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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE EMERGE LA QUESTIONE CATARA CHE INCIDE SULLO SVILUPPO DEL MOVIMENTO DOMENICANO E FRANCESCANO ...

Lezione N.: 
27

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale     13-14-15  maggio  2015

Luigi Pirandello

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE  

EMERGE LA QUESTIONE CATARA CHE INCIDE SULLO SVILUPPO

DEL MOVIMENTO DOMENICANO E FRANCESCANO ...

 

   Con il ventisettesimo itinerario del nostro viaggio ci troviamo in Provenza dove, all’inizio del 1200, la Chiesa di Roma avrebbe dovuto inviare - secondo il parere di Domenico di Guzmán , che abbiamo incontrato la scorsa settimana anche con la complicità poetica di Dante Alighieri - degli “agricoltori” cioè dei “missionari”, e invece il papa, Innocenzo III [Lotario dei Conti di Segni] sceglie di fomentare, nel sud [nel Midi] della Francia, una terribile guerra che è durata circa quarant’anni: questa guerra prende il nome di “crociata contro i Catari” [o contro gli Albigesi] e su questo drammatico avvenimento la cristianità ha sempre voluto stendere un velo pietoso per nascondere un avvenimento che ha determinato una svolta nella storia del Medioevo.

   Da dove dobbiamo incominciare a raccontare questa drammatica storia? Questa storia ha inizio con una frase [il punto di partenza è un logos] che risulta essere una delle più famose e famigerate citazioni della storia del Medioevo. Questa frase inizia con un perentorio imperativo, con la seconda persona plurale del verbo “ammazzare”, in francese: “tuez-les, ammazzateli”. Ammazzare chi? “Tuez-les tous, ammazzateli tutti”. Tutti chi? Si capisce che queste parole non possono che riassumere una vicenda sanguinosa e, purtroppo, esemplare di una lunga e interminabile trafila che non si è ancora fermata: una trafila che prevede la lotta tra un Nord e un Sud, tra una ortodossia, quella della Chiesa romana, ed un’eresia, quella Catara. L’elemento che rende ancora più drammatica la descrizione di questa frase è che la parola successiva, quella che viene dopo “Tuez-les tous”, è “Dieu, Dio”: “Ammazzateli tutti. Dio …”. Che cosa ha a che fare Dio con questa storia di ammazzamenti? Dio viene sempre tirato in ballo quando scoppia una guerra che viene definita “di religione”.

   Ma cerchiamo di procedere con ordine: dove ci troviamo esattamente? Ci troviamo davanti alle mura della città di Béziers che si trova nel Midi [nel Sud] della Francia, nel cuore della Linguadoca: è l’anno 1209, è il giorno il 22 luglio. Papa Innocenzo III ha deciso di estirpare l’eresia catara che, negli anni, si è sviluppata sul territorio della Provenza e della Linguadoca, nel Midi [nel Sud] della Francia. Per la Chiesa di Roma i Catari - che in greco significa “puri” - sono diventati insopportabili perché con il loro esempio stanno mettendo in difficoltà la gerarchia ecclesiastica: il movimento popolare evangelico-pauperista dei Catari privilegia la spiritualità, i Catari disprezzano la gloria, le ricchezze, la vanità mentre la Chiesa di Roma si è fatta mondana, e gli ecclesiastici si comportano in modo anche troppo mondano. Catari hanno creato un Chiesa cristiana alternativa con proprie regole, con propri sacramenti e con una propria dottrina: credono nella reincarnazione, non mangiano carne, non ammettono nessuna forma di violenza e il testo del Vangelo secondo Giovanni è la loro guida. Il papa indìce una vera e propria crociata contro di loro e affida il comando ad un signorotto locale, avido e fanatico: Simon de Montfort il quale, con il suo esercito, il 22 luglio 1209, dopo averla cinta d’assedio, sfonda le porte di Béziers, un città nella quale vivono molti Catari, come in tutte le altre città della Provenza.

   A questo punto, vinta la battaglia, Simon de Montfort domanda al legato del papa Amaud Amalric che cosa deve fare visto che gli abitanti della città non sono tutti Catari ma ci sono anche, tra quelle mura, molti cristiani fedeli a Roma: «Come facciamo [domanda Simon de Montfort] a distinguere?». «Non preoccupatevi [risponde con tutta la sua autorità il legato del papa Amaud Amalric]» e pronuncia la frase famigerata con la quale ha inizio la “crociata contro i Catari [o contro gli Albigesi]”: «Tuez-les tous, Dieu reconnaitra les siens [Ammazzateli tutti, intanto. Poi ci penserà Dio, quando appariranno davanti a lui, a distinguere i suoi dagli altri]». Con questa frase grottesca è cominciata la più crudele delle crociate: contro un nemico interno, con un assedio e un massacro, e le studiose e gli studiosi di Storia hanno cominciato a pensare che con questa frase abbia avuto inizio “l’autunno del Medioevo”. Quel giorno di luglio del 1209 furono massacrate a Béziers, secondo i calcoli più prudenti, più di ventimila persone: una cifra enorme per una cittadina medioevale. E questo fatto determina che anche chi Cataro non è si sente colpito ingiustamente e si schiera contro i crociati in una guerra che dura fino al 1244 e che si svolge in modo spietato, borgo per borgo, chiesa per chiesa, castello per castello. La popolazione del sud della Francia [del Midi] decide di resistere in nome della propria indipendenza e si domanda: «Che cosa vuole la Chiesa di Roma da noi? Perché vuole sottomettere la Provenza? Perché vuole regalare la Linguadoca ai Re di Francia?» [Provenza e Linguadoca erano allora un principato indipendente]. E difatti così accade.

   Se oggi visitiamo Béziers possiamo vedere le mura che hanno visto quell’assedio e ascoltato quella frase famigerata, e passeggiando per le strette strade medioevali di questa bella cittadina che oggi sono un variopinto mercato, come lo erano in Età medioevale, possiamo continuare a chiederci se l’eresia catara è morta del tutto, se non ha lasciato nulla: ed è evidente che questo fenomeno, che oggi contribuisce all’attività turistica, ha continuato a fiorire sia pure in modo intermittente e sotterraneo. Un trovatore - il movimento dei “trovatori” si è sviluppato in Provenza dove è nata la prima vera e propria “lingua poetica” europea - ha scritto: «Al cap de sètcents ans verdera lo laurel [Fra settecento anni l’alloro rinverdirà]». La piazza principale di Béziers si chiama Piazza Jean Jaurès e la grande strada che la taglia si chiama Jean Jaurès, e anche il parcheggio sotterraneo [utilissimo] che la buca è intitolato a Jean Jaurès e c’è una piazza Jean Jaurès o una via dedicata a Jean Jaurès un po’ in tutte le città, più piccole o più grandi, della Provenza e della Linguadoca: a Tolosa, a Carcassonne, a Lagrasse, a Arles, a Avignone, a Montpellier, e naturalmente a Castres, dove Jean Jaurès è nato e dove un museo lo ricorda.

