccare, in eguale misura, a tutti». Ed è necessario, quindi, scrive Hume, costruire un ideale morale su basi realistiche in quanto il Bene è ciò che sentiamo utile e necessario per noi e per gli altri, così come il male è ciò che riteniamo dannoso per noi e per gli altri: ed è su queste semplici impressioni e deboli idee, scrive Hume, che deve fondarsi l’azione politica, e i governi devono promuovere soprattutto l’educazione pubblica per insegnare, attraverso tutte le materie, come si praticano le Virtù pubbliche.
Hume ritiene [e lo scrive in tutte le sue Opere] che la morale pubblica debba essere laica e aconfessionale e che i Valori della morale sono quelli che ha elaborato la cultura dell’Umanesimo [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia], una cultura, scrive Hume, che ha cercato sempre di temperare gli individualismi e gli egoismi attraverso l’educazione, un’educazione empirica fondata sulla conoscenza derivante dall’esperienza umana: gli Umani debbono imparare, scrive Hume, a trasformare in Virtù concrete, sensibili, fresche, vivaci, forti quello che sono abituati ad approvare come idee deboli perché non c’è persona che non sia capace “idealmente” ad approvare il Bene e a disapprovare il Male, ma le idee sono deboli rispetto alla forza percettiva che hanno le impressioni sensoriali. La costruzione di una morale, scrive Hume, sta in mani umane, capaci di produrre esperienza, in quanto [afferma Hume, attirandosi molti anatemi] non si può ammettere che esistano delle entità che sfuggano alla conoscenza sensibile e, quindi, anche Dio [scrive Hume nella sua ultima opera intitolata Dialoghi sulla religione naturale pubblicata postuma nel 1779] ci sfugge.
Esiste però, ribadisce Hume, un fenomeno religioso generalizzato nel mondo, e la religiosità è alla base dell’esperienza umana: che cos’è la religione, si domanda Hume? La religione è un importante fenomeno naturale dello spirito umano, che nasce dal bisogno pratico di protezione e di aiuto: l’homo sapiens è un animale dotato di ragione che ha vissuto in un continuo timore nei confronti delle forze della Natura e ha constatato la propria miseria e la propria imperfezione cercando rifugio e conforto, cercando una consolazione al di sopra delle proprie possibilità, ed è stata [scrive Hume] una grande e potente operazione culturale quella della costruzione dell’idea di Dio, ma essendo un’idea, afferma Hume coerente con la logica del suo pensiero, è di per sé un pensiero debole. La religione, scrive Hume, non ha valore in se stessa, ma può essere uno stimolo per la vita della persona se invece di vietare e basta [polemizza Hume] facesse proposte affermative come [afferma Hume con spirito esegetico] è dato leggere nella Letteratura dei Vangeli dove i divieti sono sostenuti da idee deboli mentre risulta forte l’invito a scegliere le impressioni volte al Bene.
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Tra i vari divieti imposti dagli apparati religiosi qual è quello che condividete di meno?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Leggiamo ora le parole con cui Hume termina i Dialoghi sulla religione naturale: è un commovente sforzo che lui fa per non costruire certezze di natura metafisica ma per lasciare aperta la porta della ricerca, della sperimentazione, dello studio.
David Hume, Dialoghi sulla religione naturale
Mi sento di affermare che noi non siamo altro che collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità in un perpetuo flusso e movimento. La nostra mente è una specie di teatro dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e di situazioni. E non si fraintenda il paragone del teatro: a costruire la mente non c’è altro che le percezioni successive, noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate o del materiale di cui sono composte. …
Hume lo rincontreremo a gennaio a cena dal barone d’Holbach.
E ora da Edimburgo ci spostiamo sul territorio tedesco, in Sassonia, in una città che si chiama Halle dove c’è una famosa Università.
