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SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI SI PONE IL TEMA DELLE GARANZIE INDIVIDUALI CHE LO STATO DEVE RICONOSCERE ALLA PERSONA …

Lezione N.: 
6

ASSOCIAZIONE ARTICOLO  34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»

PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

Un secondo viaggio sul territorio del secolo dei Lumi

10-11-12  e 19  gennaio 2024

SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI

SI PONE IL TEMA DELLE GARANZIE INDIVIDUALI

CHE LO STATO DEVE RICONOSCERE ALLA PERSONA

     Ben tornate e ben tornati a Scuola: buon anno di studio a tutte e a tutti voi che rendete possibile, attraverso l’Associazione “Articolo 34”, la presenza della Scuola pubblica degli Adulti su questo territorio. Inizia, con il sesto itinerario, la seconda parte di questo viaggio che comprende tutta la stagione invernale fino alla prossima primavera, e, quindi, riprendiamo il nostro cammino sul territorio del secolo dei Lumi.

     Nel corso del secolo dei Lumi viene posto un tema molto importante: quello delle garanzie individuali che lo Stato deve riconoscere alla persona, in particolare quando viene chiamata in giudizio.

     Prima di iniziare la riflessione su questo tema, come abbiamo annunciato prima della vacanza, dobbiamo fare un preambolo per dire che nel 1712, in Inghilterra, nella regione a nord di Londra, nei pressi della città di Luton si è svolto l’ultimo processo a carico di una donna accusata di essere “una strega”, la quale, naturalmente, è stata condannata al rogo dai giurati, ma il presidente del tribunale, di fede illuminista e di idee massoniche, si oppone a questa decisione affermando che “le streghe” non esistono e che la poveretta è solo una vittima dell’ignoranza e della superstizione: questo magistrato [che non se ne lava le mani] raccoglie le prove in favore di questa donna e ottiene la revoca del verdetto e il suo scagionamento, e questa sentenza è entrata nella storia della giurisprudenza.

     Nel secolo dei Lumi si assiste alla fine dei processi e all’abolizione delle Leggi contro la stregoneria e la magia, e questo è uno dei segni del progresso compiuto dalla dottrina giuridica illuminista. Questo progresso determina anche un maggior allargamento della sfera della libertà individuale, e il compiersi di meno abusi da parte dei sistemi di potere [e non è stata una strada facile da percorrere, e sappiamo che quello dell’allargamento della sfera della libertà individuale è ancora un problema aperto].

     Diciamo subito, a questo proposito, che una delle tappe più significative del dibattito sulle garanzie individuali è rappresentata da un breve trattato che s’intitola Dei delitti e delle pene, stampato a Livorno nel 1764, e scritto dal giurista milanese Cesare Beccaria. Chi è Cesare Beccaria? Cesare Beccaria, marchese di Gualdrasco e di Villareggio, è nato a Milano [allora appartenente all’impero asburgico] il 15 marzo 1738 in una famiglia aristocratica: suo padre, Giovanni Saverio di Francesco, discende da un ramo importante della nobile famiglia Beccaria che ha tenuto per lungo tempo la signoria di Pavia, mentre sua madre è la duchessa Maria Visconti di Saliceto. Cesare studia nel collegio dei gesuiti di Parma, e consegue la laurea in giurisprudenza nel 1758 all’Università di Pavia. Nel 1760 Cesare, contro il volere del padre [che, come in uso all’epoca, voleva interferire], decide di sposare la nobildonna spagnola Teresa de Blasco, considerata una persona poco raccomandabile per le sue numerose avventure amorose, e quindi, avendo disubbidito, Cesare viene cacciato di casa per cui per un periodo viene ospitato e mantenuto economicamente dal suo amico Pietro Verri barone di Rho [1728-1797]. Dal matrimonio con Teresa nascono quattro figli [tre femmine e un maschio] e la figlia maggiore, Giulia Beccaria [1762-1841], ha sposato Pietro Manzoni [1736-1807] membro della nobile famiglia Manzoni di Lecco, ed è la madre di Alessandro Manzoni [nato nel 1785, e quindi Cesare Beccaria è il nonno materno di Alessandro Manzoni]. Ma Alessandro però non è figlio naturale di Pietro Manzoni ma bensì dell’amante di Giulia, Giovanni Verri [1745-1818], il più giovane e prestante dei fratelli Verri, cavaliere dell’Ordine di Malta, dedito a imprese pericolose ed affascinanti [combattendo sui mari contro i Turchi] e protagonista di molte avventure amorose.

     Se ora volessimo conoscere la vita di questi personaggi [Giulia, Pietro, Giovanni, Alessandro] sarebbe necessario un intero Percorso ma possiamo provvedere dedicandoci alla lettura di un’interessante biografia.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In biblioteca potete richiedere il volume della biografia intitolata La famiglia Manzoni scritta da Natalia Ginzburg e pubblicata nel 1989... Incuriositevi in proposito...

     Per quanto riguarda la vita famigliare di Cesare Beccaria dobbiamo ancora dire che il 14 marzo 1774 la moglie Teresa muore a causa della tubercolosi, e lui, dopo tre mesi di vedovanza, si risposa con Anna dei Conti Barnaba Barbò dalla quale ha un altro figlio, Giulio. Per quanto riguarda la sua formazione colturale c’è da dire che, dal 1760, Cesare conosce le idee dell’Illuminismo quando legge le Lettere persiane di Montesquieu e Il contratto sociale di Rousseau: da questo momento, comincia a partecipare alle riunioni e ai lavori di un gruppo di intellettuali [Alfonso Longo, Pietro Secchi, Giambattista Biffi, Luigi Lambertenghi] coordinato dai fratelli Pietro e Alessandro Verri, con i quali Cesare partecipa alla fondazione nel 1761 dell’Accademia dei Pugni, e diventa uno dei collaboratori del giornale Il caffè, fondato nel 1762 da Pietro Verri, il periodico culturale e politico che diventa il punto di riferimento della cosiddetta “corrente  del riformismo illuministico italiano”.