   Ma chi è Jean Jaurès? Jean Jaurès è stato un intellettuale, insegnante di filosofia al liceo di Albi e poi all’Università di Tolosa, compagno di studi del filosofo Bergson il quale si è dedicato alla politica nel partito socialista e, in quanto socialista umanitario [come si definiva, ha fondato nel 1904 il giornale l’Humanité] si è opposto fino all’ultimo alla prima guerra mondiale [avvenimento del quale stiamo celebrando il centenario] - nel 1911 ha scritto un libro intitolato L’esercito nuovo dove propone un modo diverso, civile, di difesa della patria – finché, dopo aver subito in Parlamento attacchi durissimi da parte dei Nazionalisti, il 31 luglio 1914 a Parigi al caffè du Croissant è stato ucciso da uno squilibrato, Raul Villain, che è stato assolto perché giudicato incapace di intendere e di volere. Perché Jean Jaurès si opponeva alla guerra? Perché, oltre ad essere un socialista umanitario, era soprattutto un Cataro redivivo e pensava che la violenza è sempre un male e le guerre non si devono fare.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con l’enciclopedia e navigando in rete andate a conoscere meglio Jean Jaurès

 

   Se a Béziers entriamo nella cattedrale di St. Nazaire, che si trova sulla collina rocciosa che sovrasta il fiume Orb, vediamo che c’è bene in vista una lapide sulla quale si legge: «La ciutad de Baziès fièro d’un passat ilustre a sous troubadours». Questo non è il francese classico: questa è la lingua d’Oc [oc significa sì].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Un’escursione in Provenza e in Linguadoca può iniziare con una visita a Béziers e poi da lì - con la guida della Francia e navigando in rete - potete puntare l’attenzione su tutto il territorio provenzale e sulle belle città [grandi e piccole] che lo costellano, quelle che precedentemente abbiamo già citato e che continueremo a citare in questo itinerario che si snoda sulle “Strade dei Catari”...

In particolare merita di essere visitata la città di Albi – in bella posizione sulla riva sinistra del fiume Tarn che si attraversa con un Ponte Vecchio in stile gotico del 1035 - che è stata il fulcro del movimento dei Catari [che vengono anche comunemente chiamati Albigesi]...

Ad Albi, che oggi ha circa 50 mila abitanti, si può ammirare la poderosa cattedrale di Ste-Cécile in mattoni rossi che ha l’aspetto di una poderosa fortezza medioevale, e il palazzo della Berbie che è sede del Museo Toulouse-Lautrec, perché ad Albi è nato nel 1864 questo singolare pittore...   Fate un’escursione ad Albi: navigando in rete potete osservare subito delle immagini interessanti, buon viaggio...

 

   La città di Béziers [torniamo a Béziers] dedica a buon diritto una lapide commemorativa e molti altri monumenti ai suoi poeti, ai troubadours [ai trovatori]. La regione dove ci troviamo - a ridosso dei Pirenei, di fronte al Mar Mediterraneo, attraversata da un grande fiume, il Rodano - prende anche il nome di Occitania [la terra dove si parla una lingua nella quale la parola “sì” si pronuncia “oc”] e, in Età medioevale, è proprio in questa regione, ricca materialmente e culturalmente, che nasce e prende forma la prima “lingua poetica” e la prima Scuola poetica europea.

   La parola “troubadour” indica “il poeta [il cantautore] che cerca e trova” le parole adatte [che suonano meglio] per esprimere i sentimenti nel modo più significativo possibile. Molti poeti provenzali [i troubadours] sono stati uccisi durante la crociata contro i Catari, altri sono stati costretti a fuggire e hanno portato in giro per l’Europa, soprattutto a Palermo e a Firenze, la loro lingua e le loro poesie [le canzoni occitane] che sono diventate il modello di quella forma letteraria che si chiama “sonetto”. I trovatori cantano l’amore, ma cantano anche, soprattutto, la libertà che a loro e alla loro terra è stata tolta con la violenza delle armi, e ancora oggi su qualche muro in terra di Provenza si può leggere “Occitanie libre” [Occitania libera] e Midi libre si intitola il giornale locale, e anche se il sud della Francia oggi non lo opprime nessuno questo è comunque un modo per ricordare che certe tradizioni vanno mantenute perché sono una ricchezza da preservare per il bene della nazione intera.

   La lingua provenzale è la prima lingua poetica europea che si è fatta conoscere in tutto il bacino del Mediterraneo e i trovatori - quando l’Occitania è stata assalita dai crociati - hanno reagito combattendo la loro guerra di resistenza con le parole, con la poesia, con la Letteratura. I trovatori - che sono quasi tutti Catari e cantano in lingua d’Oc - scrivono le loro poesie in un linguaggio cifrato ed ermetico e quando descrivono poeticamente “una bella dama desconsoulada” è perché si riferiscono segretamente non già all’amore ma al “consolamentum” che è il sacramento dei Catari. Se i trovatori parlano ad ogni piè sospinto di “Amor non corrisposto” è perché la parola “Amor” letta alla rovescia diventa “Roma”: la città nemica, la sede del potere papale che loro detestano perché fa soffrire tutto il popolo occitano. Ed è, attraverso una lunga serie di allusioni contenute nelle canzoni dei trovatori, che ancora oggi si favoleggia sul fatto che i Catari custodissero nientemeno che il Santo Graal, il calice dell’Ultima cena, nel loro castello di Montségur e questa è pura fantasia [i trovatori alludono al Santo Graal come oggetto “nascosto” perché ne negavano l’esistenza in linea con la scrittura a cui facevano riferimento]; però sta di  fatto che i grandi poemi sulla Leggenda del Graal fioriscono in Europa proprio in questo periodo, e poi a pochi passi dal castello di Montségur c’è il villaggio di Rennes-le-Chateau con il castello dei Templari e, quindi, è facile fare altre congetture, costruire altre storie, dar voce ad altre leggende tanto che sono stati riempiti moltissimi volumi.

   Abbiamo citato il sacramento dei Catari, il Consolamentum: di che cosa si tratta? Il libro dei Catari per eccellenza è il testo del Vangelo Secondo Giovanni in cui non si parla di “Ultima cena” [lo sapete che nel testo del Vangelo secondo Giovanni non c’è l’episodio dell’istituzione dell’Eucaristia?] e, quindi, per i Catari l’Eucaristia non è mai stata istituita da Gesù [per questo non ci può essere un calice dell’Ultima cena, un Santo Graal, perché è stato Paolo di Tarso, di sua iniziativa, a proporre nella Prima Lettera ai Corinzi il rito della cena eucaristica] e, di conseguenza, per la Chiesa catara il sacramento fondamentale è il “Consolamentum” che corrisponde a “la capacità che la comunità ha di accoglierti, di fare comunione con te”. Fare “comunione”, sostengono i Catari, non può ridursi - così come emerge nel testo del Vangelo secondo Giovanni e nell’Epistolario di Paolo di Tarso - ad un rituale mitico [di natura orfico-dionisiaca] ma deve incidere profondamente sull’esistenza umana ed è, quindi, sacramentale [reale segno salvifico di comunione] l’atto del “consolare” da parte della comunità che deve concretamente: confortare, risollevare, rassicurare, sostenere, incoraggiare, allietare ogni singola persona.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste azioni - confortare, risollevare, rassicurare, sostenere, incoraggiare, allietare - mettereste per prima accanto alla parola “consolare”?...

