ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA DELLA LETTURA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
Un secondo viaggio sul territorio del secolo dei Lumi
8-9-10 e 17 novembre 2023
SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI
S’INCONTRA “LA SCIENZA NUOVA”
E SI SVILUPPA IL CONCETTO DELL’AUTONOMIA DELLO STATO LAICO …
Questo è il terzo itinerario del nostro secondo viaggio sul territorio del secolo dei Lumi e, quindici giorni fa, a Napoli, dove siamo tuttora, abbiamo incontrato prima lo scrittore Raffaele La Capria e poi quell’importante personaggio che è Giambattista Vico e, come ricorderete, abbiamo letto alcune pagine, tratte dal saggio di Raffaele La Capria intitolato L’occhio di Napoli, nelle quali aleggia lo spirito e il pensiero di Giambattista Vico. La Capria scrive che «Giambattista Vico si oppone al razionalismo di Cartesio e apre nuove prospettive allo studio della Storia», e scrive ancora che «Giambattista Vico avrebbe guardato la speculazione edilizia, che si è abbattuta su Napoli negli anni Cinquanta, con l’occhio rivolto “ai corsi e ricorsi storici” come se ci trovassimo nell’età dei dèi». Ebbene, abbiamo concluso l’itinerario scorso dicendo che nell’opera più importante di Giambattista Vico ci sono anche le spiegazioni relative alle citazioni che La Capria ha fatto nel suo saggio: di che opera si tratta?
Giambattista Vico lavora dal 1720 per oltre vent’anni all’elaborazione di un’opera che è passata alla Storia del Pensiero Umano intitolata La scienza nuova.
Vico ha sempre lavorato in isolamento rispetto all’ambiente intellettuale che lo circonda [e che lo considera con sufficienza], e si è sempre pagato faticosamente le stampe di quest’opera la cui stesura definitiva viene pubblicata nel luglio 1744 pochi mesi dopo la sua morte avvenuta il 23 gennaio 1744. Nelle umanissime e commoventi pagine dell’Autobiografia [del 1725, quindi scritta nella piena maturità] Vico riporta l’immagine di un solitario e sventurato pensatore in contrasto perenne con l’ambiente della cultura napoletana e con le correnti dominanti del pensiero europeo, chiuso nel cerchio di un’ingenerosa incomprensione per cui scrive: «…e per ciò io mi ritiro nell’alta inespugnabil rocca del mio tavolo di lavoro», e sul suo tavolo di lavoro prende forma un capolavoro lodato da tutte e da tutti gli studiosi dell’Ottocento e del Novecento.
Ma in che cosa consiste La scienza nuova e quali sono le parole-chiave e le idee più significative contenute in quest’opera? La riflessione di Vico parte da una critica a Cartesio [Renato delle Carte]: Vico rimprovera a Cartesio “di aver mutilato la natura umana” ammettendo come “umana” solo la ragione e dimenticando “la fantasia e il sentimento”. Anche la fantasia e il sentimento contribuiscono, scrive Vico, a formare umanamente la persona nella sua concretezza. Quindi “la verità” [ciò che è vero] non può essere autenticato esclusivamente dall’evidenza razionale da quella che Cartesio chiama “la ragione geometrica”. Esiste, afferma Vico, un vastissimo campo di scienze umane: dall’eloquenza alla retorica, dalla storia alla poesia che non si fonda su “verità geometriche” ma si fonda solo “sul probabile e sul verosimile” … “Il verosimile” [il probabile] è, scrive Vico, il criterio su cui deve basarsi la verità umana, e “il verosimile” è un concetto che sta a metà strada tra il vero e il falso.
Cartesio dice che nell’io c’è già tutta la conoscenza [Cartesio sostiene l’esistenza nella mente umana delle idee-innate, di natura matematica], ma come è possibile questo, afferma Vico, se l’io possiede, a malapena, la sua consapevolezza [«Mi risulta difficile dire esattamente, e anche solo in parte, chi sono io», ribadisce Vico]. L’io riconosce un oggetto non perché ne ha già la conoscenza a priori ma perché, afferma Vico, riesce a darsi ragione di tutti gli elementi costitutivi di quell’oggetto, quindi, «la vera conoscenza [scrive Vico] appartiene solo alla persona che ha fatto l’oggetto. Sapere è fare ma conoscere il vero è averlo fatto!» [“verum est factum” e il latino sintetizza bene in concetto.].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
C’è un oggetto [di natura materiale, intellettuale, artistica, sartoriale, culinaria ...] la cui costruzione [realizzazione, confezione, preparazione ...] vi ha dato particolare soddisfazione tanto da farvi percepire che «verum est factum»?...
Scrivete quattro righe in proposito…
Siccome l’essere umano, scrive Vico, non si è fatto da solo non può avere “scienza di se stesso”, e l’essere umano, ribadisce Vico, non ha costruito neppure la Natura, non ha edificato l’Universo e, quindi, può sapere solo appena qualcosa di Sé, della Natura e dell’Universo ma non può conoscere “la verità delle cose”; quindi, Vico afferma - con lo sguardo rivolto alla Letteratura dei Vangeli - che la persona si deve impegnare soprattutto a “fare la verità”: nei testi evangelici, scritti in greco, accanto al termine “la verità” [aleteia- άleteia] si trova sempre il verbo “fare [prasso-prάssw]” perché nel linguaggio evangelico il termine “verità” rimanda alla parola “giustizia” e “fare la verità” significa “promuovere la giustizia” e il pensiero di natura etico-giuridica di Vico, così come quello di Ugo Grozio, è orientato in questa direzione.
La Fisica è un’importante disciplina, afferma Vico, che porta la persona a sapere dati probabili, verosimili, ma non la porta a conoscere il vero. L’unica Entità che potrebbe avere scienza del mondo fisico è un eventuale creatore in quanto ne è l’autore infatti: «Verum est factum [afferma Vico], conosce il vero chi lo ha fatto»! Anche la Matematica - celebrata da Cartesio come modello perfetto di conoscenza - si basa, scrive Vico, su figure e numeri che sono finzioni della mente e, come tali, hanno qualche cosa di astratto e di irreale e, quindi, anche la Matematica, pur essendo un’importante disciplina, ribadisce Vico, è tuttavia una scienza arbitraria.