     Nel 1762 Cesare Beccaria fa stampare la sua prima opera, un breve trattato di economia [per controllare il fenomeno dell’inflazione, dell’aumento eccessivo dei prezzi] intitolato Del disordine e de’ rimedi delle monete nello Stato di Milano, e, nel 1764 pubblica il trattato Dei delitti e delle pene, un’opera [che tutte e tutti voi avete sentito nominare] che riscuote un grande successo in tutta Europa ma che provoca anche violente polemiche tanto che, nel 1766, quest’opera viene messa all’Indice: che un trattato nel quale si afferma l’illegittimità della pena di morte e della tortura venga messo all’Indice ci fa capire come, in questo momento, viene interpretata male la Letteratura dei Vangeli da parte del principale organo giuridico ecclesiastico, il tribunale dell’Inquisizione, e Pietro Giannone [che abbiamo incontrato nel terzo itinerario di questo viaggio] aveva ragione a scagliarsi contro l’autorità ecclesiastica. Sulla scia del successo di questo trattato [e Dei delitti e delle pene ce ne occuperemo tra un po’], nel 1766, Cesare Beccaria, insieme ad Alessandro Verri, si reca a Parigi dove entra in contatto con gli enciclopedisti ma, dopo poche settimane, ritorna a Milano dove, come lui dice, si sente più a suo agio: «Parigi è troppo dispersiva», scrive.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Ci sarebbe un Libro [e il condizionale indica la difficoltà ad avvicinarsi a molti volumi che potrebbero essere utili] dello storico Leopoldo Marchetti [1910-1967] intitolato Milano nel Settecento...  Sappiatelo, e incuriositevi utilizzando la biblioteca e la rete...

     Cesare Beccaria, oltre che di giurisprudenza, si è occupato anche di “estetica” dando un contributo allo sviluppo di questa disciplina in senso moderno.

     Cesare Beccaria, nel 1770, pubblica un trattato di estetica: Ricerche intorno alla natura dello stile, un’opera che s’ispira al sensismo di Condillac: quali sono le idee contenute in questo testo che ha dato un contributo alla definizione del concetto moderno della disciplina che oggi chiamiamo “estetica”?

     A questo proposito dobbiamo fare un preambolo che inizia con due domande: che cosa s’intende da questo momento [dalla metà del ‘700] per “estetica” e chi è il creatore del concetto e del nome di “estetica” che ha influenzato Cesare Beccaria?

     L’estetica, per definizione, riguarda lo studio dell’Arte per attribuire a essa un significato e un valore, e ha per oggetto il riconoscimento e la valutazione dell’idea di “bello”: “il bello”, ci si domanda, è un’idea che sta già nell’oggetto che viene osservato e, quindi,  un oggetto è bello di per sé perché contiene l’idea di bellezza in sé, in modo oggettivo? Oppure “il bello”, ci si domanda ancora, è riconoscibile in quanto idea personale che sta nell’occhio di chi guarda e, di conseguenza, un oggetto è bello perché piace soggettivamente alla singola persona? Questo dilemma, sempre aperto, che riguarda l’oggettività del bello per cui si afferma che “è bello quel che è bello di per sé” oppure riguarda la soggettività del bello per cui si dice che “è bello quel che piace alla singola persona”, questo problematico tema lo abbiamo già affrontato ultimamente nel Percorso dell’anno 2008-2009 con lo studio dei Dialoghi di Platone [in particolare Fedro e Ippia maggiore].

     E allora [torniamo alle domande del preambolo] nel 1750 è stato pubblicato un corposo trattato , scritto in latino, intitolato Aesthetica redatto da Alexander Baumgarten [nato a Berlino nel 1714] professore all’Università di Francoforte sull’Oder, città dove è morto nel 1762. Baumgarten, studioso della Metafisica di Aristotele e della Scolastica medioevale, è stato il continuatore del pensiero di Christian Wolff [di cui è stato allievo e ha chiosato i suoi quattro trattati intitolati Pensieri razionali sulla politica, la logica, l’etica, la metafisica] ed è stato un divulgatore delle opere di Leibniz [il Discorso di metafisica, la *“Monadologia, I Nuovi saggi sull’intelletto umano, I Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione], per cui Baumgarten [sulla scia di Wolff e di Leibniz] ribadisce il concetto che la filosofia è la scienza del possibile: siccome è possibile solo ciò che è pensabile, ogni verità va ricondotta di fatto entro i termini della ragione e, di conseguenza, è necessario studiare bene la logica, e anche la metafisica, su cui Baumgarten nel 1739 scrive un trattato che Kant adotterà come manuale nelle sue Lezioni di metafisica all’Università di Könisgberg. Quindi, anche se rientra nell’ambito della logica, la metafisica va considerata, afferma Baumgarten, come “la scienza dei principi primi della conoscenza umana” secondo la quale tutte le determinazioni concettuali devono essere dedotte l’una dall’altra e nessun concetto può essere esposto senza una dimostrazione. Baumgarten, nell’incipit del trattato intitolato Aesthetica, scrive: «La conoscenza umana dispone di due facoltà e di conseguenza: la persona come conosce la realtà? La persona conosce la realtà attraverso l’estetica e la logica. L’estetica è una conoscenza sensibile [dal greco “aesthesis,” sensazione] ed è attraverso l’estetica che la persona riconosce il bello, in quanto la bellezza è una percezione puramente sensibile. La logica, invece, è una conoscenza razionale, superiore all’estetica, che ha a che fare con le idee chiare e distinte e procura alla persona la conoscenza intellettuale, per cui, con la logica, la persona si avvicina all’universale, all’astratto, all’idea oggettiva. Ma, proprio per questa superiorità, la conoscenza logica non possiede quell’intuizione e quell’immediatezza tipica della conoscenza sensibile, e quindi le impressioni e le sensazioni prodotte dalla Natura e dall’Arte non vengono colte dalla persona con la logica».

     Questo modo di ragionare, che ricorda quello di Giambattista Vico, ha una conseguenza: sottrae la conoscenza della Natura e dell’Arte al dominio assoluto dell’intelletto. Dicendo questo dobbiamo ricordare che nel ‘600 le studiose e gli studiosi definivano la creazione artistica principalmente come un frutto della logica e non tenevano abbastanza in considerazione l’impeto delle emozioni che si provano davanti a un’opera d’Arte e davanti a uno spettacolo della Natura [e anche Pascal tende a superare il dominio dell’intelletto non con l’emozione ma con l’esprit de finesse, che è una forma di logica sottile e tagliente].