La città di Halle, in Sassonia, merita una visita anche per il fatto che, probabilmente, non ci è molto nota sebbene sia ricca di monumenti degni di essere conosciuti a cominciare proprio dall’Università che, già celebre in età medioevale, è stata rinnovata nel 1694 tanto sotto il profilo architettonico quanto sotto quello della didattica. L’Università di Halle ai primi del ‘700 è un grande laboratorio culturale dove insegnano docenti di prim’ordine i quali operano per far sviluppare uno dei temi più dibattuti sulla via che attraversa il territorio del secolo dei Lumi: la questione del metodo del sapere. C’è un metodo veramente valido [ci si domanda] per imparare a imparare? Lo si può rintracciare, definire e costruire? La Matematica, si domandano i docenti dell’Università di Halle, può essere la disciplina attorno alla quale è possibile costruire il metodo del sapere? E che cos’è un metodo di studio? Per rispondere a queste domande è necessario imbastire un ragionamento progressivo non prima però di aver consigliato una visita alla città di Halle.
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Con una guida della Germania e navigando in rete andate a visitare la città di Halle che è stata fondata - col nome di Halla - da Carlo Magno nell’806... Halle, che oggi conta circa 285mila abitanti, è una città portuale pur essendo lontana dal mare perché è dotata di un efficiente porto fluviale che l’ha resa [dal 1280 con l’ingresso nella Lega anseatica] una florida città commerciale dedita soprattutto alla vendita del sale: per osservare da quale fiume è attraversata consultate una carta della città… Andate a scoprire quali sono i monumenti più importanti di Halle e, in particolare, che cos’è il Moritzburg, e perché è stato costruito nel 1484 e con quali funzioni è stato ricostruito tra il 1901 e il 1913… Halle ha anche dato i natali a un famoso musicista del ‘700: chi è?... Incuriositevi...
E allora: come mai ci troviamo all’Università di Halle, chi dobbiamo incontrare nell’anno 1706? Nell’anno 1706 viene nominato professore di Matematica all’Università di Halle, presentato da Leibniz [che abbiamo incontrato nell’aprile scorso], il giovane Christian Wolff che, con il suo operato, si guadagna la fama di più importante pensatore tedesco prima di Kant [che prossimamente rincontreremo]. Chi è Christian Wolff, e perché è importante insegnare a Halle?
Christian Wolff è nato a Breslavia, in Polonia, nel 1679, e nel 1706 viene nominato professore di Matematica all’Università di Halle che è un importante centro culturale perché ci lavorano insegnanti di valore come Christian Thomasius [1655-1728] e Andreas Rüdiger [1673-1731] i cosiddetti “riformatori di Halle” [che vanno conosciuti]. Thomasius proviene dall’Università di Lipsia ed è noto per le sue Lezioni sul giusnaturalismo, tenute tra il 1681 e il 1687, sulla dottrina di Ugo Grozio, che abbiamo studiato nel gennaio scorso. Queste Lezioni hanno scandalizzato il mondo accademico perché Thomasius le ha tenute in lingua tedesca e non in latino - come era d’obbligo nelle Università - e non perché non amasse il latino, anzi, era un raffinato latinista, ma la sua è una presa di posizione contro “il sapere astratto e non ragionato” di una classe di docenti i quali continuavano da secoli a ripetere gli stessi ammaestramenti in una lingua che avevano lasciato morire [e che la popolazione studentesca non capiva più]. Thomasius nelle sue Lezioni critica l’uso sclerotizzato della metafisica e il conservatorismo della teologia luterana denunciando il fatto che nel cuore dell’Europa protestante lo slancio propulsivo della Riforma [delle Tesi di Wittemberg di Lutero del 1517] si è insabbiato nel clericalismo votato alla conservazione del potere. Thomasius contrappone a questo stato di cose la figura di Socrate e la sua esemplare ricerca della verità, tesa a combattere l’ignoranza e le superstizioni. Sulla scia dell’empirismo di Hume [che abbiamo appena studiato] Thomasius ritiene che le sole conoscenze fondate siano quelle tratte dall’esperienza, e ritiene che “la sensazione” sia il primo principio e il criterio ultimo delle conoscenze intellettuali.
