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SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI KANT PRESENTA “LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA” …

Lezione N.: 
13

ASSOCIAZIONE ARTICOLO  34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»

PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE

DELLA DIDATTICA E DELLA SCRITTURA

Prof. Giuseppe Nibbi

Un secondo viaggio sul territorio del secolo dei Lumi

8-9-10 e 17 maggio 2024

SUL TERRITORIO DEL SECOLO DEI LUMI

KANT PRESENTA “LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA” …

     Questo è il tredicesimo itinerario del nostro secondo viaggio sul territorio del secolo dei Lumi [ed è il penultimo itinerario di questo Percorso] e, come sapete, ci troviamo sempre a Königsberg in compagnia di Immanuel Kant che questa sera ci fa riflettere - attraverso il testo della Critica della ragion pratica - su che cosa sia “la Legge del dovere” e su che cosa sia “un atto morale”.

     Nel 1788, sempre a Riga, Kant fa pubblicare dall’editore Hartknock il testo della Critica della ragion pratica. Nella seconda metà degli anni ’80 del ‘700, Kant, come sappiamo, ha scritto un certo numero di Saggi che, in particolare, trattano della questione morale. Ed è soprattutto attraverso questi Saggi, definiti opere minori rispetto alle tre Critiche, che Kant - sebbene abbia usato un linguaggio popolare per cercare di far leggere anche le persone meno colte - è riuscito a farsi conoscere a livello internazionale solo, però, in ambito universitario e non certo da un pubblico più vasto [che allora come oggi non ha dimestichezza con la lettura]. C’è da dire che nel corso degli anni Kant ha fatto gradualmente carriera all’Università di Königsberg: sappiamo che nel 1770, dopo un lungo precariato, è diventato professore ordinario di Logica e di Matematica e, quindi, ha potuto accedere al Senato accademico; e nel 1786 è stato suo malgrado nominato rettore, ma nel 1788 non è stato riconfermato nella carica: Kant non ama comandare, preferisce fare l’insegnante e si definisce di fronte ai suoi studenti: «Un libero pensatore non amante delle alchimie del potere istituzionale di cui la figura del rettore, che non mi si addice, deve tenere conto.».

     Ed effettivamente Kant è “un libero pensatore” e i suoi Scritti non erano, e non sono a tutt’oggi, in linea con il conformismo e il dogmatismo dei poteri istituzionali, per questo i suoi colleghi si sono sempre tenuti alla larga da lui affibbiandogli il soprannome de “lo smantellatore” e, di conseguenza, i suoi Scritti li leggevano in pochi, mentre, alla luce del nomignolo dato a Kant, venivano sistematicamente visionati [e la cosa ha del comico] dagli addetti alla censura della polizia prussiana.

     Se pochi avevano letto la Critica della ragion pura, pochi leggeranno la Critica della ragion pratica, e la speranza, che Kant ha sempre coltivato, di poter arrivare a interessare le cittadine e i cittadini europei con i suoi Scritti per favorire un’ampia riflessione di base è andata sempre delusa. Kant si illudeva, sperava di poter provocare una riflessione pubblica soprattutto sul tema della questione morale, ma quello che è stato definito “il paradosso kantiano” consiste nel fatto che lui ha sempre dichiarato di avere l’intenzione, pienamente riuscita, di «non dire nulla di nuovo o di originale, ma di esprimere solo ciò che tutte le persone già sanno, salvo il precisarlo e inquadrarlo in un insieme coerente al seguito di una riflessione di carattere cognitivo.»; infatti, chi viene al corrente, soprattutto oggi, delle idee contenute nel testo della Critica della ragion pratica inevitabilmente ritiene di conoscerle già affermando: «Ma che cosa ci racconta questo Kant! Fa delle affermazioni giustissime in teoria [a-priori] sui temi della questione morale ma poi, in pratica, quante sono le persone disposte a seguire il suo pensiero?».