Se quello della Matematica è un mondo artificioso e astratto, scrive Vico, vi è però un settore del sapere umano in cui si realizzano le condizioni di “una scienza concreta”, e questo settore è quello della Storia. La Storia, afferma Vico, è causata dagli esseri umani, «è l’opera concreta della natura umana nel suo sviluppo», dunque la persona che, vivendo, partecipa a fare la storia [in quanto “verum est factum”] possiede tutti gli elementi per ricostruirla, per illuminarla dal di dentro facendo l’inventario delle cause in modo da conoscerla scientificamente: la Storia, ribadisce Vico, è, dunque, la nuova autentica scienza. Ma perché [viene da pensare] solo determinati avvenimenti diventano “storici”, vale a dire: come si realizza la Storia come scienza?
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A quale avvenimento contemporaneo alla vostra vita volete attribuire l’aggettivo “storico” e perché, secondo voi, merita di essere qualificato con questo aggettivo? ...
Scrivete quattro righe in proposito…
Come si realizza la Storia come scienza?
Giambattista Vico, nell’opera intitolata La scienza nuova scrive: «Perché la Storia si realizzi come scienza occorre mettere in atto una nuova disciplina: [che lui chiama] la Filologia, cioè la competenza necessaria che la persona deve possedere per documentare verosimilmente la Storia così come accade e come è accaduta». La Filologia, afferma Vico, è la disciplina che serve per trasformare gli avvenimenti storici in “un racconto” e, quindi, mentre la Filologia descrive i fatti storici, la Filosofia, scrive Vico, interpreta e documenta quale ruolo gioca la natura umana nel compimento di questi fatti, in modo che, attraverso la conoscenza dei fatti storici [la Filologia], la persona possa, anche e soprattutto, conoscere la natura umana [la Filosofia] e, di conseguenza, conoscendo la natura umana la persona può umanamente interpretare le vicende della Storia. Ed è in questo rincorrersi, tra il racconto dei fatti [la Filologia] e l’interpretazione umana dei fatti [la Filosofia] che avviene, scrive Vico, il processo della conoscenza. E studiando la Storia attraverso i principi della Filologia [il modo in cui si costruisce il racconto] e della Filosofia [il modo in cui il racconto viene interpretato], il percorso dell’Umanità, afferma Vico, rivela tre grandi momenti: l’età degli dèi, l’età degli eroi e l’età degli umani.
Nell’età degli dèi [la prima della Storia] gli esseri umani, scrive Vico, «sentono senza avvertire e sono bestioni tutto stupore e ferocia che si abbandonano all’impeto delle passioni e della violenza». Vico definisce quest’epoca come «l’età ferina in cui l’anima umana è tutta senso», questa età è detta “primitiva” non solo perché precede cronologicamente le altre età, ma anche perché, scrive Vico, rappresenta «il fondo primitivo e permanente della vita umana, che può essere frenato dalle età successive ma non distrutto, ed è quello che Hobbes ha chiamato “lo stato di natura” e Machiavelli chiama “la realtà effettuale”», e in questo stadio, fatto di violenza e di arbitrio, le forze naturali, afferma Vico, sono viste come divinità punitrici e terribili, per cui l’essere umano costruisce degli ordinamenti in cui domina la potestà paterna e il timor di Dio.
Nell’età degli eroi [la seconda della Storia] gli esseri umani, scrive Vico, «avvertiscono con animo turbato e commosso ed esprimono poi il turbamento così avvertito mediante la fantasia e attraverso le forme del linguaggio della poesia e del mito» e con questa affermazione Vico si fa assertore del carattere fantastico dell’Arte e ha dato un contributo alla nascita dell’estetica moderna. Quindi, nell’età degli eroi, gli esseri umani sono in possesso di quella che Vico chiama “la sapienza poetica”: una particolare forma di sapere che provoca l’uscita dell’Umanità dallo stato bestiale e l’inizio della vita civile e della Storia. In questo periodo, scrive Vico, domina la classe aristocratica [dei più forti e dei più armati] che fa derivare la propria nobiltà da Dio e così ha origine “il privilegio di governare per diritto divino” e viene dato spazio alle passioni, e l’impeto della passione porta all’esaltazione delle virtù eroiche e così, afferma Vico, la ferocia diventa valore militare, l’avarizia diventa potenza economica, l’ambizione diventa abilità politica, e questo diritto primitivo viene imposto con la forza e i sudditi, scrive Vico, devono soggiacere a una volontà a loro estranea perché sono gli eroi [i nobili] i signori e i padroni dello Stato.
Nell’età degli umani, infine «le persone [scrive Vico] riflettono con mente pura, e si passa dal dominio della fantasia a quello della ragione e, secondo ragione, il diritto non può più essere basato sulla forza ma tanto i governanti che i governati acquistano coscienza di dover guardare a una Legge suprema da cui dipendono tutti gli esseri umani: la Legge di dover essere guidati dall’idea del Bene». E l’idea del Bene deve essere messa a punto, scrive Vico, con una metafisica ragionata: che cosa significa? Significa che da Dio scaturisce la Provvidenza, afferma Vico, e questo indica che non ci saranno interventi miracolosi esterni perché la Provvidenza agisce solo nell’intimo della coscienza della persona, la quale, con la ragione, deve stemperare il proprio egoismo e le proprie passioni, in modo da far sì che “provvidenziale” sia il fine della sua azione perché «la Provvidenza divina [scrive Vico] germoglia nella coscienza umana alimentando lo Spirito». Ed è in questo modo, attraverso l’intimo della coscienza umana, che la Provvidenza di Dio, afferma Vico, interviene nella Storia in modo immanente [concreto, sensibile, tangibile, fenomenico]. Ma, contemporaneamente, la Provvidenza divina, sostiene Vico, mantiene la sua trascendenza [la soprannaturalità] perché il processo di incivilimento generale - il passaggio dall’età ferina alla società civile - avviene anche al di là, scrive Vico, degli scopi particolari dei singoli individui. Vico dà un nome a questa teoria, la chiama: “l’eterogenesi dei fini” [e facendo appello al greco per cui “eteros” indica “una parte di due entrambe importanti” e “genesis” segnala “il principio”, quindi, letteralmente “l’eterogenesi” è “il principio che unifica due parti diverse ma entrambe importanti”] che sta a indicare, secondo Vico, il fatto per cui molte volte le persone compiono atti provvidenziali finalizzati a scopi diversi da quelli per i quali effettivamente intendevano agire e la Storia, di conseguenza, prende un’altra piega.
