ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica nel secolo dei Lumi
9-10-11 e 18 novembre 2022
SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI SI RIFLETTE SUL TEMA
DELLA SENSAZIONE E DELL’IDEOLOGIA …
Questo è il terzo itinerario del nostro viaggio sul territorio del secolo dei Lumi e, come abbiamo preannunciato, ci troviamo a Grenoble, una città che sta a metà strada tra Lione e Torino ed è il principale centro turistico e il capoluogo del dipartimento dell’Isère, nella regione del Delfinato: siamo nell’area alpina sul versante francese.
Sul territorio del Delfinato dove oggi sorge Grenoble 2500 anni fa stanziavano le tribù dei Liguri-Galli, ed è stato l’imperatore romano Graziano a far edificare nel 379 in un punto strategico di quest’area una cittadina coloniale che viene chiamata Gratianopolis, da cui Grenoble. Un fatto curioso riguardante la storia di questa città è che poco prima dell’anno Mille, a causa dello smembramento del Sacro Romano Impero, questa zona alpina viene occupata e governata per un secolo dagli Arabi, e sono gli Arabi ad aver costruito il nucleo del borgo medioevale di Grenoble, edificando l’alcazar [il castello] sul colle che sovrasta la città. Oggi, dove c’era l’alcazar, c’è l’enorme cittadella di Grenoble, restaurata nel 1600, che si chiama la Bastille e la si raggiunge in funivia dal centro della città, e da questo terrazzo si gode una splendida vista sulle Alpi Graie e Pennine. Dopo l’anno Mille questa zona è stata conquistata dai conti di Albon e prende il nome di Delfinato perché i conti di Albon chiamavano, per tradizione, il loro primogenito, l’erede della contea, con il soprannome di Dolphin [delphys, in greco, significa “utero, grembo”].
Ora dovete sapere che, nel 1349 il conte Umberto II di Albon conduce una trattativa con il re di Francia, Filippo IV, il quale vorrebbe estendere il suo territorio verso le Alpi ma non era un’impresa facile neppure per il re di Francia fare la guerra contro i montanari della Val d’Isère, che, per giunta, avevano anche un po’ del sangue dei valenti guerrieri arabi nelle vene. Il conte Umberto II di Albon [è un gran lungimirante furbacchione] ha capito che, oramai, le contee, specialmente quelle tra i monti, non hanno un futuro economico [e prima che arrivi l’industria delle settimane bianche e dell’Alpinismo devono passare un po’ di secoli] e sa bene che il re di Francia è interessato a questo territorio strategico e gli fa sapere [tutte le volte che capita l’occasione] che lui non svenderà mai la terra dei suoi avi [vestigia arabe comprese], lui non vuole svendere ma “a vendere a un giusto prezzo”, sebbene a malincuore, ci potrebbe anche pensare. Così facendo il conte di Albon fa alzare il prezzo finché il re di Francia [che vuole raggiungere il suo obiettivo senza colpo ferire] non firma il contratto nel quale si legge: «Nell’anno di Grazia 1349 il conte Umberto II di Albon vende la contea del Delfinato all’eccellentissimo re di Francia Filippo IV per la [bella e assai cospicua] somma di 200mila fiorini e una rendita annua di 24mila fiorini». E poi nel contratto il conte di Albon pone una condizione irrinunciabile: «Per non far torto ai miei avi [vuole che si scriva] ritengo giusto e doveroso che, da questo momento, gli eredi al trono di Francia portino il soprannome di Dolphin in modo che ci si ricordi in eterno dei conti di Albon», e così dal 1349 gli eredi al trono di Francia porteranno il titolo di Delfino: il conte di Albon voleva garantire la continuità e l’immortalità al nome del suo casato ma la monarchia francese non è durata in eterno mentre la regione del Delfinato è sempre lì.
C’è da dire che, in realtà, al conte di Albon non importa granché del suo casato e della nobiltà perché aveva capito che si stava imponendo una nuova classe sociale, la borghesia: la classe che guiderà tutte le Rivoluzioni e che stava facendo sviluppare il capitalismo mercantile. Dove li porta Umberto di Albon i suoi fiorini? Li porta a Turicum [Zurigo], una bellissima cittadina posta sulla costa di un bel lago che, nel 1351 entra a far parte della confederazione Elvetica, insomma Umberto di Albon i suoi fiorini li porta in Svizzera e apre “il banco [la banca] Dolphin” che sopravvive ben più a lungo della corona francese, e sui conti di questo banco [e di tutti quelli che sorgono nel frattempo] comincia a passare “tanta pecunia” [et pecunia non olet, il denaro non ha odore].
Ma torniamo a Grenoble dove, nel 1339, viene anche fondata l’Università che dona fragranza intellettuale alla città.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Utilizzando la guida della Francia e navigando in rete, per osservare i suoi monumenti e l’ambiente che la circonda, fate un’escursione a Grenoble dove nel 1789 è nato un famoso scrittore al quale la città ha dedicato anche un museo… Incuriositevi...
Ma ci troviamo a Grenoble perché nel 1714 vi è nato anche il personaggio che adesso dobbiamo incontrare: Étienne Bonnot de Condillac.
Étienne Bonnot de Condillac è nato a Grenoble nel 1714 in una famiglia della piccola nobiltà provinciale. Étienne è il fratello minore di Gabriel Bonnot, il famoso abate di Mably [1709-1785, di cui avremo occasione di parlare (ad una cena)]. Étienne Bonnot de Condillac non è stato un bambino precoce, a dodici anni non sa ancora leggere tuttavia viene mandato a studiare [e a maturare] nel collegio dei gesuiti di Lione e poi nel seminario di San Sulpice a Parigi e, infine, è in grado di iscriversi e di frequentare con profitto la Sorbona. Nel 1740 viene ordinato sacerdote [abate di Mureau] ma non eserciterà mai questa funzione: vive una vita da laico, a Parigi, frequentando i salotti mondani e i circoli intellettuali della città dove frequenta Diderot, Rousseau e Voltaire, tutti personaggi che avremo occasione di incontrare strada facendo. Le due sue prime opere: il Saggio sull’origine delle conoscenze umane [1746] e il Trattato sui sistemi [1749] lo fanno conoscere in Francia e in tutta Europa. Nel 1754 pubblica la sua opera più importante, il Trattato delle sensazioni, che scatena polemiche e accuse [di materialismo, di ateismo] a non finire nei suoi confronti. Dal 1758 al 1767 Condillac è a Parma come precettore del giovane Don Ferdinando di Borbone, erede del ducato di Parma e Piacenza, e qui allaccia rapporti con molti intellettuali italiani che conosceremo a suo tempo]: Beccaria, Frugoni, Rezzonico. Poi torna in Francia dove entra a far parte dell’Accadèmie Française, e da questa posizione di prestigio partecipa a tutti i dibattiti suscitati dalle polemiche sorte intorno alle sue opere.