     La Scuola, l’istituzione nella quale Kant ha lavorato per tutta la vita, deve assumersi la responsabilità al di là dell’ipocrisia generale di ribadire che Kant ha colto, con precisa aderenza, il principio della moralità non falsandolo in nulla e scrivendo, senza fare compromessi, proprio le cose come stanno sul tema del dovere e dell’edificazione di una comunità fondata sui doveri esprimendosi con uno stile un po’ farraginoso sul piano della forma ma assolutamente comprensibile per quanto riguarda il contenuto: perciò i sistemi di potere, che hanno sempre considerato i principi etici qualcosa di facoltativo, hanno sempre agito in modo da far passare Kant alla storia più come un moralista, nel senso negativo del termine, invitando a ricordarlo più per alcune contraddizioni del suo sistema [che hanno fatto molto discutere le studiose e gli studiosi in campo filosofico] piuttosto che per il suo insegnamento di stringente attualità nei confronti della questione morale; ed è singolare il fatto che le idee contenute nel testo della Critica della ragion pratica non siano state sviluppate da nessuna Scuola filosofica: e perché è avvenuto e avviene questo? La ragione è facile da capire: perché “moraliste di Scuola kantiana” sono inevitabilmente [tutte e tutti noi] tutte le persone di questo mondo nel momento in cui ragionano in modo spassionato e non ipocrita sul tema del dovere quando decidono di liberarsi dal vincolo dell’interesse personale [dall’invadenza dell’astuzia della ragione]!

     Per essere di Scuola kantiana [visto che tutte e tutti siamo in possesso delle forme a priori dello spazio e del tempo che permettono di intuire la realtà empirica] non serve diventare filosofe e filosofi di professione, basta essere cittadine e cittadini di questo tempo e di questo mondo, leali con sé stesse e sé stessi. La dottrina etica di Kant è una strada che attraversa senza ostacoli il territorio della condizione umana perché quest’area contiene un vasto paesaggio intellettuale formato da ciò che ciascuna persona pensa quando pensa al tema del dovere: e allora, direte voi, è facile essere persone che fanno parte della Scuola kantiana! Però di fronte all’affermazione: «Nella vita bisogna fare il bene ed evitare il male», la risposta, in teoria, sembra semplice [afferma Kant], ma poi le cose risultano essere molto complicate e, di conseguenza, Kant ha ritenuto opportuno imbastire una articolata riflessione in proposito.

     In età contemporanea, sulle orme di Kant, una significativa riflessione sulla questione morale è stata tenuta dalla politologa, filosofa e storica tedesca, Hannah Arendt, nata ad Hannover nel 1906 e morta a New York nel 1975 in quanto naturalizzata statunitense avendo dovuto lasciare la Germania nazista nel 1933 a causa delle persecuzioni dovute alle sue origini ebraiche.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

E in proposito si consiglia la lettura del saggio di Hannah Arendt intitolato Alcune questioni di filosofia morale… In queste pagine vengono riportati gli argomenti trattati nelle Lezioni che la Arendt ha tenuto all’Università alla metà degli anni sessanta… 

Incuriositevi perché la curiosità invoglia la mente a fare ricerca... 

     Tutte le volte che la persona conosce, scrive Kant nel testo della Critica della ragion pura,  formula un giudizio, quindi: conoscenza e morale sono in stretta relazione.

     Kant dimostra, nel testo della Critica della ragion pura, come abbiamo studiato, che il fenomeno della conoscenza è collegato all’azione di giudicare ed è, quindi, in relazione con l’esperienza morale. Scrive Kant nell’incipit della Critica della ragion pratica: «L’esperienza del conoscere, in quanto intimamente legata all’azione di giudicare, è sempre un atto morale. E la Legge morale è, a-priori, scritta nella coscienza di ogni persona, e ciascuna persona la può riconoscere allo stesso modo in cui, per natura, tende a conoscere a-priori il mondo che la circonda. Anche la ragion pratica  - cioè la ragione che compie un atto morale e realizza un’azione rivolta al Bene - può contare su una forma a-priori che la governa, e la forma a-priori che dirige la ragion pratica è la volontà. La volontà, quando è determinata dalla ragion pura, si risolve nell’imperativo categorico, cioè in quella condizione vincolante in cui l’Io della persona - con la sua coscienza, la sua mente, il suo pensiero - si sente sottoposto alla Legge del dovere, e la persona, con la volontà, sente il dovere di fare il proprio dovere perché è lo stesso dovere che lo richiede. La ragione attraverso la volontà dice alla persona: tu devi!». Inoltre la forma a-priori della volontà, scrive Kant nel testo della Critica della ragion pratica, contiene un presupposto fondamentale, possiede una condizione indispensabile per l’attuazione della Legge morale, ed è un elemento che non funziona nel mondo dei fenomeni, quindi, è un postulato che svincola la persona dal mondo fisico e ne esalta la natura razionale: ebbene, questo fattore determinante è la libertà. Scrive Kant: «La libertà è il presupposto per cui la volontà della persona risulta effettivamente dotata di autonomia, ed è il fattore necessario per dare valore al dovere. La persona deve ritenersi consapevole della propria umanità quando è solita ripetersi costantemente “io devo, dunque, se devo, posso e, pertanto, se posso, mi trovo nella condizione di poter scegliere!”, e questo doveroso auto-ammonimento fa sì che la persona avverta se stessa come essere umano autonomo e libero».