Vico, a questo proposito, per spiegare ciò che intende dire [l’eterogenesi dei fini], come esempio, cita la parabola evangelica del buon samaritano [rileggete il brano dal Vangelo secondo Luca capitolo 10 versetti 25-37] nella quale si narra che un uomo della Samaria [e notoriamente i samaritani sono considerati non credenti] mentre va in città al fine di fare i suoi affari, vede sulla strada una persona ferita che era stata aggredita e derubata e, contrariamente ad altri due [un prete e giurista] che l’avevano scansata, lui si ferma al fine di soccorrerla perché prova compassione: ecco come, afferma Vico, la Provvidenza che germoglia in modo immanente nella coscienza di una singola persona diventa tutt’una con la Provvidenza trascendente che si manifesta nella Storia. Questa azione trascendente e immanente della Provvidenza [due parti diverse ma entrambe importanti legate da un principio che le unifica] crea un progresso sociale, culturale, spirituale, ma la persona è depositaria del libero arbitrio e può anche non collaborare con la Provvidenza e allora si verifica un arresto del processo spirituale di incivilimento e un ritorno alla rozzezza primitiva, un ritorno alla mentalità sensitivo-fantastica: allora, scrive Vico, la Storia ha “un ricorso”, smette di fare “il suo corso” e torna sui suoi passi. Il ricorso della Storia, scrive Vico, non riporta mai l’Umanità su posizioni di partenza: il corso e il ricorso è un ciclo a spirale, che ripercorre le età ma in maniera progredita e, quando facciamo la guerra [per esempio, afferma Vico] c’è un ricorso all’età ferina, e i belligeranti sono bruti e disumani anche se usano il massimo del progresso tecnico e, forse, scrive Vico, sono ancora più bruti di quando usavano la clava. E pensare che, scrive Vico, se gli esseri umani si sforzassero di perseguire il Bene la Storia sarebbe positiva anche quando mostra un regresso apparente, perché anche “regredire” è necessario per arricchire lo spirito umano.
Dopo la descrizione delle età della Storia, Vico, nella sua opera, spiega che la successione di queste età comporta una vicenda non solo storica ma soprattutto psicologica e morale. Le tre età - degli dèi, degli eroi, degli umani - sono soprattutto, scrive Vico, tre forme mentali e ciascuna di queste forme non si spegne al sorgere della forma successiva ma si spiritualizza e si disciplina in essa: attraverso queste forme mentali ci passano tutti gli individui nel corso della loro storia personale ed è facendo questa riflessione che Vico decide di scrivere la sua Autobiografia.
Anche la nostra vita è fatta di corsi [progressi] e ricorsi [regressioni], e non sempre i progressi sono passi in avanti e le regressioni sono passi indietro.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quali corsi [progressi] e ricorsi [regressioni] hanno caratterizzato l’andamento della vostra vita?... Analizzate la vostra esistenza con il metro di Giambattista Vico e scrivete quattro righe in proposito...
Di fronte a questa situazione l’Educazione, scrive Vico, gioca un ruolo importante nell’esistenza della persona e, in quest’ottica, è necessario che la persona impari «a non costringere troppo il proprio pensiero in ragionamenti freddi e schematici» ma è meglio che «sia avviata ad imparare a sviluppare la memoria studiando le Scienze umane e a stimolare la fantasia attraverso la lettura di testi poetici e storici», e poi bisogna «che apprenda ad acuire il proprio ingegno con lo studio della geometria».
Tenendo conto delle tre età dell’Umanità, l’educazione deve essere un processo continuo [l’educazione deve essere permanente], in cui si intrecciano il senso, la fantasia e l’intelletto. In un corretto sistema educativo, scrive Vico, bisogna tener conto dello sviluppo simultaneo dell’intelletto e della fantasia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Chissà quante volte avete detto: «Con la fantasia ho pensato che ...»... E ora, utilizzando la facoltà dell’intelletto, potete scrivere quattro righe su dove vi porta la fantasia…
Vico non intende però cedere il passo alla fantasia rispetto all’intelletto e alla Storia, e questo aspetto lo mette chiaramente in evidenza nella sua opera.
Per Giambattista Vico il fine dell’educazione consiste nel far maturare nella persona uno Spirito che sia orientato all’altruismo perché se «l’Umanità è Storia» l’educazione non può distrarre la persona dal mondo della Storia isolandola in una astratta individualità in quanto le persone vivono nella Storia, ed è nella Storia, scrive Vico, che le persone devono veder riflesso il loro Spirito in modo che possano avvicinarsi le une alle altre, entrando tra loro in relazione: è auspicabile, sostiene Vico] ,he lo Spirito altruista della singola persona entri in relazione con quello, altrettanto altruista, delle altre persone in modo che si formi un virtuoso Spirito collettivo in grado di costruire una Storia che sia orientata al conseguimento del Bene comune.
Si sa che Giambattista Vico ha operato in una situazione di isolamento [«da un angolo buio e da un binario morto della storia», ha scritto Hegel] perché è andato controcorrente rispetto al pensiero dominante della sua epoca [nessuno osava mettere in discussione il metodo di Cartesio] e Vico lavora utilizzando le opere del passato, contenenti il pensiero dei Classici, per guardare all’avvenire. Compiendo questa operazione intellettuale, mette sul tavolo della Storia del Pensiero Umano una serie di temi e di problemi che verranno affrontati nei decenni a venire: nel corso del Romanticismo, come vedremo, nel pensiero di Hegel [il concetto che «è lo Spirito che fa la Storia» Hegel lo riprende da Vico, come vedremo], nel corso del Positivismo e durante le discussioni sullo Storicismo.
Ci vuole coraggio nel 1720, quando Vico inizia a scrivere La scienza nuova, ad affermare che «La Matematica è una disciplina molto importante che va studiata, ma bisogna anche ammettere che le presunte verità della Matematica hanno carattere fittizio e convenzionale, e che la conoscenza piena della Natura è difficile da realizzare, mentre si può prendere coscienza del fatto che è l’essere umano ad aver fatto la Storia e, di conseguenza, la persona può giungere a una conoscenza di quel mondo storico che è opera sua: un mondo fatto di linguaggi, di miti, di leggi, di istituzioni, di propositi, di azioni, di speranze, di terrori». Vico apre la porta su uno spazio enorme, quello che si chiama “il territorio dell’analisi storica”, un’area vastissima che, da questo momento, comincia ad essere percorsa con grande interesse, e anche noi la dovremo percorrere strada facendo.
