ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
Un secondo viaggio sul territorio del secolo dei Lumi
25-26-27 ottobre e 3 novembre 2023
SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI
SI SVILUPPA L’IDEA CHE GLI STUDI SCIENTIFICI
DEVONO ANDARE DI PARI PASSO CON QUELLI UMANISTICI...
Dopo aver celebrato la volta scorsa il tradizionale rituale della partenza, questa sera stiamo per prendere il passo sul secondo itinerario del nostro secondo viaggio sul territorio del secolo dei Lumi.
Siamo come sapete a Napoli in compagnia di uno scrittore che si chiama Raffaele La Capria del quale abbiamo utilizzato, come introduzione al nostro viaggio, la sua biografia letteraria intitolata Chiamiamolo Candido per prendere contatto con la città partenopea e con il concetto di “memoria immaginativa” che ci fa entrare in contatto con il personaggio settecentesco con il quale abbiamo appuntamento. Ma prima di incontrare questo personaggio dobbiamo prolungare, seppur di poco, il nostro incontro con Raffaele La Capria per conoscere e per capire che ruolo gioca “la memoria immaginativa” all’interno del romanzo più celebre che questo scrittore ha composto, e dobbiamo anche domandarci chi è Raffaele La Capria? In quanto, sebbene nell’anno 2005 le sue numerose Opere siano state pubblicate nella prestigiosa collana dei Meridiani dedicata alle autrici e agli autori più importanti, ebbene, La Capria è sempre rimasto in secondo piano e poco conosciuto nel panorama letterario italiano. Lui scherzosamente ha sempre affermato: «Io sono più noto al pubblico non tanto come scrittore ma per aver avuto la fortuna nel 1961 di avere incontrato e poi di aver sposato - io che sono piuttosto bruttino - una donna meravigliosa per la sua bellezza e famosa per la sua bravura come l’attrice Ilaria Occhini» 1934-2019, che tutte e tutti voi avete apprezzato a teatro e al cinema.
Ma leggiamo che cosa ha scritto La Capria - nel suo saggio intitolato L’estro quotidiano - in occasione dell’uscita del Meridiano a lui dedicato.
Raffaele La Capria, L’estro quotidiano
Mi è arrivata la prima copia del Meridiano che contiene tutti i miei scritti. Me lo rigiro tra le mani, lo sfoglio, lo guardo come se non fosse uguale a tutti gli altri volumi della collana. E infatti non lo è. C’è il mio nome sul dorso, questa la differenza: La Capria, Opere. Non so perché mi viene da ridere, Opere non sarà troppo solenne? Chi se lo sarebbe aspettato di entrare nei saloni della Letteratura, a contatto con i grandi di tutte le epoche. Ci sono entrato è vero in punta di piedi, senza farmi notare, e sempre con il timore di sentire in un bisbiglio: «Ma che ci fa questo La Capria in mezzo a noi? Chi lo ha invitato?». Non dirò come il poeta Giorgio Caproni [1912-1990], quando seppe che sarebbe uscito il suo Meridiano: «Mi vogliono ammazzare!».
... continua a leggere ...
E, difatti, è bene prendere la buona abitudine di scrivere quattro righe al giorno come ci suggerisce di fare Rita Levi Montalcini per mantenerci in salute nell’anima e nel corpo e poi è vero che le Opere dei Classici sono diventate immortali.
Raffaele La Capria si è distinto tanto come scrittore [romanziere e saggista], quanto come sceneggiatore [cinematografico, radiofonico, teatrale] e anche come traduttore [dall’inglese in italiano e viceversa]. È nato a Napoli il 3 ottobre 1922 ed è morto a Roma il 26 giugno 2022 e, quindi, era in procinto di compiere cento anni.
Nel 1947 La Capria si è laureato in giurisprudenza all’Università Federico II di Napoli e, dopo aver soggiornato in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti dove frequenta i Seminari di Letteratura all’Università di Harvard, decide di lasciare Napoli per trasferirsi a Roma, e qui inizia a collaborare alle pagine culturali del Corriere della Sera, viene assunto alla Rai [dove scrive una serie di radiodrammi] e poi lavora come sceneggiatore di molti film [tra cui Le mani sulla città, Cristo si è fermato a Eboli, Uomini contro] del regista Francesco Rosi, napoletano come lui e suo amico e coetaneo, e poi, sempre per il cinema, collabora con Mario Soldati, con Luigi Comencini, con Giuseppe Patroni Griffi e con Lina Wertmüller.