     Kant, nel testo della Critica della ragion pratica, scrive che la persona non è libera nella realtà fisica, difatti, nel mondo fisico gli esseri umani sono molto limitati, sono soggetti al determinismo e, quindi, l’essere umano è libero non nell’ambito della Legge naturale nel quale ha delle possibilità limitate, ma ha il privilegio di essere libero nell’ambito della Legge morale che è l’espressione della stessa natura razionale della persona, la quale è libera di scegliere sempre il Bene e la Virtù, una scelta, afferma Kant, che procura anche un senso di felicità perché la ragione umana, dopo aver compiuto un disinteressato atto benevolo, prova soddisfazione in quanto la possibilità che la persona ha di poter sempre scegliere liberamente in funzione della realizzazione del Bene produce la felicità.

     E, come mai, il mondo, allora, si domanda Kant, non è un paradiso di beatitudine? Come mai la vita delle persone non è costellata da una trafila continua di atti coerenti con l’idea del Bene? Questo avviene, afferma Kant, che è un sorvegliato speciale da parte della polizia prussiana, per un deficit nella gestione del settore della conoscenza in quanto le Istituzioni non s’impegnano a promuovere in tutti i Paesi tra la popolazione una riflessione collettiva, didatticamente guidata [e Kant è stato un educatore esemplare che ha fornito un metodo in proposito], sul tema della morale che risulta la questione principale per lo sviluppo della società umana. Le Istituzioni di potere delle Nazioni, afferma Kant, eludono questo tema: i governi preferiscono concentrare l’attenzione delle popolazioni sulla forza dei loro eserciti chiamando gli uomini alle armi [e uccidere il nemico di turno è un atto morale? Si domanda Kant]; i governi preferiscono concentrare l’attenzione sulla forza-lavoro per incentivare i profitti dei possidenti indirizzando uomini e donne, e anche bambine e bambini, nei campi e nelle fabbriche [e il non distribuire equamente i frutti della produzione che valenza morale ha? Si domanda Kant]; i governi preferiscono concentrare l’attenzione sulla natalità perché il numero di abitanti è potenza per la Nazione [e indurre le donne a farsi fattrici per dare grandezza alla patria è un incentivo alla morale? Si domanda Kant]. Scrive Kant, sorvegliato speciale da parte della polizia prussiana: «Mai avremo un mondo più giusto, più buono e più bello finché l’intera popolazione umana non sarà chiamata a riflettere sul significato da dare all’atto morale e, prima ancora, non sarà sollecitata a domandarsi: cos’è un atto morale?».

     Il tema dominante della Critica della ragion pratica riguarda questa domanda: che cos’è un atto morale? La risposta, in teoria, sembra semplice, afferma Kant: un atto morale è una manifestazione di volontà in cui la persona sa, a-priori, che occorre fare il bene ed evitare il male, e allora perché, si domanda Kant, quando si passa dalla ragion pura alla ragion pratica tutto diventa complicato?

