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SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE SI METTE IN LUCE LA SCOLASTICA ARISTOTELICA ...

Lezione N.: 
28

Prof. Giuseppe Nibbi    La sapienza poetica e filosofica dell’età medioevale      20-21-22  maggio  2015

Alberto Magno

SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ MEDIOEVALE

SI METTE IN LUCE LA SCOLASTICA ARISTOTELICA ...

 

   Il ventottesimo itinerario del nostro Percorso, il terzultimo di questo lungo viaggio di studio sul “territorio della sapienza poetica e filosofica dell’Età medioevale”, prende le mosse, come abbiamo anticipato la scorsa settimana, dal castello di Montségur dove avviene uno degli episodi più significativi e più drammatici della nostra storia per la valenza allegorica che ha assunto. Sappiamo che a Montségur si conclude la crociata contro i Catari [una terribile guerra di carattere imperialista, scatenata da papa Innocenzo III, durata quasi quarant’anni], ed è un tema che abbiamo affrontato nell’itinerario della scorsa settimana.

   Il castello di Montségur è diventato qualcosa di più di un insieme di resti di una rocca medioevale: è, prima di tutto, anche - per come è orientato - un sofisticato “orologio solare” [e il modo in cui è orientato vale per molti castelli], e il giorno del solstizio d’estate, per cui molte persone si radunano in questo luogo il 21 giugno di ogni anno, i raggi del sole, mentre penetrano tra queste mura, con un complicatissimo gioco di luci e di ombre, fanno apparire sulle pareti delle figure: quali figure?

   Abbiamo puntato l’attenzione ai primi di marzo sul testo dell’Apocalisse di Giovanni, che è il libro per eccellenza del Medioevo, e sappiamo che il capitolo 4 dell’Apocalisse descrive il trono di Dio intorno al quale, ai suoi quattro lati, ci sono quattro esseri viventi “pieni di occhi davanti e dietro [quindi onniscienti] e con sei ali ciascuno [capaci di volare alto]”, e questi esseri assomigliano il primo ad un leone, il secondo ad un torello, il terzo ha il viso d’uomo e il quarto assomiglia ad un’aquila in volo e voi sapete che queste quattro figure sono state assimilate a quelle dei quattro evangelisti: Marco è il leone, Matteo la figura umana, Luca il torello e Giovanni l’aquila, e sono queste le figure che, nel corso del solstizio d’estate, si materializzano, quando la luce del sole passa per determinate fessure, sulle mura interne del castello di Montségur, e con la riproduzione di questi simboli continua a perpetuarsi la religiosità catara e la devozione che questi fedeli avevano, in particolare, per il testo del Vangelo secondo Giovanni in cui il tema del “contrasto tra la luce e le tenebre” emerge in modo determinante avvalorando la vittoria della luce.

   Fernand Niel [Béziers 1903 - Parigi 1985] si è dedicato a studiare il tema dei “castelli come orologi solari” e ha dimostrato che anche i castelli fatti costruire da Federico II nell’Italia meridionale [di Ruvo di Puglia, di Fiorentino, Castel del Monte] risultano essere dei complicati “orologi solari”. Che cosa ha a che fare l’imperatore Federico II di Svevia con l’orientamento dei castelli e con i Catari?

   È un tema che non possiamo ignorare e che dobbiamo trattare seppur brevemente tenendo conto del fatto che Federico II non è una persona religiosa e a lui interessano molto marginalmente [solo per rispetto delle idee altrui] gli elementi della dottrina catara: il conflitto tra il principio del bene e il principio del male, la creazione del mondo ad opera di Satana, la caduta degli angeli ribelli e il loro imprigionamento nei corpi materiali, la missione salvifica di Gesù Cristo considerato un angelo [alla maniera gnostica], la cerimonia del “Consolament”, il sacramento cataro per eccellenza. A Federico II interessa l’uso poetico che i Catari di Provenza e di Lingadoca fanno della loro lingua, che è comunicativa, raffinata, ben strutturata formalmente, ed “esprimersi con una bella lingua significa pensare bene”.

   Per narrare la storia dell’imperatore Federico II di Svevia ci vorrebbe un intero viaggio, e molti episodi della sua vita - a cominciare dallo spettacolare evento della sua nascita - sono entrati a far parte della tradizione romanzesca, e anche la figura stessa di questo imperatore [detto “stupor mundis, meraviglia del mondo”, e Dante che lo cita cinque volte nella Divina Commedia] ha un posto nella Storia della Letteratura italiana perché ne è stato protagonista lui stesso come autore.

   Federico II di Svevia è il figlio dell’imperatore Enrico VI [che è, a sua volta, figlio di Federico Barbarossa e di Beatrice di Borgogna] e sua madre è Costanza d’Altavilla figlia del re normanno Ruggero II di Sicilia: con questo matrimonio [concordato dai padri: Federico Barbarossa e Ruggero II] gli Svevi sostituiscono i Normanni nel governo dell’Italia meridionale, e il dominio svevo nel sud della penisola dura dal 1190 al 1266 [poi vengono sostituiti dagli Angioini].

   Costanza d’Altavilla, forse, aveva l’intenzione di farsi monaca [non esistono documenti che attestino quali fossero le sue reali intenzioni] e sembra sia dovuta piuttosto controvoglia uscire dal monastero in cui era andata a vivere per contrarre questo matrimonio d’interesse politico celebrato a Milano nel 1186: lo sposo aveva 21 anni e la sposa già 32 e sembra che tra queste due persone ci fosse poca sintonia.

   Quando il 10 giugno 1190 Federico Barbarossa muore nel corso della III crociata - in circostanze non mai chiarite, annegando nel fiume Saleph [che oggi si trova in Turchia] - Enrico VI diventa imperatore e, dopo aver consolidato il suo potere in Germania, scende in Sicilia dove i Normanni avevano ripreso il governo dell’isola, li sconfigge e viene incoronato a Palermo re di Sicilia il 25 dicembre 1194.

   Ebbene, Federico [perché è di lui che ci stiamo occupando] nasce il 26 dicembre 1194 nel corso del viaggio che l’imperatrice Costanza d’Altavilla ha intrapreso per raggiungere il marito, che era stato incoronato il giorno prima a Palermo. A Jesi, nella Marca anconetana, a Costanza si rompono le acque ed è costretta a fermarsi per partorire, ma il fatto è, che intorno alla gravidanza di Costanza d’Altavilla si era diffuso un certo scetticismo vuoi perché aveva già quarant’anni e vuoi perché non sembra ci fosse una frequentazione fra i coniugi imperiali sebbene fosse necessario nascesse un erede [e anche maschio]. Per fugare lo scetticismo intorno alla gravidanza di Costanza d’Altavilla è stato allestito un baldacchino [una tenda imperiale] al centro della piazza, l’antico Foro romano, di Jesi [e questa scena del baldacchino jesino la si può veder rappresentata in molte opere pittoriche] dove l’imperatrice ha partorito pubblicamente al fine di scacciare ogni dubbio sulla nascita dell’erede imperiale.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida delle Marche e navigando in rete fate una visita a Jesi, cittadina [di circa 40 mila abitanti, in provincia di Ancona] situata parte in piano e parte [quella antica, cinta dalle mura trecentesche] sopra un poggio sulla sinistra della bassa valle del fiume Esino…

Al centro del nucleo antico della cittadina tra il rinascimentale Palazzo della Signoria e il settecentesco Duomo c’è - in concomitanza con l’antico Foro romano - piazza Federico II...

Buona escursione federiciana...