Il suo primo romanzo è del 1952 e s’intitola Un giorno d’impazienza mentre, nove anni dopo, con il suo secondo romanzo, intitolato Ferito a morte, La Capria, nel 1961, si aggiudica il Premio Strega e il suo nome è sempre rimasto legato a questo romanzo di successo come se non avesse prodotto altro. Ma La Capria, considerato erroneamente l’autore di un solo libro, ha svolto un grande lavoro intellettuale e ha pubblicato altri romanzi, numerosi saggi, molte raccolte di racconti ed è considerato uno degli scrittori italiani più significativi del ‘900 e, come abbiamo detto, nel 2005 le sue Opere sono state raccolte in due volumi nella autorevole collana i Meridiani.
Il romanzo Ferito a morte è considerato un classico della Letteratura italiana del ‘900 [è un libro non facile, ma da leggere] in quanto è dotato di una scrittura in cui l’autore utilizza il flusso di coscienza [come fanno Marcel Proust, Italo Svevo e J.Joyce] che si realizza attraverso il monologo interiore che si svolge nella mente di ogni singolo protagonista prima che questo prenda la parola, e poi l’autore usa, con grande abilità, il dialogo polifonico che s’instaura, a ruota libera, tra i personaggi che danno vita al racconto. Il testo di Ferito a morte è composto da dieci capitoli, e nei primi sette - ambientati durante una bella giornata estiva del 1954 sulla terrazza di un Circolo nautico - l’autore racconta una serie di vicende che vengono rievocate, a partire dall’estate del 1943, da un gruppetto di giovanotti indolenti appartenenti alla buona borghesia napoletana i quali passano, e sprecano, il loro tempo al sole in riva al mare davanti allo splendido panorama del golfo partenopeo. La Capria ricostruisce con la sua scrittura - detta “di percezione” - un tessuto linguistico che è fatto di chiacchiere: i suoi personaggi, questi “Leoni al sole”, sono persone che parlano senza freni inibitori e, molto spesso, parlano a sproposito, ma nei loro discorsi emerge, senza che i dialoganti se ne rendano conto, il tema della lotta tra la natura e la storia, il tema degli amori mancati, il tema del tempo che passa, dei sogni, delle belle giornate passate, dei ritorni e dei rimpianti, e da queste chiacchiere emerge l’affresco di un’epoca e di una società. La Capria critica dall’interno la società borghese mostrandone i difetti attraverso il modo in cui gli appartenenti a questa classe sociale si esprimono a parole, e la sua è una denuncia implicita di carattere esistenziale senza enunciazioni ideologiche ma molto efficace nel condannare i guasti creati dalla borghesia napoletana e non solo napoletana [quella che, nel dopoguerra, ha nesso le mani sulla città]. Tra questi giovani che passano e sprecano il loro tempo al Circolo nautico, c’è anche il protagonista del romanzo, Massimo [Massimo De Luca], il quale ha deciso di reagire nei confronti di questa situazione che è diventata per lui insopportabile e, quindi, sta per lasciare Napoli per stabilirsi a Roma per allontanarsi da questi suoi amici indolenti e anche da Carla [Carla Boursier] che lui ha incontrato durante un bombardamento nel 1943 e con la quale intesse una relazione. Gli ultimi tre capitoli del romanzo sono ambientati nel 1960, e l’autore descrive il disincanto che Massimo prova nel tornare qualche anno dopo nella sua città, «una città [scrive La Capria] che ti ferisce a morte o ti addormenta, o tutte e due le cose insieme perché si identifica con l’irraggiungibile Carla, con il mare e con i miti della giovinezza».