Vico poi ha dato inizio a “l’analisi filologica dei testi classici”: se la fantasia crea poesia, la poesia è fantasia e, facendo tesoro di questa affermazione, Vico è il primo pensatore che legge le opere di Omero, l’Iliade e l’Odissea, in questa prospettiva mettendo quindi in dubbio l’esistenza personale di Omero, e sostenendo che questi due poemi sono un’opera collettiva dell’età eroica, frutto della fantasia di cantori operanti in periodi diversi: di conseguenza, la persona deve prendere coscienza che non è con la fantasia [con il mito, con la poesia] che si fa la Storia e l’intelletto non deve cedere il passo alla fantasia ma deve storicizzarne i frutti perché è alla facoltà fantastica che dobbiamo l’esistenza della sapienza poetica, un patrimonio che contribuisce a far sì che si amplino gli orizzonti della nostra mente. Per esempio: «Il viaggio di Odisseo [scrive Vico] è quello che la persona continua a fare con la fantasia! E questo viaggio fantastico c’insegna che la parola-chiave dell’Odissea è il termine “metis” che indica il tratto distintivo e realistico del personaggio di Odisseo e descrive una forma particolare di intelligenza fatta di perspicacia, di intuizione, di capacità di analisi, di lungimiranza, di esperienza, di perizia, di sete di conoscenza: tutte qualità utili per entrare nel territorio dell’analisi storica».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Voi quale viaggio avete fatto con la fantasia?...
Scrivete, in quattro righe, un itinerario sul quale avete fantasticato e che vi piacerebbe percorrere in realtà...
Leggiamo ora un breve brano tratto da La scienza nuova. Vico è uno scrittore che - con l’uso delle parole, dei modi di dire e con certe espressioni - si prodiga per costruire, in un curioso italiano settecentesco, un linguaggio ricco di immagini che sono diventate celebri soprattutto in età romantica.
Giambattista Vico, La scienza nuova
Gli esseri umani prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura. L’ordine delle cose umane procedette: che prima furono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso le città, finalmente l’accademie. Gli esseri umani prima sentono il necessario, di poi badano all’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi si dilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e finalmente impazzano in istrapazzar le sostanze. La natura dei popoli prima è cruda, dipoi severa, quindi benigna, appresso delicata, finalmente dissoluta. La prima natura per forte inganno di fantasia, la qual è robustissima nei debolissimi di raziocinio, fu una natura poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la qual ai corpi diede l’essere di sostanze animate di dèi, e gliele diede dalla sua idea. La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi di divina origine; perché credendo che tutto facessero i dèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quelli che erano stati generati con gli auspicii di Giove. Il diritto fu eroico, ovvero della forza, ma però prevenuta già dalla religione, che sola può tenere in dovere la forza, ove non sono le umane leggi per raffrenarla. La terza fu natura umana, intelligente, e quindi modesta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi la coscienza, la ragione, il dovere. …
In questo brano Vico sintetizza la Storia dell’Umanità divisa in tre epoche [degli dèi, degli eroi e degli umani] e poi sviluppa il suo pensiero dando corpo alla sua opera di 700 pagine, suddivisa in cinque Libri, una Conclusione e un’Appendice di scritti.
Vico studia e scrive “in sordina” ma contribuisce, con La scienza nuova, a far sì che Napoli, nel ‘700, si presenti come una delle capitali culturali europee, e il movimento intellettuale napoletano partecipa attivamente a creare quella corrente di pensiero che è stata chiamata dell’Illuminismo italiano e che ha avuto vasta eco in Europa.
La corrente di pensiero che è stata chiamata dell’Illuminismo italiano possiede una caratteristica particolare in quanto le pensatrici e i pensatori che ne fanno parte, più che su questioni teoriche, puntano l’attenzione su temi di ordine pratico - politici [come si governa lo Stato?], economici [come garantire a tutte e a tutti i cittadini una vita dignitosa?], giuridici [come creare una giustizia uguale per tutti?] - e questa caratteristica riguarda le studiose e gli studiosi italiani in generale. Voi capite che parlare di “studiose e studiosi italiani” in questo momento storico è un azzardo perché politicamente l’Italia non esiste [«L’Italia è solo un’espressione geografica», dicevano in molti] ma sono proprio le idee dell’Illuminismo che contribuiscono a unire le studiose e gli studiosi italiani e questo fatto ha una ricaduta positiva sul piano politico nel momento in cui il territorio italiano, nel ‘700, è suddiviso in un certo numero di Stati: il Regno di Sardegna, la Repubblica di Genova, la Lombardia sotto il controllo dell’Impero austriaco, la Repubblica di Venezia, il Ducato di Parma e Piacenza, il Ducato di Modena e Reggio, il Granducato di Toscana, lo Stato della Chiesa, il Regno di Napoli con la Sicilia.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Consultate un Atlante storico [che sarà già nella vostra biblioteca domestica] utilizzando la rete per osservare una carta dell’Italia del Settecento...
Nonostante la divisione politica della penisola italica, in Europa si comincia a parlare in modo diffuso di “pensiero italiano” e una delle questioni, di ordine pratico, di cui le pensatrici e i pensatori italiani cominciano a occuparsi - dando anche una struttura intellettuale a questo tema - è legata a una domanda: esiste “un pensiero culturale italiano”, esiste, come già si domandava Petrarca, “una repubblica letteraria italiana”? E questa domanda, da tema culturale, si trasforma in problema politico e sono in molte e in molti i pensatori che danno un contributo alla discussione intorno a questo tema: per incontrarne uno, da Napoli ci spostiamo in Emilia, nel ducato di Modena e Reggio, perché qui, nella cittadina di Vignola, il 21 ottobre 1672, in una famiglia contadina è nato Ludovico Antonio Muratori.
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Con una guida dell’Emilia-Romagna e navigando in rete fate una visita a Vignola che è un comune in provincia di Modena [oggi conta circa 26mila abitanti] ricco di monumenti tra i quali spicca il grande Castello, la Rocca di Vignola, e la casa colonica dove è nato Ludovico Antonio Muratori si trovava proprio a ridosso di questo imponente maniero, buon viaggio...