     Secondo Baumgarten la bellezza della Natura e dell’Arte la si coglie non con la pertinenza logica ma con la competenza estetica che sebbene si basi su idee vaghe, confuse e verosimili [come afferma Vico] tuttavia è una forma di conoscenza che possiede una piena autonomia. La conoscenza estetica, scrive Baumgarten, obbedisce a leggi proprie che non sono riconducibili a criteri razionali. Questa affermazione pone una serie di interrogativi [che stimoleranno il pensiero dei secoli a venire]: quali sono le leggi che regolano la conoscenza estetica? Che cos’è “il bello”, e che cos’è “il brutto”? E quello dell’artista è solo “un mestiere speciale” oppure la sua attività deriva da “una vera e propria vocazione” volta a far emergere il vero volto dell’Umanità?

     La conoscenza estetica - cioè “l’emozione che la persona prova di fronte alle manifestazioni dell’Arte e ai fenomeni della Natura” - dovrebbe far capire alla persona [scrive Baumgarten, e Beccaria lo segue in questo ragionamento] che l’essere umano non si è ancora realmente civilizzato, e che non ha fatto, e non sta tuttora facendo, il miglior uso possibile della ragione umana in quanto la società, che è stata creata più con la logica del potere che con l’estetica della sensibilità, non risulta essere la migliore società possibile rispetto alla bellezza che si manifesta nell’Arte e nella Natura: perché non c’è corrispondenza? La conoscenza estetica [scrive Baumgarten, e Beccaria lo segue in questo ragionamento] non nega il valore della Storia né la qualità della socialità umana ma mette in discussione questo tipo di Storia e di socialità che sono state realizzate senza tener conto della bellezza, della bontà, della semplicità, della trasparenza che sono valori presenti tanto nella Natura quanto nell’Arte. L’estetica [scrive Baumgarten, e Beccaria lo segue in questo ragionamento] è quella forma di conoscenza che «solleva il velo che separa la persona dalla sua essenza più vera: quella umana, naturale e artistica». E la creazione artistica e il giudizio estetico [scrive Baumgarten, e Beccaria lo segue in questo ragionamento] dovrebbero diventare “espressioni dell’Essere di ogni persona”. Questo concetto lo riprenderà un certo Friedrich Schiller in un’opera intitolata Lettere sull’educazione estetica, pubblicata a Tubinga nel 1795, nella quale questo autore sostiene che la conoscenza estetica s’impara e, quindi, è necessario che tutte le cittadine e i cittadini vengano indirizzati verso questa conoscenza senza la quale non ci può essere pieno sviluppo dell’Umanità [ma quest’opera e questo personaggio e il movimento di cui fa parte, che si chiama “Sturm und Drang” (tempesta e impeto e slancio), riguardano un’altra storia che appartiene a un territorio che speriamo di poter attraversare prossimamente].

     Ma è Baumgarten [che abbiamo incontrato] ad aprire questo dibattito nel 1750 col suo trattato intitolato Aesthetica, e Cesare Beccaria [come abbiamo detto, ma era necessario fare questo preambolo], nel 1770, vent’anni dopo, pubblica Ricerche intorno alla natura dello stile, un trattato di estetica sulla scia delle idee di Baumgarten: in questo saggio Beccaria scrive: «Lo stile di una persona che si dedica alla scrittura non dipende dalla logica ma bensì dal senso estetico, cioè trae origine più dalle sensazioni e dall’emozione che dalla ragione. I generi letterari, gli stili - come la fiaba, la favola, la novella, il sonetto, il poema, il romanzo - non sono stati costruiti da chi scrive con la conoscenza logica ma con la conoscenza estetica: uno stile dipende dalle sensazioni e dalle emozioni, è un esercizio estetico, ed è dopo, con la ragione, che lo definiamo “uno stile”».

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Accanto all’espressione “qualcosa di estetico” quali di questi termini - armonioso, piacevole, avvenente, aggraziato, elegante, raffinato, attraente, o quale altro - mettereste per primo...

Scegliere la parola che ci piace e scriverla è un gesto estetico: portatelo a compimento ...

     Dal 1768 Cesare Beccaria insegna Economia politica nella Scuola superiore milanese e nel 1771 viene nominato membro del Supremo Consiglio di Economia creato dal governo asburgico e, quindi, per vent’anni svolge a Milano un ruolo burocratico e amministrativo cercando di condurre una politica riformista il più possibile favorevole ai ceti meno abbienti della popolazione secondo i principi dell’Illuminismo.

      Cesare Beccaria muore a Milano il 28 novembre 1794 a causa di un ictus all’età di cinquantasei anni: al suo funerale non c’era molta gente ma era presente il nipote Alessandro Manzoni, ancora bambino, che ricorderà nei suoi Scritti questo avvenimento. Beccaria è stato sepolto nel Cimitero della Mojazza, detto anche di Porta Comasina [poi Porta Garibaldi], in una semplice tomba e, quando tutti i resti di questo Cimitero, diventato inagibile, sono stati traslati al Cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo nel 1895,, si è persa traccia della sua sepoltura [e anche delle sepolture di altri illustri personaggi].

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Utilizzando una guida di Milano e navigando in rete andate a documentarvi sul Cimitero della Mojazza [dal verbo “mojà” che, in dialetto milanese, significa “inzuppare” e il termine “mojàscia” significa “melma, fango”] del quale potete leggere la storia... Di questo sito, in rete, ci sono delle immagini significative da osservare tratte dal Libro intitolato La Mojazza, frammento della Milano Vecchi, pubblicato nel 1911, con impressioni e note dello scrittore e poeta Gaetano Crespi [1852-1913] che ha anche narrato la storia della figura di Barbapedana [un musicista di strada nel quale si identifica Enrico Molaschi (1823-1911)]: incuriositevi nei confronti di questi personaggi rappresentanti di una “Milano che non c’è più” come non ci sono più le tombe di Cesare Beccaria, di Giuseppe Parini, di Francesco Melzi d’Eril, di Melchiorre Gioia, di Angelo Cesaris, di Carlo Mozart e di molti altri che erano sepolti alla Mojazza dei quali restano le opere, e le opere sono materia di studio, e lo studio è cura...   