Il testo dell’incipit del romanzo è molto particolare perché l’autore coglie il protagonista mentre è a letto, nell’attimo che passa tra la veglia e il sonno, e sta finendo di sognare, e il sogno che sta facendo contiene un ricordo profondo: quello di una bella giornata che lui ha vissuto e che vorrebbe tornasse e non finisse mai, ma a questa bella sensazione se ne sovrappone anche un’altra, sgradevole e malinconica, perché ciò che sta sognando rimanda a una Grande Occasione Mancata.
La Capria crea una scrittura poetica e dotata di intelligenza, e per entrare nella storia che sta per narrare si applica in modo che le sue parole diventino immagini che si compongono con lentezza: di conseguenza, la lettura del testo che si forma non può essere affrontata velocemente ma con pazienza, con la stessa pazienza che comporta la pesca subacquea e, quindi, la metafora che sta in principio nell’incipit di Ferito a morte è rappresentata da una spigola: un’immagine allegorica che contiene anche un’indicazione per quello che deve essere il ritmo di lettura del testo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Il romanzo Ferito a morte di Raffaele La Capria lo potete richiedere in biblioteca…
C’è stata una grande occasione nella vostra vita che non avete potuto o voluto cogliere?...
Scrivete quattro righe in proposito...
E ora leggiamo insieme l’incipit del romanzo e, quindi, ci mettiamo anche noi, con pazienza [con maschera, pinne e fiocina] a seguire, insieme al protagonista, una spigola di belle dimensioni [che potremmo fare al cartoccio] se, però, non fosse solo un’immagine che rappresenta - nell’animo del protagonista del romanzo che, nel dormiveglia, sta sognando - la metafora di una Grande Occasione Mancata che gli procura una sensazione di grande spossamento come se fosse stato ferito a morte.
Raffaele La Capria, Ferito a morte
La spigola, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come una fortezza volante quando la vedevi sbucare ancora silenziosa nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese - è vicina, vicinissima, a tiro. La Grande Occasione. L’aletta dell’arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto tra le branchie e le pinne dorsali. Sta per tirare - sarà più di dieci chili, attento, non si può sbagliare! - e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli.
.. continua la lettura ...
E allora aprite anche voi gli occhi sulla Scena e, se volete, potete andare avanti a leggere il testo di questo romanzo tenendo conto del fatto che non c’è persona [comprese tutte e tutti noi] che non abbia riflettuto su una Grande Occasione Mancata.
E ora Raffaele La Capria - che, come il protagonista del suo romanzo, si è allontanato da Napoli mantenendo una ben determinata immagine mentale della sua città - ci accompagna [con alcuni brani tratti dal suo saggio intitolato L’occhio di Napoli] all’appuntamento con Giambattista Vico, un personaggio che lui cita spesso nelle pagine dei suoi Scritti.
Chi è Giambattista Vico e quali Opere ha composto e, soprattutto, quale programma di studio ritiene utile perché la persona si avvii sulla strada della conoscenza per essere pronta a investire in intelligenza?
Giambattista Vico - nato nel 1668 e morto nel 1744 a Napoli - viene considerato una figura di studioso vissuto ancora a cavallo tra due secoli: il ‘600 e il ‘700 e, difatti, la sua formazione intellettuale, che è di natura giuridico-retorica, si basa in gran parte su testi del pensiero del ‘600 oltre che su testi classici e, a prima vista, la sua istruzione, la sua cultura, può sembrare, rispetto al secolo dei Lumi, persino arretrata, di carattere provinciale. Vico esprime il suo pensiero ancora in latino in un periodo in cui le intellettuali e gli intellettuali scrivono e leggono in inglese, in tedesco e soprattutto in francese, e sembra proprio che Vico tema di essere suggestionato da questo fatto come se il suo voler “non essere influenzato”, costituisse una sorta di antidoto contro l’accettazione di idee non sue: paradossalmente questa situazione di apparente chiusura ha spronato Vico a elaborare un’alternativa nei confronti della scienza del momento e, di conseguenza, si è posto il problema di non accettare in modo acritico la filosofia di Cartesio di cui è stato un puntiglioso studioso. E che cosa ha letto Vico per favorire la sua formazione?
