ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
La sapienza poetica e filosofica nel secolo dei Lumi
22-23-24 febbraio e 3 marzo 2023
SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI
SI COMPONGONO VERSI AMOROSI DA METTERE IN MUSICA,
SI INCITA A PRATICARE LA PERVERSIONE
E SI VA ALLA RICERCA DI FORMULE ALCHEMICHE DI CUI AVVALERSI …
Questo è il nono itinerario del nostro viaggio sul territorio del secolo dei Lumi e siamo ancora ospiti nel palazzo del barone Paul-Henry d’Holbach in Place de Vosges a Parigi dove abbiamo partecipato a una cena: una cena sobria, per quanto riguarda le vivande servite, ma ricca sotto il profilo intellettuale perché abbiamo potuto incontrare dei personaggi, convocati dal barone d’Holbach che, come sappiamo, è stato un intelligente promotore colturale [scritto con la o perché non c’è cultura senza coltura]: ascoltando questi personaggi abbiamo potuto riflettere su alcuni di quei temi - come, per esempio il confronto tra “deismo” e “ateismo” e lo sviluppo delle nuove tendenze dell’esegesi biblica che diventa una vera e propria disciplina - che caratterizzano tuttora il dibattito intellettuale contemporaneo.
L’itinerario della scorsa settimana, come ricorderete, è stato condizionato dall’arrivo a tarda sera, quando oramai la cena si era conclusa, di un ospite d’eccezione [come abbiamo potuto constatare] proveniente da Napoli: Raimondo di Sangro principe di Sansevero che ha monopolizzato la nostra attenzione facendoci scoprire gli strabilianti risultati della sua inventiva e mettendoci al corrente dell’importanza che ha avuto, durante il regno di Carlo III di Borbone, la città di Napoli che si è rivelata dal 1734 al 1759, per un quarto di secolo, come la più importante capitale europea del Settecento. Al termine dello scorso itinerario ci siamo domandate e domandati perché il barone d’Holbach abbia invitato Raimondo di Sangro: ebbene, c’è un motivo di carattere bibliografico che conosceremo soltanto alla fine di questo itinerario perché prima [come abbiamo anticipato quindici giorni fa] dobbiamo fare più di un preambolo.
Sappiamo che Raimondo di Sangro - il quale è arrivato tardi per poter partecipare alla cena organizzata dal barone d’Holbach - dopo essersi rifocillato nelle cucine del palazzo, accompagnato dal padrone di casa, fa il suo ingresso nello spazioso salone dove tutti i commensali lo salutano e si complimentano perché è arrivato con sole tre ore di ritardo in quanto, nel 1765, il viaggio Napoli-Parigi dura all’incirca dieci giorni: si parte da Napoli in nave toccando i porti di Ostia, di Livorno, di Genova e di Marsiglia da dove, in carrozza, si raggiunge Avignone e da Avignone, sempre in carrozza, si arriva a Lione, poi a Digione, poi a Auxerre e, finalmente, a Parigi.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Consultando una carta dell’Europa su un atlante geografico o su uno stradario europeo – due volumi che, di certo, trovano posto anche nella vostra biblioteca domestica - ripercorrete l’itinerario Napoli-Parigi [così come lo ha percorso Raimondo di Sangro] e, volendo, con una guida della Francia e navigando in rete fate una rapida visita ai centri storici di Avignone, di Lione, di Digione e di Auxerre, buon viaggio …
Subito dopo l’ingresso di Raimondo di Sangro in sala [come abbiamo anticipato quindici giorni fa] si diffondono le note di una canzone cantata da un controtenore, un sopranista accompagnato da un complesso da camera: questa canzone è stata musicata dal maestro di Scuola napoletana Niccolò Jommelli [1714-1774] mentre i versi del testo di quest’aria, intitolata La partenza che - come ricorderete - abbiamo letto quindici giorni fa, sono stati scritti a Vienna dove vive il loro compositore italiano: il poeta, drammaturgo e librettista Pietro Metastasio. Il barone d’Holbach ha preparato questo omaggio per onorare l’arrivo del nuovo ospite napoletano perché a Parigi, e in tutte le capitali europee, si sa che a Napoli, nel 1737, Carlo III di Borbone, su consiglio di Raimondo di Sangro, [utilizzando la competenza degli architetti Giovanni Antonio Medrano e Angelo Carasale, inventori del cosiddetto modello del teatro all’italiana poi riprodotto ovunque] ha fatto costruire il primo teatro lirico del mondo, il Regio Teatro San Carlo presso il quale è fiorita la Scuola musicale napoletana che si è affermata a livello internazionale con una serie di bravi compositori: Leonardo Leo, Niccolò Porpora, Leonardo Vinci, Johann Adolf Hasse, Gaetano Latilla, Niccolò Jommelli, Baldassarre Galuppi, Niccolò Piccinni, Gaspare Sacchini, Carlo Broschi, Tommaso Traetta, Giacomo Tritto, Giovanni Paisiello, Domenico Sarro. Questo Teatro è stato inaugurato il 4 novembre 1737, festa di San Carlo, proprio con un’opera di Pietro Metastasio musicata dal maestro Domenico Sarro [1679-1744, che è stato il primo compositore a musicare un’opera di Metastasio, l’Endimione, nel 1721, lanciando il poeta sulla via del successo], mentre l’opera con cui è stato inaugurato il Teatro San Carlo s’intitola Achille in Sciro, e non possiamo non aprire una seppur brevissima parentesi, per sottolineare come, nel corso del secolo dei Lumi, la convergenza tra i racconti mitologici derivati dalla Letteratura classica greca e latina tradotti nelle forme della nuova poesia moderna arcadica e messi in musica abbiano fatto fiorire quello straordinario genere d’arte che chiamiamo “melodramma”.