Scrivetela...

Avete consolato, siete state consolate e consolati?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Per entrare in comunicazione con il movimento popolare dei Catari è necessario puntare l’attenzione su un oggetto che abbiamo già evocato molte volte, e che nel corso del Medioevo assume una grande importanza, e questo oggetto noi lo possiamo reperire con grande facilità: si tratta del testo del Vangelo secondo Giovanni, uno dei quattro Libri [insieme all’Apocalisse, alla Genesi e all’Esodo] considerati più importanti durante l’Età medioevale. I Catari portano il testo del Prologo del Vangelo secondo Giovanni nella loro bisaccia quando viaggiano a piedi per le strade dell’Occitania e ne leggono i primi quattordici versetti quando s’incontrano e si somministrano vicendevolmente il loro sacramento solenne: il Consolamentum.

   Il Vangelo secondo Giovanni è il testo “spirituale” per eccellenza, dove i miracoli sono “segni” e dove, secondo il pensiero “gnostico”, si trova la netta contrapposizione tra i due principi fondamentali che caratterizzano la realtà esteriore ed interiore: la luce e le tenebre. Nel testo del Vangelo secondo Giovanni [e adesso ci limitiamo a mettere in evidenza solo alcuni caratteri di quest’opera straordinaria in funzione dell’itinerario che stiamo percorrendo] ci sono differenze sostanziali rispetto ai Vangeli sinottici [a quello di Marco, di Matteo e di Luca] e colpisce il fatto che in esso non si trovino alcuni “contenuti” ritenuti fondamentali per la dottrina: non si parla dell’istituzione dell’Eucaristia, non compare la preghiera del Padre Nostro, non si citano le Beatitudini, non si fa parola sull’infanzia di Gesù, Gesù viene definito come un “Cristo già glorioso in vita” e se ne danno sette definizioni simboliche: Gesù è la luce, la porta, il pastore, la vite, la via, la vita, il pane. Gesù viene rappresentato come una “persona reale” ma che conosce, agisce, parla come un “essere celeste”. Le caratteristiche che ha il testo secondo Giovanni corrispondono al pensiero della Filosofia gnostica [gnosi, in greco, significa conoscenza] secondo la quale si può camminare sulla via della salvezza se si conoscono e s’incarnano i “simboli” attraverso i quali si manifesta la figura di Gesù per cui ogni persona che si definisce cristiana deve essere: luce, porta, pastore, vite, via, vita, pane.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - luce, porta, pastore, vite, via, vita, pane - vi piace di più e mettereste per prima...

Scrivetela...

 

   Il testo del Vangelo secondo Giovanni è l’oggetto che ci mette in comunicazione con la cultura e il pensiero dei Catari perché in esso s’incontra il punto chiave della lettura catara della realtà che corrisponde alla frase che si trova nel terzo versetto del capitolo I: una frase che, in lingua greca [nella lingua originale in cui questo testo è scritto], si può leggere in una doppia versione. Noi, nelle traduzioni canoniche, leggiamo: «E senza di Lui nulla è stato creato». I Catari leggevano: «E senza di Lui fu creato il Nulla» e questa è una differenza decisiva. Dio - secondo la visione del cristianesimo gnostico-manicheo - ha creato il mondo, ma non da solo perché «senza di Lui e contro di Lui» un altro Essere, di natura malvagia, ha creato il Nulla cioè l’entità ingannevole e trascurabile che è il mondo della materia. I Catari - seguendo una tradizione che parte dal pensiero di Zaratustra, che abbiamo studiato più volte nei nostri viaggi - sono dualisti: secondo loro, nel modo in cui leggono il terzo versetto del primo capitolo del Vangelo secondo Giovanni, in Dio è presente il Bene e il Male, altrimenti [come pensavano e credevano i cristiani gnostici, gli autori dei Vangeli gnostici] come si spiega la presenza del Male [come può un Dio buono, clemente e misericordioso permettere che ci sia il Male?].

   Per questo, come in passato era già successo agli gnostici [un tema che abbiamo studiato a suo tempo], i Catari vengono perseguitati come eretici, ma anche di questo fatto loro trovavano giustificazione nel testo del Vangelo secondo Giovanni dove si legge al versetto 14 del capitolo 17: «Il mondo li odia perché non sono del mondo, come io [è Gesù che parla] non sono del mondo» e per i Catari il “mondo” è quello ufficiale della Chiesa e del Regime feudale che li odia e cerca di sterminarli perché sono profondamente diversi, perché non si considerano del tutto mondani [in linea con la figura di Gesù descritta nel testo del Vangelo secondo Giovanni], ed è per questo motivo che è stata pronunciata e messa in pratica quella frase terribile: «Ammazzateli tutti  …».

   Ebbene, questa frase è rimbalzata e continua a rimbalzare nella storia della cultura. C’è, per esempio, il testo di una canzone di George Brassens [uno dei più importanti cantautori della musica popolare contemporanea, che conoscete certamente] che riporta questa provocatoria variante: «Embrasse-les tous, Dieu reconnaitra les siens» e il cantautore ha voluto anche giocare deliberatamente sull’assonanza tra il suo nome “Brassens” e il verbo “embrasser”, e non c’è da stupirsi perché nella vicenda dei Catari la “parola [il Logos o il Verbo]” ha una grande importanza e il Vangelo secondo Giovanni comincia appunto come ben sapete con l’emblematica frase «In principio c’è il Logos [la Parola]». George Brassens è considerato a pieno titolo un cataro redivivo [agnostico e anarchico] e scrive le sue canzoni sulla scia della tradizione dei troubadours conducendo un grande lavorio [di carattere comico, grottesco, ironico] intorno alle parole, lavora intorno alla “parola” perché questa possa corrispondere ad un profondo rigore etico. George Brassens è nato a Sète [in Linguadoca, fate una visita a Sète con la guida della Francia e navigando in rete] nel 1921, e nel cosiddetto “cimitero dei poveri” di Sète è sepolto da quando, nel 1981, è morto a solo sessant’anni.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con l’enciclopedia e navigando in rete andate ad incontrare George Brassens e ad ascoltare le sue canzoni tenendo conto che c’è più di un sito che fornisce la traduzione dei testi, condizione utile per capirne il senso dissacrante

 

   La crociata contro i Catari si conclude nel 1244 con un altro assedio e un altro massacro a Montségur. Quando gli ultimi Catari, che si sono asserragliati nel castello pirenaico di Montségur, si rendono conto di non poter più resistere decidono di darsi fuoco e lo scrittore surrealista Andrè Breton ha scritto in una sua poesia: «Montségur qui brule toujours [Montségur che brucia sempre]». E sembra proprio che Montségur continui ancora a bruciare perché questa storia - sebbene si sia voluto stendere un velo su di essa da parte di autorità civili, militari e religiose - ha continuato e continua a provocare un “bruciante” interesse.