È lui stesso a farci sapere di aver letto e studiato le Opere di Omero, di Virgilio, di Orazio, di Cicerone, di Dante, di Petrarca, di Boccaccio, di Ariosto, di Tasso e dei Padri della Chiesa. E dichiara anche di essersi molto appassionato allo studio dei Dialoghi di Platone, del Novum Organum di Bacone e delle Opere di Cartesio.
All’apertura dell’anno accademico 1708 all’Università di Napoli - dove Vico è stato chiamato a insegnare - legge la Prolusione [il discorso di inaugurazione dell’anno accademico] scritta in latino e intitolata De nostri temporis studiorum ratione [Il metodo degli studi del nostro tempo], e il contenuto di questa conferenza, passata alla Storia del Pensiero Umano, costituisce la prima tappa di un percorso alternativo al Discorso sul metodo di Cartesio pubblicato nel 1637 che, nel ‘700, viene adottato da tutte le Università. Il metodo di Cartesio da applicare per conoscere la realtà [come ricorderete dal Percorso dell’anno 2018-2019] è fondato su “le scienze matematiche e lo studio della Natura” mentre Giambattista Vico intende proporre un metodo di conoscenza della realtà basato su “le scienze morali e lo studio della storia, del diritto, della politica e delle arti” quelle che lui chiama “le scienze umane”. Vico, nella conferenza per l’apertura dell’anno accademico 1708 all’Università di Napoli, indica le Opere di tre autori la cui conoscenza è fondamentale per rendere ben fatta la mente della persona che studia.
Il primo autore che lui cita è Francesco Bacone [1561-1626] che, con la sua opera intitolata Novum Organum [1622-1627], ha elaborato [afferma Vico nel suo Discorso] il programma della corrente dello “sperimentalismo” e ha promosso un pensiero molto importante perché, sostiene Vico, ha il merito di aver messo in luce i limiti della conoscenza umana: «In verità [scrive Vico] la persona acquisisce un sapere delle cose che è sempre imperfetto se non finto, ma è proprio questa situazione a tener viva la dinamica della conoscenza». Poi l’opera di Bacone, afferma Vico, ha un valore rilevante perché assegna al sapere il fine proprio che deve avere: quello di apportare dei miglioramenti effettivi, tanto materiali quanto morali, alla condizione umana. «Gli scienziati e i potenti [scrive Vico] che coltivano un sapere fine a se stesso e praticano una ricerca come esercizio narcisistico che non abbia come obiettivo quello di realizzare la dignità della persona non segna un momento di progresso nella conoscenza e, di conseguenza, gli studi scientifici devono andare di pari passo con quelli umanistici. Gli studi scientifici, e il [cartesiano] metodo geometrico, vogliono perseguire unicamente “il vero”, ma raggiungere “il vero” non è cosa facile se non quasi impossibile e, quindi, occorre imparare ad avvicinarsi al “(certo)probabile e al verosimile” che sono due possibilità più conformi con la natura umana in quanto “il probabile e il verosimile” sono propri delle scienze umane (come l’eloquenza, la retorica, la poesia, la letteratura), e sono proprio “le scienze umane” ad avere come fine, fin dall’antichità, quello di rendere comunicabile “il verosimile” in modo da farlo diventare il più comprensibile possibile». Giambattista Vico ha l’ardire di sottolineare il fatto [con il suo Discorso controcorrente] che - sulla via che conduce alla conoscenza della realtà - il metodo sperimentale di Francesco Bacone, che mira a perseguire il verosimile e il probabile è da privilegiarsi rispetto a quello geometrico di Renato Cartesio, che mira a definire il vero.
Dopo l’opera di Bacone nel programma della persona che studia [afferma Vico] ci devono essere i Dialoghi di Platone perché «questo sommo pensatore è il filosofo [scrive Vico] che mostra come la persona dee [deve] essere in quanto la sua opera insegna che il Bene è da preferirsi al Male: cosa molto facile da dirsi ma assai difficile da farsi senza la dovuta educazione [paideia]».