Il mito di Achille in Sciro non è incluso nel racconto dell’Iliade ma viene raccontato in molte versioni scritte, in particolare nell’Achilleide di Publio Papinio Stazio poeta romano attivo nel I secolo e nato a Napoli. Il mito di Achille in Sciro è molto noto e racconta che la madre dell’Eroe, la ninfa Tetide, non vuole che suo figlio vada a rischiare di morire nella guerra di Troia [perché un Eroe non è del tutto immortale, ha qualche punto debole e il dio Apollo questo punto debole lo conosce e, a suo tempo, compirà la sua vendetta], e allora la ninfa Tetide cerca di nascondere il figlio mandandolo a vivere alla corte di Licomede, il re di Sciro e, per sicurezza, lo fa travestire da ragazza alla quale dà il nome di Pirra la rossa, per via del colore dei capelli. Sull’isola di Sciro Pirra diventa la dama di compagnia di una delle figlie di Licomede, Deidamia, la quale si innamora di lei e si ritrova incinta perché lei è un lui [nascerà Neottolemo, il figlio dell’ambiguità]. Nel frattempo, siccome gli Achei sanno, secondo una profezia, che senza Achille non vinceranno la guerra, lo mandano a cercare da Odisseo il quale, con un astuto stratagemma smaschera il guerriero travestito. Molti poeti moderni, tra i quali spicca Metastasio, hanno tratto dal mito di Achille in Sciro - proprio perché è ricco di situazioni enigmatiche, equivoche, ambigue - un Libretto d’opera che, a sua volta, è stato messo in musica e sono molti i compositori che si sono cimentati in proposito.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Incuriositevi e non rinunciate a mettervi in ricerca perché, oggi, con i mezzi che abbiamo a disposizione, non è difficile dedicarsi all’ascolto di qualche brano dell’opera Achille in Sciro in modo da dare una colonna sonora al viaggio sul territorio del secolo dei Lumi…
Dopo questo primo preambolo ci domandiamo: chi è Pietro Metastasio, colui che è considerato uno dei più geniali poeti del ‘700 per la musicalità che sa imprimere ai suoi versi e, quindi, è molto apprezzato dai compositori di ogni tempo?
Pietro Metastasio è nato a Roma il 3 gennaio 1698, il suo vero nome è Pietro Trapassi e la sua infanzia è stata problematica nel bene e nel male, nel male perché all’età di quattro anni rimane orfano di madre [sua madre, Francesca Galastri, decantata come una bellissima ragazza, muore improvvisamente nel 1702] per cui il padre, Felice Trapassi, si risposa con Angela Lucarelli, ha altre due figlie e non si cura troppo di lui [sospetta che non sia suo figlio?]; mentre il fratello maggiore Leopoldo viene avviato agli studi, Pietro, mette a frutto un talento naturale che probabilmente ha coltivato nel quartiere popolare, in via dei Cappellari, in cui è nato e cresciuto e, quindi, a dieci anni inizia a esibirsi come eccezionale versificatore spontaneo, compone filastrocche in versi e le recita, in piedi su un carretto, sulle piazze romane dalle parti di Campo de’ Fiori.
Nel bene per lui succede che, nel 1709, si ferma ad ascoltarlo mentre passa da lì Gian Vincenzo Gravina, il noto letterato, giurista e fondatore dell’Accademia dell’Arcadia che viene attratto dal talento poetico di questo ragazzo e lo adotta [e il padre Felice è ben lieto]. Gravina avvia Pietro allo studio, e gli cambia anche il cognome: secondo la moda dell’Arcadia per cui si ama giocare con le parole della tradizione ellenistica, traduce in greco il termine “trapasso” che suona “metìstemi” e così Pietro assume il cognome più fine, più colto, più intellettuale di Metastasio. Gravina, oltre a farlo studiare nel collegio dei padri Filippini, lo istruisce lui personalmente impartendogli Lezioni di giurisprudenza, di latino e di greco per avviarlo alla professione di avvocato, ma lo porta con sé durante le serate nei salotti romani che frequenta perché Pietro si esibisca nell’improvvisazione delle rime che compone e possa riscuotere il successo che merita. Pietro è un ragazzo cagionevole di salute e quando Gravina si reca in Calabria per affari decide di portare anche lui, e nel corso del viaggio fanno tappa a Napoli dove Gravina presenta Pietro nei circoli letterari partenopei, e poi, giunti a Scalea, lo affida a una persona che abita in questa bella cittadina in provincia di Cosenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Non possiamo lasciarci sfuggire l’occasione di fermarci a Scalea, disposta su un vasto promontorio che delimita a sud il golfo di Policastro sul mar Tirreno, incuriositevi e - con una guida della Calabria e navigando in rete - visitatela …
A Scalea Gravina affida Pietro alle cure di suo cugino, il medico, matematico e filosofo cartesiano Gregorio Caloprese [1654-1714], fondatore di una Scuola che divulga il pensiero razionalista e coltiva le idee illuministe. E, quindi, oltre ad arricchire le sue conoscenze la permanenza a Scalea, per via della benefica aria di mare, giova alla salute di Pietro che nel 1714, alla morte di Gregorio Caloprese, torna a Roma rivitalizzato e decide, su consiglio del cardinale Pietro Ottoboni, di prendere gli ordini minori. Nel mentre cominciano a circolare, pubblicati, i suoi primi lavori poetici, in particolare una tragedia, scritta alla maniera di Seneca, intitolata Giustino e che dedica a Gravina, il suo padre virtuale, che nel 1718 muore lasciandogli in eredità una buona rendita [si parla di 18mila scudi]. Pietro, a vent’anni, non rimane orfano perché trova una seconda persona che diciamo così lo adotta: si tratta della celebre e fascinosa cantante Marianna Bulgarelli [1684-1734, detta La Romanina] che, nel 1719, si esibisce a Napoli, con grande successo, nella cantata Gli orti esperidi musicata da Nicola Porpora su Libretto di un autore anonimo. Lei rimane talmente affascinata da questo testo - per la sua cantabilità - che vuole scoprire chi sia il poeta che ha composto quest’opera e non ha pace finché non lo trova, e una volta scoperto lo accoglie a casa sua perché s’innamora di lui, e lui ricambia l’affetto di questa persona che lo introduce nel mondo del teatro e, convincendolo ad abbandonare la giurisprudenza, lo sprona a scrivere - mettendo a frutto il suo talento - Libretti d’opera: e lui trova la sua strada e quando compone i due famosi melodrammi: Didone abbandonata e Catone in Utica ottiene un successo straordinario su scala europea!
I versi di Metastasio hanno il pregio di possedere una straordinaria musicalità, le sue parole [ne utilizza circa quattromila] danno forma a delle vere e proprie strutture pronte per diventare sonore, e difatti i suoi versi hanno attirato un gran numero di compositori come Händel, Vivaldi, Gluck, Haydn, Mozart, Pergolesi, Salieri, Mercadante, Leo, Vinci, Sarro, Caldara, Jommelli, Traetta, Anfossi, Sacchini, Spontini, Rossini, Glinka, Schubert, Beethoven, fino a Malipiero, tutti autori affascinati dalla disponibilità alla musica del verso metastasiano, affascinati dall’armonia creata dall’equilibrio tra le vocali e le consonanti, dall’abilità nel gioco delle assonanze e delle rime interne, e tutti gratificati dalla cantabilità delle sue parole. Dopo essere stato ingaggiato nei teatri di Napoli e di Venezia, nel 1730, Metastasio viene invitato alla corte asburgica di Vienna e in questa città prende la residenza. Nel 1734 muore Marianna Bulgarelli e questa perdita immalinconisce l’animo del poeta che eredita il patrimonio della celebre cantante e lo destina [lui non ha bisogno] a sostenere opere di beneficenza per le artiste e gli artisti poveri.