 

   Per gli amanti della musica cosiddetta “barocca” [tutte e tutti noi, comprese le registe e i registi che nei loro film utilizzano molto spesso questo tipo di musica assai suadente] dobbiamo ricordare che a Jesi è nato, nel 1710, il musicista Giovanni Battista Pergolesi [Giovanni Battista Draghi, ma il nonno veniva dal paese di Pergola e la famiglia Draghi fu denominata dei Pergolesi e questo soprannome è diventato un cognome], c’è difatti nella cittadina marchigiana un teatro a lui dedicato dove ogni anno si svolge un Festival pergolesiano. Pergolesi ha operato a Roma e a Napoli componendo molte opere significative [ricordiamo l’Intermezzo in due parti intitolato “La serva padrona” su libretto di Gennarantonio Federico che ha avuto un grande successo soprattutto a Parigi contribuendo a riformare - nel senso della commedia dell’arte (c’è anche una commedia di Carlo Goldoni intitolata “La serva padrona”) - la cosiddetta “opera buffa” facendo scatenare quella che si chiama la “Querelle des Bouffons, la Polemica dei Comici”]. Le opere di Pergolesi sono state apprezzate [e anche invidiate] dai più importanti musicisti dell’epoca; il fatto è che la sua attività artistica dura solo sette anni perché Pergolesi muore a Pozzuoli nel marzo del 1736 appena ventiseienne: avvelenato da invidiosi concorrenti per il suo talento, oppure, essendo molto attraente, da qualche amante respinta? E gli interrogativi, forse, sconfinano nella leggenda. Gli intellettuali romantici, nell’Ottocento, hanno costruito un vero e proprio mito su Pergolesi in quanto specialista di uno stile chiamato “pathos sentimentale”. Oggi Pergolesi continua ad essere un compositore assai apprezzato e le sue partiture vengono frequentemente eseguite nei concerti e spesso utilizzate nel cinema come colonne sonore.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Mettetevi in ascolto - potete farlo anche navigando in rete - della musica di Giovanni Battista Pergolesi che fonde insieme la vena comica, il pathos sentimentale e la delicata malinconia… Ascoltate “La serva padrona”, il Concerto in re maggiore per flauto ed archi…  

 

   Ma torniamo sulla piazza di Jesi con Federico II perché i dubbi intorno alla sua nascita sono rimasti [ma, forse, sono soltanto delle illazioni e delle dicerie]: si è pensato e si è detto che l’imperatrice, in realtà, non fosse gravida e che, durante il falso parto gestito dalle sue fedeli dame di corte, sia comparso un trovatello [non difficile da trovare a quel tempo] per coronare la messa in scena, e poi c’è il seducente aspetto leggendario, utilizzato dai detrattori di Federico, i quali hanno messo in giro la voce che sia lui “l’Anticristo dell’Apocalisse” che, secondo la leggenda, sarebbe stato partorito da “una vecchia suora che aveva rinnegato i voti”.

   Il fatto è che Federico presto rimane orfano: Enrico VI in Sicilia si comporta come un dittatore piuttosto sanguinario e questo provoca molte ribellioni popolari e nel 1197 il re-imperatore muore a Messina dopo essersi sentito male durante l’assedio della città di Castrogiovanni [oggi si chiama Enna] e si pensa sia stato avvelenato dalla moglie Costanza che non approva i suoi metodi e che prende, in modo più assennato, il suo posto al governo della Sicilia, ma purtroppo anche lei muore l’anno successivo [nel 1198] e affida, per testamento, il piccolo Federico all’autorità che ritiene la più affidabile, quella del papa.

   Federico II di Svevia, dopo la morte della madre Costanza d’Altavilla nel 1198, viene adottato [il bambino ha una dote cospicua] da papa Innocenzo III che deve incaricarsi della sua educazione e pensa di poter approfittare della situazione per plasmare un futuro imperatore fedele vassallo della Chiesa di Roma. I maestri - scelti dal papa - chiamati a prendersi cura della formazione di Federico [hanno tutti studiato alla Scuola di Chartres] svolgono bene il loro lavoro: lo fanno diventare una persona colta [ha una vasta conoscenza dei Classici greci e latini] e desiderosa d’imparare sempre cose nuove [parla cinque lingue], ma soprattutto ne fanno “uno spirito libero, curioso, aperto”.

   Nell’anno in cui muore Innocenzo III [nel 1216] Federico II di Svevia raggiunge la maggiore età e assume il governo dei suoi Stati, e decide di stabilirsi a Palermo e fa diventare questa città, già bella, il centro dell’Impero nella quale chiama [novello Mecenate] artisti e letterati da ogni dove [dalla Mitteleuropa, dall’Oriente bizantino, dal Mondo arabo] e, soprattutto, accoglie i poeti provenzali [i troubadours] in fuga dalla loro terra martoriata dalla “crociata”: è molto attratto dalle forme della lingua occitana e pensa possano dare una struttura poetica alla lingua siciliana.

   Federico II disapprova la crociata contro i Catari ma non può agire per contrastare militarmente i feudatari francesi, sostenuti dai papi, i quali, con la scusa di combattere una guerra di religione, stanno assaltando la Provenza e la Linguadoca: lui, per prima cosa, deve riorganizzare il regno di Sicilia dopo il malgoverno di suo padre e contro lo strapotere dei baroni, e agisce con decisione convinto che, davanti all’autorità dello Stato, tutti i cittadini sono uguali [per questo Dante nel suo trattato “De Monarchia” si augura che l’imperatore Arrigo VII assomigli a Federico II] ed è consapevole del fatto che il monarca deve farsi garante dei diritti di tutti i cittadini. Quindi, Federico combatte contro gli ingiusti privilegi acquisiti con la violenza dai nobili e dal clero e non vuole riconoscere nessuna dipendenza del suo regno nei confronti della Chiesa che, dai tempi del normanno Roberto il Guiscardo, considerava la Sicilia un suo feudo.

   Federico II pensa che l’impero debba essere indipendente dal papato e che la Chiesa - se vuole essere fedele al Vangelo - non debba avere privilegi, e questo lo porta a dover sostenere un duro scontro [guadagnandosi il titolo di Anticristo] con i quattro papi succeduti ad Innocenzo III: si scontra fino al 1227 con Onorio III, che lo ha incoronato imperatore pensando di farlo suo vassallo [ma Federico II manifesta subito la sua indipendenza rispetto alla pretesa papale], e poi fino al 1241 si scontra con Gregorio IX, che lo scomunica dopo avergli affidato il comando della crociata [perché Federico II, giunto in Palestina, fa la pace con il sultano d’Egitto che concede libero accesso ai cristiani in pellegrinaggio ai Luoghi santi, e poi Federico II si schiera a difesa degli “spirituali francescani” perseguitati dal papa perché, anche loro, non amano una Chiesa ricca e privilegiata], e poi nel 1241 si scontra con Celestino IV [il milanese Goffredo Castiglioni che però, vecchio e malato, pontifica per soli 17 giorni mentre Federico II s’insedia a Roma alla testa di un esercito saraceno] e infine fino al 1250 si scontra con Innocenzo IV [il genovese Sinibaldo Fieschi che, appena eletto dopo venti mesi di sede vacante, fugge a Lione dove convoca un concilio ecumenico aperto a tutti i monarchi europei per contrastare Federico II che sta controllando Roma; Federico II invia al concilio due suoi eminenti consiglieri, Pier delle Vigne e Taddeo di Suessa, perché presentino il suo celebre “manifesto imperiale” che denuncia i vizi, la cupidigia e la corruzione dei prelati assai diffusa su tutto il territorio della cristianità e, secondo lui, di questo tema avrebbe dovuto occuparsi il concilio].

   Federico II di Svevia, all’età di 56 anni, a causa di una malattia non ben definita, muore in Puglia nel Castel Fiorentino nel Comune di Torremaggiore in provincia di Foggia, il 13 dicembre 1250 e papa Innocenzo IV pronuncia, in questa occasione, parole di trionfo [in una Lettera intitolata “Laetentur coeli (I cieli se ne rallegrano)] e l’anno successivo nel 1251 il papa torna a Roma da Lione dove era stato sotto la protezione di [San] Luigi IX.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il ricordo di Federico II in Puglia è vivissimo e, a questo proposito, potete fare un’escursione - utilizzando la guida della Puglia e navigando in rete - a Castel del Monte nel comune di Andria [in provincia di Barletta-Andria-Trani]: è un monumento straordinario da visitare ...   