   Sapete che esiste anche una novella di Luigi Pirandello, pubblicata per la prima volta nel 1905 sulla rivista La Riviera Ligure, intitolata L’eresia catara? E, quindi, anche il drammaturgo siciliano della “corda seria, civile e pazza” è voluto intervenire su questo argomento con la sua solita e un po’ pessimista sottile ironia. In questa novella Pirandello racconta la storia di un professore [Bernardino Lamis, professore ordinario di storia delle religioni: un ulteriore emblematico personaggio pirandelliano portato anche più volte in teatro] che ha dedicato la vita allo studio dei Catari facendo pubblicare due “poderosi volumi” sull’argomento che passano quasi del tutto inosservati. Quand’ecco che compare, sullo stesso argomento, una “mastodontica monografia” di un professore tedesco [Hans von Grobler] che, esaltata dalla critica, mette in ombra l’opera del professor Lamis.

   Non possiamo rinunciare ad aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura: leggiamo la prima parte della novella L’eresia catara di Pirandello e non sarà difficile - dopo le considerazioni che abbiamo fatto sull’assalto crociato alla Provenza - cogliere gli elementi allegorici che emergono dal testo pirandelliano.

 

LEGERE MULTUM….

Luigi Pirandello, L’eresia catara

Bernardino Lamis, professore ordinario di storia delle religioni, socchiudendo gli occhi addogliati e, come soleva nelle più gravi occasioni, prendendosi il capo inteschiato tra le gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece delle unghie, cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni che seguivano con pertinace fedeltà il suo corso: «Diremo, o signori, nella ventura lezione, dell’eresia catara».  Uno de’ due studenti, il Ciotta - bruno ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido - digrignò i denti con fiera gioja e si diede una violenta fregatina alle mani.

... continua la lettura ...

 

   L’allegoria che Pirandello coltiva attraverso la trama della novella è facile da interpretare per chi conosce “la questione catara”: il povero professor Bernardino Lamis rappresenta l’immagine della Provenza che viene aggredita e saccheggiata. E questo dolente personaggio pirandelliano è la metafora dei Catari isolati e asserragliati a Montségur.

   Esistono molte professoresse e professori locali, nazionali e internazionali che hanno studiato e continuano a studiare “la questione catara”. Esiste un Centro National d’Etudes Cathares [il Centro Nazionale di Studi Catari], esiste una Società della Memoria e degli Studi Catari, ed esiste una Società de la Spiritualità Catara. È stato scritto un poema [la Chanson de la Croisade Albigeoise] subito dopo i fatti nella seconda metà del XIII secolo. C’è, quindi, una produzione ininterrotta di studi sui Catari sempre animata dallo stesso orgoglioso risentimento che nasce da un’ingiustizia subita.

   A partire dal 1233 papa Gregorio IX [Ugolino dei Conti di Segni di Anagni, nipote di Innocenzo III, legato pontificio di Onorio III presso l’imperatore Federico II di Svevia] istituisce la Santa Inquisizione proprio in ragione de “la questione catara [che si trascina da più di un quarto di secolo]” e, dopo aver canonizzato San Francesco e San Domenico, affida la gestione dei tribunali contro gli eretici ai francescani e soprattutto ai domenicani: ma come può avvenire un fatto di questo genere?

   Sappiamo che Domenico di Guzmán non voleva “processare gli eretici” ma bensì “convincerli con la predicazione e l’attuazione dei principi del Vangelo” affermando anche che c’era da imparare dai Catari [e da tutti i Movimenti popolari pauperistici] perché praticavano la modestia, la sobrietà, la mutua assistenza e si opponevano alla corruzione del clero. Sappiamo che Domenico di Guzmán non era stato preso sul serio da papa Innocenzo III che nel 1215 non aveva approvato la Regola domenicana dei predicatori [Innocenzo III preferiva che si usasse la spada piuttosto che la parola], e ora, quasi vent’anni dopo, suo nipote Gregorio IX affida proprio ai domenicani la gestione della Santa Inquisizione! Ebbene, questo fatto, dopo un acceso dibattito, crea una spaccatura [e questo è un grande avvenimento nella Storia del Medioevo sebbene passi quasi inosservato] perché con l’istituzione dell’Inquisizione viene a determinarsi una drammatica rottura tanto nell’ordine francescano quanto in quello domenicano. I francescani ligi al dettato papale formano la corrente cosiddetta “conventuale” mentre i francescani critici verso l’inquisitorio provvedimento papale costituiscono la correte degli “spirituali”, e così i domenicani che accettano le direttive del papa assumono, ubbidienti, il ruolo di “inquisitori [nasce la corrente dei domenicani “inquisitori”]” mentre quelli di loro che, ritenendosi più fedeli all’insegnamento di Domenico di Guzmán, si dissociano dalla disposizione papale fondano la corrente dei “missionari”, e queste due correnti entrano in forte contrasto tra loro: i “domenicani inquisitori” operano nei tribunali ecclesiastici facendo giustiziare gli eretici per far valere l’ortodossia, mentre i “domenicani missionari” operano sul territorio in zone dove si lotta per la giustizia perché è l’ingiustizia [alla luce del Vangelo] l’atto meno ortodosso che ci possa essere.

   I “domenicani inquisitori”, molto più dei Francescani conventuali, hanno svolto con zelo il loro lavoro contro i Catari: facevano disseppellire persino i morti, tumulati  in odore di eresia, e poi tentavano di bruciarli, ma non sempre ci riuscivano perché la popolazione si ribellava nei confronti di “questa grandine di barbarie [così cantano i trovatori occitani] caduta su un terreno fiorito”. Il pensiero dei Catari è eretico rispetto alla dottrina della Chiesa di Roma perché sono dualisti, credono che la creazione sia dovuta non ad un solo Dio, ma a due, uno buono [il Dio della luce e dello spirito] e uno cattivo [il Dio delle tenebre e della materia], però sono soprattutto devoti, caritatevoli, civilissimi e il primo tratto distintivo della loro civiltà è il rispetto per le nuove attività commerciali e artigianali che, se esercitate con spirito di solidarietà, assicurano un lavoro a tutti i cittadini e una funzionale rete di servizi [sanitari, culturali]. La crociata contro i Catari è soprattutto uno scontro di classe tra il nascente sistema borghese che vuole, secondo la mentalità catara, intraprendere attività redditizie per attuare forme di ridistribuzione del reddito e il sistema feudale che vuole mantenere l’ingiusto regime della servitù della gleba. I Catari “tessono e commerciano” e il termine “tisserand” comincia a significare insieme “tessitore” ed “eretico”.