     La memoria di Cesare Beccaria rimane nella sua opera più importante: il trattato Dei delitti e delle pene nel quale, nel 1764, formula un catalogo di idee in chiave giuridica fondamentali per la Storia del Pensiero Umano. Beccaria nel trattato Dei delitti e delle pene scrive che la persona colpevole di un reato rimane pur sempre vincolata al contratto sociale, cioè è partecipe dei principi su cui si fonda lo Stato, e pertanto non può essere condannata a morte perché il contratto sociale garantisce alla persona, come principio inalienabile, il diritto alla vita, e se lo Stato si rende responsabile di togliere la vita alla persona per Legge viola lo stesso principio che ha violato la persona responsabile del delitto perché, in quanto persona, deve essere comunque tutelata nel suo diritto alla vita. La tutela, scrive Beccaria, da parte dello Stato nei confronti della vita della persona che delinque legittima anche l’autorità dello Stato che acquisisce la facoltà di pronunciare la condanna e di promulgare la pena necessaria, e la pena di morte, scrive Beccaria, non è necessaria perché vanifica la pena stessa in quanto rimuove uno dei principi su cui si basa l’autorità dello Stato: infatti lo Stato ha il dovere di comminare “la pena necessaria” e di farla espiare e, se la persona colpevole viene eliminata come può scontare la pena che le viene giustamente inflitta? Beccaria nel trattato Dei delitti e delle pene scrive che le sanzioni previste devono essere imposte non per vendetta né per ritorsione ma in funzione del pentimento, dell’educazione e della riabilitazione della persona colpevole, e se lo Stato legalizza la pena di morte elimina la funzione necessaria che deve avere la pena e, di conseguenza, lo Stato perde la prerogativa più importante su cui si basa la sua autorevolezza: quella educativa. Beccaria nel trattato Dei delitti e delle pene scrive che l’uso della tortura risulta assolutamente contrario alle norme del contratto sociale che è volto a garantire, oltre alla vita, la libertà e l’uguaglianza delle persone, pertanto, anche la tortura in tutte le sue forme va abolita.

     Il trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria attinge ai principi contenuti nel testo del Contratto sociale di Jean Jacques Rousseau [un’opera che conosciamo] dove si mette in evidenza che il diritto penale non può avere come fine quello della ritorsione sulla persona che delinque ma che l’obiettivo di questa disciplina deve essere quello della prevenzione nei confronti dell’azione delittuosa. Beccaria nel testo del suo Trattato smaschera gli abusi del diritto penale e denuncia la loro natura classista, e dimostra che si emettono giudizi e si usano trattamenti diversi a seconda se si è ricchi e aristocratici o poveri e senza nobiltà. Beccaria ritiene necessario pertanto che lo Stato si doti di un Codice penale chiaro e vincolante per ogni persona, il cui testo sia noto a tutte le cittadine e i cittadini, e sia basato sui principi della tolleranza e della libertà, e che la persona imputata abbia sempre diritto alla difesa, e che le udienze e i giudizi delle cause siano pubblici ed escludano le diffuse arbitrarie interpretazioni a vantaggio dei privilegiati. Le pene, scrive Beccaria, devono essere commisurate al fatto delittuoso compiuto e moderate per i reati meno gravi e per quelli derivanti da cause sociali. Per i delitti più gravi ci sarà una lunga detenzione che dovrà essere scontata lavorando nel rispetto dei diritti di chi lavora. Lo Stato che condanna a morte, e anche alla detenzione per tutta la vita, una persona mette in dubbio il riscatto sociale della persona, ed è come se, scrive Beccaria, lo Stato condannasse a morte se stesso perché i reati vanno prevenuti con un efficace sistema educativo e con le riforme sociali: per questo è necessario, scrive Beccaria, che lo Stato favorisca la crescita di una società libera e vincolata ai principi della ragione.

     Con il trattato Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria ha avuto inizio la riflessione sulle cause sociali della delinquenza e sull’opportunità che gli Stati rimuovano queste cause. Diderot, d’Alembert e Voltaire hanno molto apprezzato il Trattato di Beccaria facendone conoscere i principi in esso contenuti in tutta Europa.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Leggete, o rileggete, gli articoli 3, 24, 25, 26, 27 della Costituzione – e penso che il testo della Costituzione della Repubblica Italiana sia presente nella vostra biblioteca domestica - per capire come l’opera di Cesare Beccaria abbia inciso positivamente sull’ordinamento del nostro Stato e degli Stati democratici moderni...

     Cesare Beccaria nel testo del trattato Dei delitti e delle pene riflette, e fa riflettere la lettrice e il lettore, anche sulla natura che lo Stato deve avere per essere considerato un’istituzione di valore.

      Lo Stato, afferma Cesare Beccaria nel testo del trattato Dei delitti e delle pene , è tanto più autorevole quanto meno è arbitrario, crudele e tirannico. La forza dello Stato dipende da «l’emanazione di Leggi conformi ai principi della giustizia sociale» che non favoriscano esclusivamente le classi privilegiate [i nobili e il clero, siamo nel 1764] ma consentano, scrive Beccaria, alle persone appartenenti alle classi lavoratrici [contadini, operai, artigiani, commercianti, impiegati] di usufruire di beni e di servizi che consentano loro di condurre un’esistenza dignitosa. Scrive Beccaria: «La forza dello Stato si manifesta quando questa istituzione, con una giusta legislazione conforme ai principi della giustizia sociale, sa procurare un’esistenza dignitosa alle cittadine e ai cittadini appartenenti alle classi popolari che ne costituiscono la base vitale: in Milano e dintorni sono contadini, operai, artigiani, commercianti, impiegati. Mentre la debolezza dello Stato - ed è la sua debolezza a renderlo arbitrario, crudele e tirannico - sta [scrive Beccaria] nell’incapacità di ottenere un’applicazione tempestiva di Leggi che siano uguali per tutti i membri della collettività, e la debolezza dello Stato sta nel non voler varare un sistema educativo diffuso che possa insegnare il rispetto della Legge e nel non voler realizzare un sistema previdenziale che possa procurare un lavoro decoroso alle molte persone che non l’hanno, che le cause sociali della delinquenza sono da attribuirsi principalmente all’ignoranza e alla povertà.». Il commento migliore a queste affermazioni lo mette per iscritto, a suo tempo, il nipote di Beccaria, Alessandro Manzoni, in molte pagine delle sue opere. Ora, in proposito, facciamo solo un esempio lapidario citando due righe dal Capitolo I de I promessi sposi, in cui l’autore,  prima di dare inizio alla narrazione, traccia anche il quadro storico della società lombarda del ‘600 e scrive: «I poveri spesso sono cattivi, ma tanta parte della loro cattiveria dipende dalla società che non educa, non cura, non tutela.».