A Vienna Metastasio, con il suo stile, rinnova il teatro musicale e questo fatto provoca una ricaduta positiva sul genere del melodramma che diventa una forma d’arte sempre più importante. L’imperatore Carlo VI nomina Metastasio “poeta cesareo” e l’imperatrice Maria Teresa lo tiene in grande considerazione anche come suo maestro di canto. Metastasio muore a Vienna il 12 aprile 1782 e fino alla morte non si è mai dimenticato di essere nato e cresciuto in un quartiere popolare e sa che cosa significa, fin da bambine e bambini, lottare per sbarcare il lunario, lui riconosce di essere stato molto fortunato e, di conseguenza, ha cercato sempre [pur facendo vita di corte] di influenzare i potenti sovrani europei con cui ha a che fare perché siano magnanimi, siano clementi nei confronti dei loro sudditi, e perché si comportino, sul piano sociale, in modo illuminato, lui cerca di influenzarli attraverso i testi dei suoi melodrammi: i testi di Metastasio hanno un significato politico perché in essi pone questioni come l’abolizione della servitù della gleba e come quella dei matrimoni misti tra gruppi etnici diversi presenti sul territorio europeo, e in special modo su quello dell’Impero asburgico. I testi dei suoi drammi - come, per esempio, Semiramide, Ipermetra, Demofoonte, Olimpiade, Didone abbandonata, Catone in Utica, La clemenza di Tito - sono tutti permeati di un umanesimo fondato sui valori della fratellanza universale e della giustizia sociale. Metastasio si schiera a favore degli illuministi napoletani - come i politici Bernardo Tanucci e Domenico Caracciolo [sui quali, navigando in rete, potete attingere notizie] - e ne divulga le opere. L’Epistolario di Metastasio conta quattromila Lettere e ci dimostra l’ampiezza dei rapporti che ha avuto entrando in comunicazione con i più significativi personaggi del suo tempo dagli scrittori Carlo Goldoni e Francesco Algarotti, ai filosofi Voltaire e Diderot, da Eleonora Pimental de Fonseca al geniale cantante sopranista [castrato] Carlo Broschi detto Farinelli, e quando passa da Napoli Metastasio è sempre ospite a palazzo di Sangro dal principe di Sansevero.
Un’ultima curiosità: su Metastasio è circolata una diceria rafforzata da Montesquieu il quale ha messo per iscritto questa chiacchiera. Montesquieu scrive di aver raccolto a Roma - quando è stato ospite di Polignac, l’ambasciatore di Luigi XV presso la Santa Sede - una voce secondo cui il bambino Pietro Trapassi sarebbe stato adottato da Gravina su indicazione del cardinale Pietro Ottoboni, grande mecenate e membro dell’Arcadia, che, in varie occasioni, ha fatto da padrino al giovane Pietro. «Mi ha riferito Polignac [scrive Montesquieu con il suo solito cipiglio ironico e divertito] che il padre di Metastasio sarebbe il cardinale Pietro Ottoboni, perché a Roma succede che le donne del popolo, quelle più avvenenti, si offrono ai grandi prelati per promuovere socialmente la loro discendenza». Sembra che il cardinale Ottoboni contasse circa settanta figlie e figli illegittimi e si sa che quella dei cardinali, in determinate epoche, è sempre stata una categoria molto prolifica, ma forse quella che riporta Montesquieu a proposito della paternità di Metastasio è solo una diceria che il filosofo francese alimenta perché è sempre soddisfatto quando può ironizzare malignamente sui comportamenti delle gerarchie ecclesiastiche.
Nell’Ottocento, di Metastasio quasi ci si dimentica e gioca a sfavore di questa dimenticanza l’avversione manifestata nei suoi confronti da Vittorio Alfieri, il quale, in una visita a Vienna, lo incontra e lo vede, già anziano, mentre secondo le regole di corte s’inginocchia davanti all’imperatore: in proposito, Alfieri, che detesta violentemente simili comportamenti, lo denigra nei suoi scritti [lo apostrofa come servo dei sovrani] e, forse, Alfieri è stato troppo severo anche perché qualcuno ha detto che Vittorio, al mattino, mentre si faceva la barba canticchiava le arie contenenti i versi di Pietro Metastasio in quanto Vittorio Alfieri, da uomo intelligente qual era, non poteva non ammettere che Metastasio è stato un rinnovatore della civiltà musicale e teatrale europea. C’è da dire, infine [e anche Alfieri deve ammetterlo], che il successo dei melodrammi di Metastasio veicola in tutta Europa la lingua italiana: in Europa si parla in francese ma quando si canta si canta in italiano, così come sta succedendo adesso nel salotto del barone d’Holbach!
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
I versi di Metastasio sono facilmente reperibili oltre che in rete anche su un’Antologia della Letteratura italiana del Settecento che sarà presente pure nella vostra biblioteca domestica… Sulla rete trovate tutti i testi dei Libretti delle Opere di Metastasio e anche la messa in scena teatrale dei melodrammi più celebri, incuriositevi: leggete e ascoltate …
Nel salotto del barone d’Holbach si canta [come abbiamo detto] in onore di Raimondo di Sangro, e al termine della prima canzone ne viene intonata una seconda sempre musicata da Niccolò Jommelli su testo di Pietro Metastasio. Nel testo della prima canzone intitolata La partenza [che abbiamo letto quindici giorni fa] l’autore, come ricorderete, si rivolge alla sua amata, che si chiama Nice [diminutivo di Berenice con un riferimento esplicito all’Araba fenicie], la quale ha deciso di dirgli addio e di partire, e lui cerca di farle cambiare idea usando un linguaggio enfatico permeato di ironia.