   E tutta questa storia - che stiamo delineando a grandi linee soprattutto con intento di carattere letterario in funzione della didattica della lettura e della scrittura - è stata narrata anche in un romanzo scritto da Michel Cosem intitolato La colombe et l’épervier [La colomba e il falco] ed è evidente che “la colomba” è la fière Occitanie [la fiera Occitania] mentre “lo sparviero, il falco” è la soldataglia del Nord che ha invaso il Midi seminando il terrore.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Richiedete in biblioteca il romanzo di Michel Cosem intitolato “La colombe et l’épervier [La colomba e il falco]” e leggetelo…

 

E ora finiamo di leggere la novella di Luigi Pirandello intitolata L’eresia catara.

 

LEGERE MULTUM….

Luigi Pirandello, L’eresia catara

Quel giorno, appena rincasato, Bernardino Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente. Aveva innanzi a sé due giorni per finir di stendere quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse formidabile. Ogni parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von Grobler.

Le sue lezioni egli soleva scriverle dalla prima parola fino all’ultima, in fogli di carta protocollo, di minutissimo carattere. Poi, all’Università, le leggeva con voce lenta e grave, reclinando indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le palpebre per poter vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui narici uscivano due cespuglietti d’ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I due fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il Lamis non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto. I banchi, nell’aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro. L’aula era buja, e il Ciotta e il Vannìcoli all’ultimo ordine, uno di qua, l’altro di là, ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in alto. Il professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il raspìo delle loro penne frettolose.

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   La “questione catara”, sebbene sia un avvenimento che infligge una ferita profonda nel tessuto della cristianità, è stata sempre sistematicamente rimossa e l’allegorica novella pirandelliana risulta esemplare nel rimarcare e nel denunciare questo fatto. Ma, prima di Pirandello, la cultura catara è presente tra le righe [e ne rappresenta una chiave di lettura] di uno dei più importanti romanzi europei dell’Ottocento che tutte e tutti voi conoscete: I promessi sposi di Alessandro Manzoni. Non è forse Renzo Tramaglino un “tisserand”, un tessitore? E il cognome “Tramaglino” [uno che trama] è proprio costruito su questa base filologica e, difatti, a causa delle persecuzioni, numerosi gruppi di Catari si sono rifugiati dal sud della Francia anche in Lombardia insediandosi soprattutto a Cremona, a Concorezzo, a Desenzano. E anche Alessandro Manzoni è uno scrittore cattolico lombardo che sente l’influenza del giansenismo, una corrente che porta in sé molti elementi dell’eresia catara [la lotta tra la luce e le tenebre, la predilezione per la sobrietà, l’impegno in favore della giustizia sociale] e, quindi, anche Manzoni, nel suo intimo, è un po’ cataro, e  lo si capisce da molti elementi presenti nel suo celebre romanzo [molto rappresentato cinematograficamente ma poco letto e più sopportato che ben accetto nelle aule scolastiche] che, invece, andrebbe periodicamente riletto tenendo conto anche di queste indicazioni metodologiche.

   I promessi sposi di Alessandro Manzoni [1785-1873] è un’opera compiuta nel 1827 che ci fa imparare a leggere oltre le parole, che ci fa imparare a perseverare se abbiamo una passione, che ci fa imparare a non fidarsi di chi dice di volerci fare del bene e poi fa solo il suo interesse, che ci fa imparare che la corruzione e la collusione sono un cancro nella società che deve essere estirpato. I promessi sposi è un romanzo che denuncia l’abisso dell’illegalità, che smaschera il potere subdolo e ingannevole e che invita a coltivare il desiderio e il bisogno di giustizia sociale. Manzoni, attraverso il personaggio di Renzo Tramaglino [il corrispettivo del provenzale Tisserand] mette in scena la lotta di classe - che ha caratterizzato anche la guerra in Provenza [la crociata contro i Catari] - e difende il rispettabile mestiere della mercatura, difende chi lavora, contro i nobilotti sfaccendati e perversi che disprezzano “il vendere e il comprare” perché si giovano dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E Manzoni descrive come nel “tisserand [tessitore e ribelle]” Renzo Tramaglino si vada formando una particolare coscienza di classe anche con la guida di un personaggio il quale [in odore di catarismo] una scelta di classe di natura evangelica l’ha già compiuta: il padre Cristoforo.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se volete completare la riflessione che abbiamo fatto è utile leggere il capitolo IV de “I promessi spossi” di Alessandro Manzoni, e questo libro lo potete richiedere nella biblioteca pubblica ma è probabile che si trovi anche nelle vostra biblioteca domestica e, quindi, utilizzatelo… 

 

E ora leggiamo insieme l’incipit del capitolo IV de I promessi sposi.

 

LEGERE MULTUM….

Alessandro Manzoni,  I promessi sposi  Capitolo IV

Il sole non era ancor tutto apparso sull’orizzonte, quando il padre Cristoforo uscì dal suo convento di Pescarenico, per salire alla casetta dov’era aspettato. È Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda, o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte: un gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare. Il convento era situato (e la fabbrica ne sussiste tuttavia) al di fuori, e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo. Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole s’alzava dietro il monte, si vedeva la sua luce, dalle sommità de’ monti opposti, scendere, come spiegandosi rapidamente, giù per i pendìi, e nella valle. Un venticello d’autunno, staccando da’ rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere, qualche passo distante dall’albero. A destra e a sinistra, nelle vigne, sui tralci ancor tesi, brillavan le foglie rosseggianti a varie tinte; e la terra lavorata di fresco, spiccava bruna e distinta ne’ campi di stoppie biancastre e luccicanti dalla guazza. La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e, benché non avesser nulla a sperar da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento, per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento. Lo spettacolo de’ lavoratori sparsi ne’ campi, aveva qualcosa d’ancor più doloroso. Alcuni andavan gettando le lor semente, rade, con risparmio, e a malincuore, come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan la vanga come a stento, e rovesciavano svogliatamente la zolla. La fanciulla scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta, a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere. Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura.

- Ma perché si prendeva tanto pensiero di Lucia? E perché, al primo avviso, s’era mosso con tanta sollecitudine, come a una chiamata del padre provinciale? E chi era questo padre Cristoforo? - Bisogna soddisfare a tutte queste domande.

Il padre Cristoforo da *** era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquant’anni. Il suo capo raso, salvo la piccola corona di capelli, che vi girava intorno, secondo il rito cappuccinesco, s’alzava di tempo in tempo, con un movimento che lasciava trasparire un non so che d’altero e d’inquieto; e subito s’abbassava, per riflessione d’umiltà. La barba bianca e lunga, che gli copriva le guance e il mento, faceva ancor più risaltare le forme rilevate della parte superiore del volto, alle quali un’astinenza, già da gran pezzo abituale, aveva assai più aggiunto di gravità che tolto d’espressione. Due occhi incavati eran per lo più chinati a terra, ma talvolta sfolgoravano, con vivacità repentina; come due cavalli bizzarri, condotti a mano da un cocchiere, col quale sanno, per esperienza, che non si può vincerla, pure fanno, di tempo in tempo, qualche sgambetto, che scontan subito, con una buona tirata di morso.