Negli ultimi anni della sua vita Condillac compra una casa colonica a Beaugency e si trasferisce nella valle della Loira dove muore il 3 agosto 1780.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Francia e navigando in rete andate a far visita alla pittoresca cittadina medioevale di Beaugency situata in riva alla Loira a 25 km a sud-ovest di Orléans …
L’opera più importante di Condillac che continua a essere studiata con interesse è, come abbiamo detto, il Trattato delle sensazioni pubblicato a Parigi nel 1754. Nel testo di quest’opera Condillac svolge una riflessione nel campo dei processi della conoscenza [nel campo così detto “gnoseologico”, dal greco “gnosis, conoscenza”]. Condillac si domanda: in che modo la persona conosce la realtà, il mondo che la circonda? Quali processi entrano in gioco per cui la conoscenza va a buon fine? Leggiamo che cosa scrive Condillac nel Saggio sull’origine delle conoscenze umane [del 1746]: è appena un frammento ma è significativo.
Étienne Bonnot de Condillac, Saggio sull’origine delle conoscenze umane
Quali mezzi abbiamo per effettuare una ricerca sulla natura delle nostre sensazioni? In verità noi non abbiamo alcun mezzo per effettuare questa ricerca; noi le nostre sensazioni le conosciamo solo perché le proviamo. E questo è un principio di cui non possiamo scoprire la causa, ma di cui possiamo scoprire gli effetti, ed è questo fatto che deve suscitare in noi interesse perché è proprio sugli effetti che provocano le sensazioni - e soprattutto, certe sensazioni particolari - che dobbiamo iniziare a indagare. Ci dobbiamo chiedere quale sia il principio da cui parte la nostra intelligenza. Ci dobbiamo domandare quale sia, e se esiste, la causa prima da cui prende le mosse la nostra conoscenza della realtà. Qual è la causa delle nostre sensazioni? Questa è la domanda che rende la persona un essere umano. …
Il modo in cui Étienne Bonnot de Condillac ha affrontato il tema del funzionamento delle sensazioni e della conoscenza - il suo modo di analizzare [di fare ricerca, di riflettere sulla questione gnoseologica] - ha prodotto un risultato che, in età moderna, ha lasciato il segno sul piano dello sviluppo intellettuale perché è stato il primo pensatore a essere esplicitamente etichettato con l’appellativo di “ideologo” [colui che sa dare, con le parole, il significato alle idee].
L’ideologia è una disciplina che ha per oggetto lo studio delle idee, e questo studio avviene attraverso il linguaggio e, in proposito Condillac apre la via e sarà poi uno studioso francese, Destutt Tracy [1754-1836], a tracciarla. Ma procediamo con ordine: Étienne Bonnot de Condillac ci aiuta a riflettere su come si sia sviluppato il concetto di “ideologia” sul territorio del secolo dei Lumi.
Il concetto di ideologia comincia a prendere forma nel momento in cui Étienne Bonnot de Condillac individua nel linguaggio il motore principale che fa evolvere l’attività dell’intelletto.
C’è un principio, si domanda Condillac, da cui prende le mosse la nostra intelligenza? Il pensiero si evolve, scrive Condillac, per mezzo del linguaggio, per mezzo di segni linguistici che sono delle vere e proprie percezioni sensibili. Una parola, orale o scritta, non si presenta come un oggetto reale, eppure stimola nella persona sensazioni, percezioni sensibili e provoca l’intelligenza conoscitiva. Anche gli animali, scrive Condillac, sono capaci di operazioni spirituali semplici [percepire, riconoscere] ma le operazioni spirituali complesse [la memoria, la rappresentazione, la riflessione] sono prerogativa degli umani perché le persone, attraverso il linguaggio, sono in condizione di richiamare alla mente “un qualcosa” capace di provocare uno stimolo sensibile per cui le persone - conoscono sì attraverso le sensazioni - ma poi vivono e comprendono la realtà soprattutto richiamando le percezioni attraverso il linguaggio. La persona, di conseguenza, conosce utilizzando “la liaison des idées, il legame che c’è tra le idee”, e questo modo di conoscere e di comprendere la realtà, attraverso la costruzione del “legame delle idee” è il punto di partenza sul quale viene elaborato “il concetto di ideologia”. Condillac - nel formulare il suo ragionamento su come conosciamo la realtà - contrappone alla dottrina dell’innatismo una visione di tipo storico: pensa che la persona non abbia le idee già in testa in quanto il pensiero non è innato, ma ritiene che la parola e il pensiero si siano reciprocamente prodotti in un processo evolutivo, per cui in origine c’è il linguaggio dei gesti e dei segni naturali che poi sono stati gradualmente sostituiti, nel corso dello sviluppo della coltura umana, da segni astratti e, in principio, puramente arbitrari, soggettivi, parziali, settoriali.
Quindi il linguaggio, afferma Condillac parafrasando in modo laico il testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni, non ha un carattere metafisico e se possiamo dire «che in principio c’è la parola è perché l’Umanità nasce quando nasce il linguaggio», e l’essenza di un linguaggio, sostiene Condillac, dipende dal carattere delle persone che lo parlano e lo scrivono, dal clima, dall’alimentazione, dalle forme di governo e poi dipende dal ruolo che assumono le intellettuali e gli intellettuali [letterate, letterati, scrivane, scrivani] che vengono ad assumere il ruolo di ideologhe e ideologi perché è il linguaggio, scrive Condillac, a fornire l’immagine del Mondo e a proporre il volto della realtà. Il Mondo, scrive Condillac, esiste in quanto è il linguaggio che lo fa esistere e l’essenza della realtà è ideologica.