Il terzo autore la cui opera [le Historiae e gli Annales] deve essere studiata è Tacito [56 circa-dopo il 116] ovvero «lo storico che rivela [scrive Vico] la persona quale essa è, come detentrice di tutte le contraddizioni umane: bestia che sa farsi a volte angelo e angelo che decade spesso a bestia».
Dopo il 1716 ci sarà un quarto autore caro a Vico: l’olandese Ugo Grozio [1583-1685] che, nella sua opera intitolata Il diritto di guerra e di pace [da noi conosciuta nel Percorso dell’anno 2019-2020] sostiene una serie di idee che Vico condivide: «se è la ragione [scrive Vico parafrasando Grozio] che ci rende persone “umane” - se la ragione è l’essenza della natura umana - allora tutto ciò che è naturale si identifica con ciò che è razionale e, di conseguenza, le Leggi di natura, il cosiddetto “diritto naturale”, non è altro che l’espressione della ragione, e di conseguenza, la persona, con la ragione, può approvare o condannare un’azione a seconda di come si accorda con le Leggi della natura». E così come sussiste [afferma Vico in accordo con Grozio] “un diritto naturale” esiste pure “una religione naturale” alla quale la persona aderisce con la ragione e i cui principi stanno alla base di tutte le religioni che sono state codificate sulla faccia della Terra e che sono state “rivelate” attraverso l’apporto della Letteratura. Quindi, secondo Giambattista Vico, la persona che studia deve cogliere l’occasione di avvicinarsi alle Opere di Bacone, di Platone, di Tacito e di Grozio ed è compito della Scuola [l’Università di Napoli in questo caso] fornire alla persona un buon piano di studi affinché impari a investire in intelligenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è stata un’occasione favorevole che avete saputo cogliere e che ha reso migliore la vostra vita?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Ma chi è Gambattista Vico? Prima di rispondere leggiamo un brano tratto dal saggio intitolato L’occhio di Napoli dove Raffaele La Capria si guarda attorno anche con l’occhio [virgiliano e omerico] di Vico per descrivere “l’immagine mentale” che ha della sua città e anche noi è bene che impariamo a guardare il Mondo con l’occhio dei Classici: lo so, non è di moda, ma noi non veniamo a Scuola a far le mode! Sapete che il Golfo di Napoli ha una parte “virgiliana” e una parte “omerica”? Per questo il Golfo di Napoli è bello! Ce lo ha spiegato Vico e ce lo rispiega La Capria.
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli
Per me Napoli, l’immagine mentale che ne ho, non è soltanto quella della città, ma è sempre inseparabile dalla sua cornice naturale. Non c’è città al mondo che contenga più natura di Napoli. E perciò le strade nere di folla e l’aggrovigliato gomitolo dei vicoli del suo centro storico sono stati sempre collegati nella mia immagine alla Napoli marina, alla sirena Partenope che si distende nel golfo ai piedi del Vesuvio, tra le isole e penisole azzurre. Sotto le amene apparenze Napoli è stata sempre, per me, Natura primordiale e indomabile e questa la considero una chiave interpretativa per capire meglio la città, e il mio rapporto con essa. Sono nato e sono vissuto nella mia giovinezza a Posillipo. Già nel nome Pausi-lypòn (che in greco vuol dire: “una pausa al dolore”) e in questo - come ci ha ricordato Giambattista Vico - si sente una nota virgiliana...
... continua la lettura ...
Ma chi è Giambattista Vico?
Giambattista Vico ha scritto la sua autobiografia pubblicata nel 1725 e ampliata nel 1731, e perciò potremmo pensare di sapere tutto di lui, però, è lo stesso autore a smentire questo fatto a causa del metodo che ha utilizzato per parlare di sé: «Ho raccontato [scrive Vico] la mia vita non come uno storico ma come se fossi un filosofo, sul modello tanto del Discorso del metodo di Cartesio quanto seguendo la mia memoria immaginativa». Che cosa significa? Intanto del concetto di “memoria immaginativa”, come ricorderete, ce ne ha parlato lo scrittore Raffaele La Capria nel primo itinerario di questo viaggio facendoci capire che non c’è persona che sia immune da questo fenomeno, generato dalle immagini primarie che si formano, stimolate dalle sensazioni, nella mente della persona e che si depositano in modo ciclico per sempre nell’anima. Vico, nel raccontare la sua biografia, applica gli stessi principi con cui racconta la Storia dell’Umanità [un argomento di cui parleremo strada facendo], cioè narra le vicende della sua vita in modo ciclico senza scendere nei particolari e, di conseguenza, non racconta tutto, anzi certi fatti non li vuole proprio raccontare.