     Tutto diventa complicato, sostiene Kant, nel testo della Critica della ragion pratica, perché nei programmi di studio non è prevista una disciplina che faccia riflettere su che cos’è la morale. Solitamente, scrive Kant, l’insegnamento della morale viene frainteso: nelle Scuole e nella società non si educa alla morale propriamente detta ma si istruisce al moralismo mediante l’ingiunzione di una serie di regole [di comandamenti e di divieti] che la persona è chiamata a osservare pedissequamente per cui spesso fa finta di rispettarle, trovando scorciatoie per eluderle: ebbene, questo tipo di presunta morale, afferma Kant, non farà mai maturare nell’animo della persona il senso del dovere e succede che ciascuna persona osserva più che altro ipocritamente il comportamento altrui piuttosto che il proprio. Le regole della morale propriamente detta, afferma Kant, non sono votate o decise come le Leggi giuridiche o le norme dei Catechismi e, quindi, il rispetto delle regole della morale vera e propria non è prima di tutto di competenza dei tribunali o degli apparati religiosi perché, afferma Kant, è la coscienza che deve guidare la condotta e il giudizio di ciascuna persona: quindi, è la coscienza individuale l’organo [lo strumento, il dispositivo, il congegno integrante] votato alla morale.

     Tutto, detto così. sembra semplice, scrive Kant nel testo della Critica della ragion pratica, invece, ancora una volta, le cose sono molto più complicate di quanto sembri. Che cosa complica, si domanda Kant, il meccanismo morale, che cosa rende difficile il fatto che, secondo coscienza, bisogna sempre fare il bene? Di fronte a questo interrogativo, scrive Kant, si capisce che è necessario riflettere sul concetto del “bene”: la persona ha le idee chiare su che cosa s’intenda per “bene” e quale sia la valenza intellettuale e storica dell’Idea di Bene? …

     Infatti, riflette Kant nel testo della Critica della ragion pratica, sul piano storico e intellettuale non è una cosa così evidente il concetto di “bene” perché questa nozione  cambia nel corso del tempo, e cambia secondo gli usi e i costumi della  società e secondo le circostanze. Se, per esempio, si prende in esame, scrive Kant, la regola morale più chiara: “non uccidere”, ebbene, si sa  che nell’antichità uccidere a sangue freddo, in determinate circostanze, poteva passare per una virtù virile e civile, i sacrifici umani erano considerati poemi religiosi, e anche oggi, si ritiene, e s’insegna perfino, che uccidere in guerra non è immorale. Poi la maggioranza delle persone, ribadisce Kant, ritiene che uccidere cessa di essere immorale se si tratta di difendere la propria vita o quella di qualcun altro e giuridicamente si usa il termine di “legittima difesa” e i codici di diritto giudicano in modo diverso il delitto d’interesse, premeditato, e il delitto passionale, impulsivo, tanto che la maggioranza delle persone non ritiene immorale che un marito uccida la propria moglie anche se solo pensa che lei lo tradisca.

     Come si vede, scrive Kant, non basta dire “non uccidere” per giudicare, e questo vale per tutte le regole morali. Per esempio, esemplifica ancora Kant nel testo della Critica della ragion pratica, tutte le persone sono d’accordo nel ritenere che “rubare” non è un gesto moralmente accettabile ma viene giustificato pienamente il personaggio di Robin Hood nel momento in cui rapina i ricchi perché i miseri abbiano da mangiare. Ogni persona, scrive Kant, condanna anche l’uso della “menzogna” ma loda la virtù del funzionario che, sotto l’occupazione del suo paese invaso dai nemici, inganna i suoi superiori passando informazioni ai patrioti che resistono. In definitiva, afferma Kant, da questi esempi si capisce che la moralità, il concetto di “bene”, più che i principi e i divieti, riguarda “il giudizio in coscienza”. Però anche in questo caso si presenta un problema, scrive Kant nel testo della Critica della ragion pratica, perché se si ammette che la morale dipende dal giudizio di ciascuna persona, dal giudizio soggettivo, allora è anche possibile l’insorgenza della malafede, c’è il rischio che sia tutto permesso per cui non ci sarebbe più una morale ma una sorta di moralismo incondizionato. E allora, si domanda Kant, come ci si deve porre nei confronti di questo problema? Il problema, scrive Kant, deve essere affrontato ribadendo che la moralità appartiene alla coscienza personale per cui occorre mettere bene in chiaro quali sono i principi generali della moralità, e occorre intendersi bene sui criteri per definire “il bene” e “il “male”.  Il soldato, si domanda Kant nel testo della Critica della ragion pratica, che uccide in guerra è un assassino o un eroe, Robin Hood che ruba ai ricchi e maltratta i prepotenti è un ladro o un benefattore, il funzionario che trama per la patria in pericolo è un mentitore o un valoroso?