Dello stesso parere è Andreas Rüdiger, medico e professore di Filosofia a Lipsia e poi a Halle. Rüdiger studia la questione del funzionamento del ragionamento nella mente della persona, concentrando la sua attenzione di studioso sul ragionamento di tipo sintetico piuttosto che sul più diffuso ragionamento di tipo analitico sostenendo che «le potenzialità della ragione umana si perdono soprattutto nel fare l’analisi della situazione che, sebbene sia un utile esercizio, risulta [scrive Rüdiger] spesso improduttivo». Rüdiger sostiene che l’imparare, da parte della mente umana, a fornire giudizi sintetici sia molto più produttivo che rilasciare giudizi analitici [e vedremo a suo tempo come Kant svilupperà questo tema impostato da Rüdiger].
In questo fecondo clima culturale s’inserisce Christian Wolff quando inizia nel 1706 a insegnare Matematica a Halle. Gli scritti di Wolff, [frutto delle sue Lezioni a Halle, vengono raccolti in un’opera che s’intitola Pensieri razionali pubblicata nel 1721: quest’opera viene duramente criticata dai professori detti “pietisti intransigenti” [i luterani conservatori presenti in maggioranza in tutte le Università tedesche] che accusano Wolff di ateismo e di essere discepolo di Spinoza. Il re di Prussia, Federico Guglielmo I, dà ascolto a queste critiche e, nel 1723, solleva Wolff dall’incarico e lo bandisce dal territorio prussiano, pena l’impiccagione. Wolff si trasferisce a Marburgo e poi a Berlino e si dedica all’esposizione sistematica del suo pensiero con una lunga serie di opere scritte in latino: Filosofia razionale e logica [1728], Filosofia ontologica [1729], Cosmologia generale [1731], Psicologia empirica [1732, il primo vero trattato di psicologia moderna], Psicologia razionale [1734], Teologia naturale [1737], Filosofia universale [1739]. Nel 1740 il nuovo re di Prussia, Federico II, detto “il re filosofo” [aveva solo un po’ più di sale in zucca del predecessore], richiama Wolff a Halle, e lui vi rimane fino al 1754, l’anno della sua morte.
Il ritorno di Wolff a Halle viene salutato da molti intellettuali europei come la vittoria della ragione illuministica sull’oscurantismo religioso: infatti fino al 1739 gli studenti che venivano sospettati di avere letto le opere di Wolff non erano ammessi alle facoltà di Teologia. Si deve sapere [ed è lui stesso che lo racconta] che Wolff, ancora adolescente, era molto contrariato dalle dispute teologiche laceranti e improduttive tra luterani e cattolici: lui ha sempre sentito la necessità di pacificare degli animi promuovendo una riforma del pensiero che, sull’esempio di Newton, raccogliesse in una grande sintesi enciclopedica tutti i campi del sapere, unificati in un funzionale piano didattico al quale avrebbero potuto attingere tutte le persone dedite allo studio indipendentemente dal fatto di essere cattoliche, protestanti, ebree, mussulmane laiche. La riforma di Wolff prende il nome di Metodo di fondazione del sapere e «questo metodo [scriverà Hegel nel 1806 sul Giornale critico della filosofia] potrebbe influire in modo profondo sulla generale educazione intellettuale dell’Umanità». Il Metodo di fondazione del sapere proposto da Wolff si basa su quattro regole generali: «[la prima] non bisogna far uso di termini che non siano spiegati con una definizione accurata; [la seconda] è necessario usare soltanto principi sufficientemente dimostrati; [la terza] non bisogna fare nessuna affermazione se non è dedotta da proposizioni sufficientemente confermate; [la quarta] sia che si affermi sia che si neghi qualche cosa si deve sempre dimostrare ciò che si afferma o ciò che si nega». Le possibilità che ogni persona ha di realizzare un progetto [che un progetto vada a buon fine] dipendono, sostiene Wolff, dalla conoscenza e dall’applicazione di queste regole.
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Voi vorreste realizzare un progetto che avete in mente perché – per quanto ambizioso possa essere – contiene tutte le possibilità di fattibilità?...
Che cosa vi trattiene dal realizzarlo?...
Scrivete quattro righe in proposito...
E ora leggiamo un frammento da Filosofia razionale e logica di Christian Wolff.