Giambattista Vico, come abbiamo detto, nasce a Napoli in una famiglia povera il 23 giugno 1668. Suo padre, Antonio, è originario di Maddaloni [cittadina in provincia di Caserta che vanta un Castello medioevale e una Torre longobarda, visitatela in rete] dove ha lavorato come bracciante agricolo e quando è emigrato a Napoli ha iniziato a fare il libraio rilevando una misera bottega in via San Biagio dei Librai al numero 31, dove oggi c’è una lapide che indica dove è nato Giambattista Vico, nella quale abita insieme alla moglie, Candida Masullo, una donna molto malinconica di carattere, che oltre a Giambattista ha partorito altri sette figli. Giambattista è un bambino molto vivace e all’età di sette anni, in una tremenda caduta, ha battuto la testa e per tre anni è rimasto infermo e si pensava restasse privo di intelligenza, invece, pur rimanendogli addosso una profonda inquietudine, si è ripreso bene tanto da poter iniziare a studiare con profitto nel Collegio Massimo dei Gesuiti di Napoli dove eccelle soprattutto nella Logica, nella Metafisica e nelle Lettere, in particolare nello studio dei Classici.
Suo padre vorrebbe che lui diventasse magistrato e lo iscrive alla facoltà di Giurisprudenza ma Giambattista non riesce a laurearsi perché le precarie condizioni economiche della sua famiglia [è lui che deve mantenere i suoi fratelli privi di occupazione] non gli permettono di studiare senza lavorare, e lui si deve dar da fare per essere ingaggiato come precettore dei rampolli delle nobili casate della città: per un decennio circa svolge questo lavoro, a Napoli, a Portici e, dal 1686, nel castello di Vatolla nel Cilento per educare i figli del marchese Domenico Rocca, fratello del vescovo di Ischia, Geronimo Rocca. Nel castello di Vatolla il giovane Vico vive isolato ma ha a sua disposizione la biblioteca padronale ben fornita per cui ha modo di completare i suoi studi [di dedicarsi all’autoperfezionamento] approfondendo [e di questo siamo già al corrente] la sua conoscenza del pensiero di Sant’Agostino, di Cartesio, di Francesco Bacone, dell’opera storica di Tacito e del pensiero Neoplatonico sulle opere di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola.
Ma poi scopre e ne rimane affascinato l’opera proibita De rerum natura di Lucrezio e, di conseguenza, aderisce virtualmente [perché non c’è nessuno con cui possa misurarsi realmente] alla corrente del “pessimismo scettico” per cui si appassiona allo studio della filosofia di Epicuro attraverso l’opera intitolata Osservazioni sul Decimo Libro di Diogene Laerzio di padre Pierre Gassendi [1592-1655] il quale riflette sul rapporto tra la morale cristiana e l’etica in Epicuro [e questi temi e questi personaggi li abbiamo incontrati in diversi contesti, ultimamente nel novembre 2020 nel Percorso che va dalla metà del ‘600 al secolo dei Lumi].
La corrente del “pessimismo scettico”, in questo momento, alla fine del ‘600, trova molti cultori a Napoli ma anche una forte opposizione da parte dell’Inquisizione che intenta un processo contro questi intellettuali detti “novatori e ateisti” e molti di loro finiscono in galera a Castel dell’Ovo, ma lui essendo lontano dalla città, vivendo isolato, non avendo contatti con gli intellettuali inquisiti che neppure conosce non viene toccato da questa ventata repressiva, tuttavia, quando gliene giunge voce, si spaventa moltissimo e, anche in seguito, nella sua biografia per prudenza non farà alcun cenno alla sua simpatia per “il pensiero scettico e atomista” di Epicuro, di Lucrezio e di Gassendi.