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Rileggete - perché non si finisce mai di fare l’esegesi di certi testi - il Capitolo I de I promessi sposi di Alessandro Manzoni, un’opera certamente presente nella vostra biblioteca domestica: sono quindici pagine di letteratura esemplare...

     Non è casuale il fatto che il trattato Dei delitti e delle pene sia stato stampato a Livorno, difatti il Granducato di Toscana, sotto la guida di Pietro Leopoldo, si dimostra uno Stato moderno e illuminato e, quindi, non sorprende che la regione Toscana, nel 1786 [il 30 novembre], sia stata la prima entità statale in Europa ad abolire la pena di morte e a riformare il Codice penale. Le idee politiche di Beccaria sono anche quelle che veicola la rivista Il caffè redatta a Milano dal 1762 al 1764, e diretta da Pietro Verri. Questi è l’autore di un’opera importante, di un saggio che s’intitola Idee sull’indole del piacere e che è stato pubblicato a Livorno nel 1773 nel quale Pietro Verri riflette sul tema del piacere e del dolore non in chiave metafisica, cioè non indaga sull’essenza del piacere e del dolore, ma vuole affrontare il tema dal punto di vista della concreta sensibilità umana: la persona, scrive Verri, prima di chiedersi che cos’è il piacere e che cos’è il dolore fa esperienza pratica della propria sensibilità e, per esperienza, la persona è portata a cercare il piacere e a fuggire il dolore. L’elemento determinante della sensibilità è il dolore, perché il piacere non è altro [scrive Verri, seguendo l’insegnamento di Epicuro] che la rapida cessazione del dolore e, quindi, scientificamente parlando, afferma Verri, il dolore è l’elemento positivo e il piacere quello negativo perché è soprattutto con il dolore che facciamo i conti, e il dolore fisico è un campanello d’allarme, è un elemento di prevenzione: di questa componente della vita umana, scrive Verri, la società, lo Stato moderno, deve farsi carico con l’attivazione di un servizio sanitario adeguato che sappia studiare questo tema e sappia affrontare i problemi che comporta [«Alleviare il dolore fisico è un diritto da garantire»].

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tutti noi soffriamo – chi più chi meno - di dolori e doloretti fisici vari: come affrontate il disagio che comporta questa situazione?...  

Scrivete quattro righe in proposito, può essere che la scrittura funzioni da analgesico…

     Ed è vero purtroppo, come scrive Pietro Verri, che la somma dei dolori supera di gran lunga quella dei piaceri, e la sensibilità umana è, quindi, condizionata soprattutto dal dolore, mentre il piacere appartiene più che altro alla sfera dell’immaginario e dell’inappagato. Il ragionamento di Pietro Verri porta a una concezione pessimistica della vita [anche lui appartiene alla corrente del “pessimismo ragionevole”].

     Il tema della centralità del dolore con la conseguente concezione pessimistica della vita proposto da Pietro Verri nel suo saggio verrà sviluppato, poeticamente e filosoficamente, qualche decennio dopo da Giacomo Leopardi [1798-1837], e questo tema ci fa avvicinare ad un testo che viene considerato un classico della Storia della Letteratura e che s’intitola Manoscritto trovato a Saragozza scritto da un eccentrico personaggio che si chiama Jan Potocki. Chi è Jan Potocki e che libro è il Manoscritto trovato a Saragozza?

      Jan Potocki è nato l’8 marzo 1761 nella regione allora appartenente alla Polonia della Podolia [che oggi fa parte dell’Ucraina] ed è l’erede di una grande famiglia aristocratica polacca, domiciliata a Varsavia e proprietaria di vaste tenute in territorio polacco. Jan, all’età di sette anni, insieme al fratello Severyn, è stato mandato a vivere e a studiare in Svizzera [a Ginevra e a Losanna] e in Francia. Nelle varie Scuole che frequenta acquisisce una grande competenza in scienze e in storia e poi, appena si rende indipendente, diventa un grande viaggiatore [percorre il Mondo da Occidente a Oriente senza sosta], si dedica all’archeologia [una disciplina agli esordi] in modo molto attivo [e Potocki è considerato uno dei fondatori dell’archeologia moderna] ed è un appassionato ricercatore di tradizioni etniche: la sua vita è talmente ricca di avvenimenti e di avventure che per raccontarla ci vorrebbe un Percorso intero. Potocki sale su uno dei primi palloni volanti con l’aeronauta Blanchard; compie un viaggio straordinario dal Marocco fino ai confini della Mongolia e annota per primo il linguaggio liturgico segreto degli abitanti della Circassia, una regione misteriosa e sconosciuta in Occidente situata ai piedi delle montagne del Caucaso centrale; a Parigi Potocki frequenta i salotti aristocratici però politicamente si lega ai Circoli giacobini e in queste sedi partecipa a preparare la Rivoluzione. Combatte, da buon polacco, contro i Russi quando Caterina II ordina di invadere la Polonia, e, come consigliere del re Stanislao, propone che tutti gli aristocratici polacchi si tassino per sostenere economicamente la nazione nella resistenza contro i Russi [anche se è personalmente contrario al regime monarchico] e lui, per dare l’esempio, versa un quinto dei suoi averi al re.

     Ebbene, nonostante la sua vita ricca di esperienze avventurose di Jan Potocki non sarebbe rimasta traccia se - cosa per lui inaspettata - non fosse entrato a far parte della Storia della Letteratura per aver scritto, in francese, un lungo romanzo che ha lasciato quasi completamente inedito, pubblicato nel 1847 ma poi dimenticato e abbandonato nelle biblioteche di un certo numero di città. Nel 1958, nella Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi in rue Vivienne 5, è stato ritrovato il testo dell’opera di Potocki, e la prima parte [le prime quattordici giornate] è stata subito ripubblicata col titolo Manoscritto trovato a Saragozza.

     Di che cosa tratta questo romanzo? Non è possibile riassumerne la trama perché non ha un’unica trama in quanto è composto da una serie di storie d’ispirazione diversa che spesso s’intrecciano l’una all’altra e sono raccolte dentro un’unica cornice come succede per le celebri novelle del Decamerone di Giovanni Boccaccio e in Mille e una notte, la raccolta di racconti arabi di autori popolari e ignoti, tradotti da un viaggiatore e orientalista francese di nome Antoine Galland, pubblicati [e dedicati alla Marchesa d’O] nel 1704 [tanto le novelle di Boccaccio del 1353 che i racconti di Galland hanno avuto, e continuano ad avere, uno straordinario successo].