     E allora quali sono i criteri per definire “il bene” e “il male”? A prima vista si direbbe, afferma Kant, che ogni persona senta in se stessa ciò che si collega ai principi generali della moralità: infatti, in alcune circostanze in cui la persona pensa di non aver agito bene, si ritrova a fare i conti con la sua cattiva coscienza, mentre altre volte, di fronte a una azione ben fatta, sente una certa intima felicità legata alla convinzione di avere agito bene. Il fatto è che, si domanda Kant che non smette mai di riflettere, allora, ancora una volta, non si capisce perché, se i principi morali sono innati, e procurano una certa intima felicità, non vengano rispettati costantemente da ogni persona, non sono, forse, tutte le persone alla ricerca della felicità che il Bene procura? In più, afferma Kant, se i principi morali sono innati, e procurano una certa intima felicità, non si capisce perché le morali differiscano tanto nelle varie epoche e da una cultura all’altra e, infine non si capisce come mai sono possibili le condotte immorali se i principi morali sono innati: perché tutte le persone non fanno sempre ciò che è bene fare?

     Ebbene, da tutti questi ragionamenti, scrive Kant nel testo della Critica della ragion pratica, che cosa si può imparare, che cosa se ne può dedurre? Si deduce che la morale ha bisogno di un fondamento, ed è senza dubbio per questo motivo, scrive Kant, che le morali tradizionali, soprattutto quelle religiose, hanno sentito il bisogno di dare alla morale un fondamento forte come l’Idea di Dio, e di dare alla morale dei criteri divini come le Sacre Scritture, come i Comandamenti, e di dare alla persona delle ragioni straordinarie per ubbidire ai precetti come la promessa del Paradiso e la minaccia dell’Inferno: questo, ribadisce Kant, è il modo più diffuso di concepire la morale cioè quello di imporla dall’esterno e, in questo caso, si richiedono alla persona degli sforzi e dei sacrifici con la promessa che, dopo la morte, potrà usufruire di una felicità eterna; questo tipo tradizionale di comportamento, scrive Kant, fa sì che la persona si comporti moralmente per interesse, ma il comportamento morale assunto per utilità, per vantaggio, per tornaconto, per superbia, per immodestia [per sentirsi lodare], per presunzione [per procacciarsi la santità] risulta essere davvero un comportamento morale, si domanda Kant? Questo argomento ha dato linfa alla Letteratura.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Su questo tema la Storia della Letteratura ci ha lasciato molti esempi e, in proposito, non si può non citare il romanzo-breve di Leone Tolstoj, scritto tra il 1890 e il 1898, e pubblicato postumo nel 1911, intitolato Padre Sergio... Leggetelo [o rileggetelo] dopo averlo richiesto in biblioteca [«Sì, una sola opera buona, una sola tazza d’acqua offerta senza calcolo di ricompensa ha più valore di tutti gli atti  benefici compiuti da me per essere visto dagli altri, per la gloria umana ...».]...

     Kant si sarebbe sentito gratificato se avesse potuto leggere il testo di Padre Sergio, e Tolstoj ha saputo interpretare bene la Lezione kantiana in tutte le sue opere.

     Kant nel testo della Critica della ragion pratica scrive che tutte le persone sentono il bisogno di una ricompensa, ed è comprensibile in una società che predica e impone da sempre la regola dei premi e dei castighi e che detta norme di restrizione in rapporto a ciò che la persona potrebbe e vorrebbe fare per cui, per realizzare il bene ed evitare il male, la persona deve sempre rinunciare a qualcosa: a un interesse, a un piacere, a una disposizione, a una tendenza: ma in nome di che cosa, si domanda Kant, si esige che la persona debba controllare il suo comportamento? È evidente, scrive Kant, che se il bene coincidesse sempre con l’interesse della singola persona non ci sarebbe bisogno della morale: basterebbe che ciascuna persona seguisse i suoi desideri, ma in questo caso però le persone sarebbero programmate come macchine, secondo leggi deterministiche [oggi Kant direbbe “secondo algoritmi”] e si muoverebbero, scrive Kant, allo stesso modo in cui il vento fa muovere le foglie, e si comporterebbero allo stesso modo in cui la fame spinge un animale a mangiare un altro animale; di conseguenza, afferma Kant, sarebbero i desideri e gli interessi personali, in particolare quelli fortemente negativi, a determinare l’azione morale: in tal caso, scrive Kant, la persona sarebbe prigioniera delle relazioni di causa ed effetto. Quindi, afferma Kant, l’idea stessa di morale presuppone che la persona sia un essere diverso da una macchina, sia un essere che possa sfuggire al determinismo [ed è così che si esprimono oggi coloro che invitano a riflettere sui rischi dell’intelligenza artificiale che dovrebbe essere destinata a migliorare la qualità della vita]: allora, si domanda ancora Kant: che cosa presuppone l’idea di morale?