Christian Wolff, Filosofia razionale e logica
Poiché soltanto il possibile può diventare reale, tutto ciò che è reale è anche possibile, e dalla realtà si può sempre procedere senza difficoltà alla possibilità. Se cioè vedo che qualcosa esiste, posso ammettere che sia possibile e che, quindi, non contenga in sé nulla di contraddittorio. …
Un progetto [realizzato nell’ambito dei Percorsi di Storia del Pensiero Umano per un decennio del quale rimane memoria in molte e molti di voi] è consistito nel frequentare il teatro da parte di centinaia di cittadine e cittadini del popolo della Scuola: un’esperienza irripetibile che ci ha insegnato quanto la vita e il teatro siano indissolubilmente legati. Ebbene [dopo aver incontrato nei Percorsi precedenti prima Shakespeare e poi Molière], ora, nel ‘700, assistiamo a un’importante riforma del teatro in particolare del genere letterario della commedia, e stiamo per incontrare lo scrittore che mette a punto il “Manifesto della riforma della commedia”: si chiama Carlo Goldoni, ed è assai noto e, quindi, da Halle ci spostiamo a Venezia e poi andremo a Parigi.
Il “Manifesto della riforma del teatro del Settecento” corrisponde al testo di una commedia, scritta da Carlo Goldoni nel 1750, che s’intitola Il teatro comico. Questo copione ha un grande valore letterario e storico: in scena c’è una compagnia teatrale che sta provando una commedia [sul palcoscenico c’è il palcoscenico] e ciascuna attrice e ciascun attore porta sulla scena anche le esperienze della propria vita quotidiana e le critiche e le osservazioni nei confronti del commediografo.
L’interprete [l’attrice o l’attore che recita] non è più “un oggetto in maschera” ma è una persona con le sue caratteristiche soggettive, e il personaggio scritto sul copione, interiorizzato e filtrato attraverso la personalità dell’interprete, risulta un soggetto nuovo, complesso, mai uguale a se stesso: ecco che il testo di una commedia dura nel tempo come un prodotto sempre nuovo perché l’interpretazione lo rende continuamente diverso e lo attualizza. Goldoni nella commedia Il teatro comico mette in evidenza il tema del rapporto tra il commediografo e la persona dell’interprete [dell’attrice o dell’attore] e prende forma una nuova [una moderna] espressività teatrale, più realistica, e di natura esistenziale. L’attrice e l’attore cessa di essere una maschera per diventare lo strumento di interpretazione di un testo scritto, e questo è il senso della riforma del teatro operata da Carlo Goldoni. Troppe persone non hanno mai visto nonostante la notorietà una commedia di Goldoni anche se ci sono in circolazione centoventi commedie di questo autore nei teatri del Pianeta. Un anno, per scommessa, Goldoni ha scritto sedici commedie, rappresentate tutte e sedici: era la stagione teatrale 1750-1751 e ha vinto la scommessa, che era di pochi ducati, ma non era un problema di ducati!
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Richiedete in biblioteca e sulla rete il testo della commedia Il teatro comico e leggetelo… Questa commedia è dedicata a una “nobilissima dama”, come si chiama?… Quanti personaggi mette in scena Goldoni in questa commedia… A quanti di loro fa parlare il dialetto veneziano?… Nell’ultima scena il signor Orazio, capo della compagnia teatrale, dice a proposito dell’attore: «Bisogna crear qualche cosa del suo, e per crear bisogna studiar» e Gianni - che fa la parte di Arlecchino e si è levato la maschera - gli risponde con una battuta comica, una battuta che Goldoni inserisce proprio per affermare che il linguaggio del Teatro s’intreccia con il linguaggio della vita quotidiana, senza maschere!... La lettura di un testo teatrale - da parte della spettatrice e dello spettatore - dovrebbe sempre precedere la visione della sua messa in scena per conoscere, per capire e per far salire la propria mente in palcoscenico...
Goldoni poi ha scritto un’opera che viene definita “la sua ultima commedia” sebbene appartenga al genere letterario dell’autobiografia: un genere che dal ‘900 in avanti suscita molto interesse perché è una ricchissima miniera di informazioni utili alla conoscenza e alla comprensione di determinati periodi storici.