Ed è con queste riflessioni che ha avuto inizio l’itinerario di un concetto, quello di “ideologia” che ha sempre accompagnato, e ancora accompagna, la Storia del Pensiero Umano. E il ruolo dell’ideologa e dell’ideologo, secondo Condillac, è quello di una studiosa o di uno studioso che ha il compito essenziale di spiegare la Storia delle conoscenze umane facendo l’inventario delle idee e delle parole-chiave, e cercandone il principio. Secondo Condillac, in principio, c’è un meccanismo creatore che è sempre in azione perché tutte le attività della mente, dell’intelletto e dello spirito della persona nascono e sono determinate da “la sensazione”. Anzi, scrive Condillac,, tutte le attività della mente, dell’intelletto e dello spirito non sono altro che sensazioni trasformate: la percezione è sensazione che si svela, la coscienza è sensazione che si identifica, l’attenzione è sensazione intensa, la reminiscenza è sensazione che lega le percezioni attuali con quelle passate, l’immaginazione è sensazione che richiama percezioni, la memoria è sensazione del legame tra le idee, la contemplazione è sensazione che conserva il legame tra le idee e la riflessione è sensazione che esamina le percezioni.
Ma quali sono le sensazioni più importanti? Le sensazioni più importanti, scrive Condillac, sono quelle derivanti dal tatto. Il tatto, secondo Condillac, fra i vari sensi, è particolarmente importante, perché [scrive Condillac nel Trattato delle sensazioni (1754)] genera l’idea di esteriorità spaziale [l’idea di spazio] e, quindi, insegna agli altri sensi a giudicare gli oggetti esterni e, di conseguenza, mette la persona nella condizione di valutare la realtà.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Esiste una qualità significativa: quella di “avere tatto”... In quale occasione avete agito avendo tatto – accortezza, prudenza, discernimento, riguardo, diplomazia - e perché ?...
Scrivete quattro righe in proposito…
“Conoscere a tatto” è senza dubbio un’utile abilità: che cosa siete capaci di conoscere a tatto, e come avete imparato quest’arte ?...
Scrivete quattro righe in proposito…
Il tatto insegna agli altri sensi che le loro percezioni non vengono da dentro ma sono qualità del mondo esterno e il mondo è indipendente dai sensi, e i sensi, proprio perché sono indipendenti dal mondo esterno, lo possono conoscere. Partendo da queste premesse Condillac intende ricostruire lo sviluppo dello spirito umano partendo dalla sensazione più semplice per arrivare alle conoscenze più complesse.
Étienne Bonnot de Condillac nel Trattato delle sensazioni [del 1754] si serve dell’esempio della statua rivestita di marmo che, però, interiormente ha le stesse caratteristiche di un essere umano: se la statua, esteriormente, fosse dotata solo del senso dell’olfatto, sebbene l’olfatto sia considerato il più povero dei sensi, tuttavia, scrive Condillac, l’odore di qualcosa, buono o cattivo che sia, sarebbe comunque sufficiente a far sviluppare, nell’interiorità della statua, l’attenzione, la memoria, il giudizio e la volontà. Quindi, spiega Condillac, è l’attività percettiva [il sensismo] che crea dall’interno della materia [della statua] l’attività della riflessione, la quale nasce dal fatto che la persona è un essere senziente prima di essere un’entità pensante, e tutte le rappresentazioni universali [le idee] vanno ricondotte, sostiene Condillac, a percezioni concrete. Come all’interno della statua di marmo c’è un corpo di carne [allude Condillac allegoricamente] così nell’interiorità del corpo di carne c’è un’anima composta di materia spirituale [o psicologica] e la persona la sente perché nell’anima umana agisce un fattore pratico: l’inquietudine. E l’inquietudine, scrive Condillac, non è innata nella persona ma è prodotta dalle varie necessità della vita. Afferma Condillac: «L’anima assorbe inquietudine, elabora inquietudine, trasforma inquietudine: sotto lo stimolo dell’inquietudine l’anima aspira e desidera, pensa e giudica». Le necessità della vita producono inquietudine e l’inquietudine diventa uno strumento produttivo dal punto di vista intellettuale: stimola la produzione di idee e, di conseguenza, sprona allo studio per l’acquisizione del sapere necessario a coltivare la coltura [con la o prima che con la u] occorrente a promuovere arte, scienza, letteratura, ideologia.
Sulla scia del pensiero di Condillac incontriamo l’intellettuale parigino Claude Adrien Helvétius [1715-1771] autore di un’opera intitolata De l’esprit [Dello Spirito], pubblicata nel 1758 ad Amsterdam e a Parigi, che permette al “pensiero sensista” di Condillac di rafforzarsi. Helvétius afferma che tutta la vita intellettuale e morale della persona consiste in “un puro sentire”, tutto è legato alla sensibilità, tutto è sensazione e, quindi, le conquiste più grandi del pensiero, come le azioni migliori, non si distinguono dalle forme di conoscenza più oscure o dagli istinti meno nobili della natura umana, tutto è sensazione e, anche quello che noi definiamo “altruismo o disinteresse” in realtà risponde a un bisogno sensibile di felicità e, di conseguenza, s’identifica con l’egoismo che è anch’esso fondato sulla sensazione per cui è più che mai necessario, scrive Helvetius, promuovere nella società un solido e capillarmente diffuso sistema educativo.
La seconda opera scritta da Helvetius, pubblicata postuma a Londra nel 1773, s’intitola Sulle facoltà intellettuali e sull’Educazione della persona. L’Educazione, scrive Helvetius, è l’attività fondamentale da promuovere nella società per indirizzare le persone verso la conoscenza e, quindi, verso la presa d’atto del proprio egoismo: infatti, se tutto dipende dalle sensazioni, l’Educazione deve plasmare lo spirito della singola persona in modo che non prevalga la passione individuale. L’Educazione, scrive Helvetius, deve far sì che la persona impari a tradurre le sensazioni in “prodotti spirituali” che favoriscano il Bene della singola persona e, di conseguenza, il Bene del gruppo in cui la singola persona vive. L’Educazione, scrive Helvetius, deve porre le sensazioni della singola persona sotto la guida del suo spirito, al servizio del raggiungimento del massimo Bene comune possibile in modo che l’utile individuale e quello collettivo possano coincidere.