     L’idea di morale, afferma Kant, presuppone che la persona - con la sua ragion pratica dotata di due efficaci forme di discernimento: la volontà e la libertà - sia capace di giudicare e di scegliere in modo da poter agire per principio, a-priori, secondo un imperativo categorico, e non in nome di un dettato e di una disposizione superiore che presuppone sempre un premio o un castigo, perché se gli atti da compiere sono in funzione della ricompensa allora sono atti compiuti per interesse: si può parlare di moralità, afferma Kant, quando il comportamento è legato al desiderio della ricompensa? Una persona che si dedica al commercio onestamente, scrive Kant nel testo della Critica della ragion pratica, viene considerata moralmente virtuosa, ma se questa persona si comporta onestamente solo perché teme di essere multata, e se si comporta correttamente solo perché ha paura di essere sorpresa a rubare e, quindi, rischierebbe di perdere la reputazione, la clientela e il guadagno, ebbene, in questo caso, questa persona non sarebbe onesta per moralità, ma sarebbe morigerata per interesse e, quindi, si domanda Kant, se fosse sicura di poter rubare, senza rischiare di essere scoperta, ruberebbe? Questo caso, afferma Kant, in cui “la condotta è conforme alla norma” è esemplare per capire che questa conformità è determinata da ragioni che non coincidono con la morale perché questa persona è sì fedele alla norma, però non ha alcun merito perché quando un atto è determinato dall’interesse, dal timore, dalla speranza di una ricompensa e così via, non ha nulla di morale anche se è conforme alle norme.

     Perché un atto, scrive Kant, possa essere definito morale occorre che venga compiuto semplicemente [e si sa che la semplicità è una virtù difficile da perseguire] per principio, a-priori, in quanto bisogna non uccidere, non rubare, non mentire e via dicendo perché tutto ciò è male, indipendentemente dalle conseguenze che può avere. Per cui, scrive Kant, - per poter formulare il catalogo delle regole - è necessario fondare un’educazione che insegni a ciascuna persona a riflettere sulla questione morale, è necessario che la persona impari e sappia che la Legge morale va rispettata perché è radicata all’interno della sua coscienza e non sul terreno dell’esteriorità. La persona, scrive Kant, deve imparare a pensare che, come essere umano, fornito di intelletto e di corpo, di sentimenti e di passioni, ha la possibilità di elevarsi al di sopra dei suoi interessi, e di agire con un atto che, a-priori, sia riconoscibile come atto morale. Non basta, afferma Kant, un catalogo di regole a fare la morale, è necessario che la persona attivi la sua ragion-pratica e rifletta costantemente sulla questione morale. Se Kant nel testo della Critica della ragion pratica:  «Se una cattiva pittrice o un cattivo pittore [] mi domanda che cosa penso delle sue opere, oppure una persona molto ammalata mi chiede se guarirà: che cosa devo rispondere per comportami moralmente? Se dico la verità queste persone soffriranno, e allora devo mentire per fare del bene? In questo caso posso utilizzare un mezzo immorale come la menzogna per conseguire un fine morale che consiste nel gratificare e nel tranquillizzare la persona con cui mi relaziono? Certamente  io uso la menzogna per fare del bene ma devo anche riflettere sul fatto che un mezzo poco chiaro finisce per offuscare anche il fine. Sì [afferma Kant], io agisco così - in modo a-morale, si potrebbe dire - per fare del bene però inevitabilmente costringo la persona con cui sono in relazione a sopportare la menzogna piuttosto che la verità. Se il principio è che “bisogna dire la verità”, e noi pretendiamo la sincerità, chi mi autorizza a considerare l’altra persona incapace di sopportare la verità? Se io non riconosco all’altra persona la capacità umana di tollerare la verità io mi ritengo in diritto di giudicare al suo posto ciò che è bene e ciò che è male: questo equivale a negare l’umanità di questa persona, e anche ad affermare la sua inferiorità. In questi casi [scrive Kant] non è perché la mia intenzione è giudicata buona che il mezzo diventa buono perché la menzogna che utilizzo rimane un atto immorale. Se mi metto a giustificare i miei atti immorali in nome di un’intenzione che considero morale tutto sarebbe permesso e non ci sarebbe più la morale.».