Ogni anno [tra il 25 aprile e i primi di maggio] si svolge ad Altamura in provincia di Bari, sull’altopiano delle Murge, una festa medioevale che rievoca il ritorno di Federico II dalla sesta crociata [conclusasi con un trattato di pace e con la costruzione della cattedrale di Altamura]...    Se navigando in rete mettete in ricerca la dicitura “altamura federicus”: potete partecipare alla festa...         

 

   Ciò che a noi interessa maggiormente ricordare di Federico II è l’azione culturale che ha saputo profondere: per sua iniziativa nel 1230 raggiunge il suo massimo sviluppo, a Palermo, la “Scuola poetica siciliana” [il primo laboratorio letterario dove entra in incubazione la lingua italiana] che si nutre dell’esperienza formale e contenutistica della cultura poetica provenzale che Federico II ha saputo importare in Sicilia accogliendo i trovatori catari perseguitati. Della “Scuola poetica siciliana” fanno parte, producendo molte opere, lo stesso Federico II e Giacomo da Lentini, Rinaldo d’Aquino, Pier delle Vigne, Guido delle Colonne e Cielo [o Ciullo] d’Alcamo.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando l’enciclopedia, e un manuale di Storia della Letteratura italiana, e frequentando la biblioteca, e navigando in rete potete raccogliere notizie sui personaggi e sulle opere della “Scuola poetica siciliana”...  «Dentro lo core mio porto la tua figura ...» scrive Giacomo da Lentini: mettete anche voi, a questo proposito, “figure [immagini] poetiche” e “annotazioni filologiche” nella vostra mente...

 

   Il linguaggio [forma e contenuti] elaborato dalla “Scuola poetica siciliana” si diffonde prima del 1230 e trova interessanti momenti di sviluppo soprattutto in alcune zone privilegiate della Penisola come, per esempio, l’area fiorentina [al centro della Valle dell’Arno, un territorio con caratteri molto simili alla Provenza occitana e alla Conca d’Oro palermitana] dove comincia un processo filologico che, nel giro di mezzo secolo, porterà il “dialetto locale” ad acquisire una dignità tale da farlo assurgere nel tempo al rango di lingua nazionale. Un apporto importante dato a questo processo filologico viene da una Scuola poetica che prende il nome di “Dolce Stil Nuovo”, e questa, però, è un’altra storia della quale ci occuperemo a suo tempo [nel prossimo viaggio] perché precedentemente, nella prima metà del XIII secolo, ci sono molte altre esperienze frutto di un creativo ed eterogeneo movimento poetico.

   E, ora, a questo proposito, facciamo un esempio che ci permette di capire come - attraverso la cultura provenzale dei trovatori-catari importata a Palermo da Federico II ed elaborata dai poeti dalla Scuola siciliana - una nuova forma di linguaggio poetico si sia radicata nell’area fiorentina. Leggiamo in proposito il testo di una “canzone” intitolata “A la stagion che ’l mondo foglia e fiora”. Il testo della “canzone” intitolata “A la stagion che ’l mondo foglia e fiora” è stato scritto intorno al 1230 da una donna vissuta nell’area fiorentina [che ha lasciato tre componimenti] della quale non si conosce il nome, ma siccome uno dei suoi brani poetici inizia con un verso che dice: “Quando fui compiuta donzella [quando sono diventata una ragazza grande]” ecco che le studiose e gli studiosi di Letteratura le hanno dato il nome d’arte di “Compiuta Donzella”. La forma di quest’opera è quella tipica della “canzone [un testo che veniva cantato, o recitato con accompagnamento musicale, un modello tuttora in circolazione]” mentre il contenuto è particolarmente interessante perché tocca il tema dell’innamoramento ma interpretato nell’ottica della condizione femminile. Compiuta Donzella scrive: «Nella stagione in cui il mondo mette foglie e fiori [in primavera], in tutti gli innamorati [i fin’amanti] cresce la gioia di vivere, ed essi vanno insieme nei giardini mentre gli uccelletti fanno dolci canti. La gente franca [ogni persona libera da inibizioni] s’innamora, e ogni ragazza [ogni damigella] è sempre contenta se qualcuno si fa avanti per corteggiarla [per servirla]. Ma io, scrive Compiuta Donzella, sono presa dallo sgomento e per me abbonda il pianto perché mio padre mi ha messo in un affanno [in un’ansia] che mi provoca una grande sofferenza: mi vuole dare per forza un marito [un segnore, un padrone, contro la mia volontà], ed io non ho né voglia né desiderio di prenderlo, e vivo tutte le ore della giornata in gran tormento: perciò non mi rallegrano né le foglie né i fiori». Il termine “innamoramento” in Età medioevale, attraverso soprattutto le Opere di Ovidio, diventa patrimonio della Scuola poetica provenzale e di quella siciliana.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quale di queste parole - conquista, rapimento, incantesimo, seduzione, infatuazione, attrazione, o quale altra - mettereste per prima accanto al termine “innamoramento”?..

Scrivetela...  

 

   E ora leggiamo il testo della canzone “A la stagion che ’l mondo foglia e fiora” di Compita Donzella per entrare in contatto con la “sapienza poetica medioevale”.

 

LEGERE MULTUM….

Compiuta Donzella, A la stagion che ’l mondo foglia e fiora

A la stagion che ’l mondo foglia e fiora

cresce gioia a tutti fin’amanti:

vanno insieme a li giardini alora

che gli auscelletti fanno dolzi canti;

la franca gente tutta s’inamora,

e di servir ciascun tragges’avanti,

ed ogni damigella in gioia dimora;

e me, n’abbondan marrimenti e pianti.

Ca lo mi padre m’ha messa ’n errore

e tenemi sovente in forte doglia:

donar mi vole a mia forza segnore,

ed io di ciò non ho disio né voglia

e ’n gran tormento vivo a tutte l’ore;

però non mi rallegra fior né foglia.

 

   Ebbene, abbiamo capito che il coinvolgimento da parte di Federico II di Svevia nella “questione catara” dipende, oltre che da ragioni politiche ed umanitarie, soprattutto da ragioni letterarie e culturali [Federico II ha contribuito allo sviluppo della “sapienza poetica e filosofica” dell’Età medioevale ha fondato l’Università di Napoli per contrastare quella di Bologna troppo controllata dal potere papale], e le ragioni letterarie e culturali legate alla “questione catara” sono compendiate da tutta una serie di elementi, tanto allegorici quanto misteriosi, che continuano ad accompagnare - le ricerche e gli studi su questo tema scottante.

   Si dice che nel castello di Montségur [qui brule toujours, Montségur che brucia sempre] sarebbero stati nascosti meravigliosi e incomparabili tesori, che vi sarebbe stato custodito il Santo Graal delle Leggende, il calice dell’ultima cena che i Catari avrebbero nascosto per avvalorare la non istituzione dell’eucaristia visto che il testo del Vangelo secondo Giovanni, che loro venerano, non ne parla. Si dice che il compositore Richard Wagner avrebbe soggiornato per un certo tempo nelle zone dei castelli catari per ispirarsi nella scrittura dell’opera intitolata Parsifal. Si dice che lo stato maggiore tedesco, durante la seconda guerra mondiale, facesse sorvolare sistematicamente il castello: chissà che cosa speravano di vedere dall’alto? Si dice che, nei mesi dell’occupazione della Francia, i nazisti abbiano fatto scavare accanitamente tutt’intorno al castello di Montségur: che cosa cercavano e di che cosa avevano paura, temevano forse che, prima o poi, in quanto invasori prepotenti sarebbero stati sconfitti dalla resistenza popolare? Montségur [qui brule toujours] continuava e continua ad essere una metafora inquietante della resistenza antimperialista.