La seconda canzone, che il controtenore comincia a cantare accompagnato dal complesso da camera, s’intitola La gelosia il cui testo [che ora proverò a leggere] completa il significato del testo della prima canzone perché spiega che Nice ha deciso di lasciare il poeta in quanto lui, secondo lei, le ha fatto una ingiustificata scena di gelosia accusandola, con accenti durissimi, di non essere affidabile, ma ora, vista la reazione di Nice, lui si giustifica e le chiede perdono lusingandola riconoscendo di aver esagerato, ma, comunque, sa benissimo che in amore non ci si può mai fidare fino in fondo e anche lui ammette di non essere totalmente affidabile perché dubita anche della propria fedeltà. C’è molta ironia nell’enfatico linguaggio esageratamente appassionato, ma realistico, di Metastasio perché in amore l’ambiguità è sempre in agguato, e gli ultimi versi della canzone confermano questo suo giudizio …
Pietro Metastasio, La gelosia
Perdono, amata Nice, bella Nice, perdono.
A torto, è vero, dissi che infida sei: detesto i miei sospetti, i dubbi miei.
Mai più della tua fede, mai più non temerò.
Per quei bei labbri lo giuro, o mio tesoro, in cui del mio destin le leggi adoro.
Bei labbri che Amore formò per suo nido, non ho più timore.
Vi credo, mi fido: giuraste d’amarmi; mi basta così.
Se torno a lagnarmi che Nice m’offenda per me più non splenda la luce del dì.
Son reo, non mi difendo: puniscimi, se vuoi.
Pur qualche scusa merita il mio timor. Tirsi t’adora; io lo so, tu lo sai.
Con lui in disparte ragionando ti trovo: al venir mio tu vermiglia diventi,
lui pallido si fa; confusi entrambi mendicate gli accenti;
egli furtivo ti guarda, e tu sorridi … Ah quel sorriso, quel rossore improvviso
so che vuol dir! La prima volta appunto ch’io d’amor ti parlai, così arrossisti,
sorridesti così, Nice crudele. Ed io mi lagno a torto? E tu non mi tradisci?
Infida! Ingrata! Barbara! … Aimè! Giurai fidarmi, ed ecco torno a dubitar di te.
Pietà, mio ben, son folle: in van giurai; che amor mi rende insano
che il primo non son io che giuri in vano.
Giura il nocchier che al mare non presterà più fede,
ma se tranquillo il vede corre di nuovo al mar.
Di non trattar più l’armi giura il guerrier tal volta,
ma se una tromba ascolta già non si sa frenar.
È la fede degli amanti come l’araba fenice
che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa! …
Prima di sapere quale sia il motivo bibliografico per cui il barone d’Holbach ha invitato Raimondo di Sangro a Parigi c’è un altro preambolo da fare.
Raimondo di Sangro è venuto a cena dal barone d’Holbach facendo un lungo viaggio per incontrare un commensale che lo sta aspettando; difatti Raimondo ha un appuntamento con l’ospite più giovane presente tra gli invitati: costui è uno studente iscritto alla facoltà di Filosofia della Sorbona, ha 25 anni ed è anche un marchese e si chiama Donatien-Alphonse François de Sade [1740-1814]. Che cosa ci fa il marchese de Sade a cena dal barone d’Holbach? Intanto ascolta chi ne sa più di lui e impara molto, e non ha ancora una cattiva fama, e sulla cattiva fama del marchese de Sade dovremo riflettere tra poco. Per il momento lo studente della Sorbona François de Sade ha portato a termine - su incarico del barone d’Holbach - una missione di carattere bibliografico per conto di Raimondo di Sangro che aveva chiesto di poter leggere due Libri reperibili soltanto nella zona proibita della biblioteca della Sorbona dove sono raccolti i testi eretici messi all’Indice, e c’è da dire che non tutti possono entrare in questa zona riservata senza il permesso del bibliotecario [e non può entrare certo Raimondo di Sangro che come autore è stato messo all’Indice]; ma il giovane de Sade è già abbastanza spregiudicato per riuscire a dimostrare di dover compiere una ricerca, in funzione della sua tesi di laurea, su alcuni volumi riservati e, una volta che questi testi gli sono stati affidati, lui li scheda con grande perizia secondo le direttive che ha ricevuto dal barone d’Hobach in modo da soddisfare la richiesta fatta da Raimondo di Sangro, e di che Libri si tratta?
Prima di rispondere a questa domanda dobbiamo procedere con ordine [e, difatti, come vi ho detto c’è un ulteriore preambolo da fare] affermando che tutte e tutti noi conosciamo, almeno di nome, il marchese de Sade che questa sera, a cena dal barone d’Holbach è solo un giovane sconosciuto a quasi tutti i commensali, e passeranno vent’anni prima che scriva le sue opere per le quali è diventato molto famoso.
Il conte e marchese Donatien-Alphonse François de Sade si fregia dei titoli di signore di Saumane, di Lacoste e di Mazan [e queste tre piccole ma suggestive località del dipartimento di Vaucluse - la Valchiusa di petrarchesca memoria - situate nella regione dell’Alta Provenza meritano di essere visitate con una guida della Francia e navigando in rete] e, quindi, è nato a Parigi, il 2 giugno 1740, in una famiglia di antica nobiltà perfettamente inserita nei ranghi dell’Antico-regime ma lui non ha seguito le tradizionali regole imposte a un rampollo di nobile casato, ha trasgredito e si è distinto per aver vissuto una vita avventurosa e spesso scandalosa che gli è valsa anni di prigione con relative rocambolesche evasioni dalle galere francesi. Il marchese de Sade ha preso parte attiva alla Rivoluzione [ed è stato, quindi, odiato dai nobili e malvisto dai rivoluzionari in quanto nobile anche se rinuncia ai suoi titoli] e, nel corso delle numerose cause giudiziarie intentate contro di lui, gli è stata anche comminata per libertinaggio una condanna a morte commutata poi, durante il governo bonapartista, in carcere a vita [e Napoleone nonostante detestasse le opere del Diabolico marchese, con il ruolo di Primo Console, ne ha firmato la grazia] per cui de Sade ha concluso i suoi giorni - è morto il 2 dicembre 1814 - nel manicomio di Charenton-Saint-Maurice dove era recluso dal 1801.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il grande edificio dell’ospizio di Charenton si trova a Saint-Maurice un comune situato nel dipartimento della Valle della Marna nella regione dell’Île-de-France [questa località, che oggi conta circa 15mila abitanti, fino al 1842 si chiamava Charenton-Saint-Maurice] e l’ospizio di Charenton è stato un rinomato ricovero per malati mentali fondato nel 1645 dai Fratelli della Carità e - con una guida della Francia e navigando in rete - potete visitare quello che oggi è un monumento che ha ospitato, oltre a molti poveri malati di mente, anche una serie di celebri personalità oltre al marchese de Sade che non era propriamente un pazzo…
L’opera narrativa, teatrale e saggistica di de Sade, condannata nel secolo dei Lumi, è stata apprezzata nel XX secolo, ed è stato l’avvento della psicanalisi a far sì che la sua scrittura balzasse al centro dell’attenzione. De Sade fa comunque parte a pieno titolo della cultura del secolo dei Lumi anche se non è facile definirlo: i giudizi dati su di lui sono, infatti, molto contrastanti!