     Per quale motivo Jan Potocki ha scritto i testi del Manoscritto trovato a Saragozza?  A questo proposito circola una storia ma c’è chi sostiene che si tratti di una leggenda e sono molte le leggende fiorite intorno alla vita e alla morte di questo personaggio. Jan Potocki si è sposato due volte: la prima volta con la principessa Julia Lubomirska [1764-1794, suo padre era il principe Stanislaw Lubomirski, noto uomo politico polacco e sua madre, Elisabetta, era la cugina del re Stanislao II Poniatowski], e dall’unione sono nati due figli maschi, ma dopo tre anni di matrimonio i due si separano perché lui è sempre in viaggio e lei decide di trasferirsi a Parigi dove partecipa alla vita politica e intellettuale della città. Ma tanto Jan che Julia hanno sempre fornito aiuto organizzativo e finanziario in favore della lotta per l’indipendenza polacca: in particolare sostengono l’insurrezione - purtroppo fallita nel 1792 - guidata da Taddeo Kosciusko contro la Russia e la Prussia che avevano smembrato la Polonia. Julia muore nel 1794 a trent’anni di tubercolosi a Cracovia e Jan, quattro anni dopo, si risposa con Konstancja Potocka [1781-1852, figlia del generale Stanislaw Potocki, membro di un altro ramo della vasta famiglia Potocki], dalla quale ha avuto tre figli [due femmine e un maschio]. Ebbene, la storia, o la leggenda, narra che Konstancja si è ammalata di una grave malattia e, per il lungo periodo in cui lei si è curata, Jan ha preso l’abitudine di leggerle i racconti delle Mille e una notte [sapete che in quest’opera l’autore, Galland, vuole mettere in evidenza come l’esercizio del raccontare salvi la vita (in arabo i verbi “raccontare” e “vivere” sono sinonimi)]. Al termine della lettura di tutti i racconti di Mille e una notte Konstancja, che non era ancora guarita del tutto, avrebbe voluto altre storie dello stesso genere e allora Jan ha cominciato a scrivere ogni giorno un capitolo nuovo e poi la sera lo leggeva alla convalescente: la scrittura di Jan ha funzionato da ricostituente e Konstancja ha riacquistato la salute.

     Il romanzo intitolato Manoscritto trovato a Saragozza [che Potocki ha scritto dal 1790 al 1814] è un’opera dotata di una complessa struttura narrativa costituita da una lunga serie di storie concatenate una dentro l’altra ripartite in sessantasei giornate di lettura, e la narrazione è preceduta da un’Avvertenza in cui un ufficiale francese [senza nome] spiega il significato del titolo del romanzo, raccontando di aver trovato, per caso, un interessante manoscritto spagnolo durante il sacco di Saragozza nel 1809 nel corso delle guerre napoleoniche poco prima di essere catturato dagli Spagnoli e privato dei suoi averi; ma il capitano spagnolo che lo perquisisce riconosce l’importanza di questo manoscritto, ringrazia il prigioniero di averlo conservato e glielo traduce in francese mettendolo al corrente che lo scritto è opera di un ufficiale della Guardia vallona, Alphonse van Worden [un suo avo], il quale, nel 1739, mentre era in viaggio verso Madrid per servire nell’esercito spagnolo, ha soggiornato per sessantasei giorni nella Sierra Morena dove ha incontrato un variegato numero di personaggi [principesse mussulmane, gitani, fuorilegge, spettri, cabalisti] i quali gli raccontano una serie intrecciata di storie bizzarre, divertenti, fantastiche che lui ha registrato nel suo diario.

     L’editoria presenta quest’opera in varie forme: con la pubblicazione integrale del romanzo [di tutte le sessantasei giornate di lettura, come ha fatto Guanda] oppure propone le prime quattordici giornate [come ha fatto Adelphi] che bastano a fare di quest’opera un capolavoro perché in essa si fondono le conoscenze di uno storico appassionato dell’antichità, le riflessioni di un filosofo, i ricordi e i diari di un grande e avventuroso viaggiatore pronto a cogliere gli elementi curiosi, pittoreschi, letterari e artistici delle terre che ha visitato.

     Nella scrittura di Potocki c’è il gusto dell’immaginario interpretato anche in chiave diabolica, anche con accenti macabri, orridi ed erotici: ma sotto la varietà e la libertà fantasiosa degli episodi raccontati emerge l’estro, certamente eccentrico e fuori dal comune, di un intellettuale ben preparato e competente in tante discipline: «nella scrittura di Jan Potocki si vede l’Illuminismo che sta entrando nel territorio del Romanticismo» [e anche noi stiamo andando in questa direzione].

     Prima di leggere l’Avvertenza di Manoscritto trovato a Saragozza e l’incipit della prima giornata dobbiamo sapere che Jan Potocki ha trascorso l’ultima parte della sua vita [dal 1812 al 1815] nella sua proprietà nei pressi di Uladowka in Podolia [allora regione della Polonia oggi dell’Ucraina] dove deve affrontare le conseguenze di una malattia [non ben identificata] che lo mette - lui così vitale ed esuberante - a contatto con il problema della centralità del dolore fisico con il quale deve fare i conti: soffre di dolorosissime nevralgie e di intensissime malinconie [il male delle cose perdute] e poi, secondo la leggenda popolare, sarebbe ossessionato dall’idea di essere sul punto di contrarre la licantropia [avrebbe temuto di diventare un lupo mannaro]; in questi ultimi anni della sua vita, [dimostrando fino in fondo il suo carattere eccentrico, dopo aver staccato una fragola d’argento che ornava il coperchio di una teiera - dopo averla fatta benedire dal prete del villaggio attiguo alla sua tenuta - ha cominciato a limarla ogni giorno e, quando questo oggetto ha raggiunto la giusta dimensione e la forma appropriata, il 23 dicembre 1815, nella sua biblioteca, inserisce quello che è diventato un proiettile nel caricatore della sua pistola e si spara alla tempia: questa storia reale sembra essere il finale fantastico di uno dei suoi racconti ed è così che il conte Jan Potocki è come se fosse diventato un personaggio da romanzo come il giovane Werther e come il giovane Jacopo Ortis.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Il Manoscritto trovato a Sarragozza - che è predisposto per essere letto a dosi giornaliere - lo potete richiedere in biblioteca: incuriositevi...