Il padre Cristoforo non era sempre stato così, né sempre era stato Cristoforo: il suo nome di battesimo era Lodovico. Era figliuolo d’un mercante di *** (questi asterischi vengon tutti dalla circospezione del mio anonimo) che, ne’ suoi ultim’anni, trovandosi assai fornito di beni, e con quell’unico figliuolo, aveva rinunziato al traffico, e s’era dato a viver da signore.

 

   “Padre Cristoforo cammina già col tristo presentimento in cuore, d’andar a sentire qualche sciagura”, difatti Lucia ha un problema. E un altro tratto importante della cultura catara riguarda il ruolo della donna [in particolare le donne provenzali hanno accesso alla cultura e alle responsabilità ecclesiali tanto quanto gli uomini, e non è casuale - come sappiamo - il fatto che sia provenzale la mamma di Francesco d’Assisi] e, a questo proposito, emerge un fatto emblematico nel corso della crociata contro i Catari che ha assunto anche un carattere letterario tanto da sfociare nella leggenda.

   Durante la trentennale guerra in Provenza, in più di una occasione, vengono condotte delle trattative per concordare una tregua nei combattimenti e nel corso di uno di questi negoziati, tenuto nel castello del conte Raymond Roger di Foix, il capo della delegazione crociata, l’inquisitore domenicano Etienne de la Minia, si rende conto con grande stupore che prende parte ai discorsi anche la sorella del conte, Esclarmonde de Foix: questa figura femminile è diventata uno dei simboli della resistenza catara ed è entrata nella tradizione popolare attraverso le opere [le ballate] dei troubadours. Il capo della delegazione crociata, Etienne de la Minia, pronuncia un’altra famosa e famigerata frase, perché rivolto ad Esclarmonde dice: «Allez filer votre quenouille, madame» [Andate a filare la vostra conocchia, signora. Questi non sono discorsi per voi]. E non c’era bisogno che l’inquisitore-crociato incoraggiasse Esclarmonde a filare perché lei filava eccome! Più che la sua conocchia filava la ribellione [tirava le fila della resistenza]: Esclarmonde de Foix, catara dichiarata, è una donna colta, attiva, ascoltata, ministro dell’educazione [soprattutto femminile] del governo provenzale, e ha finanziato la costruzione di un certo numero di castelli [e ha provveduto al potenziamento di quello di Montségur] dove i Catari - braccati dall’Inquisizione - potessero rifugiarsi. Nel castello di Foix [un monumento, oggi, molto ben conservato] Esclarmonde ospita i cavalieri e i trovatori [tutti catari attivi nella lotta contro gli invasori] i quali giocano abilmente con le parole, sfruttandone tutte le possibilità semantiche, per mandare messaggi cifrati: quando, per esempio, dichiarano in tutti i toni di «non poter negare l’amore per la loro Dama» intendono dire che «non vogliono rinnegare la devozione per la loro Chiesa catara».

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida della Francia e mettendo in ricerca sulla rete la dicitura “castelli catari” potete percorrete “le strade dei castelli catari” osservando molte belle immagini per programmare un viaggio: l’Occitania [la Provenza, la Linguadoca] non è lontana da qui...

 

   Dal punto di vista della Storia del Pensiero Umano l’esperienza “catara” ha avuto il merito [come sappiamo] di porre al centro dell’attenzione il testo del Vangelo secondo Giovanni e di far emergere - nel momento in cui sta per iniziare “l’autunno del Medioevo” - due parole-chiave che hanno favorito la riflessione all’interno del movimento della Scolastica: il termine “spirito” e, soprattutto, la parola “luce”.

   Non ci dobbiamo meravigliare che siano prima di tutto i francescani [visto che il pensiero e l’azione di Francesco d’Assisi - come sappiamo - ha, per parte di madre, radici catare pur rimanendo lui ubbidiente all’ortodossia della Chiesa di Roma, ma dobbiamo ricordare che a Francesco fu vietato nel 1218 di compiere un viaggio nel sud della Francia per invocare la fine della guerra], i francescani di tendenza “spirituale” fanno il loro ingresso sul territorio della Scolastica [cominciano a frequentare le Scuole parigine] mettendo in evidenza proprio le parole-chiave “spirito” e “luce” per dare a questi termini un valore centrale nell’indagine filosofica e il rappresentante più accreditato del movimento intellettuale francescano è Bonaventura da Bagnoregio che ci è stato presentato, in Paradiso, la scorsa settimana da Dante Alighieri [ricordate?].

   Bonaventura, che in realtà si chiama Giovanni di Fidanza, è nato tra il 1217 e il 1221 a Bagnoregio, vicino a Viterbo. Viene mandato, fin da ragazzo, a studiare a Parigi alla facoltà delle Arti dove, già da qualche anno, si confrontano [si fronteggiano culturalmente, favorendo la nascita di un importante laboratorio culturale] i benedettini, i domenicani e i francescani [che interpretano in modi diversi i vari temi proposti dalla Filosofia scolastica]. Il direttore della facoltà delle Arti è Alessandro di Hales [nato nei pressi di Gloucester tra il 1170 e il 1180 e morto a Parigi nel 1245], un importante magister che nel 1236 entra nell’ordine francescano e scrive un’importante Summa theologica, un’opera mastodontica [Ruggero Bacone dice: “pesante come un cavallo”] che, rimaneggiata nel tempo da altri studiosi, fa da modello a tutte le Summae che da questo momento verranno scritte [“Summa” significa “trattazione sistematica”].

   Alessandro di Hales fa nascere una discussione [di carattere politico] nell’ambito dell’università parigina: dopo aver affermato che tutti coloro i quali sono in possesso dei titoli per insegnare hanno il diritto [religiosi o laici che siano] di svolgere la loro professione, si domanda se sia lecito che gli appartenenti agli ordini religiosi debbano avere un potere gestionale nelle istituzioni scolastiche perché potrebbero condizionare l’andamento autonomo che la ricerca deve avere per essere considerata autenticamente scolastica. Questo dibattito, che ha dato origine a varie normative, dura nel tempo caratterizzando il lungo periodo del [cosiddetto] “autunno del Medioevo”.