De Sade scrive le sue opere per creare scandalo [ò scandalon, in greco, significa “pietra d’inciampo”] ma, paradossalmente e inevitabilmente, riesce anche a stimolare una riflessione sulla condizione umana e lo fa, principalmente, descrivendo un tipo di comportamento sessuale di carattere trasgressivo e perverso - e questo fenomeno ha preso il nome di “sadismo” - che però più che un modo ribelle di porsi nei confronti del sistema finisce per dare addito a un atteggiamento profondamente reazionario: è, infatti, nell’ambito dell’aristocrazia più retriva che nasce e si sviluppa una mentalità che esalta il vizio e il crimine, che invita a rinunciare deliberatamente alla virtù, alla pietà, alla misericordia per ripudiare razionalmente il Bene ed esaltare il Male, e per capovolgere il Dolore in Piacere, esaltando il mito della Bella-Morte e sminuendo il valore della Vita. E naturalmente ci domandiamo [e, in proposito, dobbiamo riflettere] quale fondamento umano possano avere queste idee [il concetto di sadismo] che ogni persona di buon senso sente di dover respingere, ma contemporaneamente la persona è anche consapevole che esiste nella mente degli esseri umani una forte attrazione verso comportamenti malvagi, spietati, crudeli: il marchese de Sade, che ha frequentato con profitto la facoltà di Filosofia alla Sorbona, dichiara di avere attinto il suo modo di pensare studiando il pensiero contenuto nelle opere di Sant’Agostino. Soprattutto nel testo delle Confessioni come ricorderete Sant’Agostino [354-430, vescovo di Ippona] sostiene la teoria - ripresa dal calvinismo nel ‘500 e dal giansenismo nel ‘600 - della totale depravazione della natura umana, con la conseguenza che solo Dio, con il dono della sua Grazia, può salvare la persona dalla corruzione dovuta al peccato originale. De Sade riflette su questo concetto, e sul tema della depravazione della natura umana è perfettamente d’accordo con Sant’Agostino però, facendo professione di ateismo, esclude Dio e ricusa la Storia della salvezza [che per lui è solo un racconto epico e leggendario] facendo risaltare la centralità della Natura libera da qualsiasi dipendenza di carattere divino [secondo la visione del barone d’Holbach che pone la Natura al posto di Dio] per cui, quando la natura umana è libera di agire segue la via della depravazione e, quindi, sostiene de Sade, sarebbe assolutamente innaturale per la persona non seguire questo orientamento: l’indirizzo naturale per la persona, sostiene de Sade, è quello di ubbidire a questa legge perché ciò che le morali definiscono come depravazione non è altro che l’ordine naturale delle cose. «Se la natura umana è perversa [scrive de Sade, e questa citazione è una di quelle che ne hanno determinato la sua condanna a morte] dobbiamo accettare con coerenza e con logica i dettami della nostra depravazione e, in prima istanza, dobbiamo uccidere Dio in modo da emanare un nuovo Codice che sanzioni la libertà di calunnia, di furto, di prostituzione, di adulterio, di incesto, di stupro, di sodomia e di omicidio». De Sade vuole convincere la persona a coltivare un ateismo senza virtù in modo che possa liberarsi da ogni remora e da ogni rimorso per realizzare la soddisfazione delle proprie pulsioni che si manifestano chiaramente nonostante i divieti imposti da quella che, secondo lui, è una falsa e innaturale morale. Il fatto è che nei testi dei Libri che de Sade ha scritto - sebbene lui si sforzi di essere coerente con l’invito che rivolge alle sue lettrici e ai suoi lettori a praticare la perversione - troviamo, soprattutto, anche una forte critica sociale che si manifesta in un interessamento di carattere umanitario [sebbene lui non lo voglia ammettere] verso le miserie delle classi subalterne: per questo de Sade si dichiara repubblicano e, durante la Rivoluzione, sta dalla parte dei sanculotti, con i gruppi più vicini al proletariato [più estremisti e più violenti]. Ma nei testi delle sue opere emergono chiaramente una serie di contraddizioni che sono molto significative: combatte contro la pena di morte e poi celebra l’assassinio legalizzato, nega l’esistenza di legami naturali tra genitori e figli e poi esalta l’incesto perché “estende e rafforza i vincoli famigliari”, si batte sostenendo che “tutti gli uomini sono uguali” e poi esalta i diritti naturali del più forte, lotta per l’emancipazione della donna ma nei suoi testi troviamo le donne asservite ai capricci degli uomini, esalta la Rivoluzione ma soprattutto per svelarne le atrocità commesse in nome della virtù! Anche queste contraddizioni rientrano in quella situazione che abbiamo chiamato, all’inizio di questo viaggio, “lo strabismo dei Lumi”.
Appare evidente che i pensieri di de Sade sono il contrario [l’altra faccia della medaglia] dei Pensieri di Pascal ma costituiscono comunque un motivo di riflessione sulla condizione umana che si esplicita nel bene e nel male [i pensieri di de Sade rappresentano le tenebre nel secolo della luce].