   La metafora della Resistenza catara si rinnova puntualmente e, se andate a Montségur da primavera fino all’autunno inoltrato, potete simbolicamente constatare questo fatto perché, malgrado l’altezza [1200 metri] e la durezza delle pietre, lì, spuntano tanti fiori bianchi che danno una luce particolare a queste rovine. I semi di questi fiori li porta il vento e i Catari vedendoli sbocciare [nel marzo 1244 quando hanno deciso di darsi fuoco piuttosto che rinnegare la loro fede] devono aver pensato che questi fiori avrebbero rappresentato simbolicamente per sempre la presenza “delle loro anime” in questo luogo, in armonia con il testo del Vangelo secondo Giovanni dove, al capitolo 3 versetto 8, si legge che “lo Spirito soffia dove vuole e trasporta i semi dove vuole, e non c’è modo di fermarlo”. Hanno pensato che, in fondo, era giusto morire, per poi rinascere come dice il celebre versetto 24 del capitolo XII sempre del Vangelo secondo Giovanni: “Se il chicco di frumento caduto in terra non muore, rimane solo, e se invece muore, porta molto frutto”.

   E questa famosa citazione ha fecondato il terreno della Letteratura, e difatti adesso ci troviamo di fronte ad un intreccio filologico che non possiamo ignorare e che ci porta ad incontrare lo scrittore André Gide [che più volte abbiamo citato nei nostri viaggi]. André Gide è nato a Parigi nel 1869 in una famiglia piuttosto agiata di tradizione cristiana “puritana [ugonotta, e questo termine ha dato il nome ai protestanti francesi]” per cui riceve un’educazione molto rigida dove la Letteratura biblica «è stata utilizzata, scrive Gide, più per condizionare che per liberare». Esordisce giovanissimo in letteratura aderendo alla corrente del “simbolismo” ma Parigi, alla fine dell’800, è un grande laboratorio culturale: teatro di grandi polemiche artistiche ed ideologiche all’interno del quale il giovane André acquisisce molte competenze intellettuali e soprattutto un ottimo stile nello scrivere. La sua prima opera importante viene pubblicata nel 1897 e s’intitola I nutrimenti terrestri, poi pubblica L’immoralista [1902], La porta stretta [1909], I sotterranei del Vaticano [1914], La sinfonia pastorale [1919], I falsari [1925], Se il grano non muore [1926], il Diario [1936-1945-1950].

   Tutte le opere di André Gide - dove sperimenta tecniche innovative di espressione narrativa - meritano di essere lette perché contengono “un’analisi spietata presentata sotto forma di confessione” affidata ai personaggi dei suoi romanzi. Questa indagine minuziosa mette in evidenza tutta l’inquietudine che pervade il mondo della cultura europea nel momento di passaggio tra l’800 e il 900: un’analisi dolorosa che mette in evidenza l’ansietà di cui è vittima l’individuo a causa dell’ipocrisia del puritanesimo religioso, a causa dell’amore che viene vincolato sempre ai sensi di colpa, a causa dei nazionalismi esasperati che impediscono alla persona di impegnarsi in politica in senso umanitaristico e internazionalista. André Gide nel 1947 ha ricevuto il premio Nobel per la Letteratura ed è morto a Parigi nel febbraio del 1951.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Le opere di André Gide le trovate in biblioteca [qualcuna probabilmente sarà anche nella vostra biblioteca domestica] e meritano di essere lette e rilette…

 

   Il romanzo autobiografico più intenso di André Gide, pubblicato integralmente nel 1926, finito anche all’indice per la presunta scabrosità di alcuni temi, di carattere sessuale, trattati con grande coraggio e sincerità, s’intitola proprio Se il grano non muore [Si le grain ne meure]: un’affermazione che riprende il manifesto programmatico dei Catari i quali hanno saputo lottare per la libertà mediante la loro serietà, la loro sobrietà, la loro fede altera e pudica. Se il grano non uore è un libro di confessioni in cui l’autore rievoca, prima di tutto per se stesso, le memorie della sua vita dall’infanzia fin verso il 1896, ed è talmente intenso [ancora di più delle “Confessioni” di Jean-Jacques Rousseau] e talmente ricco di analisi interiore, di minuziose descrizioni naturalistiche, di avvenimenti curiosi [spesso con risvolti contraddittori e comici], di inquietanti temi psicologici [in particolare sul tema della identità sessualità], e denso di incontri con personaggi noti e meno noti ma tutti ricchi di fascino, per cui un’opera di questo genere la si legge per imparare ad esercitarsi a scavare nella propria interiorità, per far emergere e dare un senso a desideri, a pulsioni, ad aspirazioni che spesso abbiamo dovuto soffocare perché un’educazione troppo rigida, priva di dialogo, risulta sempre dannosa.

   Se il grano non muore di André Gide rimanda al celebre versetto 24 del capitolo XII del Vangelo secondo Giovanni [“Se il chicco del grano cadendo in terra non muore, rimarrà sterile; se invece muore, esso darà molti frutti”] perché indica la necessità di affondare negli abissi del male per poter risorgere e, dunque, senza nessuna incertezza e senza nessun pudore l’autore mette a nudo la propria anima rievocando minuziosamente e nei dettagli più intimi le sue esperienze di vita, i suoi incontri, i suoi turbamenti, le sue avventure dello spirito e dei sensi, esponendo pubblicamente lo scandalo e il tormento della sua omosessualità [in un momento in cui l’omosessualità è considerata un reato] e anche raccontando la particolare esperienza del suo “matrimonio bianco [di carattere spirituale]” con la cugina Madeleine. La Scuola non può che consigliare la lettura di questa significativa autobiografia, e ora ne leggiamo due pagine nelle quali emerge allegoricamente il tema che stiamo per affrontare nella seconda parte di questo itinerario.

 

LEGERE MULTUM….

André Gide, Se il grano non muore

All’inizio di quell’anno (1884) mi accadde un’avventura straordinaria.

La mattina di capodanno ero andato ad abbracciare Anna che, come ho detto, abitava in rue de Vaugirard. Ritornavo, allegro già, contento di me, del cielo e degli uomini, curioso di tutto, divertito da un nonnulla e ricco immensamente dell’avvenire. Non so perché quel giorno, presi per tornare, invece di rue Saint-Placide, la mia strada abituale, una viuzza a sinistra, parallela alla prima; per divertimento, per semplice desiderio di cambiare. Era quasi mezzogiorno; l’aria era chiara e il sole quasi caldo tagliava la stretta via nel senso della lunghezza, in modo che un marciapiede era in luce, l’altro in ombra.

... continua la lettura ...

 

   Più volte questa sera procedendo sul nostro cammino abbiamo evocato [e anche André Gide vi allude nella pagina che abbiamo letto] la parola-chiave “luce”.

   L’opera di Bonaventura da Bagnoregio [che abbiamo studiato la scorsa settimana] intitolata Itinerarium mentis in Deum [Itinerario dell’anima a Dio] ha avuto un grande successo soprattutto a Parigi, ma come sappiamo più che incentivare il misticismo, come lui avrebbe voluto, fa crescere, proprio in campo francescano, un grande interesse per lo studio della Natura in senso scientifico: a cominciare dal tema della “luce” [Bonaventura afferma che la “luce” è uno dei segni della presenza dell’afflato divino nella Natura]. E poi c’è il Prologo del Vangelo secondo Giovanni in cui il concetto della “luce” ha una valenza teologica fondamentale [i versetti 4 e 5 del primo capitolo di questo testo tutte e tutti noi li conosciamo a memoria]: «Il Logos [colui che è “la Parola”] era la vita e la vita era la luce per il genere umano. Quella luce risplende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta [non hanno saputo comprenderla, katélaben]».

   Se la “luce” [pensano gli intellettuali francescani] ha un valore così importante sul piano metafisico è necessario anche conoscere questo fenomeno sul piano fisico. Questa affermazione ci porta ad incontrare un nuovo personaggio: è un inglese ma il suo nome è rimasto nella Storia del Pensiero in modo latinizzato, si chiama Roberto Grossatesta. Roberto Grossatesta è nato in Inghilterra intorno al 1170, entra nell’Ordine francescano e fa carriera come magister fino a diventare cancelliere dell’Università di Oxford e, qualche anno dopo, viene nominato vescovo di Lincoln.