Carlo Goldoni tra il 1784 e il 1787 scrive in francese la sua ultima opera intitolata Mémoires [Memorie] che è stata - tradotta in italiano corrente quindi, ben comprensibile - pubblicata in molte edizioni. Goldoni racconta “la commedia della sua vita” iniziando così: «Sono nato a Venezia il 25 febbraio 1707 in pieno Carnovale! Ma la mia vita non è stata certo un Carnovale, difatti mi ha riservato amarezze assai, e si è rivelata ricchissima di intreccio sebbene spesso complicato, e di colpi di scena inaspettati, e di fughe dagli aspetti romanzeschi e avventurosi. Una vita certamente suggestiva come una commedia, però, più tinta di malinconia piuttosto che giuliva».
Goldoni racconta che la vocazione per il teatro è stata in lui molto precoce ma il suo apprendistato è stato lungo e travagliato e solo dopo i quarant’anni è riuscito a dedicarsi pienamente al teatro. Goldoni racconta che suo padre, Giulio, era medico e, facendo pochi affari a Venezia, si trasferisce con la famiglia a Perugia dove Carlo frequenta la Scuola dai Gesuiti e dove per la prima volta con soddisfazione sale su un palcoscenico vestito da donna per recitare una commedia. Nel 1720 si trasferisce a Rimini per studiare Filosofia nel collegio dei Padri Domenicani dove si ammala di vaiolo e, durante la convalescenza, si dà alla lettura nella biblioteca del collegio che custodisce una ricca collezione di testi teatrali e qui, al porto, un bel giorno attracca un barcone di comici, un barcone che fa anche da palcoscenico e lui rimane talmente affascinato [soprattutto dalle attrici] che fugge sul barcone insieme alla compagnia: era il mese di giugno del 1721. Di tappa in tappa il barcone arriva a Chioggia dove lo aspetta sua madre, Margherita Savioni, che lo prende per un orecchio, lo porta a Venezia e lo affida a suo fratello che fa il procuratore legale, e Carlo, collocato nello studio dello zio, lavora da scrivano e qui comincia anche a scrivere copioni per i comici.
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Ma per conoscere questi avvenimenti nei minimi particolari bisogna leggere le Memorie…
Nel 1723 ottiene un posto nel collegio Ghislieri di Pavia per studiare Legge e deve anche prendere la tonsura perché questa Scuola è sotto controllo ecclesiastico, ma due anni dopo, a causa di una denuncia [per cui rischia l’arresto] deve abbandonare di corsa la città perché compone e divulga una satira in versi piuttosto piccante nei confronti delle donne di Pavia: che facevano finta di non essere disposte a concedersi.
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Ma bisogna leggere le Memorie per ascoltare la voce del protagonista…
Carlo, dopo la fuga da Pavia, si rifugia a Udine dove nel frattempo si è trasferito suo padre, e qui, all’Università, prosegue lo studio del Diritto. Nel 1727 si trasferisce a Modena dove viene colto da una crisi mistica per cui frequenta con assiduità il convento dei Cappuccini i quali capiscono subito che questa non è la sua strada e gli consigliano di trasferirsi a Venezia dove ci sono molti teatri e molte feste.
Nel 1731 muore suo padre e nello stesso anno si laurea a Padova in Giurisprudenza e va ad abitare a Venezia con la madre e comincia a fare l’avvocato, ma nel 1733 è di nuovo in fuga perché vuole evitare un matrimonio con una fanciulla che si era concessa un po’ troppo e il padre de “la putta disonorata” era piuttosto inferocito.
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Ma bisogna leggere le Memorie per conoscere i termini della delicata faccenda …
Carlo fugge a Milano dove svolge il ruolo di segretario particolare [gentiluomo di camera] dell’ambasciatore veneto in Lombardia. L’anno 1734 è quello della svolta nella vita di Goldoni perché a Venezia al teatro di San Samuele la compagnia del capocomico Giuseppe Imer rappresenta la sua commedia Belisario che ottiene un grande successo, e Goldoni raggiunge Imer e comincia a scrivere per questa compagnia e la segue nei suoi spostamenti in giro per l’Italia. A Genova Carlo conosce una fanciulla, Nicoletta Connio, figlia di un notaio e, nel 1736, la sposa: è stato un incontro felice perché Nicoletta si è rivelata una compagna preziosa e comprensiva sostenendo Carlo in tutti i suoi spostamenti, tenendo conto del fatto che lui ha sempre avuto la straordinaria capacità di andarsi a mettere nei guai e di rimanere invischiato in tutta una serie di intricate e oscure vicende tanto da dover vivere per qualche anno da fuggiasco.