A questo proposito, dobbiamo prendere in considerazione la testimonianza di padre Alexandre Delmonte, ex abate delle abbazie benedettine di Malmedy e di Stavelo, che essendo vicine sono state gestite unitariamente, e apriamo una breve parentesi paesaggistica in proposito. Malmedy è una cittadina belga di circa 13mila abitanti, situata nella regione vallona di Liegi sorta attorno alla omonima abbazia fondata nel 650 da San Remaclo, che era l’abate dell’abbazia di Solignac, centro dell’Aquitania francese, e che operava per estendere l’umanesimo evangelico della Regola benedettina, secondo le disposizioni di San Colombano, sul territorio europeo in contrapposizione ai dettami fortemente repressivi di quello che diventerà il sistema feudale. San Remaclo, due anni prima, nel 648, aveva fondato, poco distante da Malmedy, l’abbazia di Stavelot, intorno alla quale è sorto l’omonimo comune [oggi con più di 6500 abitanti] che si trova sempre in Belgio, nella provincia di Liegi, sul fiume Amel a ridosso della catena delle Ardenne.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida del Belgio e navigando in rete andate a visitare i comuni e Malmedy e di Stavelot con le loro relative abbazie che nel 1796 hanno perso la propria funzione giuridica e religiosa ma restano due notevoli monumenti da non ignorare: andate a scoprirli [ci sono in rete immagini significative]…
Ebbene, padre Alexandre Delmonte [1729-1816] dopo essere stato, ancor giovane [dal 1753 al 1766], abate delle abbazie benedettine di Malmedy e di Stavelot si è dimesso [lì la vita era troppo comoda] ed è andato a fare servizio nell’ospizio di Charenton dove come sappiamo è stato detenuto negli ultimi quindici anni della sua vita il marchese de Sade e, avendo vissuto a contatto con lui, ha lasciato, in una Lettera, una testimonianza molto interessante in occasione della morte del marchese: quindi, leggiamo che cosa scrive padre Delmonte [il quale, con un linguaggio molto colloquiale, ci mette al corrente di come si possano coltivare tanto la carità cristiana quanto le idee dell’illuminismo]: «A chi mi diceva che questo pazzo criminale lo si sarebbe dovuto bruciare sul rogo ho sempre risposto: “Invece di pensare a far fuoco, leggi i testi delle sue opere come ho fatto io e, dopo averli letti, ti accorgerai che, non è facile dire, chi sia più degno di essere bruciato, se l’opera o l’autore!”. Infatti è sempre preferibile, invece che accendere roghi, imparare a dubitare, e questo vale per me che dico queste cose, e vale per chi vorrebbe togliersi la soddisfazione di sentire l’odore d’arrosto e vale per il Marchese che, volendo coerentemente esaltare la perversione, ha finito per creare un tale disgusto per il male che, in definitiva, anche se non ha mai voluto ammetterlo, ha svolto un’opera a fin di bene».
Le opere più note di de Sade s’intitolano: Le 120 giornate di Sodoma [1782], Justine o i guai della virtù [1791] e La filosofia nel boudoir [1795]. De Sade, quando scrive, utilizza il classico genere letterario del dialogo e, oggi, l’elemento più graffiante che emerge dalle sue opere è la critica alla società che lo circonda [e vale anche per la nostra società? Togliamo pure il punto interrogativo], una società dedita all’allestimento di una ipocrita facciata virtuosa che deve servire per mascherare vizi atavici [e oggi il sistema mediatico contribuisce a creare e a diffondere questa situazione]. La cosa più burlesca nelle opere di de Sade risulta essere il linguaggio sessuale: iperbolico, ridondante, smisurato, senza gradazioni e senza sfumature, ripetitivo in modo ossessivo ma, rispetto al ridotto linguaggio sboccato di oggi, risulta, per lo meno, semanticamente ricco. Anche leggere i testi di de Sade può essere utile [come ci suggerisce di fare l’abate Delmonte] per capire, dal punto di vista formale, come si possano esprimere pensieri perversi in modo aggraziato e seduttivo e, di conseguenza, leggete i testi di de Sade ma non lasciatevi indurre in tentazione e non fate quello che dice [c’è modo e modo di accostarsi alla sessualità]!
E ora, prima di tornare sulla retta via [se così si può dire], leggiamo l’incipit de La filosofia nel boudoir ma prima è necessario conoscere e capire quali caratteristiche ha quest’opera. Il testo de La filosofia nel boudoir, pubblicato nel 1795, potrebbe essere considerato semplicemente un esercizio di pornografia letteraria mentre in realtà si tratta di un dramma socio-politico. Il racconto, come c’informa il titolo, è per lo più ambientato in un boudoir - una stanza da letto privata riservata alle avventure galanti di una signora - e l’autore narra l’esperienza e “la filosofia di vita” dei due protagonisti, di Madame de Saint-Ange e del cinico Conte de Dolmancé i quali si occupano con cura scrupolosa dell’iniziazione alla sessualità della giovane Eugénie. Attraverso costoro l’autore propone la propria tesi secondo cui l’unico sistema morale che possa rafforzare la recente politica nata con la Rivoluzione francese è il libertinismo così come lui lo concepisce: se il popolo non riuscirà ad adottare appieno questa filosofia, sostiene de Sade, la Francia sarà destinata a tornare all’esperienza deleteria e fallimentare dello Stato monarchico. In quest’opera - suddivisa in Sette dialoghi - la parte più interessante è quella contenuta nel testo del Quinto dialogo, intitolato Francesi, ancora uno sforzo se volete essere Repubblicani, che si presenta come una sorta di esortazione rivoluzionaria in cui de Sade riprende i temi dei suoi Opuscoli politici [scritti dal 1790 al 1799]: nel testo di questo dialogo il personaggio del cavaliere de Mirval espone il pensiero di de Sade sulla religione e la morale augurandosi che le sue idee vengano codificate nelle Leggi del nuovo governo repubblicano. L’autore ribadisce che abbracciare l’ateismo più radicale è il massimo bene possibile perché solo in questa maniera si possono estirpare le credenze sociali circa il piacere e il dolore, e ribadisce inoltre la tesi [deprecabile] che qualsiasi crimine venga commesso mentre si sta cercando il massimo piacere non può mai essere, in alcun modo, condannato.
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Le opere del Marchese de Sade che abbiamo citato le trovate in biblioteca: leggetene qualche pagina…
E ora leggiamo l’incipit de La filosofia nel boudoir che è una esortazione rivolta AI LIBERTINI affinché agiscano in alternativa a una morale considerata repressiva.
Donatien-Alphonse François de Sade, La filosofia nel boudoir
AI LIBERTINI
Dissoluti di ogni età e sesso, dedico a voi soli questa mia opera: che i suoi principi vi nutrano, agevoleranno le vostre passioni! E queste passioni, dinanzi alle quali certi frigidi e insulsi moralisti vi fanno provar terrore, sono in realtà i soli mezzi che la natura mette a disposizione dell’uomo per conseguire quel che essa si attende da lui. Ubbidite soltanto a queste gustose passioni! Vi porteranno senza dubbio alla felicità.