Helvétius afferma che - siccome tutto dipende dalla sensazione - è necessario creare il primato delle cause morali sulle cause fisiche. «La ragione con i suoi Lumi [scrive Helvetius] deve, attraverso l’Educazione delle menti, dissolvere le ineguaglianze e favorire le fratellanze». Che cosa significa creare il primato delle cause morali? Significa privilegiare “i prodotti spirituali”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Helvetius afferma che è necessario imparare a tradurre le sensazioni in “prodotti spirituali” di cui nelle sue opere fa un elenco... Quali – almeno tre - di questi “prodotti spirituali” [o virtù], enumerati da Helvetius, scegliereste per primi: l’amicizia, il coraggio, la concentrazione, il distacco, la dolcezza, la speranza, l’esattezza, la fedeltà, l’umiltà, la perseveranza, la pazienza, la prudenza, il pudore, il rispetto, il silenzio, la semplicità, la temperanza ?...
Scrivete...
Leggiamo un frammento significativo tratto dall’opera Dello Spirito di Helvetius.
Claude Adrien Helvétius, Dello Spirito
La grande ineguaglianza di Spirito che è dato reperire tra le persone dipende unicamente dalla differenza di Educazione ricevuta e dalla diversa e ignota concatenazione delle circostanze in cui vengono a trovarsi.…
E qui con il tema de “la differenza di Educazione ricevuta” torna in mente ciò che ha scritto don Lorenzo Milani nella Lettera che abbiamo letto durante la celebrazione del rituale della partenza quattro settimane fa.
Ma torniamo a Condillac il quale afferma che il fattore condizionante dell’anima umana è l’inquietudine e sotto lo stimolo dell’inquietudine, l’anima della persona aspira e desidera, pensa e giudica, e l’inquietudine diventa uno strumento efficace dal punto di vista intellettuale: stimola la produzione di idee e, di conseguenza, sprona allo studio per l’acquisizione del sapere necessario a coltivare la coltura occorrente a promuovere arte, scienza, letteratura, ideologia.
E sulla scia di questa affermazione stiamo per incontrare un personaggio “dall’animo assai inquieto”, un personaggio che abbiamo già citato nell’itinerario precedente quando, parlando di Carlo Goldoni, siamo venute e venuti a sapere che il celebre commediografo, ridotto quasi in povertà, riceve nel 1784 a Parigi la visita del Conte [di Cortemilia] Vittorio Alfieri. Goldoni proprio alla fine delle sue Memorie ci racconta della visita che gli ha fatto il Conte Alfieri e di come si sia sentito onorato per questa visita: Goldoni stima assai Alfieri per il suo alto profilo intellettuale dovuto anche al suo “spirito inquieto”.
Carlo Goldoni, Memorie
Incomincio col ringraziare le persone che hanno avuto sufficiente fiducia in me onorandomi con le loro sottoscrizioni. Nella mia opera ho nominato alcuni amici. Domando loro scusa se ho osato farlo senza il loro permesso, non è per vanità, ma l’occasione me ne ha fornito l’opportunità; quando i loro nomi sono caduti sotto la mia penna, il cuore ha colto il momento e la mano non s’è rifiutata. Ecco, per esempio, una di quelle fortunate occasioni di cui parlavo: in questi ultimi giorni sono stato ammalato e il Conte Alfieri mi ha fatto l’onore di venirmi a trovare. Io conoscevo il suo ingegno, ma la sua conversazione mi ha fatto comprendere quale torto avrei commesso se l’avessi dimenticato. È un letterato dottissimo, eruditissimo, che eccelle soprattutto nell’arte di Sofocle e di Euripide; è su questi grandi modelli che ha composto le sue Tragedie. In Italia ve ne sono due edizioni, e attualmente a Parigi una deve essere sotto i torchi di Didot. Non ne parlerò dettagliatamente perché tutti hanno la possibilità di vederle e giudicarle. … Io ho messo mano a un’opera troppo lunga, troppo faticosa per la mia età; ho impiegato tre anni, temendo sempre di non avere il piacere di vederla conclusa. Tuttavia, eccomi qui, grazie a Dio, ancora in vita, e mi lusingo di veder stampati, distribuiti e letti i miei tre volumi. E se non saranno lodati spero almeno non siano disprezzati. Non mi si accuserà di vanità o di presunzione se oso sperare qualche barlume di benevolenza per le mie Memorie, perché se avessi creduto di dispiacere del tutto non mi sarei dato tanta pena, e se, nel bene e nel male che dico di me stesso, la bilancia pende dal lato buono, lo devo più alla natura che alla volontà. Tutta l’applicazione che ho messo nell’ideazione delle mie opere è stata quella di non sciupare la natura, e tutta la cura che ho posto nelle mie Memorie è stata quella di dire la verità. La critica alle mie opere potrebbe avere come scopo la correzione e il perfezionamento della commedia; ma la critica alle mie Memorie non produrrebbe nulla a favore della Letteratura. Se tuttavia ci fosse qualche scrittore che volesse occuparsi di me, solo per darmi dispiaceri, perderebbe il suo tempo. Sono nato pacifico, ho sempre conservato il mio sangue freddo; alla mia età leggo poco ma leggo, e non leggo che Libri divertenti. …
È significativo il fatto che Mèmoires [Memorie] di Carlo Goldoni si concluda con un elogio velato di ironia nei confronti dell’esercizio della lettura e con un precedente plauso per Vittorio Alfieri, Conte di Cortemilia, e per la sua opera, che non è certo di facile lettura.
Vittorio Alfieri - che è considerato uno dei più importanti autori tragici della Storia della Letteratura - è nato ad Asti il 16 gennaio 1749 da famiglia nobile e trascorre «una giovinezza inquieta ed errabonda» che descrive nella sua autobiografia [e voi capite che non è casuale il fatto che Alfieri abbia consigliato a Goldoni di scrivere le sue memorie] intitolata Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso composta dal 1790 al 1803.
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La Vita di Vittorio Alfieri – che potete richiedere in biblioteca e leggere anche in rete - è un capolavoro che merita l’attenzione paziente di chi legge perché permette di far visita ai molti ambienti che l’autore frequenta nel corso della seconda metà del ‘700 durante le epoche della sua vita e di ascoltare la lingua utilizzata in questo momento dalle persone colte per comunicare... Incuriositevi...