     E ora leggiamo l’Avvertenza di Manoscritto trovato a Saragozza, e l’incipit della prima giornata.

Jan Potocki,  Manoscritto trovato a Saragozza

AVVERTENZA

Mi trovavo all’assedio di Saragozza come ufficiale dell’esercito francese. Alcuni giorni dopo la presa della città, essendomi spinto in un luogo un po’ fuori mano, scorsi una casetta di belle proporzioni in cui, almeno in un primo tempo, credetti che nessun francese avesse ancora messo piede. Mi venne la curiosità di entrare. Bussai alla porta ma mi accorsi che non era chiusa. La spinsi ed entrai. Provai a chiamare, a cercare qualcuno, ma invano. Mi parve che fosse già stato portato via tutto quello  che poteva avere un certo valore; sui tavoli e nei mobili non restavano che oggetti di poca importanza. Scorsi soltanto in un angolo, per terra, parecchi quaderni scritti. Diedi un’occhiata a quello che contenevano. Si trattava di un manoscritto spagnolo; benché conoscessi molto poco la lingua, ne sapevo tuttavia abbastanza per capire che quel libro poteva essere divertente: vi si parlava di briganti, di spettri, di cabalisti, e niente era più adatto a distrarmi dalle fatiche della campagna militare quanto la lettura di un romanzo bizzarro. Convinto che quel libro non sarebbe mai più tornato al suo legittimo proprietario, non esitai a impadronirmene. Fummo in seguito obbligati a lasciare Saragozza. Rimasto, per disavventura, separato dal grosso dell’esercito, fui catturato dai nemici insieme al mio distaccamento; credetti che fosse la mia fine. Giunti sul posto che avevano stabilito, gli Spagnoli cominciarono a spogliarci di tutto quanto avevamo. Io chiesi di conservare un solo oggetto che non poteva esser di alcuna utilità per loro, cioè il libro che avevo trovato. Dapprima fecero qualche difficoltà, poi chiesero il parere del capitano che, dopo aver dato un’occhiata al manoscritto, venne da me e mi ringraziò di aver conservata intatta un’opera a cui egli attribuiva grande importanza, in quanto conteneva la storia di un suo avo. Gli raccontai come mi fosse capitata tra le mani; egli mi condusse con sé e, durante il soggiorno piuttosto lungo che feci in casa sua, dove venni trattato molto bene, lo pregai di tradurmi l’opera in francese. Io la scrissi sotto la sua dettatura.

 

PRIMA GIORNATA

Il conte Olavidez non aveva ancora fondato colonie straniere nella Sierra Morena; questa catena impervia che separa l’Andalusia dalla Mancia era allora abitata soltanto da contrabbandieri, banditi, e qualche vagabondo, che si diceva mangiassero i viaggiatori dopo averli assassinati; da cui il proverbio spagnolo: Las Gitanas de Sierra Morena quierem (vogliono) carne de hombres. Non è tutto. Il viaggiatore che si azzardava in questa contrada selvaggia veniva assalito, si diceva, da mille terrori capaci di raggelare il coraggio dei più arditi. Udiva voci lamentose mescolarsi al rumore dei torrenti e ai sibili della tempesta, luci ingannevoli lo sviavano, e mani invisibili lo spingevano verso abissi senza fondo. …

     C’è un’espressione che Jan Potocki utilizza più di una volta nel testo dei suoi racconti, ed è l’espressione: “il resto di niente”, un modo di dire che appartiene soprattutto alla tradizione napoletana [‘o resto ‘e niente] che rimanda all’interrogativo emblematico “che cosa resta dopo il niente se non nient’altro che altro niente?” e nasce una metafora che si configura nella rappresentazione amara e semplice di una sconfitta, di una perdizione, di un fallimento. Le idee dell’Illuminismo hanno lasciato il segno sulla carta nella Storia del Pensiero Umano ma coloro [donne e uomini] che hanno operato e lottato perché queste idee si affermassero hanno avuto spesso l’impressione, guardando l’andamento della Storia del Mondo [nonostante la promulgazione delle Costituzioni e delle Dichiarazioni Universali], che a loro fosse rimasto in mano “il resto di niente”.

     Abbiamo viaggiato [dall’ottobre del 2021] in lungo e in largo sul territorio del secolo dei Lumi e dal prossimo itinerario per il resto del nostro viaggio [e non è possibile resistere al richiamo della parola “resto”] avremo a che fare con un personaggio, Emmanuele Kant, che si è distinto per l’importanza delle opere che ha prodotto nelle quali ha cercato di valorizzare le idee dell’Illuminismo e di andare anche oltre.

     E adesso, per concludere l’itinerario di oggi, dobbiamo prendere in considerazione l’espressione “il resto di niente” nel significato della metafora tragica che rappresenta.

      L’ultimo anno del secolo dei Lumi, il 1799, si caratterizza per un avvenimento importante che vede la città di Napoli ancora una volta protagonista, un avvenimento che ha suscitato impressione in tutta Europa se è vero che, persino Kant, [che vive a circa 2400 chilometri da Napoli] ha lasciato, in proposito, un appunto significativo in margine a una pagina del volume che gli ha inviato l’editore della terza ristampa della sua Critica del giudizio dove vicino al 42° paragrafo [intitolato “Dell’interesse intellettuale per il bello”] scrive: «Monitore Napolitano, Würde [dignità] und Ehre [onore]». Per capire il significato della chiosa di Kant, relativo all’argomento in questione, il modo migliore è quello di fare riferimento a un romanzo che s’intitola Il resto di niente. Questo romanzo è stato scritto, nel 1986, da Enzo Striano [1927-1987], uno scrittore che di lavoro ha fatto l’insegnante e che ha voluto raccontare, da intellettuale napoletano, uno degli avvenimenti più importanti del ‘700, che chiude la storia di questo secolo: la proclamazione, la breve vita e la fine della Repubblica napoletana del 1799. Striano racconta questi avvenimenti attraverso la vita di una protagonista di questa avventura: la marchesa Leonor de Fonseca Pimentel, detta Lenòr, nata a Roma il 13 gennaio 1752 in una nobile famiglia portoghese che, per la rottura dei rapporti diplomatici tra lo Stato pontificio e il regno del Portogallo, si è dovuta trasferire a Napoli. Lenòr era alta, aveva belle forme, aveva occhi e capelli neri, ed era un’affascinante oratrice, una poetessa, e una persona vivace e fantasiosa e nel testo del romanzo Il resto di niente ci si può documentare su come si sapeva esprimere Lenòr, soprattutto in poesia. Lenòr è stata amica di Metastasio e ha frequentato giuristi, filosofi, artisti, musicisti come Paisiello e Cimarosa e leggendo il testo del romanzo Il resto di niente ci si può rituffare nella Napoli illuminista di fine ‘700.