Ludovico Antonio Muratori ha studiato, fin da bambino, dai Gesuiti a Modena, si è fatto prete, si è distinto come studioso di Scienze umane ed è considerato uno dei più importanti storici del Medioevo e, inoltre, ha coltivato le idee illuministe senza mai disarmare davanti alla censura dell’autorità ecclesiastica che lo sorveglia. Muratori, in chiave politica, ha scritto nel 1749 un’opera intitolata Della pubblica felicità oggetto de’ buoni princìpi, in cui spiega ai governanti come possano e debbano procurare pace e tranquillità ai loro popoli [e oggi le governanti e i governanti dovrebbero leggere, studiare e riflettere su questo testo che resta più che mai attuale]. Quest’opera, di carattere etico e politico, è composta da trenta brevi capitoli e nell’incipit Muratori scrive: «Molti potenti chiedono al prete Muratori che cosa ne pensa del problema del governo, e il prete Muratori pensa questo: chi governa deve avere come unico interesse quello della pubblica felicità, con la consapevolezza che la felicità, anche quando la si ottiene, non è né duratura né completa ma sottoposta a gravosi limiti per cui detto problema abbisogna di cura e attenzione continua. Per acquistare gradualmente la felicità pubblica si deve, per obbligo, perseguire la pace in quanto essa dona l’agognata tranquillità alle donne e agli uomini del popolo che ambiscono a lavorar sereni. E questa situazione virtuosa la si può realizzare con uno stile di governo che contempli le seguenti caratteristiche: l’autorevolezza, l’umiltà, il senso della misura e la carità in quanto amor del prossimo. Quando si dice che chi governa non deve essere autoritario ma bensì autorevole significa che questa virtù comporta che si debbano concertare e non imporre le decisioni, perché il pubblico bene va concordato con più gente possibile in modo armonico e, più menti e più cuori si coinvolgono in questa intesa, più salirà il tasso di consapevolezza nel raggiungimento del fine comune: il Bene». Muratori poi, nella sua opera, sottolinea che «chi governa non deve ricercar la gloria, anche se essa ricerca è connaturata all’uomo». Infatti, scrive Muratori, la ricerca della gloria comporta che il governante si voglia per forza assicurare un forte esercito che gli possa dare magnificenza, ma tutto ciò non è accettabile perché, in primo luogo, scrive Muratori: «la guerra s’ha da avere non contro gli altri uomini ma contro i propri vizi» e, in secondo luogo, scrive Muratori: «perché - e tutta la Storia ne rende testimonianza - il mantenimento di un grosso esercito spolpa e rende miserabile il popolo perché la ricerca della magnificenza da parte del potente comporta un continuo intervento fiscale che, inevitabilmente, grava sulla classe più debole, non sui lupi, che il governante teme e vuole complici della gloria sua, ma grava sulle pecorelle, di cui, non si accontenta della lana senza volerne anche la pelle». Quindi, chi governa deve sapere [scrive Muratori] che «la gestione della giustizia in campo fiscale comporta la ricerca non della gloria né della magnificenza ma dell’umiltà». E poi chi governa deve operare per promuovere un buon sistema educativo per tutte e i tutti i cittadini dello Stato: «Sono le Accademie [scrive Muratori] non le legioni a fare la magnificenza del governante saggio, è lo studio delle Scienze naturali e di quelle umane a portare la felicità al popolo e allo Stato». Inoltre chi governa, scrive Muratori, deve essere coerente con le verità di fede, «e non può servirsi del culto e delle espressioni della religione - utilizzate come pie imposture, come atti di superstizione e perfino di magia - per procacciarsi un sacrilego consenso, perché, per contro, il culto va riformato continuamente perché diventi meno superstizioso e serva come stimolo alla crescita e alla diffusione della carità cristiana». Quindi la carità civile che è giustizia per tutti e la carità cristiana che è amore per il prossimo sono i due pilastri della volontà riformatrice del prete illuminista Ludovico Antonio Muratori, il quale, da una parte, non vuole uscire dai limiti fissati dai dogmi del cristianesimo, dall’altra esalta il primato della ragione e della libera critica fatta con “buon senso”. È interessante come Muratori - a proposito del “buon senso” - faccia riferimento, molto spesso, alle radici emiliane e contadine della sua cultura [Muratori è morto a Modena il 23 gennaio 1750].
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Rifacendosi alle radici emiliane e contadine della sua cultura Ludovico Antonio Muratori mette in evidenza una serie di virtù che ritiene necessarie per esercitare la politica: la modestia, la frugalità, la laboriosità, la lealtà, la generosità, la fedeltà, la solidarietà, la sincerità, l’onestà, la prudenza, la costanza, la volontà, l’umiltà, l’accoglienza, la calma… Scegliete tre o quattro di queste qualità da mettere per prime nel catalogo muratoriano delle virtù politiche…
E ora, dall’Emilia, torniamo verso Napoli, dove incontriamo Antonio Genovesi, un altro importante personaggio nell’ambito dell’Illuminismo italiano, e sulle sue opere dobbiamo puntare l’attenzione. Chi è Antonio Genovesi e di che cosa si occupa?
Antonio Genovesi è nato il 1° novembre 1713 a Castiglione - che oggi si chiama Castiglione del Genovesi in onore del suo cittadino più illustre - un comune che oggi conta circa 1300 abitanti, in provincia di Salerno [posto a 600 metri di altitudine da dove, in lontananza, si può vedere il mare e la costiera amalfitana] situato ai piedi del monte Monna 1195 metri che è uno dei massicci del gruppo montuoso dei Monti Picentini nell’Appennino campano.
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Con una guida della Campania e navigando in rete fate un’escursione nel Parco regionale dei Monti Picentini e poi raggiungete Castiglione dove si può visitare la casa natale di Antonio Genovesi, buon viaggio, incuriositevi ...