Se si leggono le pagine di quest’opera ci si rende conto del fatto che Alfieri [accompagnato da Elia, il suo fedele servitore che lo tira spesso fuori dai guai] non viaggia per tutta l’Europa a vanvera ma per occuparsi di Teatro e di Letteratura perché vorrebbe [anzi, vuole fortissimamente] realizzare un progetto: promuovere la nascita di un Teatro tragico in un idioma che possa corrispondere alla lingua nazionale italiana perché lui medesimo, che si considera un intellettuale italiano, parla comunemente il piemontese e il francese, ed è anche per questo che Alfieri soggiorna spesso a Firenze dove è sepolto, in quanto qui si parla una lingua che, per ragioni letterarie, può diventare strumento di unificazione nazionale. Ciò che poi lo inquieta particolarmente è il tema delle libertà civili - e su questo tema Alfieri ha scritto importanti Trattati [come Della tirannide, Del principe e delle lettere] - in quanto i diritti delle cittadine e dei cittadini vengono sistematicamente calpesti dai governi dei vari staterelli in cui è divisa la penisola italiana. Le libertà civili e i diritti delle cittadine e dei cittadini sono praticamente sconosciuti in Italia: si parla di individui obbligati alla sudditanza, e questo stato è accettato dal popolo [per ignoranza].
Bisogna dire che, alla metà del ‘700, sostenere che l’individuo non è un suddito con solo obblighi da rispettare ma è una persona con diritti e doveri che deve essere capace di amministrare la propria libertà e la propria autonomia per il Bene della collettività è un’affermazione che fa scandalo [prevale l’obbligo alla sudditanza piuttosto che il diritto-dovere alla cittadinanza]! Alfieri, animato dallo spirito di libertà e dal desiderio di proclamare la libertà [le libertà repubblicane], scrive diciannove Tragedie, e ne citiamo alcune [tra le più note]: Saul [considerata il suo capolavoro], Filippo, Mirra, Oreste, Polinice, Virginia, Don Garzia, Cleopatra, Antigone e così via.
Nel testo delle Tragedie di Alfieri troviamo sempre un eroe o un’eroina che sta in opposizione al tiranno, e all’eroe o all’eroina spetta il compito di affermare, spesso con l’estremo sacrificio della vita, l’ideale della libertà. Alfieri parla e scrive per gli intellettuali e le intellettuali della sua epoca [e il suo insegnamento ha valore anche oggi] e sostiene che gli uomini e le donne che pretendono di fare cultura devono sottrarsi alle lusinghe del tiranno [oggi Alfieri direbbe alle lusinghe del mercato!] soprattutto quando il tiranno appare come un individuo benevolo e simpatico. Gli intellettuali e le intellettuali sono depositari e depositarie degli ideali di libertà che vanno difesi, coltivati e proposti continuamente perché la libertà non è data, ma è un continuo processo di liberazione, personale e collettivo. I versi che compongono i testi delle Tragedie e delle Rime [altra opera di Alfieri da prendere in considerazione per chi vuole leggere] di Alfieri sono pervasi da grandi suggestioni letterarie e, per buona parte, il modello a cui attinge è quello proposto da Francesco Petrarca nel Canzoniere [un personaggio e un’opera che abbiamo studiato a suo tempo] ma attinge anche all’esempio di Dante, di Ariosto e di Tasso. Siamo nel secolo dei Lumi in cui [come vedremo strada facendo] si va affermando la signoria [il primato] della ragione ma Alfieri è piuttosto in polemica con il razionalismo [e anche con l’ottimismo] dell’epoca perché vuole esaltare i sentimenti forti, le passioni accese, il gusto della malinconia, il sapore della nostalgia e il senso dell’inquietudine ed è logico che venga considerato [come vedremo a suo tempo] un precursore dello spirito e dell’atteggiamento romantico.
La lettura dei testi delle Tragedie alfieriane non è un’impresa facile da realizzare ma questo non significa che non si possa andare a curiosare [a sperimentare] sulle pagine dei volumi che li contengono.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
I testi delle Tragedie di Vittorio Alfieri li potete richiedere in biblioteca o reperire facilmente sulla rete e - dopo aver scelto uno o più titoli che attraggono la vostra attenzione [tra quelli, per esempio, che abbiamo citato] - è utile scorrere la lista dei personaggi che l’autore mette in scena e leggere un riassunto della trama dell’opera [quasi sempre piuttosto complessa], poi si possono sfogliare le pagine per osservare la forma che è stata data al testo [la divisione in atti e in scene] e, infine, per (as)saggiare le caratteristiche dei versi [quelle “semantiche”, relative al significato dei termini e quelle “fonetiche”, relative ai suoni delle parole] si può leggere il contenuto di una scena [la prima, o l’ultima, o una a piacere] della Tragedia scelta...
Leggere è sperimentare, è verificare, è saggiare, è investire in intelligenza...
Naturalmente la lettura del testo dell’autobiografia intitolata Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso - rispetto a quello delle Tragedie - risulta un po’ più facile, e come esercizio si rivela più divertente e, quindi, non rinunciate a entrare in contatto con quest’opera della quale adesso leggiamo insieme parte dell’Introduzione e, come potete vedere, la Vita di Vittorio Alfieri inizia con due citazioni “classiche”: dalla settima Pizia del poeta greco Pindaro [posta sotto il titolo dell’Opera] e dalla Vita di Agricola dello storico latino Tacito [collocata a rinforzo dell’Introduzione].
L’incipit alfieriano è rivolto a se stesso in modo satirico: «scriviamo su noi stessi [afferma Alfieri] per “amor proprio”» e questa è una staffilata [di grande attualità] a riguardo del narcisismo degli intellettuali. Altra sferzata l’autore la rivolge nei confronti del mercato editoriale: «quando un editore [scrive Alfieri] ripubblicherà le mie Opere [lui fa il modesto ma le Tragedie di Alfieri hanno riscosso un notevole successo] farà anche scrivere, dopo la mia morte - per far sapere chi sono stato e per guadagnare più soldi - una mia Biografia da qualcuno che mi ha conosciuto poco o nulla e che produrrà solo “uno stolto panegirico dell’autore che si ristampa” e, quindi [sostiene Alfieri], tanto vale che sia io a scrivere di me».
Vittorio Alfieri, Vita di Vittorio Alfieri da Asti scritta da esso
Pianta effimera noi, cos’è il vivente? Cos’è l’estinto? - Un sogno d’ombra è l’essere umano.