Donne lubriche, la voluttuosa Saint-Ange sia per voi modello! Secondo il suo esempio, disprezzate tutto ciò che è contrario alle leggi divine del piacere alle quali è necessario assoggettarsi per tutta la vita. Fanciulle rimaste troppo a lungo legate a insensati e pericolosi vincoli d’una virtù fantasiosa e di una religione disgustosa, imitate la voluttuosa Eugénie! Annientate, calpestate, e con la sua stessa rapidità, tutti i ridicoli precetti che genitori imbecilli vi hanno inculcato! E per voi, amabili libertini, per voi che fin dalla giovinezza avete come soli freni i vostri stessi desideri e come uniche leggi i vostri stessi capricci, sia modello il cinico Dolmancé! Spingetevi agli estremi come lui se volete percorrere, come lui, tutti i sentieri in fiore che la lascivia aprirà al vostro passaggio! Convincetevi, alla sua scuola, che soltanto con l’ampliare la sfera dei piaceri e delle fantasie, solo con il sacrificare tutto alla voluttà, quel triste individuo conosciuto sotto il nome di uomo, scaraventato suo malgrado in questo infelice universo, potrà riuscire a spargere qualche rosa tra le spine della vita. …
Torniamo sulla retta via, e cioè al dopo-cena nel salone del palazzo del barone d’Holbach e ciò comporta retrocedere al 1765 e, difatti, la maggior parte degli eventi che abbiamo raccontato non sono ancora avvenuti ma [come ben sapete] il tempo dello studio della Storia del Pensiero umano ha la caratteristica di essere “diacronico” [permette di spostare cronologicamente sequenze di avvenimenti legandoli in un rapporto di causa-effetto], e allora perché Raimondo di Sangro deve incontrare François de Sade?
François de Sade, ancora studente di Filosofia della Sorbona, ha svolto un lavoro per Raimondo di Sangro: riesce - dimostrando di dover compiere una ricerca in funzione della sua tesi di laurea - a raccogliere il materiale che interessa al principe di Sansevero traendolo con perizia dai testi di due volumi, posti all’Indice, scritti da un pensatore italiano del secolo precedente, Giulio Cesare Vanini [un personaggio importante, da conoscere ora]. Chi è Giulio Cesare Vanini e di che opere si tratta?
Giulio Cesare Vanini è stato un filosofo, un medico, un naturalista e un libero pensatore [“martire dell’ateismo”], esponente di rilievo del cosiddetto “libertinismo edudito”. Vanini è nato il 19 gennaio 1585 a Taurisano.
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Con la guida della Puglia e navigando in rete fate visita a Taurisano - un comune del basso Salento [oggi di circa 12mila abitanti] nella provincia pugliese di Lecce - che tra i suoi monumenti annovera anche la casa natale di Giulio Cesare Vanini considerato il più illustre cittadino al quale questo paese ha dato i natali… Incuriositevi…
Il padre, Giovanni Battista Vanini, era un uomo d’affari toscano, originario della provincia di Massa-Carrara, mentre la madre era appartenente alla facoltosa famiglia spagnola dei Lopez de Noguera, famiglia appaltatrice, per conto del Regno di Napoli, delle regie dogane della Terra di Bari, delle Terre d’Otranto, della Capitanata e della Basilicata.
Giulio Cesare nel 1603 entra nell’ordine carmelitano assumendo il nome di frà Gabriele e si trasferisce a Padova per studiare teologia, filosofia e medicina all’Università, e si appassiona allo studio delle opere di Pietro Pomponazzi [1462-1525] e di Niccolò Machiavelli [1469-1527], e attraverso il pensiero di questi autori [che abbiamo incontrato a suo tempo, come ricorderete] comincia a maturare una mentalità legata alla corrente del “libertinismo erudito” corrente che anticipa il pensiero del secolo dei Lumi. Dopo le lauree [ne prende tre] e un breve soggiorno a Napoli [dove acquisisce il brevetto per praticare l’arte medica], si trasferisce a Venezia ed entra in contatto con il teologo e storico veneziano Paolo Sarpi [1552-1623, religioso appartenente all’Ordine dei Servi di Maria] autore della celebre Storia del Concilio Tridentino, nella quale frà Paolo Sarpi critica, punto per punto, tutte le principali deliberazioni contenute nei Documenti di questo storico evento [al quale abbiamo partecipato]: egli sostiene che nelle 95 Tesi di Lutero [del 1517, che abbiamo studiato a suo tempo] ci sono molti spunti positivi per avviare una autentica Riforma della Chiesa a cominciare dalla necessità di ridisegnare - in linea con il Vangelo - la figura del papa, che invece si presenta con un ruolo in cui si manifesta la massima espressione del clericalismo che è, scrive frà Paolo Sarpi, il male peggiore che affligge la Chiesa. E l’opera di Sarpi [che suscita l’irritazione di papa Paolo V, il romano Camillo Borghese, pontefice dal 1605 al 1621] viene subito messa all’Indice.
Il padre carmelitano Giulio Cesare Vanini condivide e fa proprie queste idee, e quando nel 1611 viene invitato dal suo ordine [come persona erudita] a tenere le Prediche quaresimali nel territorio del Regno di Napoli le sue omelie rivolte al popolo [con l’esortazione a ribellarsi contro il potere papale e l’autorità clericale] suscitano scandalo e la disapprovazione ufficiale del generale dei Carmelitani per cui frà Vanini è costretto nel 1612 ad allontanarsi precipitosamente dall’Italia per rifugiarsi in Inghilterra. Vanini viaggia insieme al suo confratello genovese, il teologo Bonaventura Genocchi che condivide le sue idee, e nel corso del loro viaggio verso Londra, i due passano [e predicano] da Bologna, Milano, dal cantone svizzero dei Grigioni e, dopo aver disceso il corso del Reno fino al Mare del Nord, attraversano la Germania e i Paesi Bassi e, infine [traversato il canale della Manica], arrivano a Londra e trovano alloggio nel quartiere di Lambeth [che è la sede arcivescovile del Primate anglicano d’Inghilterra]. Il loro obiettivo è quello di farsi riconoscere [presentandosi però sotto falsi nomi] come frati carmelitani fuggiti dall’Italia per sottrarsi alle ire del papa e per aderire all’anglicanesimo e nel luglio del 1612 nella Chiesa dei Merciai o degli Italiani, alla presenza di molte persone [c’è anche il filosofo Francesco Bacone (1561-1626), fautore della Rivoluzione scientifica, che abbiamo incontrato a suo tempo], Vanini e Genocchi fanno una pubblica sconfessione della loro fede cattolica aderendo alla religione anglicana. Ma Vanini e Genocchi, dopo due anni di permanenza londinese, non sono affatto soddisfatti del funzionamento della Chiesa anglicana che soffre degli stessi mali di quella cattolica, anch’essa è affetta dal clericalismo asservito ipocritamente alla volontà del re e nel 1614 decidono di lasciare l’anglicanesimo per tornare al cattolicesimo, e Vanini afferma: «Eravamo passati all’anglicanesimo per smetterla di ubbidire al papa e abbiamo constatato che ubbidire al re d’Inghilterra è ancora peggio che ubbidire al papa!». Dopo questa dichiarazione i due vengono arrestati e accusati di spionaggio a danno del Regno Unito e chiusi, in attesa di processo, in due prigioni diverse, per cui si rivolgono, per iscritto, agli ambasciatori spagnolo e veneto a Londra per ottenere protezione legale e i due ambasciatori [che non vedono l’ora - con il favore dei loro governi e dei loro agenti - di far torto a Giacomo I che si vanta di essere diventato re d’Inghilterra, di Scozia e d’Irlanda] tramano e favoriscono la fuga prima di Genocchi e poi di Vanini i quali si ritrovano insieme a Bruxelles dove vengono accolti dal nunzio apostolico di Fiandra Guido Bentivoglio, che li perdona ma li obbliga a lasciare l’abito carmelitano [Vanini e Genocchi accettano loro malgrado] e li invia a Parigi con nomi falsi perché si pongano sotto stretta sorveglianza del nunzio apostolico di Francia Roberto Ubaldini.