Antonio Genovesi, figlio del calzolaio Salvatore Genovesi e di Adriana Alfinito, viene indirizzato agli studi dal padre, persona piuttosto severa e intenzionata a dare un avvenire migliore del suo al figlio: Antonio, fin da bambino, da prima studia sotto la guida del parroco di una delle chiese di Castiglione, e poi a quattordici anni viene affidato a Niccolò Genovesi, un suo parente [un cugino] il quale - dopo aver studiato medicina a Napoli - torna al paese per svolgere la sua professione, e questo giovane medico lo istruisce sulle opere di Aristotele, di Cartesio e gli impartisce anche Lezioni di Teologia. A diciotto anni Antonio s’innamora di una ragazza, Angela Dragone, e quando il padre lo viene a sapere, per distoglierlo da questa infatuazione che, secondo lui, sarebbe stata di impedimento per la sua carriera, lo conduce a Buccino.
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Buccino è un altro interessante paese campano in provincia di Salerno di circa 4500 abitanti, ricco di antichi reperti che potete osservare [c’è un bel Museo archeologico] con la guida della Campania e navigando in rete, incuriositevi...
A Buccino il padre lo iscrive alla Scuola del convento dei Padri Agostiniani dove Antonio, sotto la guida di padre Giovanni Abbamonte, un umanista molto versato all’insegnamento, si appassiona allo studio della Filosofia, del Latino, del Greco e delle numerose Opere letterarie [i Classici] che sono state composte in queste due lingue.
A ventitré anni, nel 1736, riceve il diaconato e viene chiamato a insegnare Retorica presso il Seminario di Salerno e lì il vice-rettore, padre Antonio Doti, gli insegna il francese e gli fa conoscere le idee dell’Illuminismo. Nel 1738 Antonio viene ordinato sacerdote dal vescovo di Salerno e si trasferisce a Napoli dove l’Università gli affida la cattedra di Metafisica, e lì fa amicizia con Giambattista Vico che lo sprona a scrivere i suoi pensieri. Antonio Genovesi insegna Metafisica con una mentalità nuova, secondo i canoni della moderna esegesi, e nel 1743 i testi delle sue Lezioni di Teologia, che lui mette per iscritto, vengono considerati eretici e viene accusato di razionalismo e di ateismo dall’Inquisitore napoletano. Per fortuna, quando sta per essere ridotto allo stato laicale e processato, viene difeso [da una personalità che potete conoscere meglio navigando in rete] dall’ex arcivescovo di Taranto e di Tessalonica, Celestino Galliani [1681-1753, che Carlo III di Borbone ha invitato ad assumere il ruolo di Cappellano maggiore del Regno di Napoli], il quale - dopo aver letto le Lezioni teologiche di Antonio Genovesi - chiama in causa il papa [papa Benedetto XIV, Prospero Lambertini di Bologna]: il papa, riformista e conciliatore, riabilita don Antonio Genovesi che, però, deve lasciare la cattedra di Metafisica per passare a quella di Etica che, a suo tempo, era stata del suo amico Giambattista Vico. Poi, da questo momento, oltre che di etica, decide di occuparsi anche di politica e di commercio e di economia in una Napoli che sta vivendo un momento di splendore per iniziativa di Carlo III di Borbone, personaggio che abbiamo incontrato nel viaggio dello scorso anno in compagnia di Raimondo di Sangro principe di Sansevero, anche lui buon amico di Antonio Genovesi e di Giambattista Vico.
Genovesi coltiva una feconda amicizia anche con il matematico, agronomo ed economista toscano [nato a Montespertoli] Bartolomeo Intieri [1678-1757, amministratore delle tenute napoletane dei Corsini e dei Medici] che, nel 1754, invita Carlo III a promuovere a Napoli la prima Cattedra europea di Economia - e lui è anche pronto a finanziare questa iniziativa - e propone di affidare la direzione didattica di questa facoltà ad Antonio Genovesi che, con gratitudine, dedica al suo amico un’opera intitolata Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze dove, per la prima volta, uno studioso [che oggi chiameremmo “meridionalista”] analizza con acutezza la situazione economica e culturale dell’Italia e del Meridione, mettendola a confronto con quella delle maggiori nazioni europee: in quest’opera Genovesi denuncia l’arretratezza del Sud mettendo in evidenza le cause di questa situazione affermando che, sul territorio, devono essere le Istituzioni dello Stato a governare, tanto politicamente quanto economicamente, svolgendo un’opera di programmazione economica che preveda adeguate riforme, a cominciare dalla riforma agraria con l’abolizione della servitù della gleba. E, in proposito, Genovesi invita Carlo III di Borbone a non affidare più ai feudatari la raccolta delle imposte [perché speculano e commettono ingiustizie a danno delle classi lavoratrici] e, in proposito, Genovesi scrive: «È andato, e va creandosi sempre più forte, un ingiusto e - dato che l’Economia è cosa buona e disciplina virtuosa - un antieconomico sistema di potere che si dice “onorato”, parallelo a quello delle Istituzioni, che risulta essere un freno per il buon andamento della Politica e dell’Economia». Carlo III, con i suoi ministri, s’impegna a estirpare questo potere “onorato” e riesce - prima di dover lasciare Napoli - a ottenere alcuni significativi risultati, ma i suoi successori non seguiranno questa strada.
Antonio Genovesi si distingue nella Storia del Pensiero Umano per essere l’autore di una celebre opera intitolata Lezioni di commercio o sia di economia civile pubblicata in forma completa nel 1770 dopo la sua morte avvenuta a Napoli il 22 settembre 1769. Genovesi nel testo di quest’opera scrive che la Filosofia deve interessarsi di cose pratiche, e la ragione - che è il primo e principale strumento a disposizione della persona - non deve cadere nell’astrattezza: «La ragione [scrive Genovesi] non è utile se non quando è divenuta pratica e volta alla realtà.». L’Economia [sostiene Genovesi] «è una disciplina da svilupparsi con la ragione affinché non razzoli allo stato brado e, quindi, è necessario, a supporto della disciplina economica, favorire lo studio delle Scienze, per prime quelle meccaniche e agrarie, e poi costruire professioni utili per gli umili nel campo dell’agricoltura, della teoria del commercio, della storia della natura e della meccanica. È affrancando gli umili [i contadini servi della gleba] con nuove dignitose professioni che si alza il tenore di vita delle Stato.». È evidente che per Genovesi il nemico di una buona Economia è il privilegio oscurantista che considera l’Economia solo in funzione dello sfruttamento della terra e degli individui che la lavorano. Nelle pagine della sua opera, attacca duramente [anche in quanto prete oltre che economista] il carattere parassitario della proprietà ecclesiastica, e sostiene che «lo Stato deve imporre che, in Economia, al primo posto ci sia lo studio e l’applicazione delle Scienze morali perché non c’è sviluppo dell’Economia se non su basi etiche in quanto non può esserci Economia se non volta al Bene individuale e comune.». Lo sviluppo dell’Economia [scrive Genovesi] si basa sul concetto dell’utile, e il concetto dell’utile va perimetrato e soppesato con precise Leggi morali e «ciò che si mostra utile [afferma Genovesi] va vagliato attraverso la pratica etica del giusto e dell’onesto.». In Economia la prima regola [scrive Genovesi] «è che ciascuno faccia onestamente la parte sua, in modo che l’utile sia garantito giustamente a ciascheduna delle parti.».