   Roberto Grossatesta è celebre nell’ambito della Scolastica per i suoi studi sul tema della “luce”: lui pensa che tutti i corpi sono composti di materia e di luce, nel senso che occupano un po’ di spazio con la loro massa [ciò che noi vediamo e ciò che noi tocchiamo fisicamente] e uno spazio molto più grande con la propria immagine [perché c’è anche una dimensione metafisica dei corpi]. E questa situazione esiste perché, scrive Grossatesta in chiave francescana,: «La luce che in tanto emana dalla materia è visibile in quanto è stata investita da un’altra luce, di tutt’altro livello, che arriva dall’alto e che testimonia l’esistenza di Dio». Grazie a questa luce [lumen Dei] che emana al di sopra delle nostre teste è possibile, scrive Grossatesta, salire una scala ideale [compiere un itinerario spirituale di carattere intellettuale: un viaggio di studio] e questa scala è formata da “nove sfere [o campi] celesti [ogni sfera, ogni campo, corrisponde ad una disciplina del Trivio e del Quadrivio più la Fisica e l’Ottica]”, la più bassa delle quali è quella della luna [la sfera o il campo della grammatica], e poi la luce illumina [in funzione della conoscenza] “quattro sfere [o campi] terrestri” che appartengono rispettivamente all’acqua, al fuoco, all’aria e alla terra: da questa visione si capisce che Roberto Grossatesta ha tradotto dal greco di cui è specialista i trattati del Dionigi Areopagita [lo Pseudo-Dionigi] in latino medioevale, la lingua ufficiale della Scolastica. Per salire questa “scala della conoscenza” bisogna avere fede perché l’apprendimento, secondo il pensiero di Agostino, è “un qualcosa che arriva dall’alto”, dall’illuminazione divina: dalla “luce”. In uno dei suoi trattati intitolato Sulla verità Roberto Grossatesta scrive: «Come gli occhi del corpo non possono vedere i colori se non sono illuminati dalla luce, così gli occhi della mente sono ciechi se non vengono illuminati dalla luce di Dio».

   E l’opera più significativa di Roberto Grossatesta s’intitola De luce [Sulla luce] ed è il primo prodotto culturale che innesca un processo intellettuale che porterà alla fondazione della “Scuola dello sperimentalismo di Oxford” [una Scuola che nel prossimo viaggio andremo a frequentare].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

“La luce del sole”, “il lume di candela”, “il brillare delle stelle”, “il chiaro di luna”, “il fuoco del camino”, la luminosità di uno sguardo”, o quale altra situazione di lucentezza v’ispira a scrivere quattro righe in proposito?...  Fugate il buio delle tenebre con la scrittura!...  

 

   Roberto Grossatesta - con le sue Lezioni - sposta l’interesse degli studenti di Oxford sulla Fisica e sull’Ottica, una disciplina che dimostra come la luce sia simile ad una materia sottilissima, poco più spessa dell’aria, che si diffonde in continuazione finché non incontra qualcosa che la blocca, se poi la luce non incontrasse nulla che ne ferma il cammino si diffonderebbe all’infinito fino a raggiungere i confini dell’universo e quindi perfino, afferma Roberto Grossatesta, il corpo stesso di Dio [se la luce è un filo conduttore tra Dio e la persona può esserlo anche tra la persona e Dio]. E, quindi, Roberto Grossatesta fa esercitare i suoi studenti a sperimentare tutte le fonti e le manifestazioni reali e metaforiche della luce.

   E adesso noi, in proposito, andiamo a far luce sull’opera De luce [Sulla luce] di Roberto Grossatesta, che è il primo trattato di Fisica dove il mistero della Creazione viene spiegato ricorrendo all’Ottica.

   Nell’opera intitolata De luce [Sulla luce] Roberto Grossatesta sviluppa l’argomento di cui vuole trattare partendo dalla cosmogonia del Libro della Genesi dove il tema fisico della “luce” emerge in un contesto metafisico: la luce, spiega Roberto Grossatesta, si presenta come un tramite [il primo] tra la fisica e la metafisica [se la luce è un filo conduttore tra Dio e la persona può esserlo anche tra la persona e Dio]. La luce originaria [lux] è, afferma Roberto Grossatesta, la prima forma creata e, in quanto tale, è la prima “corporeitas [il primo fenomeno corporeo]” come si legge nell’incipit del primo capitolo del Libro della Genesi ai versetti 3 e 4: «In principio Dio creò il cielo e la terra. Il mondo era vuoto e deserto, le tenebre coprivano gli abissi e un vento impetuoso soffiava su tutte le acque. Dio disse “Vi sia la luce!”. E la luce apparve. Dio vide che la luce era bella e separò la luce dalle tenebre».

   Roberto Grossatesta prende atto della valenza sacra del testo biblico però non si ferma a fare un’esegesi in chiave religiosa ma vuole portare il tema della “luce” sul piano della Fisica e dell’Ottica. Per Grossatesta la “luce” è una sostanza corporea finissima [substantia corporalis subtilissima et incorporeitati proxima], portatrice di forze e dei loro effetti, che si moltiplica e si diffonde [multiplicando se et diffondendo] nella materia. «Tutto è venuto dalla luce, scrive Grossatesta, generandosi, per così dire, da sé in tutte le direzioni, come da un punto di luce, nello stesso istante [instantanee],  può generarsi un’intera sfera luminosa». «Attraverso un processo di rarefazione e condensazione, scrive Grossatesta, nascono le sfere trasparenti della “regio caelestis [dell’universo]”, nella quale sono incastonati [secondo la concezione astronomica medievale tolemaica], i pianeti quali punti eccellenti di luce, e le sfere del fuoco, dell’aria, dell’acqua e della terra». Il cosmo, secondo Grossatesta, nasce dunque dall’autodiffondersi della luce per mezzo della sua stessa moltiplicazione [ab ipsius lucis diversa multiplicatione] e «la luce, scrive Grossatesta, unisce tutte le sue membra in modo analogo all’anima del mondo nel Timeo di Platone». La luce, secondo Grossatesta, è formata da atomi sottilissimi che partecipano alla generazione dell’universo e questo “atomismo dinamico” descritto nel trattato De luce di Grossatesta è diventato motivo di riflessione, con le dovute innovazioni date dallo sviluppo della scienza, per pensatori moderni e contemporanei come per esempio Rudjer Josif Boscovich [1711-1787] che nella sua opera - pubblicata a Vienna nel 1758 - intitolata Theoria philosophiae naturalis [Teoria di filosofia naturale redatta secondo l’unica legge delle forze esistenti in natura] traccia un sistema [su come funzioni l’Universo] che è a metà strada tra quello di Leibniz e di Newton prendendo le mosse dalle riflessioni di Roberto Grossatesta, l’autore del primo trattato di Fisica dove il mistero della Creazione viene spiegato nei minimi dettagli ricorrendo all’Ottica.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il termine “ottica” entra inevitabilmente nella nostra autobiografia: quali di queste espressioni – un familiare  panorama, un determinato paio di occhiali, un certo punto di vista su un certo argomento, una particolare prospettiva in relazione ad una personale visione del mondo - v’ispirano a scrivere quattro righe in proposito?...

Entrate nell’ottica delle scrivane e degli scrivani...

 

   Giuseppe Tomasi di Lampedusa [che tutte e tutti voi conoscete, perché lo abbiamo incontrato più volte nei nostri viaggi] ha già fatto il compito a suo modo: che cosa ha scritto a proposito dell’ottica del ricordo? Prima di leggere questo frammento dobbiamo dire che nei due intensissimi anni della sua vita, dal 1955 dal 1957, Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha messo insieme non solo gli otto capitoli del Gattopardo [un’opera che abbiamo studiato a suo tempo] ma anche tre racconti [e uno di questi, intitolato “La Sirena (Lighea)” lo abbiamo letto integralmente qualche anno fa] e uno scritto di carattere autobiografico di cui ora leggiamo il primo tassello dove lo scrittore non trascura né “l’ottica” né “la luce”.

 

LEGERE MULTUM….