     Lenòr, come molti intellettuali illuministi a Napoli, abbraccia gli ideali della Rivoluzione francese e si conquista il titolo di marchesa giacobina. La monarchia dei Borboni [Ferdinando di Borbone e Maria Carolina d’Austria, la sorella di Maria Antonietta, la regina di Francia ghigliottinata] a Napoli coltiva propositi antiriformatori e reazionari, e nell’estate del 1798, Lenòr, insieme a molti altri intellettuali illuministi, viene arrestata, accusata di attività rivoluzionarie, ma nell’inverno del 1798 viene liberata nel corso dei moti popolari che precedono la proclamazione della Repubblica partenopea: il 21 gennaio 1799.

     Lenòr si impegna attivamente nel comitato rivoluzionario che scrive la Costituzione: la scrittura della Costituzione della Repubblica napoletana è un atto importante nella storia dell’Europa democratica, e memorabili sono le pagine in cui Enzo Striano racconta le animatissime discussioni all’interno del gruppo costituente che svolge un formidabile lavoro di traduzione pratica della Carta dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, ma emergono [dal testo del romanzo] anche i limiti di comunicazione che questo gruppo dirigente ha con il popolo e, questo errore, sarà fatale. La Costituzione partenopea - un importante documento democratico che riconosce al popolo napoletano “la sovranità” - viene scritta in francese, in un salotto tutto sottosopra dove l’autore del romanzo ci fa incontrare gli illuministi napoletani che hanno vissuto, in modo eroico, questa gloriosa pagina di storia: tutti hanno pagato di persona ma purtroppo non fanno parte della memoria collettiva. Il più importante di questi personaggi è Mario Pagano [1748-1799] autore dei Saggi politici, e poi Jeròcades, Cirillo, Conforti, Meola, Primicerio, Guidi, Pignatelli, Ruvo, Astore, Delfico, Lauberg, Lomonaco, Manthonè, Marra, Ciaia e Gennaro Serra.

     Lenòr, da sola, si è impegnata fino in fondo in un’impresa di comunicazione molto significativa che la rende per sempre, nella nostra memoria, erede di una grande tradizione e dobbiamo dire che è stata, prima di tutto, una straordinaria giornalista: infatti, dal 2 febbraio 1799 dirige, scrive e divulga il Monitore Napolitano, il giornale che avrebbe dovuto informare una larga fascia di cittadine e cittadini napoletani, il popolo, sulle idee di fraternità, uguaglianza, libertà [e ora si capisce l’appunto di Kant]. Con questo giornale la redattrice vuole rendere edotto “il popolo sovrano” della Repubblica Partenopea sui diritti e sui doveri proclamati dalla Carta costituzionale. Ma il 13 giugno le truppe monarchiche [i capi erano quasi tutti “briganti”] guidate dal cardinale Ruffo - che ha saputo far bene propaganda giocando abilmente sull’ignoranza e sulla superstizione - riconquistano Napoli e la repressione è durissima: un vero e proprio eccidio [quelli che abbiamo nominato vengono tutti uccisi], e anche Lenòr viene condannata a morte e impiccata sulla piazza del Mercato il 20 agosto 1799. Quando sale sul patibolo con dignità e sicurezza, davanti al popolo che lei avrebbe voluto riscattare intellettualmente, e che per ignoranza aveva  cambiato bandiera, declama un famoso verso dell’Eneide di Virgilio: “Forsan et haec olim meminisse iuvabit” [Forse un giorno sarà bello ricordare anche questo].

     Oggi siamo qui e vogliamo dare corpo a questa citazione, e dobbiamo ricordare Lenòr nella sua efficace funzione di redattrice dei trentacinque numeri del Monitore Napolitano: quattro pagine di impegno culturale e sociale contro l’ignoranza e contro l’ingiustizia.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In rete trovate notizie e immagini del Monitore Napolitano” e potete vedere come era fatto questo giornale e leggere l’editoriale del primo numero... Poi è interessante leggere il testo del romanzo Il resto di niente di Enzo Striano, lo trovate in biblioteca, incuriositevi… 

Sul personaggio di Lenòr è stato girato un film nel 2004 dalla regista Antonietta De Lillo intitolato Il resto di niente: è da vedere per conoscere, per capire e per imparare a sostenere, patrocinare e difendere le idee democratiche concepite nel corso del secolo dei Lumi...

     Leggiamo, per concludere, un frammento da Il resto di niente, l’ultimo istante della vita di Eleonora de Fonseca Pimentel.

Enzo Striano,  Il resto di niente

Alza gli occhi, verso il mare, che s’è fatto celeste tenero. Come il cielo, come il Vesuvio grande e indifferente. Un piccolo sospiro di rimpianto. Non osa chiedere: vorrebbe, però. Ritrovarli tutti nell’abbraccio di Dio sarebbe bello. Così, invece, che rimane? Niente. Il resto di niente. Vacilla. Mastro Donato il boia la sorregge, poi la spinge, con delicatezza. Le tiene una mano per farla salire sopra lo scaletto. Prima di dare il calcio la guarda, con occhio serio, un po’ aggrondato.  …

     Eleonora Pimentel de Fonseca ha operato ed è morta in nome di una causa importante: il diritto e il dovere delle cittadine e dei cittadini ad educarsi ai principi della democrazia.

     Questi itinerari sono lunghi e pesanti ma: “Forsan et haec olim meminisse iuvabit, Forse un giorno sarà bello ricordare anche questo” e, quindi, per conoscere, e per avere il “resto” [sperando che non sia “di niente”]  di questo Percorso, visto che lo studio è cura: la Scuola è qui e il viaggio continua…

 

 

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Gennaio 19, 2024