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E in proposito non c’è di meglio che leggere il testo delle Memorie che diventa un vero e proprio romanzo di avventure…
Goldoni con la moglie ha abitato a Bologna, a Rimini, a Firenze, a Siena e a Pisa dove, dal 1744 al 1748, lavora con impegno come avvocato mentre continua a scrivere testi di commedie e a inviarli alle compagnie. Nel 1748 viene chiamato a Venezia da Girolamo Medebach, capocomico e buon amministratore [molto avaro] del teatro di Sant’Angelo il quale gli fa un contratto da commediografo a 400 ducati al mese e Goldoni, a 41 anni, smette di fare l’avvocato e diventa “poeta di teatro”.
È stato un quinquennio straordinario quello del teatro di Sant’Angelo dal 1748 al 1753 e sono gli anni delle sedici commedie date per scommessa: de La vedova scaltra, de La famiglia dell’antiquario, de Il teatro comico e poi ancora de La bottega del caffè, de Il bugiardo, de La locandiera, de Le donne curiose. Poi Goldoni passa al teatro di San Luca col capocomico Francesco Vendramin e vi resta per nove anni [dal 1753 al 1762] e sono gli anni culminanti della sua attività, anni duri perché Goldoni partecipa allo scontro sul “come fare teatro”: se in modo cervellotico ed erudito come sosteneva l’abate Pietro Chiari oppure in modo classico come sosteneva lo scrittore Carlo Gozzi, suo terribile avversario. Questo scontro stimola Goldoni che costruisce ancora dei capolavori: I rusteghi, La casa nova e Baruffe chiozzotte.
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Leggendo le Memorie si può cogliere qual è il clima di questi anni, e si capisce che, nonostante i trionfi di pubblico e la gloria, Goldoni, non trova pace a Venezia: c’è la dura polemica con Carlo Gozzi, ma ha anche tanti altri nemici che si danno da fare per boicottare il suo modo di fare teatro…
Nel 1761 Goldoni riceve un invito da parte della Comèdie italienne a Parigi: lui non vorrebbe lasciare Venezia ma i maggiorenti della città ce l’hanno con lui [che mette in evidenza i vizi privati e quelli del potere pubblico] e allora sceglie l’esilio in Francia e il 22 aprile 1762 parte con la moglie per Parigi. L’ultima commedia scritta e data a Venezia è assai malinconica, è un’allegoria sul suo congedo e s’intitola Una delle ultime sere di carnovale e alla fine della recita il pubblico, che sa della partenza di Goldoni, lo saluta calorosamente gridando «Arivederse presto!», Goldoni si commuove ma è deciso a partire, e a Venezia non tornerà più.
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Leggendo le Memorie si può cogliere questa malinconia dalla viva voce dell’autore...
In Francia però lo aspettano altre battaglie, altre delusioni, altre amarezze: il pubblico di Parigi è arretrato teatralmente rispetto a quello veneziano a causa dell’arretratezza mentale del sovrano assoluto, dei membri della corte, degli attori e, nonostante la lezione di Molière, tutti reclamano ancora commedie improvvisate, canovacci buffoneschi, scenari pittoreschi e Goldoni è indignato e deve barcamenarsi tra l’accontentare un pubblico becero [re compreso] e il sostenere la battaglia contro le degenerazioni e le improvvisazioni buffonesche della peggiore commedia dell’arte. Aveva lasciato Venezia a causa delle polemiche sul modo di fare teatro e a Parigi tutto si ripropone allo stesso modo se non peggio.
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La lettura delle Memorie permette di entrare, in compagnia di Goldoni, nel clima parigino dove esiste solo una minoranza di pubblico attento e sensibile alla riforma del teatro...