Giuseppe Tomasi di Lampedusa, I racconti

L’OTTICA DEI RICORDI

Uno dei più vecchi ricordi che mi sia possibile di precisare nel tempo, perché si riferisce a un fatto storicamente controllabile, risale al 30 Luglio 1900, quindi al momento in cui io avevo qualche giorno più di 3 anni e mezzo.

Mi trovavo insieme a mia Madre e alla sua cameriera (probabilmente Teresa, la torinese) nella stanza di toletta. Era questa una stanza più lunga che larga che prendeva luce da due balconi opposti, situati sui lati stretti, prospicienti l’uno il  giardinetto angusto che separava la nostra casa dall’Oratorio di S. Zita, l’altro un cortiletto interno. La tavola di toletta che era a forma haricot [Nel manoscritto la forma della tavola di toletta è indicata da un disegno] con il piano superiore in vetro sotto il quale traspariva una stoffa rosa, e con le gambe raccolte in una specie di sottana di merletto bianco, era posta dinanzi al balcone che dava sul giardinetto e su di essa vi era, oltre alle spazzole ed altri aggeggi, un grande specchio con cornice anch’essa di specchio decorata con stelle ed altri ornamenti di cristallo che mi piacevano assai.

... continua la lettura ...

 

   Con Roberto Grossatesta abbiamo preso atto dell’attività “scolastica” degli intellettuali francescani e ora andiamo a constatare che cosa accade in ambito domenicano: il dato di fatto è che l’interesse per le Opere di Aristotele è diventato preminente in tutti gli ambienti “scolastici”.

   La penetrazione in Occidente del pensiero di Aristotele, avvenuta per vie diverse ma soprattutto attraverso il Gran Commento fatto da Averroè, crea un problema - intanto questo fenomeno spaventa le autorità ecclesiastiche che continuano a considerare Aristotele un avversario della religione e un sarcastico campione della laicità - e questo problema porta, dall’inizio del XIII secolo, ad una animata discussione che fa nascere una controversa questione [destinata a diventare la questione numero uno, tra quelle dibattute nelle Università e nella Chiesa, che annuncia l’approssimarsi dell’autunno del Medioevo], che ha come tema l’accettabilità o meno della Filosofia aristotelica. E il dibattito che si svolge non è solo di natura accademica ma assume un carattere politico [relativo alla gestione del potere] perché Aristotele, soprattutto nel trattato intitolato “Politika”, riflette sul funzionamento della società [della polis] che dà buoni risultati quando è fondato su una “costituzione” che lui definisce come: “la struttura [taxis] che dà ordine alla città stabilendo il funzionamento di tutte le cariche così da ripartire in modo equilibrato la sovranità”, e in un mondo in cui vige la regola dei “poteri assoluti per grazia di Dio” il pensiero politico di Aristotele suona come eversivo e chi lo apprezza viene visto come un pericoloso sovversivo.

   Il movimento della Scolastica [e noi nel corso di questo viaggio abbiamo frequentato tutte le Scuole più importanti] ha favorito: “la nascita delle spirito critico della persona”, “l’aumento dell’importanza [proprio con tutti i suoi limiti] della Ragione umana” e ha sostenuto “la richiesta di autonomia di pensiero”, e lo studio delle Opere di Aristotele ha decisamente contribuito al raggiungimento di questi risultati.

   Platone, per quanto anteriore a Cristo, è stato fatto diventare un vero e proprio teologo dai Padri della Chiesa, già dal IV secolo, come se fosse un profeta e, quindi, la cristianità [e anche la Scolastica arabo-islamica di Avicenna] non lo sente affatto come altro da sé ma lo percepisce come garante della Fede, mentre Aristotele rappresenta la “Ragione autonoma” nel senso che la sua Filosofia è un prodotto prettamente umano senza nessun ausilio soprannaturale ed è per questo che le Opere di Aristotele - ritenute da tutti gli scolastici troppo interessanti e utili per capire il Mondo creato, nonostante la pregiudiziale laica - sono entrate comunque in circolo come sappiamo proprio attraverso la mediazione del Neoplatonismo: apparentate al pensiero di Platone. Ma ora con il Gran Commento di Averroè - tradotto in latino nel 1230 - il velo è caduto: l’autentico pensiero “laico” di Aristotele viene svelato e questo fatto spaventa le autorità preposte a tutelare l’ortodossia.

   Nel 1210 il concilio di Sens, da cui dipendeva il giudizio sull’operato delle Scuole parigine, aveva già proibito di usare come libri di testo i Libri naturales [la Fisica] di Aristotele. Nel 1215 la proibizione viene estesa alla Metafisica e la condanna viene ribadita nel 1231 da papa Gregorio IX, che però fa una concessione perché molti elementi del pensiero di Aristotele erano già stati utilizzati per definire la dottrina: istituisce una commissione per la revisione delle Opere di Aristotele, e i commissari dovevano censurare tutte le affermazioni contrarie alla dottrina in modo da mantenere in circolazione le Opere purgate, ma il lavoro della commissione va molto per le lunghe perché, all’interno di essa, il gruppo degli esperti domenicani si spacca in due correnti [quella dei severissimi censori da una parte (gli inquisitori) e quella dei revisori assai possibilisti dall’altra (i missionari)] e così, nel frattempo, le Opere di Aristotele vengono tranquillamente usate [e sale anche notevolmente l’interesse nei loro confronti] fino a che, nel 1255, l’Università di Parigi, a cominciare dalla facoltà delle Arti, le adotta tutte ufficialmente, compreso il Gran Commento di Averroè, come Libri di testo.

   E questo non sarebbe potuto avvenire se tra i domenicani non ci fosse stato un personaggio come Alberto Magno e come il suo allievo Tommaso d’Aquino: quello che è stato chiamato “il trionfo dell’aristotelismo [e della Scolastica aristotelica]” - cioè l’affermarsi dell’autonomia della Ragione nei confronti della Teologia - si è verificato, soprattutto, per opera di queste figure. Chi è Alberto Magno?

   Alberto di Bollstädt detto Magno [Grande] nasce, tra il 1200 e il 1206, in una nobile famiglia sveva a Lauingen.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Lauingen è una piccola cittadina della Baviera in riva al Danubio: andate a visitarla con la guida della Germania e navigando in rete...

 

   Alberto studia all’Università di Padova ed entra nel 1223 nell’Ordine dei domenicani, e nel 1228 è Lettore di Teologia all’Università di Colonia dove si occupa anche di ricerche naturali, dalla mineralogia all’astronomia: ormai la tendenza naturalistico-  scientifica di stampo aristotelico si è fatta strada sul territorio della Scolastica. Nel 1231 Alberto si trasferisce a Parigi dove c’è un gran fermento: gli studenti della facoltà delle Arti nel Quartiere Latino sono entrati in sciopero perché i maestri domenicani della corrente intransigente [che egemonizzavano la facoltà] non vogliono adottare nei loro corsi le Opere di Aristotele [sono anti-aristotelici] e decidono di abbandonare la Scuola e di andarsene da Parigi. E Alberto [domenicano che aderisce alla corrente dei missionari-predicatori e partecipa alla contestazione studentesca] - essendo in possesso delle competenze necessarie - presenta il suo programma all’assemblea degli studenti i quali, all’unanimità, lo approvano e sospendono subito le agitazioni nel momento in cui a lui viene affidata la cattedra di Teologia e quindi le Lezioni riprendono sempre con un magister domenicano ma “filo-aristotelico [al quale comincia ad essere attribuito il titolo di Grande, di Magnus]”.

   La facoltà delle Arti di Parigi, guidata da Alberto Magno, diventa un laboratorio di innovazione filosofica e nel triennio, dal 1245 al 1248, frequenta le sue Lezioni uno studente che si chiama Tommaso d’Aquino e che diventa, in breve tempo, il principale collaboratore di Alberto Magno che ha anche dovuto svolgere un ruolo di governo nell’Ordine domenicano [a più riprese Alberto Magno è stato eletto e ha fatto parte del Capitolo dell’Ordine].