     Nel quadro della ragion-pratica, bisogna, sostiene Kant, che ogni atto, perché sia morale, corrisponda a un principio, e «il principio fondamentale [scrive Kant] a cui ogni atto deve essere ancorato consiste nel riconoscere che tutte le persone sono dotate di qualità umane per cui ogni atto che la persona compie cessa di essere morale nel momento in cui i valori riconosciuti dalla Storia del Pensiero Umano - l’uguaglianza, la giustizia, la pace, la solidarietà, la misericordia - vengono negati e, di conseguenza, un atto è morale solo se la finalità dell’intenzione per cui viene compiuto esalta questi valori, ed è solo così che il sistema etico si rafforza nella società.».

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Quando e perché avete detto una bugia a una persona per evitare di doverle dare un dispiacere?... 

Scrivete quattro righe in proposito...

     Kant non nega che esistono mille difficoltà nel far sì che il sistema etico si rafforzi nella società.

     Kant non nega le difficoltà che si presentano nel proporre un sistema educativo che prevede di insegnare a ogni persona a riflettere costantemente sulla questione morale perché tutti i regimi che governano le Nazioni credono, e fanno credere, scrive Kant, di aver risolto la questione morale imponendo cataloghi di regole, anche approntati appositamente per le diverse categorie sociali: con norme che riguardano i bisogni, i desideri e gli interessi dei ceti abbienti e norme infarcite di divieti rivolte alle classi subalterne.  Questo modo di fare, sostiene Kant, non determina nella persona “la nascita di una coscienza orientata verso la morale” ma fa sì che si riproduca il comportamento passivo, ambiguo e dissimulatore de “l’uomo senza qualità”.

     Su questa affermazione è doveroso [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] aprire una parentesi [veramente più che una parentesi bisognerebbe, in proposito, avviare un Percorso], perché? Perché molte scrittrici e molti scrittori hanno riflettuto in chiave letteraria sulla lezione di Kant e sulle difficoltà che sorgono nell’affrontare la questione morale. L’uomo senza qualità è il titolo di un romanzo dello scrittore [ingegnere, matematico, filosofo] Robert Musil [nato a Klagenfurt, il capoluogo della Carinzia in Austria, nel 1880] che si presenta come una delle opere più importanti della letteratura mondiale, una delle cosiddette cattedrali letterarie del ‘900 così come Alla ricerca del tempo perduto di Proust, come Ulisse di Joyce, come Parigi capitale del XIX secolo di Benjamin, tanto per citarne alcune.

     L’uomo senza qualità è un romanzo incompiuto [Musil fugge quando l’Austria viene annessa alla Germania nazista e muore esule a Ginevra nel 1942, prima di concludere il suo capolavoro] ed è suddiviso in tre parti intitolate Una specie di introduzione [in 19 capitoli, pubblicata a Berlino nel 1930], Le stesse cose ritornano [in 104 capitoli, pubblicata a Berlino nel 1933] e Verso il Regno Millenario [in 38 capitoli, pubblicata postuma a Zurigo nel 1943]. Il romanzo potrebbe apparire come un’opera autobiografica scritta in terza persona, ma ha una struttura atipica, sperimentale, perché contiene molte pagine scritte in stile saggistico, quindi, contenenti interessanti riflessioni di carattere scientifico, storico e filosofico, orientate verso certi aspetti del pensiero di Nietzsche e verso le teorie scientifico-filosofiche di Ernst Mach, il matematico sul quale Musil ha fatto la tesi di laurea; ma tutto il testo del romanzo è influenzato dalla lezione di Kant perché il protagonista, l’uomo senza qualità, con grande lucidità intellettuale conduce un’analisi critica spietata del mondo e dell’individuo mettendo [sulla scia dell’indagine di Kant] bene in evidenza il contrasto tra i tentativi che la persona compie per razionalizzare la vita pratica in senso utilitaristico e l’anelito verso la coerenza con la Legge morale che richiede spesso di rinunciare alla ricerca dell’utile e della ricompensa in nome della crescita spirituale.