   Anche Bonaventura, come Alessandro di Hales, decide di farsi francescano, diventa magister e insegna teologia all’università di Parigi dal 1248 al 1257 finché nel 1259 viene eletto generale dell’ordine francescano e intraprende una riforma organizzativa e culturale perché il movimento dei francescani era diventato piuttosto eterogeneo dando addito anche a delle contraddizioni [c’erano molti individui che s’improvvisavano francescani per sbarcare il lunario: ve li ricordate ancora Millemosche, Pannocchia e Carestia?]. Bonaventura s’impegna per dare un’impronta più pragmatica e più ordinata alla Regola francescana inserendo delle norme di accreditamento e delle disposizioni che possano rendere la vita materiale dei seguaci di Francesco più umana e più disciplinata: dato per scontato che bisognava possedere nulla [e nasce un grande dibattito in proposito - tra i benedettini, i domenicani e i francescani - intorno al quesito: Gesù era padrone dei suoi abiti?]. La Regola di Bonaventura prevede che ogni frate abbia un’investitura, possieda un minimo di risorse per sopravvivere, abbia un proprio bastone, una propria bisaccia, due sai, uno per l’estate e uno per l’inverno, perché Gesù, sostiene Bonaventura citando l’Epistolario di Paolo di Tarso e il Vangelo secondo Giovanni, afferma che “il corpo è il tempio dello spirito” e  va rispettato e, quindi, Bonaventura vuole dare all’ordine francescano delle regole precise e “un pensiero unitario” e lo fa scrivendo un’opera importante intitolata Itinerarium mentis in Deum [che più volte abbiamo citato nei nostri viaggi e della quale ci occuperemo ancora tra poco].

   Bonaventura da Bagnoregio assume un ruolo importante nella Storia della Chiesa quando risolve un increscioso problema: nel 1268 a Viterbo [sapete che a Viterbo c’è un palazzo dei papi? Lo avete visitato?] muore papa Clemente IV [il provenzale Gui Le Gros] e, quindi, si riunisce il collegio cardinalizio per eleggere un nuovo papa, ma passano i giorni, passano le settimane, passano i mesi e il papa non viene eletto: i cardinali italiani e quelli francesi litigano, vanno e vengono, e passano ben due anni e otto mesi senza che abbiano trovato un accordo. Il popolo di Viterbo comincia a rumoreggiare quando, alla fine d’agosto del 1271, arriva Bonaventura [piuttosto contrariato] che inventa il “conclave [dal latino “con la chiave”]”: Bonaventura alla testa del popolo di Viterbo chiude “sotto chiave” i cardinali, li lascia a digiuno, e loro due giorni dopo [il primo settembre 1271, non erano abituati a digiunare] eleggono Teobaldo Visconti, che si trovava a fare l’arcivescovo in Medio Oriente a San Giovanni d’Acri, il quale, ricevuta la notizia, si mette in viaggio e, dopo essere sbarcato a Brindisi, dopo aver raggiunto Viterbo e poi Roma, viene consacrato pontefice  il 27 marzo del 1272 [sei mesi dopo l’elezione e dopo tre anni e tre mesi in cui la Chiesa è rimasta senza papa] prendendo il nome di Gregorio X.

   Bonaventura viene nominato cardinale da Gregorio X, lui accetta e questa scelta viene contestata da un buon numero di suoi confratelli francescani, che non disapprovano le sue idee e la sua riforma, ma ritengono questo fatto [l’appartenenza all’alta gerarchia ecclesiastica] in contrasto con il pensiero di Francesco d’Assisi e nasce così la corrente dissidente [il frazionamento degli ordini religiosi non finisce mai] dei cosiddetti “fraticelli” [e, strada facendo, ne sentiremo ancora parlare perché è un altro indizio dell’avvicinarsi dell’autunno del Medioevo].

   Bonaventura da Bagnoregio muore nel 1274 [lo stesso anno della morte di Tommaso d’Aquino] mentre presiede, a nome del papa Gregorio X, il secondo concilio ecumenico di Lione che avrebbe dovuto creare le condizioni per una riunificazione della Chiesa latina con quella greca, che poi non avvenne.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Bisogna fare un’escursione a Bagnoregio in provincia di Viterbo, cittadina situata a 13 chilometri dal lago di Bolsena... Potete utilizzare la guida del Lazio e navigando in rete potete osservare quanto sia pittoresco questo luogo [il luogo natale di Bonaventura] anche per la presenza lì accanto del suggestivo villaggio spopolato di Civita [Civita di Bagnoregio]...

Andate a constatare quanto sia affascinante questo paesaggio...    

 

   Bonaventura vuole dare all’ordine francescano “un pensiero unitario” perché la vita dei seguaci del “poverello d’Assisi” [canonizzato nel 1228 a soli due anni dalla morte] abbia un senso, abbia una valenza di carattere intellettuale nella quale ogni membro della congregazione si possa e si debba riconoscere. E il senso “francescano” della vita può essere riassunto dal contenuto dell’opera più famosa di Bonaventura intitolata Itinerarium mentis in Deum [“Itinerario dell’anima a Dio”, un’opera che più volte abbiamo citato nei nostri viaggi anche in quello dello scorso anno, senza però analizzarla].

   Tutte e tutti noi siamo al corrente del fatto che, secondo la tradizione, nel settembre del 1224 Francesco d’Assisi ha “ricevuto le stimmate” sul monte della Verna, un luogo non distante da qui facilmente raggiungibile: questo avvenimento misterioso fa sì che Francesco “sia entrato in piena conformità con la mente e con il corpo di Cristo”. Ebbene, nell’ottobre del 1259 Bonaventura da Bagnoregio [appena eletto ministro generale dell’Ordine francescano] compie un ritiro spirituale alla Verna e scrive l’Itinerarium mentis in Deum [Itinerario dell’anima a Dio] in cui rilegge, sotto forma di “viaggio mistico” in sei tappe [come le sei ali di un Serafino apparso a Francesco: una scena che possiamo osservare in molti dipinti] il miracoloso avvenimento del “dono” delle stimmate. Bonaventura - con grande acume mediatico - utilizza il miracoloso avvenimento del “dono” delle stimmate a San Francesco per costruire uno scenario mistico nel quale ha voluto inserire il pensiero filosofico francescano [per poter dare al francescanesimo un posto di rilievo nel movimento della Scolastica. Scrive Bonaventura: «È preferibile la sorella-sapienza alla matrigna-ignoranza»].

   Nell’opera intitolata Itinerarium mentis in Deum [Itinerario dell’anima - o della mente - a Dio] Bonaventura da Bagnoregio riprende il concetto già elaborato dalla Scuola di Chartres che nel Mondo creato è presente “l’afflato di Dio”, che nella Natura c’è “l’impronta divina”. Quindi, afferma Bonaventura: «I filosofi naturali conoscono la Natura “solo per sé” e non come “impronta di Dio” e, di conseguenza, la conoscenza della Natura “per sé” è compito della “ratio inferior”[della ragione inferiore, che guarda le cose terra-terra], mentre la conoscenza della Natura come “impronta divina” è compito della “ratio superior” [della ragione superiore, che osserva le cose della terra proiettate verso il cielo]». La ragione inferiore, afferma Bonaventura, produce la scienza [utile ma arida], mentre la ragione superiore genera la sapienza e il sapere, dice Bonaventura, deve far entrare la mente in comunione con Dio, altrimenti, afferma Bonaventura, lo studio è una perdita di tempo. Aristotele, sostiene Bonaventura che studia con impegno le sue Opere, ha fatto un gran lavoro ma si è voluto fermare alla scienza cercando di renderla autosufficiente e così non ha ricevuto la “luce necessaria” per compiere il viaggio che avrebbe sollevato da terra il suo intelletto. Aristotele [nonostante ne abbia intuito l’essenza, afferma Bonaventura] ha preferito ironizzare su Dio piuttosto che contemplare Dio e così non è potuto giungere all’unione mistica con Lui.