Genovesi porta avanti un dibattito - sviluppatosi nel secolo dei Lumi - sul lusso e sullo spreco: scrive Genovesi «C’è una diffusione smodata, smisurata, sfacciata del lusso nella classe ricca. Se proprio ha da essere, sia almeno moderato questo lusso, e se è giusto che tutte le persone vivano meglio si pensi a diffondere, non il lusso, che è vizio, ma la virtù di avere più cura di se stessi che per le classi più umili è un bisogno da soddisfare.».
Poi, nell’opera intitolata Meditazioni filosofiche sulla religione e sulla morale, come prete, Genovesi prende posizione contro la disonestà, l’ingiustizia, il lusso delle classi al potere, compresa la classe ecclesiastica che, scrive Genovesi, «rende la religione cristiana una fiera fantasia e non una buona filosofia. E gli uomini di Chiesa prendano posizione contro i capricci matti del lusso dei signori, che il Signore Vero, come unico lusso, si è concesso la croce.». Per Genovesi l’Economia [nell’ambito della Storia del Pensiero] va studiata unicamente in modo che possa favorire una ricaduta positiva sulla condizione umana.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
E voi come cercate di “fare Economia” [con la E maiuscola] nel modo più umano possibile?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Tanto Ludovico Antonio Muratori quanto Antonio Genovesi mettono in evidenza, anche come preti, un tema [e pongono, anche come preti, un problema sia in Italia che in Europa] molto importante quello del rapporto tra la Chiesa e lo Stato.
Ludovico Antonio Muratori e Antonio Genovesi mettono in evidenza [tanto in Italia quanto in Europa] il tema del rapporto tra la Chiesa e lo Stato, e pensano, anche come preti, che la Chiesa come istituzione non deve servirsi dei poteri dello Stato per acquisire prestigio, favori e privilegi, e così lo Stato non deve servirsi dei poteri della religione gestiti dalla Chiesa per imporre alle cittadine e ai cittadini di uno Stato il suo potere. La Chiesa deve essere di stimolo morale, spirituale nei confronti dello Stato, e lo Stato deve sentirsi spronato a perseguire, con le sue Leggi, il Bene comune, l’Amore per il prossimo e la Carità cristiana.
Alla tormentata storia dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato è legato il nome di Pietro Giannone.
Pietro Giannone è nato il 7 maggio 1676 a Ischitella, un comune di circa 4200 abitanti in provincia di Foggia, in Puglia, che fa parte del Parco Nazionale del Gargano.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con una guida della Puglia e navigando in rete fate un’escursione a Ischitella - un paese che può essere idealmente diviso in due parti: quella medioevale detta “la Terra” e quella ottocentesca detta “il Ponte” - e visitate i suoi monumenti a cominciare dal Castello del XII secolo poi ricostruito nel ‘700 dopo il rovinoso terremoto del Gargano del 1649...
Incuriositevi...
Pietro Giannone discende da una famiglia di avvocati e di speziali e a diciotto anni si trasferisce a Napoli dove s’iscrive all’Università e si laurea in Giurisprudenza ma coltiva un interesse soprattutto per la Storia [e il suo grande referente è Giambattista Vico] e nel 1723 termina la stesura di un’opera, Istoria civile del Regno di Napoli, che gli procura il plauso dei filosofi illuministi francesi e l’ostilità del potere ecclesiastico perché difende l’autonomia dello Stato laico dalle pretese della Curia romana [«...è necessario - scrive Giannone - che lo Stato laico si emancipi dalla servitù nei confronti del potere clericale e che sia la medesima Chiesa a liberarsi di detto potere dedito alla corruzione dei corpi e delle anime»], ed è costretto a lasciare Napoli a causa di una violenta campagna denigratoria intentata contro di lui [lo si accusa di deismo e di libertinaggio] per cui deve rifugiarsi a Vienna sotto la protezione dell’imperatore Carlo VI. Poi tenta di tornare a Napoli quando sale al trono Carlo III di Borbone che, però, lo consiglia di non tornare [perché non sarebbe in grado di proteggerlo dall’ira dell’Inquisizione] e, di conseguenza, si trasferisce a Venezia dove scrive la Lettera intorno al dominio del Mare Adriatico, un trattato sul diritto alla libera circolazione marittima [secondo il pensiero di Ugo Grozio] ma il governo della Repubblica veneta [che vuole dominare su questo mare] non gradisce e nel 1735 lo espelle dal suo territorio per cui Giannone si trasferisce a Ginevra dove termina di scrivere un’opera pubblicata postuma, dal forte contenuto anticlericale, intitolata Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale che gli procura un mandato di arresto da parte del Tribunale dell’Inquisizione. Giannone si sposta clandestinamente e pericolosamente per l’Italia - a Ferrara, a Modena, a Milano - finché non viene attirato con un tranello in un villaggio della Savoia dove, il 1° aprile 1736, viene catturato dalle guardie di Carlo Emanuele III di Savoia e trasferito nel carcere del Castello di Miolans.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Francia e navigando in rete andate a visitare il Castello di Miolans in Savoia, nel comune di Saint-Pierre-d’Albigny…
Incuriositevi...