A Parigi i due partecipano attivamente, alla Sorbona [dove Vanini e Genocchi vengono anche chiamati a tenere una serie di Lezioni], alla polemica relativa all’accettazione dei principi contenuti nei Decreti del Concilio di Trento, e Vanini, con l’imprimatur della facoltà di Filosofia, fa anche pubblicare due opere importanti [quelle che interessano a Raimondo di Sangro] ma questi due personaggi cominciano a destare sospetto nell’Inquisizione parigina, per cui decidono [reindossato l’abito carmelitano] di evadere e di rifugiarsi [sempre sotto falso nome] a Genova dove possono contare sull’aiuto del loro confratello carmelitano Gregorio Spinola. Purtroppo Genocchi nel 1615 viene riconosciuto e arrestato dall’Inquisizione genovese [verrà processato, condannato a morte ma graziato e, sotto tutela del generale genovese dei carmelitani, detenuto nel Carmelo di Sant’Anna a Genova fino alla morte]. Vanini riesce a fuggire a Lione dove scopre che le sue opere [che circolano anonime] stanno avendo successo tra i giovani studiosi che frequentano l’Università perché rappresentano “un manifesto” delle nuove idee apportatrici di innovazioni intellettuali e scientifiche. Quando la sua presenza a Lione diventa sospetta decide di trasferirsi a Tolosa dove si espone troppo: frequenta [col nome falso di frà Zenone Taurisano] l’ambiente universitario, tiene Lezioni, presenta le sue opere [che il tribunale dell’Inquisizione, subito allertato, dichiara eretiche e zeppe di idee blasfeme] e, di conseguenza, viene arrestato nel 1618 e, sotto interrogatorio, dichiara le sue generalità e difende coerentemente i principi su cui si basa il suo pensiero. Durante il processo [come Giordano Bruno] Vanini non ritratta nulla ma proclama le sue convinzioni, il suo ateismo e la sua concezione laica della religione, nega il valore della verità rivelata e denuncia la forma delle strutture religiose [i riti spettacolari, i culti superstiziosi, la dottrina repressiva, l’assurdità dei dogmi, il sistema gerarchico], strutture disegnate come strumenti per mantenere intatto il potere delle classi dominanti.
La sentenza del tribunale è di condanna a morte per ateismo e il 9 febbraio 1619 sul patibolo prima gli viene tagliata la lingua, poi viene impiccato e, infine, bruciato sul rogo sulla piazza di Tolosa di fronte alla Chiesa di San Paolo [oggi nel luogo della sua morte c’è una targa che ricorda l’evento]. Giulio Cesare Vanini, martire del libero pensiero], ha lasciato due opere importanti: Anfiteatro dell’eterna provvidenza e I meravigliosi segreti della natura. In queste due opere [apprezzate dai colleghi della Sorbona] Vanini smonta le prove dell’esistenza di Dio, critica l’idea che sia la Provvidenza a governare il mondo, e dimostra come la religione sia sempre stata usata come strumento per governare commettendo ingiustizia. Dimostra che “il soprannaturale” non esiste e che tutti i fenomeni della natura [anche i più insoliti e misteriosi] possono essere spiegati in termini rigorosamente razionalistici e materialistici, e la Natura è l’unica Entità da studiare a fondo in quanto funziona con Leggi proprie.
Che cosa cerca Raimondo di Sangro nelle opere di Vanini? Nelle sue opere, scritte in latino sotto forma di dialogo e con esercizi da svolgere, Vanini adopera un vasto materiale erudito fatto di citazioni tratte dalle opere di Aristotele, di Pomponazzi, di Platone, di Fracastoro, di Cardano, di Scaligero, di Agrippa di Nettesheim, di Jean Fernet, di Levin Lemmens per cui le sue opere sono una grande Antologia di formule alchemiche e chimiche costruite dai più grandi scienziati antichi, medioevali e rinascimentali; ecco che cosa cerca [e che cosa gli ha procurato de Sade con il suo lavoro di ricerca] Raimondo di Sangro: vuole conoscere formule, istruzioni, dati in modo da perfezionare le sue ricerche e i suoi esperimenti sulla palingenesi [la rigenerazione].
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Questo è il momento [per chi non l’abbia ancora fatto] di leggere L’opera al nero”, romanzo scritto da Marguerite Yourcenar nel 1968 che potete richiedere in biblioteca… La figura del protagonista di questo romanzo - il filosofo, medico, scienziato, alchimista Zenone [nato a Bruges agli inizi del ‘500] - richiama la figura di Giulio Cesare Vanini… La lettura di quest’opera serve anche per capire che “opera al nero” è una formula che nei Trattati alchemici designa la fase di separazione e di dissoluzione della sostanza che si tinge dei colori che accompagnano, in principio, la creazione: l’albedo [il bianco], il rubedo [il rosso], e il negredo [il colore del passaggio della materia ad una sostanza superiore]… Incuriositevi e leggete …
Mentre Raimondo di Sangro e François de Sade conversano tra loro così come tutti gli altri convitati, due personaggi che, a cena, si sono fatti notare poco, Diderot e d’Alembert, i quali non hanno tempo da perdere in bei conversari, si allontanano quatti quatti dal salone: e dove sono diretti così di soppiatto? Sappiamo che i due stanno portando avanti clandestinamente il lavoro de l’Encyclopedie, opera che è stata da poco messa all’Indice! Da indiscrezioni che abbiamo raccolto si dice che stiano andando in un magazzino del quale per ora non conosciamo l’indirizzo.
Abbiamo parlato dell’Encyclopedie ma di Diderot di d’Alembert e delle loro altre opere non sappiamo ancora nulla e, quindi, per saperne di più bisogna procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, per questo la Scuola è qui e il viaggio continua…