   E come si può [si domanda Bonaventura] giungere all’unione mistica con Dio, che è il fine ultimo di ogni attività intellettuale e pratica? L’unione mistica con Dio si può realizzare, sostiene Bonaventura, attraverso tre tappe che si identificano con le facoltà dell’anima che sono, scrive Bonaventura, come tre “occhi”; ogni anima, secondo Bonaventura, è come se avesse tre occhi: un primo occhio rivolto alle cose esterne [oculum carnis, l’occhio della carne] che corrisponde alla sensibilità; un secondo occhio rivolto a se stessa [oculum rationis] che corrisponde alla ragione, e un terzo occhio rivolto alla contemplazione [oculum contemplationis] che corrisponde alla fede. Ciascuno di questi tre occhi, scrive Bonaventura, a sua volta si sdoppia e può contemplare Dio sia indirettamente [per speculum] perché nelle cose c’è l’immagine [c’è l’icona] di Dio e sia direttamente [in speculo] perché nelle cose c’è l’impronta [lo stampo] di Dio. Quindi, scrive Bonaventura,  ognuna delle tre tappe del cammino che conduce l’anima [la mente] a Dio è duplice e, di conseguenza, questo percorso avviene in sei itinerari.

   La prima tappa ci fa contemplare Dio “fuori di noi”, nella Natura [per vestigia, seguendo le orme] con due itinerari: il primo itinerario avviene per mezzo dei sensi [per speculum, indirettamente] per cui si coglie l’ordine e la bellezza delle cose, mentre il secondo itinerario avviene per mezzo dell’immaginazione [in speculo, direttamente] per cui si coglie l’essenza, la potenza e la presenza di Dio.

   La seconda tappa ci fa contemplare Dio “in noi”, nell’Anima [per imagines] con due itinerari: il primo [che sarebbe il terzo itinerario] avviene per mezzo della ragione [per speculum, indirettamente] per cui attiviamo la memoria, la riflessione e la volontà, mentre il secondo [che sarebbe il quarto itinerario] avviene per mezzo dell’intelletto [in speculo, direttamente] per cui attiviamo la fede, la speranza e la carità.

   La terza tappa ci fa contemplare Dio “sopra di noi”, in tutta la persona [per similitudines] con due itinerari: il primo [che sarebbe il quinto itinerario] avviene per mezzo dell’intelligenza [per speculum, indirettamente] per cui contempliamo l’essenza di Dio, mentre il secondo [che sarebbe il sesto itinerario] avviene per mezzo dell’apice della mente [in speculo, direttamente] per cui contempliamo il Bene, e nasce la convinzione che “fare il bene” è un Bene, e questa constatazione procura alla mente [nell’anima] uno stato di Estasi, fa cogliere l’unione mistica con Dio che genera una condizione di ben-essere [la gioia, l’allegrezza francescana].

   Il cammino della mente e dell’anima a Dio in tre tappe e sei itinerari costituisce, così come lo ha descritto Bonaventura, costituisce un processo educativo: è un programma scolastico da insegnare, e da apprendere.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Se fate un’escursione al Santuario della Verna, in Casentino, potrete constatare come i simboli presenti in questo luogo si rifacciano al tema del “viaggio [dell’ascesa] dell’anima e della mente” come li ha descritti Bonaventura da Bagnoregio nella sua opera

 

   L’opera di Bonaventura ha avuto un grande successo soprattutto a Parigi ma più che incentivare il misticismo, come lui avrebbe voluto, fa crescere, proprio in campo francescano, un grande interesse per lo studio della Natura in senso scientifico: a cominciare dal tema della “luce”. Che cosa significa? Ce ne occuperemo la prossima settimana, ma ora, per concludere, è un altro tipo di luce che ci attrae.

   La crociata contro i Catari si conclude a Montségur che è un castello posto in cima ad una montagna dei Pirenei orientali a milleduecento metri [Andateci, tornateci]. Qui gli ultimi Catari si sono rifugiati alla fine di un’estenuante e impari lotta: l’assedio dei crociati dura circa un anno, poi, il 16 marzo 1244, i Catari sono costretti a trattare la resa. Per aver salva la vita, per evitare la condanna al rogo, ognuno avrebbe dovuto ripudiare la propria fede e giurare fedeltà al papa ma tutti insieme [sono circa duecento] prendono una decisione: accendono un grande fuoco e si lasciarono bruciare [recitando il testo del Vangelo secondo Giovanni] piuttosto che rinnegare il loro credo, e la luce di quel fuoco brilla ancora oggi. Quando si arriva in cima a Montségur, dopo una scarpinata mozzafiato, si prova una certa emozione se si è consapevoli del fatto che con questo avvenimento comincia a finire il Medioevo.

   Se ci sediamo, al tramonto, su uno dei bastioni del castello di Montségur può capitare che ci sembri di veder volare una colomba bianca: è [dice la leggenda] l’anima di Esclarmonde de Foix, e i troubadours questa leggenda l’hanno cantata in numerose ballate e di una di queste leggiamo ora una strofa significativa.

 

LEGERE MULTUM….

Ballata tradizionale occitana, La leggenda di Esclarmonde

Vedi lassù la bianca colomba che vola?

È l’anima di Esclarmonde che ci consola.

Il fuoco ha dissolto nel vento i nostri corpi

perché solamente se il grano muore

potrà dar molti frutti, e fiorirà la giustizia e l’amore

 

   E nessuno sparviero [nessun imperialismo predatorio] potrà mai interrompere questo volo finché ci sarà una persona che, fugando le tenebre dell’ignoranza, praticherà lo studio e non perderà mai la volontà d’imparare.

   Questo viaggio, che è ormai in dirittura d’arrivo [ma abbiamo ancora da scarpinare per tre itinerari], prosegue irradiato dalla luce dei vostri intelletti: di cittadine e di cittadini che sapete animare con determinazione la Scuola pubblica degli Adulti. E la Scuola è qui, per riprendere il cammino da Montségur qui brule toujours [Montségur che brucia sempre].

   È possibile che la luce di questo rogo abbia illuminato il sentiero della Filosofia scolastica? La prossima settimana vedremo.

   Quindi non perdete il terzultimo itinerario di questo viaggio: è iniziata la tarda estate del Medioevo [mentre l’estate del nostro percorso è appena cominciata].

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 15, 2015