PINDARO, Pizia VII, V. 135
INTRODUZIONE
Plerique suam ipsi vitam narrare, fiduciam potius morum, quam
arrogantiam, arbitrati sunt.
[E parecchi considerarono nei loro costumi
piuttosto che arroganza il narrare essi stessi la loro vita.]
Tacito, Vita di Agricola
Il parlare, e molto più lo scrivere di sé stesso, nasce senza alcun dubbio dal molto amor di sé stesso. Io dunque non voglio a questa mia Vita far precedere né deboli scuse, né false o illusorie ragioni; io perciò ingenuamente confesso, che allo stendere la mia propria vita inducevami l’amore di me medesimo: quel dono cioè, che la natura in maggiore o minor dose concede alle persone tutte, e in soverchia dose agli scrittori, principalissimamente poi ai poeti, o a quelli che tali si ritengono.
Senza proemizzare dunque più a lungo io passo ad assegnare le ragioni per cui questo mio amor di me stesso mi trasse a ciò fare:. Avendo io oramai scritto molto, e troppo più forse che non avrei dovuto, è cosa assai naturale che alcuni di quei pochi a chi non saranno dispiaciute le mie opere (se non tra’ miei contemporanei tra quelli almeno che vivran dopo) avranno qualche curiosità di sapere qual io mi fossi.
Io posso ben credere, senza neppur troppo lusingarmi che, morto io, un qualche libraio per cavare alcuni più soldi da una nuova edizione delle mie opere, ci farà premettere una qualunque mia vita. E quella, verrà verisimilmente scritta da uno che non mi aveva o niente o mal conosciuto, e che avrà radunato le materie di essa da fonti o dubbie o parziali; onde codesta vita per certo verrà a essere, se non altro, alquanto meno verace di quella che posso dar io stesso. E ciò tanto più, perché lo scrittore a soldo dell’editore suol sempre fare uno stolto panegirico dell’autore che si ristampa, stimando amendue di dare così più ampio smercio alla loro comune mercanzia. Onde, se io non avrò forse il coraggio o l’indiscrezione di dir di me tutto il vero, non avrò certamente la viltà di dir cosa che vera non sia. Quanto poi al metodo, a fine di tediar meno il lettore, io mi propongo di ripartir la mia Vita in cinque Epoche, corrispondenti alle cinque età umane e da esse intitolarne le divisioni: puerizia, adolescenza, giovinezza, virilità e vecchiaia. … Non ho intenzione di dar luogo a nessuna di quelle particolarità che potranno riguardare altre persone, le di cui peripezie si ritrovassero, per così dire, intarsiate con le mie: stante che i fatti miei e non già gli altrui, mi propongo di scrivere. Non nominerò dunque quasi mai nessuno individuandone il nome, se non se nelle cose indifferenti o lodevoli. Allo studio dunque della persona in genere è principalmente diretto lo scopo di quest’opera. E di qual persona si può meglio e più dottamente parlare che di se stesso? Quanto poi allo stile, io penso di lasciar fare alla penna, e di pochissimo lasciarlo scostarsi da quella triviale e spontanea naturalezza con cui ho scritto questa opera, dettata dal cuore e non dall’ingegno; e che sola può convenire a così umile tema. …
Quando s’incontra Vittorio Alfieri non si può fare a meno, come già abbiamo accennato, di dire che la città di Firenze è stata per lui un punto di riferimento e non solo per lo studio della lingua ma anche per un’altra ragione di carattere passionale.
A Firenze, nel 1777, Vittorio Alfieri incontra Luisa Stolberg contessa d’Albany, e tra i due si verifica un vero e proprio colpo di fulmine che ha lasciato una traccia evidente nella Storia della Letteratura del Settecento: procediamo con ordine.
Luisa Stolberg è la figlia maggiore del principe Gustavo Adolfo di Stolberg-Gedem ed è nata il 20 settembre 1752 a Mons, una città dell’area vallona dei Paesi Bassi [oggi è in Belgio], e la sua vita si complica quando a quattro anni rimane orfana per la morte del padre avvenuta in una delle tante battaglie che insanguinano l’Europa e la famiglia Stolberg-Gedem si ritrova senza mezzi finanziari sufficienti.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida del Belgio e navigando in rete andate a visitare la città di Mons che oggi ha circa 90mila abitanti e vanta di essere stata capitale europea della cultura nel 2015…
Nel 1772 Luisa Stolberg sposa Carlo Edoardo Stuart conte d’Albany ed è, appunto, con il nome di Contessa d’Albany che, da questo momento, si presenta in società:il matrimonio si svolge per procura a Parigi e, quindi, lei non è presente e incontrerà il marito a Macerata un mese dopo. Carlo Edoardo Stuart è il pretendente giacobita [cattolico] al trono d’Inghilterra e di Scozia [è nato a Roma nel 1720 perché suo padre, il principe cattolico Giacomo Stuart, si trovava in esilio in Vaticano accolto dal papa Clemente XI (Giovanni Francesco Albani da Urbino)] e per tutta la vita è stato chiamato il Giovane Pretendente in quanto è stato costretto a rimanere tale perché, dopo una serie di alterne vicende riguardanti lo scontro epocale tra cattolici e protestanti in Europa, viene definitivamente sconfitto nel 1746 ed è obbligato a riparare in Francia. Qui ha una serie di relazioni sentimentali, diventa padre di due figlie, abusa con l’alcool e fa una pessima impressione al ministro degli esteri francese, il duca di Choiseul che avrebbe voluto coinvolgerlo nella guerra contro la Gran Bretagna, fino a quando, dopo la pace tra la Gran Bretagna e la Francia, non viene allontanato da Parigi per cui si trasferisce a Roma dove, però, anche il papa Clemente XIII [il veneziano Carlo della Torre Rezzonico] riconosce, come monarca inglese, uno dei membri della famiglia protestante degli Hannover. Nel 1772, come si è detto, Carlo Edoardo Stuart sposa [anche per rafforzare il suo titolo nobiliare] Luisa Stolberg e, a parte una breve parentesi iniziale, la relazione tra Luisa e il marito è sgradevole, lei ama lo studio: fin da bambina ha frequentato la Scuola annessa al Convento della Collegiale di Santa Valdetrude [Sainte-Waudru] a Mons dove viene ospitata dal 1756 al 1771.