Ora non possiamo certo perdere l’occasione di fare un’escursione a Vatolla che è una delle quattro frazioni del comune di Perdifumo [di circa 1730 abitanti] in provincia di Salerno, e fa parte del Parco nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni. Il paese di Vatolla, che conta circa 500 abitanti, conserva quasi intatte le caratteristiche di un borgo medioevale, ed è situato a un’altitudine di 465 metri e, grazie alla sua posizione tra il Monte Stella e il Mar Tirreno [consultate la carta geografica sull’Atlante], gode di un clima particolarmente salubre [Vico scrive che a Vatolla si respira meglio che nel centro storico di Napoli] e si avvale di un clima ideale per la coltivazione, oltre che dell’olivo e del castagno, anche della cipolla: la cipolla di Vatolla, dalle particolari caratteristiche organolettiche è considerata un ingrediente storico della dieta mediterranea, e Giambattista Vico loda la frittata di cipolle e una zuppa chiamata il “Susciello di cipolla” di Vatolla; e non è casuale che qui, in questa florida zona, sia stato costruito il Castello che ha ospitato illustri famiglie [i Ventimiglia, i Rocca, i Vargas Machucha].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Oggi il Castello di Valolla [Castello Vargas Machucha] è sede della “Fondazione Giambattista Vico“ e sapete perché, e, quindi, incuriositevi e - con una guida della Campania e navigando in rete - mettetevi in viaggio verso il Cilento…
Nel 1695 i suoi allievi [i marchesini Rocca] sono stati istruiti e, quindi, il giovane Vico termina la sua missione di precettore a Vatolla e ritorna a Napoli.
Il giovane Vico nel 1695 termina la sua missione di precettore a Vatolla e ritorna a Napoli dove continua a guadagnarsi da vivere [e a contribuire al sostentamento della sua famiglia, dei vecchi genitori e dei fratelli] facendo “l’umanista”: una professione che consiste nel dare ripetizioni di retorica e di grammatica e nello scrivere su commissione discorsi, orazioni, prediche, epigrafi in latino. Questo finché, nel 1699, viene chiamato, per merito dopo aver sostenuto un esame, a insegnare Diritto all’Università partenopea: il fatto è che, non essendo laureato [possiede solo un diploma], gli viene assegnata la cattedra di Eloquenza [una materia di seconda fascia anche se lui insegna Diritto che è una materia di prima fascia] e la retribuzione alla quale ha diritto non è quella di un docente ma corrisponde a quella di un bidello [di un addetto alle pulizie] e, di conseguenza, Vico, con questo modesto ma sicuro salario, deve condurre, e condurrà sempre, un’esistenza in dignitosa povertà. Ma lui è abituato a tenere un frugale tenore di vita e non si lamenta, e può anche [come scrive nella biografia] prendere in affitto, in Vico dei Giganti, «una casa [di proprietà della confraternita degli Oratoriani] di tre camere e cucina, con loggia, rimessa e cantina» e così, nel 1699, può sposarsi con una giovane ragazza che lui conosce fin da bambina, Teresa Caterina Destito, dalla quale ha avuto otto figli: nella sua biografia scrive anche che ha dovuto sempre condurre i suoi studi e le sue meditazioni «tra lo strepito dei miei figliuoli».
Vico vive senza mai mettersi in mostra nella vita pubblica napoletana dedicandosi con passione ai suoi studi filosofici: ogni anno riceve comunque, da quando lavora all’Università, l’incarico di scrivere e pronunciare la Prolusione per l’inaugurazione dell’anno accademico, ed è attraverso questi Discorsi, veri e propri saggi programmatici, che ha l’opportunità di far conoscere il suo pensiero senza nessuna presunzione di volerlo imporre.
Nella tarda maturità Vico diventa consapevole di avere elaborato un nuovo metodo per affrontare lo studio della Storia e lui dichiara [come sappiamo] che è stata decisiva in questo suo processo di maturazione la conoscenza nel 1716 dell’opera Diritto di guerra e di pace [De jure belli ac pacis] di Ugo Grozio.