Nel Castello di Miolans Giannone inizia a scrivere la sua Autobiografia, e nel 1738, durante il processo [che si sarebbe concluso con la sua condanna a morte] decide di firmare un’abiura [«Ho preferito continuare a scrivere - afferma Giannone - piuttosto che finire arrostito»] ma non viene prosciolto bensì trasferito nella fortezza di Ceva [comune in provincia di Cuneo che, navigando in rete, potete visitare, incuriositevi] e nel 1744, infine, viene tradotto nel mastio della Cittadella di Torino dove muore il 17 marzo 1748.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Ciò che resta della Cittadella pentagonale sabauda di Torino è il mastio che è stato trasformato in Museo e lo potete visitare navigando in rete, e così vi potrete ricordare [di un pezzo di storia studiata alle elementari] che in questa fortezza assediata, durante la guerra di successione spagnola [1702-1714], la notte tra il 29 e il 30 agosto 1706, per evitare che le forze nemiche penetrassero attraverso una galleria nella Cittadella, il soldato sabaudo Pietro Micca si fece eroicamente saltare in aria con venti chili di polvere da sparo sbarrando loro il passo...
«Beato il paese che non ha bisogno di eroi» ci ricorda Bertold Brecht in Vita di Galileo...
E noi continuiamo la nostra riflessione sulle opere di Pietro Giannone.
La Istoria civile del Regno di Napoli è un’opera monumentale in quaranta Libri nella quale Pietro Giannone sostiene la tesi che il degrado economico e sociale dell’Italia meridionale dipende dalla supremazia che la Chiesa ha sullo Stato laico. Nel Sud d’Italia più che altrove, scrive Giannone, è andata creandosi una confusione istituzionale tra i poteri del governo civile, molto deboli, e i poteri ecclesiastici di carattere feudale, molto forti, e questo fenomeno ha avuto origine per iniziativa dell’imperatore Costantino che - strumentalizzando il Concilio di Nicea [del 325] - ha utilizzato il messaggio del Vangelo per comandare [per imporre il suo dominio] e non per costruire una società migliore, più umana, più caritatevole. Giannone personalmente è animato da un fervido spirito religioso: predica e scrive nello stile dei riformatori, con la stessa vivacità polemica di frà Tommaso Campanella, e la sua lotta per liberare lo Stato laico dall’ingerenza della Chiesa è anche una lotta per liberare il messaggio evangelico che è stato insabbiato dal potere. I suoi avversari lo accusano di essere un pericoloso paladino della libertà di coscienza e di voler deprimere la Chiesa “istigando alla disubbidienza”. Giannone [come Bruno, Campanella, Vanini] non è tenero con i suoi avversari, non cerca la mediazione, e nella sua opera più famosa e provocatoria intitolata Il Triregno. Del regno terreno, Del regno celeste, Del regno papale sottopone l’evoluzione religiosa dell’Umanità e i dogmi del cristianesimo a una radicale critica illuministica. Scrive che il regno terreno è quello descritto dal Pentateuco [i primi cinque Libri della Bibbia] ed è tutto basato sulla vita materiale, mentre il regno celeste è basato sulla rivelazione di Gesù [“la ragionevolezza del cristianesimo”, scrive Giannone]; ma questo messaggio è stato mitizzato e strumentalizzato dal potere clericale con una serie di imposture che hanno portato al regno papale che [e basta usare la ragione per capire, afferma Giannone] è il rovesciamento puro e semplice della vera religione che Gesù Cristo ci ha insegnato.
Ma l’opera che oggi viene considerata la più importate di Giannone è la sua autobiografia intitolata Vita di Pietro Giannone scritta da lui medesimo. Il secolo dei Lumi è tempo di autobiografie, è tempo di riflessione sulla condizione umana. Questa autobiografia è considerata un capolavoro perché è priva di retorica. Giannone racconta, con grande semplicità [la sua lingua settecentesca non è facile da leggere, ci vuole pazienza] che ha cominciato a scrivere in galera per riempire quel tempo, quello spazio ristretto, convinto che «la scrittura allarga la vita» e convinto di aver lottato per una causa giusta: per l’autonomia dello Stato, per la coscienza laica della persona, per la coerenza con la propria fede, per il costante impegno intellettuale. Per questo, scrive Giannone «ho rischiato di essere assassinato, ho guadagnato l’esilio, ho perso la libertà, e ora attendo fiducioso la morte coltivando la voglia di raccontarmi». Lo spirito autobiografico che Giannone coltiva è un dono provvidenziale che riempie le sue giornate: «La scrittura [afferma Giannone] ha il pregio di farti gustare l’ironia, la malinconia, la rabbia, l’equilibrio e di regalarti molti frammenti di felicità».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Scrivete le prime quattro righe della vostra Autobiografia, lasciate che lo spirito autobiografico aleggi nella vostra mente...
E ora leggiamo l’incipit dell’Autobiografia di Pietro Giannone.
Pietro Giannone, Vita scritta da lui medesimo
Prendo a scrivere la mia vita e quanto sìami accaduto nel corso della medesima, non già perché io presuma di proporla a’ lettori per esempio da imitare le virtù forse da me esercitate, o da fuggire i vizi de’ quali fui contaminato; o perché contenesse fatti egregi e memorandi e fuor del corso ordinario delle umane cose adoperati - poiché son persuaso che, siccome in me non furono estreme virtù o estrema dottrina da imitare, così mi lusingo che non vi saran estremi vizi oppure estrema ignoranza da fuggire. Prendo a scriverla perché, trovandomi ritenuto fra le angustie d’un castello, dove privo di ogni umano commercio traggo miseramente i miei giorni; e dubitando, per la mia età cadente, non dovessi quivi finirla; quindi, e per alleggerire in parte la noia e il tedio, e perché, avvicinandomi alla fine, rammentando con la mente tutte le mie passate gesta, possa ritrarre conforto dalle buone e pentimento delle ree. …
Nel prossimo itinerario incontreremo Jean Jacques Rousseau e, per essere sicuri di incontrarlo, per non dover rincorrerlo di qua e di là, torniamo a Parigi nel quartiere de Les Halles e precisamente in quella locanda che si chiama Panier fleuri dove, come ricorderete dal viaggio dello scorso anno, si servono anche Diderot, d’Alembert e Le Breton [ed è al tavolo di questa trattoria, dove si prepara il rognone con le cipolle, che è nato il programma dell’Encyclopédie]. Rousseau al tavolo del Panier fleuri [e non si può mangiar con lui] polemizza con tutto l’Universo mondo perché sostiene che la cosa più importante che la ragione ci fa capire è che la nostra vera natura è sentimentale. E in che cosa consiste quello che è stato chiamato: “il sentimentale roussoiano?
Per rispondere a questa e a molte altre domande è bene procedere con lo spirito utopico che lo “studio” porta con sé consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, per questo la Scuola è qui e il viaggio continua…