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Ci sono otto motivi per fare una visita a questo significativo monumento capolavoro del gotico brabantino: le emozioni, le vetrate blasonate, il Michelangelo del Nord, una Chiesa di donne per le donne, il Carro d’oro, la Santa da invocare, gli organi eccezionali, i tre patrimoni: e a questo proposito potete attivare il sito “La Collégiale Sainte-Waudru”...
Incuriositevi, e navigate in rete usando la bussola dell’intelligenza ...
E, di conseguenza, Luisa Stolberg ha una vocazione intellettuale ed è amante dell’Arte e della Letteratura e, quindi, il rapporto con il marito è difficile non solo per la differenza d’età ma, soprattutto, per la diversità di interessi e la divergenza di pensiero: Carlo Stuart fa chiudere d’autorità alla moglie il salotto letterario che aveva aperto a Roma - frequentato da molte persone amanti delle idee liberali e rivoluzionarie - e la costringe nel 1774 a trasferirsi a Firenze dove lei dal 1777 -nonostante il disappunto del marito - apre un salotto che diventa un ritrovo per chi si occupa di Arte, di Letteratura, di Politica.
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Carlo Edoardo Stuart, in Firenze, nel 1777, ha acquistato il Palazzo di San Clemente detto anche Casino Guadagni e anche Palazzo del Pretendente [e sapete perché] situato in via Pier Antonio Micheli all’angolo con via Gino Capponi, progettato da Gherardo Silvani [1579-1675, uno dei più importanti e attivi artisti del Seicento in area fiorentina]…
Il Palazzo oggi si presenta come un edificio storico di Firenze [purtroppo ha perso il parco che lo circondava] e merita di essere osservato e la sua storia la si può leggere su una guida della città e sulla rete...
Luisa d’Albany nel 1777 incontra Vittorio Alfieri in visita al suo salotto, e tra i due nasce immediatamente una complicità affettiva e intellettuale che è durata, con grandi difficoltà, per più di 25 anni, fino alla morte dello scrittore: all’inizio i due devono usare tutta una serie di stratagemmi per potersi amare e Luisa, per sfuggire alle ire e alla violenza del marito, è stata costretta a rifugiarsi in un convento a Roma sotto la protezione del cardinale di York e poi, con la mediazione di re Gustavo III di Svezia, riesce a ottenere la separazione legale [Carlo Edoardo Stuart muore a Roma nel 1788]. Luisa e Vittorio, dal 1786 al 1791, dopo aver soggiornato in Alsazia, si trasferiscono a Parigi in Rue de Bourgogne dove il salotto della Contessa d’Albany diventa il circolo culturale più attrattivo della città in piena Rivoluzione. Ma gli eccessi della Rivoluzione costringono Luisa e Vittorio, assai delusi, ad allontanarsi da Parigi per tornare a Firenze dove trovano alloggio in uno dei due Palazzi Gianfigliazzi. L’appartamento di Palazzo Gianfigliazzi al numero 2, abitato da Luisa e Vittorio, diventa il luogo d’incontro [il salotto sul Lungarno] delle personalità più importanti della cultura europea, da Madame de Staël a Ugo Foscolo a Melchiorre Cesarotti, tanto per fare alcuni nomi di persone che incontreremo strada facendo.
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Se fate una passeggiata in Lungarno Corsini vi trovate di fronte ai due Palazzi della facoltosa famiglia Gianfigliazzi [che prende il nome dall’antenato Giovanni figlio di Accio vissuto nel XII secolo] e con una guida della città e navigando in rete potete documentarvi sulla storia di questi due edifici: nel primo, al numero 2, ha abitato la Contessa d’Albany con Vittorio Alfieri mentre nel secondo, al numero 4, trasformato in Albergo delle Nazioni, nel 1827 ha soggiornato Alessandro Manzoni quando è venuto a Firenze “a risciacquare i panni in Arno”…
Vittorio Alfieri muore l’8 ottobre 1803 e riposa in Santa Croce in un monumento funebre che è stato commissionato da Luisa d’Albany ad Antonio Canova. L’opera, terminata dallo scultore nel 1810, è austera ma particolarmente armoniosa e raffigura l’Italia dolente accanto al sarcofago che poggia su una doppia base ad andamento ellittico e quest’opera merita di essere osservata tanto nel suo insieme quanto nei particolari. In Santa Croce, nella Cappella Castellani [o del Sacramento] c’è anche la tomba della Contessa d’Albany: è un monumento d’impronta neorinascimentale opera di Luigi Giovannozzi ed Emilio Santarelli su disegno di Charles Percier, commissionato nel 1824 [l’anno della morte di Luisa Stolberg] dal pittore François-Xavier Fabre, erede universale e amico del cuore della Contessa, da lui ritratta molte volte anche insieme ad Alfieri.
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Andate a fare una visita in Santa Croce a questi personaggi, lo potete fare anche utilizzando una guida della città e navigando in rete …
Se volete divertirvi ad approfondire gli avvenimenti trattati potete utilizzare, richiedendolo in biblioteca, il saggio composto sotto forma di romanzo intitolato La Contessa d’Albany e il salotto del Lungarno [edito a Napoli nel 1951 e mai più ristampato] scritto del francesista e filologo fiorentino Carlo Pellegrini [(1889-1985): in Francia Pellegrini è stato insignito della Legion d’onore per la sua competenza...