Sotto il regno di Carlo III di Borbone [un personaggio che abbiamo incontrato, come ricorderete, durante il viaggio dello scorso anno, nel febbraio scorso, sulla scia di Raimondo di Sangro principe di Sansevero] il quale dal 1734 al 1759 ha reso Napoli, per un trentennio, una delle principali capitali europee del secolo dei Lumi, nel 1735, a Giambattista Vico viene finalmente riconosciuto il suo valore di studioso ed è nominato “istoriografo regio” segretario che deve verbalizzare le attività di governo, un incarico [che prevede anche una seppur modesto vitalizio] che Vico svolge in modo puntiglioso finché non viene fiaccato dalla malattia nel 1740, una grave malattia che lo porta alla morte il 23 gennaio 1744: Istoriografia del Regno di Napoli sotto Carlo III di Giambattista Vico è un documentato capolavoro che riporta con la descrizione dei relativi progetti buona parte delle opere che sono state realizzate e intraprese in questo periodo d’oro della storia napoletana [l’elenco completo di queste opere lo trovate nel Repertorio dell’ottava Lezione del viaggio dello scorso anno].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi avete svolto in modo puntiglioso un incarico che avete ricevuto, quando, perché?...
Scrivete quattro righe in proposito...
E per approfondire l’argomento riguardante la vita di Giambattista Vico potete consultare, richiedendolo in biblioteca o sulla rete, il saggio intitolato La famiglia di Giambattista Vico dello studioso Antonio Illibato [1935-2017]... Incuriositevi...
Giambattista Vico è passato alla Storia del Pensiero Umano per aver scritto un’opera fondamentale: di che opera si tratta? A questa domanda risponderemo nel prossimo itinerario perché ci vuole spazio e tempo per poterla presentare.
E adesso, per concludere, leggiamo ancora due pagine tratte da L’occhio di Napoli di Raffaele La Capria nelle quali aleggia, e non a caso, lo spirito di Giambattista Vico.
Raffaele La Capria, L’occhio di Napoli
La mia immagine di Napoli città mediterranea è un’immagine mentale, perché quella realistica fornita di solito dal cinema, dalla televisione, dai giornali e anche dalla letteratura contiene sempre qualcosa di ovvio e di eccessivo, che invece di aiutare a capire la complessità stratificata di questa città ne dà una semplificazione buona solo a rafforzare i pregiudizi già esistenti. A questo punto, però, può essere forse utile spiegare brevemente, con l’occhio rivolo “ai corsi e ricorsi” di Gambattista Vico, cosa è accaduto che ha mutato il volto di Napoli.
... continua la lettura ...
Il contrasto e a volte la compenetrazione tra questa cultura europea e quella locale, tra lingua e dialetto, ha sempre prodotto a Napoli una grande vivacità intellettuale. Questo contrasto si accompagna a quell’altro, più profondo e ancestrale tra Natura e Storia, Ombra e Luce, Istinto e Ragione, o - come ci ha insegnato Giambattista Vico - tra Cosmos e Logos, ed è questo contrasto che ha dato e dà forma all’anima mediterranea.
Che cosa significa, come scrive La Capria nel suo saggio, che «Giambattista Vico si oppone al razionalismo di Cartesio e apre nuove prospettive allo studio della Storia», e che cosa significa, come scrive La Capria nel suo saggio, che «Giambattista Vico avrebbe guardato la speculazione edilizia che si è abbattuta su Napoli negli anni Cinquanta con l’occhio rivolto “ai corsi e ricorsi storici” come se ci trovassimo ne “l’età dei dèi»? Nell’opera per la quale Giambattista Vico è passato alla Storia del Pensiero Umano ci sono anche le spiegazioni relative alle citazioni che La Capria ha fatto nel suo saggio: di che opera si tratta, che cos’è La scienza nuova di Giambattista Vico?
Per rispondere a questa e a molte altre domande - nel corso del prossimo itinerario in cui saremo ancora a Napoli e dintorni prima di spostarci in Emilia - dobbiamo procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, per questo la Scuola è qui e il viaggio [appena iniziato] continua…