   Alberto Magno passa però la maggior parte della sua vita ad insegnare, oltre che a Parigi, ha insegnato a Ratisbona, a Strasburgo, a Bologna, a Padova e a Colonia. Poi Alberto Magno si è dedicato a scrivere i suoi trattati [ne ha composti molti e tutti fondamentali per dare una svolta alla Scolastica in senso aristotelico] e tra questi ricordiamo: De natura boni [Sulla natura del bene], la Metaphysica [Parafrasi sulla Metafisica di Aristotele in quattro libri] con l’obiettivo [parafrasi significa: spiegazione, commento, interpretazione] di rendere più chiaro e intelligibile il pensiero aristotelico ai suoi studenti, la Summa de creaturis [Summa sulle creature] e la Summa theologiae [Summa di teologia].

   Alberto Magno si è dedicato a studiare le Opere di Aristotele soprattutto per riflettere sul tema del rapporto tra la Fede e la Ragione mettendo bene in evidenza, con la massima determinazione, la netta distinzione dei due ambiti, quello della Ragione e quello della Fede, affermando che in virtù del loro distinto fondamento «le cose teologiche non si accordano con le cose filosofiche nei loro principi, perché la Teologia è fondata sulla Rivelazione e non sulla Ragione». Alberto Magno sostiene, quindi, che «è necessario imparare a fare la distinzione tra ciò che è dimostrabile e ciò che non lo è» e questa è già una caratteristica tipica del pensiero moderno che sa limitare sé stesso per prendere coscienza del proprio valore e dei propri diritti.

   Naturalmente questo pensiero viene considerato non ortodosso in primo luogo dal vescovo di Parigi, custode ufficiale della dottrina, Étienne [Stefano] Tempier, che lo accusa di eresia [accusa e minaccia anche il suo assistente Tommaso d’Aquino] perché sta insegnando agli studenti della facoltà delle Arti, senza l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica, il pensiero di Aristotele, e il vescovo pronuncia una condanna contenente duecentodiciannove capi di accusa. Alberto Magno, facendosi carico anche della difesa di Tommaso, risponde con molta durezza, commentando un passo del Dionigi Areopagita, definendo senza mai nominarlo direttamente il prelato «una bestia bruta che bestemmia senza nemmeno sapere che cosa sta dicendo» e poi aggiunge, commentando un passo dalla Politika di Aristotele, che «certi censori, ignoranti ed ipocriti, si possono paragonare a quelli che uccisero Socrate, che esiliarono Platone e che costrinsero Aristotele a lasciare Atene». Ma questo scontro è esemplare e dimostra che i tempi sono cambiati e il vescovo Tempier e il magister Alberto Magno appartengono ormai a due mondi intellettuali diversi: Tempier al [vecchio] mondo dove la Filosofia era considerata un’ancella della Teologia, mentre Alberto appartiene al mondo [nuovo] dove la Filosofia e la Teologia sono due materie distinte e separate che non hanno nulla in comune. Ogni cosa, scrive Alberto Magno, può essere esaminata da due punti di vista: come “res in se [cosa in sé]” e allora appartiene alla Filosofia, o come “res ut beatificabilis [cosa beatificante]” e allora appartiene alla Teologia. Quello che per la Teologia “è vero”, scrive Alberto Magno, per la Filosofia “è solo probabile” ed è questa la differenza sostanziale tra le due discipline.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

C’è qualcosa di buono [la natura di questo “qualcosa di buono” sceglietela voi] che, a vostro avviso, ha qualche probabilità di potersi concretizzare nella vostra vita individuale e/o nella società?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Il tema del rapporto tra Fede-Ragione [come sappiamo] ci accompagna da quando abbiamo iniziato questo viaggio ed è un tema che non caratterizza soltanto l’intera Età medioevale ma continuerà ad essere, in varie forme, anche sotto forma di forte scontro, presente durante tutta l’Età moderna e continua ad essere all’ordine del giorno anche in Età contemporanea.

   Alberto Magno, dicono le cronache dell’epoca, era “un uomo di bell’aspetto, elegante nel portamento, gentile nei modi e, naturalmente, molto bravo a comunicare e soprattutto nel preparare il terreno, con i discorsi e con gli scritti, perché i suoi allievi potessero crescere intellettualmente. A Parigi, ci dicono le cronache, spesso [e questo succedeva soprattutto a primavera] doveva tenere le sue Lezioni all’aperto per l’alto numero di studenti che lo volevano ascoltare e, difatti, c’è una piazza a Parigi, place Maubert, che [secondo una tradizione ormai acquisita] deve il suo nome proprio ad Alberto Magno perché il termine “Maubert” sarebbe la contrazione delle parole “Magister” e “Albertus”, e questa piazza è sempre stata il quartier generale degli studenti e, ad ogni rivoluzione, è proprio qui che sono state erette le prime barricate, ed è pure servita come luogo di esecuzioni e anche come punto di partenza per il più tradizionale dei pellegrinaggi, quello che porta a Santiago de Compostela, perché lì vicino c’è rue de St-Jacques.

   Alberto Magno è morto a Colonia nel 1280 secondo alcuni, dicono le cronache, a settantacinque anni, secondo altri invece a ottantasette quando però era già diventato sordo e quasi cieco e anche assai rattristato per il fatto che il suo allievo prediletto [che aveva superato il maestro], Tommaso d’Aquino, nonostante fosse più giovane di lui di circa due decenni, era già morto da qualche anno [nel 1274].

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Con la guida di Parigi e navigando in rete andate a localizzare place Maubert e a visitare i monumenti che ci sono nella zona attigua a questa piazza [una zona centrale della città]...

Ci piace pensare che, nelle sere di primavera, Alberto Magno sia sempre lì, in place Maubert, a far Lezione sul “tema della natura del bene”, a far riflettere sul fatto che tanto la Teologia quanto la Filosofia, ciascuna nel proprio ambito [come lui sostiene], debbano perseguire il comune obiettivo di far passare l’idea del Bene dalla potenza all’Atto…

 

   La coppia formata da Alberto Magno e da Tommaso d’Aquino ha segnato non solo la Storia della Filosofia del XIII secolo [della Scolastica] ma tutta la Storia del Pensiero Umano. Il rapporto tra Alberto e Tommaso costituisce un esempio significativo di come un maestro sia stato così bravo a preparare il terreno per un suo allievo. Il merito di Alberto Magno è quello di avere introdotto nel dibattito filosofico “le questioni” che saranno svolte con straordinario acume dal suo discepolo Tommaso.

   Perché Tommaso d’Aquino è così importante nella Storia della Filosofia universale tanto da essere diventato una figura quasi leggendaria? Sappiamo che a far diventare Tommaso uno straordinario personaggio ha contribuito anche Dante Alighieri [l’impostazione ideologica della Divina Commedia è fondata sul pensiero filosofico di Tommaso ma Dante non disdegna di citare in continuazione anche Alberto Magno], ma c’è, in proposito, una ragione specifica: Tommaso d’Aquino - che è dotato di uno straordinario spirito enciclopedico [una competenza che ha acquisito alla Scuola di Alberto Magno] - nelle sue Opere è stato capace di fare una grande sintesi [una summa] di tutti i temi prodotti dal pensiero della Scolastica dal IX secolo in avanti mettendoli in ordine secondo il metodo categoriale di Aristotele.

   Per capire meglio [per rendere più comprensibile il pensiero di Tommaso, tenendo conto del fatto che non è un argomento facile da trattare] come agisce intellettualmente Tommaso d’Aquino si può utilizzare una metafora mutuata, anche questa, dalle Lezioni di Alberto Magno.