Vittorio Alfieri - in merito all’onore che ha avuto di essere sepolto in Santa Croce - è stato citato da Ugo Foscolo [(1778-1827) lui pure sepolto in Santa Croce, e che avremo modo di incontrare ancora strada facendo sulla via che dall’Illuminismo conduce al Romanticismo, nel carme intitolato Dei Sepolcri [pubblicato a Brescia nel 1807], e questo è il momento - utilizzando un’antologia [presente probabilmente anche nella vostra biblioteca domestica] e usufruendo della rete - di leggere o di rileggere almeno 61 versi di questa celebre composizione. Per accedere alla lettura di questo componimento [un esercizio che presenta delle difficoltà, tuttavia superabili con la necessaria pazienza che chi studia deve avere] è necessario possedere alcune chiavi utili alla comprensione del testo. L’autore procede nella narrazione creando ad arte un andamento poetico che ha fatto scuola, facendo combaciare argomenti di diversa natura: Foscolo mette insieme idee di ispirazione romantica [che ristudieremo a suo tempo, come la descrizione delle tombe, il ritratto di Vittorio Alfieri e la riflessione sugli ideali di riscatto sociale e di libertà] con contenuti mutuati dai classici [riferendosi alle Opere di Dante e di Petrarca così come ha fatto Alfieri] e con temi riguardanti la politica, l’arte e la scienza [facendo entrare in scena Machiavelli, Michelangelo e Galileo]. Questi argomenti servono al poeta per richiamare un concetto significativo [e di grande attualità nel momento in cui assistiamo a una graduale e preoccupante perdita della memoria]: se i valori della civiltà umana si fondano sulla memoria significa che la tutela e la salvaguardia di questi valori [l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia] è affidata [ai cimiteri] ai luoghi dove sono raccolti i sepolcri [l’urne de’ forti] di persone degne di essere ricordate per il buon esempio che hanno dato e per il pensiero virtuoso che hanno elaborato [per le cose egregie che hanno lasciato in eredità], e il luogo-simbolo per eccellenza, afferma Foscolo, che ha questa funzione è la chiesa di Santa Croce a Firenze che raccoglie le tombe dei Grandi [delle personalità capaci di investire in intelligenza] diventando il posto eletto in cui si manifesta una delle sintesi più creative della Storia del Pensiero Umano [che mirabilmente viene descritta in questo carme].
Foscolo s’identifica nella figura di Alfieri [lo nomina chiamandolo confidenzialmente per nome ma quando gli scrive usa solo termini di devozione] perché sono contemporanei [sebbene tra i due ci siano 29 anni di differenza e non s’incontreranno mai, e Foscolo frequenterà il salotto della Contessa d’Albany solo dopo la morte di Vittorio], e s’immedesima in lui soprattutto per il temperamento, per la passione politica e per l’animo inquieto: Foscolo, che ha soggiornato a Firenze anche nella Villa di Bellosguardo, e per questo deve ringraziare la signora Quirina Mocenni Magiotti, rievoca con passione le camminate solitarie di Alfieri lungo l’Arno [dove il fiume è più deserto] per contemplare i campi e il cielo e per riflettere, inconsolabile e adirato più che mai contro coloro [gli intellettuali servi del potere] che favoriscono la perdita della memoria delle persone e il degrado intellettuale delle popolazioni.
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Del carme in endecasillabi sciolti Dei Sepolcri di Ugo Foscolo leggete almeno dal verso 151 al verso 212 avvalendovi delle note per comprendere le figure retoriche, i latinismi e le perifrasi arricchite da straordinarie metafore che contribuiscono a dare una forte tensione espressiva al testo e a mantenerne elevato il livello stilistico… Incuriositevi perché l’esercitarsi a leggere un testo dotato di complessità, stemperata dalle note esplicative, produce un potenziamento dell’attività intellettuale stimolando la facoltà di apprendere...
Per concludere questa breve esposizione leggiamo da Dei Sepolcri il frammento dove il nome di Vittorio viene immortalato da Ugo Foscolo.
Ugo Foscolo, Dei Sepolcri
E a questi marmi [in Santa Croce] venne spesso Vittorio ad ispirarsi.
Irato a’ patri Numi, errava muto ove Arno è più deserto,
e i campi e il cielo desioso mirando;
e poi che nullo vivente aspetto gli molcea la cura, qui posava l’austero;
e avea sul volto il pallor della morte e la speranza. …
E, infine, vogliamo ricordare Alfieri così come lui stesso si descrive nel famoso Autoritratto in versi contenuto nelle Rime. Il primo verso di questo sonetto sembra rimandare alla dicitura fiabesca d’impronta narcisistica: «specchio-specchio delle mie brame», ma “lo specchio sublime” che descrive la realtà delle cose, a cui si riferisce il poeta, è la scrittura che Alfieri usa per condurre un ragionamento di carattere esistenziale [che deve far riflettere la lettrice e il lettore] perché è facile guardarsi allo specchio e vedere come appariamo, come ci rappresentiamo, e “il guardarsi” [che ci si piaccia o no] è abbastanza facile mentre il difficile è cercare di capire chi siamo! Difficile è dare un giudizio ponderato su noi stesse, su noi stessi! E poi il compito della persona è quello di agire in modo da lasciare, dopo la propria morte, un’eredità morale e intellettuale che la faccia rivivere nel ricordo.
Vittorio Alfieri, Autoritratto
Sublime specchio di veraci detti, mostrami in corpo e in anima qual sono:
capelli, or radi in fronte, e rossi pretti; lunga statura, e capo a terra prono;
sottil persona in su due stinchi schietti; bianca pelle, occhi azzurri, aspetto buono;
giusto naso, bel labbro e denti eletti; pallido in volto più che un re sul trono:
or duro, acerbo, ora pieghevol, mite; irato sempre e non maligno mai;
la mente e il cor meco in perpetua lite: per lo più mesto, e talor lieto assai,
or stimandomi Achille, ed or Tersite: e Tu, sei grande o vil? Muori, e il saprai. …
Alfieri scrive anche un’opera molto polemica intitolata Misogallo [Contro ciò che è francese] nella quale contesta quella che, secondo lui, è l’arrogante invadenza degli intellettuali francesi che colonizzano con la loro lingua tutti gli ambienti intellettuali europei a scapito delle altre lingue. La lingua che si parla nei salotti, nei circoli, in tutti gli ambienti intellettuali europei nel ‘700 è il francese e dobbiamo capire perché avviene questo e, a questo proposito, abbiamo un appuntamento, a Parigi, con “un affascinante uomo di cultura” che, come dicono le cronache del tempo, fa battere il cuore delle signore e rende invidiosi i signori ma [per la delusione delle signore e la consolazione dei signori] quest’uomo è un abate integerrimo strenuo difensore dei valori religiosi e si chiama Luis-Antoine Caraccioli e, a parte le annotazioni sulla sua avvenenza: perché abbiamo appuntamento con lui? Che cosa c’è sotto al fatto che, prima ancor di parlar dei Lumi, si parli dello “strabismo dei Lumi”?
Per rispondere a questa e a molte altre domande accorrete a Scuola sapendo che il nostro intento è quello di procedere cogliendo lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli che non bisogna mai perdere la volontà di imparare, e per questo motivo la Scuola è qui e, di conseguenza, il viaggio continua [con l’abbé Caraccioli ormai contagiate e contagiati dall’uso delle rime]…