Goldoni è costretto a mettere in scena dei quadri piuttosto che delle commedie per accontentare un pubblico incompetente [ha un contratto da rispettare] ma scrive ancora il testo de Il ventaglio, l’ultima significativa commedia di Goldoni che a Parigi non suscita alcun interesse se non da parte di una minoranza più attenta che stima il suo lavoro di “riformatore”, ma quando la commedia Il ventaglio viene rappresentata a Venezia al teatro di San Luca ottiene un successo straordinario e la notizia consola l’autore in esilio.
Intanto alla Comèdie nel 1764 scade il suo contratto biennale e Goldoni, deluso da questo passaggio parigino, pensa di tornare in Italia ma una settimana prima della partenza viene convocato a corte e gli si propone di dare Lezioni di italiano ad Adelaide, la figlia di Luigi XV e Goldoni accetta [mica si poteva dire di no al re di Francia!] e così, con un modesto stipendio, si trasferisce con la moglie a Versailles dove diventa uno dei tanti servitori della reggia. Cerca di rappresentare al teatro di corte le sue commedie e riesce a presentarne due, tradotte in francese, ma l’accoglienza da parte di quel mondo incompetente è gelida.
Intanto comincia a regnare Luigi XVI e Goldoni, nel 1776, viene incaricato di insegnare l’italiano alle sorelle del re, ma lui si sente frustrato, la corte di Versailles lo disgusta e vorrebbe andare via da lì ma non può dare le dimissioni, però, per fortuna, nel 1780 un medico di corte, suo amico ed estimatore, gli procura un certificato dichiarando che «l’aria di Versailles non si confà alla salute del signor Goldoni» e così, con Nicoletta, dopo sedici anni, riesce a scappare da Versailles e si trasferisce a Parigi usufruendo dell’esigua pensione da impiegato di corte che gli spettava, ma deve cominciare via via a vendere i suoi Libri per poter sopravvivere.
Nella primavera del 1784 va a trovarlo e a rendergli omaggio un altro italiano che si trova in quel momento a Parigi perché in Italia non tira aria buona per lui, è Vittorio Alfieri che lo incoraggia a scrivere per raccontare la sua vita e così nell’autunno del 1784 Goldoni comincia a scrivere l’ultima sua opera: Mémoires, la commedia della sua vita [che stiamo raccontando].
Ma gli ultimi tredici anni li passa in un clima più di dramma che di commedia: siamo alla vigilia di una Rivoluzione che cambierà il mondo, alla vigilia di grandi fatti che trovano un Goldoni vecchio, malandato di salute e anche un po’ smarrito di fronte a questa grande trasformazione sociale, anche se, da anni, la sentiva nell’aria. Goldoni è quasi cieco, triste, solitario con una grande nostalgia di Venezia nel cuore e, per giunta, essendo stato al servizio della corte, in base alle Leggi fatte dal Governo rivoluzionario, gli viene tolta la pensione, e allora, il vecchio poeta e la moglie cadono in miseria e vanno ad abitare in un basso nel quartiere dei poveri in via San Salvatore nel quartiere Latino. Meno male che all’Assemblea Costituente l’intellettuale cittadino Joseph Chénier, che è un ammiratore di Goldoni, interviene dicendo che a questo poeta la Rivoluzione deve qualcosa dal punto di vista culturale, e così il 7 febbraio 1793 la pensione gli viene restituita, ma si verifica un piccolo contrattempo: Carlo Goldoni muore il giorno prima, il 6 febbraio, e a lui toccano le esequie dei poveri e la fossa comune del quartiere latino. Per fortuna il cittadino Chénier propone alla Convenzione di passare la pensione di Goldoni alla vedova Nicoletta Connio perché possa sopravvivere.