   Tommaso d’Aquino agisce [secondo una figura allegorica che ha mutuato dalle Lezioni di Alberto Magno] come se avesse in mano tre fili - uno blu, uno verde e uno rosso - con i quali tesse la tela del suo pensiero. I tre fili che ha in mano Tommaso corrispondono a tre elementi, a tre dati acquisiti: Tommaso ha in primo luogo fiducia nella Ragione [nel filo blu del Logos, nel patrimonio dei Classici greci e latini], poi in secondo luogo ha un grande interesse per la Natura [nel filo verde della Physis, il filo dell’azione sperimentale] e in terzo luogo coltiva la Fede nella Parola di Dio [nel filo rosso del Verbum rivelato dalla Letteratura dell’Antico Testamento e dei Vangeli]. In quale rapporto, si domanda Tommaso, stanno questi elementi pur rimanendo nella loro autonomia [come si può tessere una tela variegata - un pensiero efficace - nella quale però i colori, pur mescolandosi, mantengono il loro aspetto in modo evidente]? In che rapporto stanno - pur mantenendo la loro sostanziale indipendenza - la Ragione dotata della sua Logica, la Natura con la sua Causalità e la Parola di Dio contenente la Buona notizia [l’Euanghelon, il Vangelo] della salvezza?

   Tommaso inizia la sua riflessione [sempre incoraggiato dalla lezione di Alberto Magno] partendo dal filo blu della Ragione sapendo di trovarsi tra due fuochi: di fronte a due linee di tendenza che si ostinano a non voler intessere rapporti tra loro. Sappiamo che per un verso [sulla scia di Agostino, di Avicenna, di Bernardo di Clairveaux, di Bonaventura] la Ragione umana è considerata debole [fragile, inconsistente a causa del peccato originale], quindi, la Ragione senza la Fede non ha la capacità di raggiungere la conoscenza e, di conseguenza, c’è solo un sapere valido, quello teologico, fondato sull’autorità della Parola di Dio. Per un altro verso [sulla scia di Averroè, dei maestri della Scuola di Chartres e di Sigieri che non abbiamo ancora incontrato] sappiamo che la Ragione umana è uno strumento autonomo, quindi, non c’è altra verità che quella data dalla Ragione e, di conseguenza, c’è solo un sapere valido, quello filosofico, fondato sulla Logica.

   Ebbene, Tommaso si propone di superare questa situazione: vuole tessere una nuova trama intellettuale intrecciando i fili che ha a disposizione [il blu della Ragione, il verde della Natura, il rosso della Parola di Dio], e questa metafora corrisponde ad una affermazione programmatica [scrive Tommaso]: «La Ragione e la Fede appartengono a due campi distinti della conoscenza ma non sono due aree contrapposte; la Ragione è autonoma dalla Fede, scrive Tommaso, ma non è in contrapposizione ad essa, bensì è forte e potente proprio perché tende [e qui nella mente di Tommaso c’è incipit della Metafisica di Aristotele] verso la Verità; la Ragione, scrive Tommaso, tende verso verità che superano il proprio campo d’azione perché, afferma Tommaso, aspira ad utilizzare la sua Logica per dare una forma ai contenuti della Fede». Ed è per questo motivo, afferma Tommaso, che la Ragione si è diretta e si dirige sempre verso obiettivi culturali che sono anche verità di Fede e, in particolare [afferma Tommaso, facendosi enciclopedista della Scolastica], due di queste verità di Fede sono diventate significative mete culturali [due grandi argomenti di studio]: il tema dell’esistenza di Dio e quello dell’immortalità dell’anima. Queste due verità di Fede sono, quindi, due realtà in potenza, afferma Tommaso pratico del pensiero di Aristotele, che sono diventati due obiettivi culturali in atto perché questi due “predicati della dottrina” possono essere dimostrati con la Ragione: si può, scrive Tommaso, dare una forma logica a questi due contenuti dottrinali [si può intrecciare il filo blu della Ragione con il filo rosso della Parola di Dio] naturalmente dentro i confini, e nei limiti, della Ragione stessa.

   Ragione e Fede, quindi, afferma Tommaso, non sono in disaccordo fra loro, ma hanno ciascuna un loro campo distinto e autonomo: la Ragione controlla le verità naturali, la Fede ha come suo oggetto quelle soprannaturali, vi è poi un terzo campo comune alla Fede e alla Ragione dove ci sono due verità di Fede che possono essere dimostrate con la Ragione: l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, due temi che Tommaso chiama “praeambula fidei [preamboli della fede]” in quanto argomenti che introducono [un preambolo è un’introduzione] nella mente della persona la necessità della Fede e, di conseguenza, la fiducia [nonostante i suoi limiti] nella Ragione.

 

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Di quale colore era il filo [lo spago, il nastro, la fettuccia] con il quale ultimamente avete cucito, rammendato, guarnito, legato?...

Scrivete quattro righe in proposito...

 

   Per concludere lasciamo che sia Tommaso, con la sua viva voce tratta dal suo Commento al Dionigi Areopagita, a ribadire ciò che abbiamo detto.

 

LEGERE MULTUM….

Tommaso d’Aquino, Commento al libro di Dionigi sui nomi divini

Una persona può essere esperta in un campo, ma non in tutti. Un falegname sa come si costruisce un tavolo, un medico sa come si cura un malato, nessuno, però, sa tutto di tutto. E che cos’è il Tutto? È la Verità. E chi potrà mai comunicarci la Verità? La prima risposta che viene in mente potrebbe essere la Ragione, ma la Ragione può darci una mano solo in parte, nell’ambito dei preamboli, perché a forza di ragionare - visto che, in quanto esseri umani, ci siamo esercitati da parecchio tempo in materia - è possibile arrivare a definire l’esistenza di Dio e anche a dimostrare, come sostiene con valide argomentazioni il Dionigi Areopagita, l’immortalità dell’anima, ma come è possibile dimostrare l’esistenza della Trinità, dell’Incarnazione e del Giudizio finale? Solo la Rivelazione, contenuta nella Sacra Scrittura, può svelare certi misteri.

Nostro compito, quindi, è quello in primo luogo di riflettere sulla necessità di un Creatore, e di mettere in evidenza in secondo luogo i vantaggi del credere, e in terzo luogo di far riflettere quelli che non credono. Per sviluppare questo programma è necessario tessere un pensiero che sappia utilizzare il filo della Ragione con la sua Logica, quello della Natura con la sua Causalità e quello della Parola di Dio contenente la buona notizia della salvezza.

 

   In che modo, con quale ragionamento progressivo, Tommaso d’Aquino intende realizzare il suo programma [da missionario predicatore domenicano] per far riflettere i suoi interlocutori sulla necessità che ci sia un Creatore, sul fatto che credere in Dio sia conveniente per il bene dello spirito e per far sì che chi non crede debba comunque riflettere sul senso da dare alla propria vita? Per realizzare questo programma Tommaso imbastisce un complesso ragionamento progressivo facendo entrare in gioco - inserendoli in un sistema esemplare - i concetti aristotelici che ha acquisito alla Scuola di Alberto Magno: la netta distinzione tra l’ambito della Fede e quello della Ragione; la netta distinzione tra ciò che è dimostrabile e ciò che non lo è; il fatto che il Pensiero, se conosce i suoi limiti, prende coscienza del proprio valore, dei propri diritti e dei propri doveri; il fatto che le ragioni di Dio sono inaccessibili all’essere umano e l’essere umano deve, di conseguenza, imparare a cavarsela da sé mediante lo studio, rivendicando l’autonomia dello studio, la necessità dello studio, il diritto-dovere allo studio.

   Con l’entrata in circolo di questi concetti [con quello che è stato chiamato “il trionfo dell’aristotelismo e della Scolastica aristotelica”] inizia l’autunno del Medioevo, la stagione [cosiddetta] dell’Umanesimo che dà i suoi frutti su un territorio nel quale viaggeremo nel corso del prossimo anno scolastico. Ma non anticipiamo i tempi: chi è Tommaso d’Aquino e come si articola il suo pensiero? In che modo Tommaso riesce a tessere il filo blu della Ragione con il filo verde della Natura e il con quello rosso della Rivelazione?

   Per rispondere a queste domande bisogna continuare ancora a percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune e, per promuovere l’Apprendimento permanente la Scuola è qui per affermare, caparbiamente, che non bisogna mai perdere la volontà di imparare e il compito della Scuola è proprio quello di insegnare a “imparare ad imparare”.

   Non mancate al penultimo itinerario di questo viaggio…

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 22, 2015