Nonostante tutto, leggendo Mémoires si resta colpiti dal tono che usa Goldoni: un tono ironico ma senza asprezze ed è con ilarità che il vecchio commediografo rievoca e rappresenta la propria vita che, come abbiamo raccontato, è stata spesso dura. E Mémoires oltre a essere un documento di vita e di ambiente ci fa conoscere anche l’animo di Goldoni: una persona che non si lascia mai travolgere né dominare dalle passioni e dalla rabbia così come i suoi personaggi femminili. È stato piuttosto scettico nei momenti di fortuna e ottimista nei momenti di disgrazia, ha saputo guardare il mondo con l’occhio disincantato di chi sa che gli umani sono pieni di difetti e c’è anche del ridicolo in questi difetti, e dobbiamo riderne, e quindi bisogna anche saper perdonare, saper assolvere e così, sul territorio del secolo dei Lumi, nessuno come Goldoni, ci fa riflettere sul fatto che gli umani sono ancora degli esseri poco ragionevoli. Nell’opera di Goldoni sono le donne a essere più concrete, più realiste, più ragionevoli; nelle commedie di Goldoni le donne hanno conquistato il diritto di badare a loro stesse e la legislazione e la società civile è molto più arretrata dei testi di Goldoni e lo sarà per molto.
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A questo proposito potete leggere o rileggere il testo de La locandiera [che potete richiedere in biblioteca] e poi andare a rivedere utilizzando la rete una delle tante rappresentazioni di questa commedia, un’opera che ha caratterizzato la storia del teatro moderno…
Mirandolina, la locandiera, ripudia il Conte, il Marchese, il Cavaliere e decide di sposare Fabrizio, il servitore, il dipendente della sua locanda. E questo matrimonio è frutto di una scelta grave, coraggiosa e realistica: le donne nella vita è bene che sappiano badare a se stesse facendo delle scelte concrete ed emancipatrici [il fatto è che oggi il processo di emancipazione della donna viene ancora fortemente contrastato in molte parti del mondo, e (permettetemi di dire che) nel nostro Paese sarebbe davvero anacronistico che i diritti delle donne - come si ventila - vengano messi in discussione proprio nel momento in cui è una donna a presiedere l’esecutivo, una donna che, però, da posizioni reazionarie, sbandiera lo slogan “Dio Patria e Famiglia”, un diktat che ha sempre avuto una ricaduta assai negativa sul ruolo delle donne nella società, un diktat che ha sempre servito per tenere le donne in condizione di subalternità]. E ora leggiamo le ultime battute della commedia.
Carlo Goldoni, La locandiera
SCENA ULTIMA
Il SERVITORE del Cavaliere, il CONTE, il MARCHESE, FABRIZIO, MIRANDOLINA.
MIR. Signori miei, ora che mi marito, non voglio protettori, non voglio spasimanti, non voglio regali. Sinora mi sono divertita, e ho fatto male, e mi sono arrischiata troppo, e non lo voglio fare mai più. Questi è mio marito …
FABR. Ma piano, signora …
MIR. Che piano! Che cosa c’è? Che difficoltà ci sono? Andiamo. Datemi la mano.
FABR. Vorrei che facessimo prima i nostri patti.
MIR. Che patti? Il patto è questo: o dammi la mano, o vattene al tuo paese.
FABR. Vi darò la mano … ma poi …
MIR. Ma poi … non dubitare di me, ti amerò sempre, sarai l’anima mia.
FABR. Tenete allora, cara (le dà la mano).
MIR. (Anche questa è fatta). (da sé)
CON. Mirandolina, voi siete una gran donna, voi avete l’abilità di condur gli uomini dove volete.
MAR. Certamente la vostra maniera obbliga infinitamente. …
MIR. Queste espressioni mi saran care, nei limiti della convenienza e dell’onestà. Cambiando stato, voglio cambiar costume; (il Conte, il Marchese, Fabrizio indietreggiano sulla scena, e Mirandolina si rivolge verso il pubblico) e lor signor ancora profittino di quanto hanno veduto, in vantaggio e sicurezza del loro cuore; e quando mai si trovassero in occasioni di dubitare, di dover cadere, pensino alle malizie imparate, e si ricordino della Locandiera.
(sipario) ...
La parola “malizia” sta per “accortezza”, e viene spesso messa in evidenza dal teatro di Goldoni e questa parola rimanda al termine “sensazione”, e perché nel prossimo itinerario per riflettere sul termine “sensazione” saremo a Grenoble?
Per rispondere a questa e a molte altre domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, per questo la Scuola è qui e il viaggio continua…