     Il protagonista del romanzo [l’altre-ego dell’autore] si chiama Ulrich ed è un appassionato studioso di fisica, di matematica, di algebra; ha 32 anni ma si trova ancora alla ricerca di un personale senso da dare alla vita e alla realtà perché soffre di una profonda incertezza e ambivalenza nei confronti della morale [tanto dell’etica laica che di quella religiosa]. Anche se sa che la Legge morale è ancorata nella sua coscienza, tuttavia trova sempre difficile formulare un giudizio etico-morale a-priori per cui coltiva una certa indifferenza verso la sua stessa esistenza che lo porta a considerarsi “un uomo senza qualità”, incapace di adattarsi al mondo esterno; nonostante sia una persona intellettualmente dotata è, però, priva di qualsiasi passione esteriore ed entra in relazione in modo ironico e corrosivo con i molti personaggi [tutti significativi e da scoprire leggendo] che animano il romanzo discutendo, tra l’altro, di nazionalismo, di razzismo, di pangermanesimo, di psicoanalisi, di positivismo, di espressionismo, di irrazionalismo, tutti argomenti che possono sembrare difficili da affrontare [e che sono più che mai di attualità] se non fosse che Musil è molto abile a rendere comprensibili questi temi attraverso lo sviluppo della trama del racconto.

     L’azione del romanzo si svolge a partire dal 1913, quindi poco prima dell’inizio della Grande Guerra, a Vienna, la capitale di un grande impero pluri-etnico [e, in proposito, l’ironia di Musil è fulminante] detto Kakanien, reso in italiano come Cacania. Scrive Musil: «Nell’Austria asburgica tutto era imperial-regio [Kaiser-Königlich], abbreviato in K.K. che si pronuncia kaka», e questa parola viene indicata per descrivere lo status dell’Impero austro-ungarico come Doppia Monarchia; se nonché “kaka” evoca in tedesco la parola infantile che indica le feci, e poi il temine κακός [kakós] in greco significa “cattivo”, quindi Musil usa l’espressione per simboleggiare la mancanza di coerenza politica, amministrativa e sentimentale in Cacania, un impero che riunisce in sé tutte quelle che Musil chiama “le non-qualità” del secolo appena iniziato, il Novecento, e l’uso di queste “non-qualità” ha dato frutti malefici.

     Naturalmente non è possibile raccontare la trama di questo romanzo, bisogna leggerne il testo che Musil, molto saggiamente, ha predisposto perché venga affrontato con il proficuo metodo del LEGERE MULTUM ... cioè leggendone poche pagine ogni giorno [quattro o cinque] con la dovuta attenzione: difatti, i capitoli che compongono quest’opera [andate a vedere] sono quasi tutti di piccole dimensioni [di poche pagine] e hanno tutti un titolo e sono numerati. Per favorire la lettura delle prime due parti - che s’intitolano Una specie di introduzione e Le stesse cose ritornano - si possono dare alcune indicazioni dicendo che Ulrich trova la sua collocazione nella società viennese entrando a far parte - raccomandato dal padre che è un influente giurista - della cosiddetta Azione Parallela, un gruppo impegnato a organizzare i festeggiamenti per celebrare, nel 1918, i settant’anni di regno dell’imperatore Francesco Giuseppe e nello stesso anno si sarebbe celebrato anche il trentennale del regno dell’imperatore tedesco Guglielmo II: questa coincidenza [da qui il nome di “azione parallela”] spinge i patrioti austriaci a rivendicare la supremazia politica, culturale e storica dell’Austria rispetto alla Germania. La celebrazione avrebbe dovuto catturare la mente e, soprattutto, l’anima dei sudditi e, quindi, molte brillanti idee vengono discusse dai membri del comitato dell’Azione Parallela [con risvolti anche comici dovuti all’ironia pungente di Musil] che si riuniscono nell’appartamento dell’ambiziosa e affascinante signora Hermine Tuzzi, lontana cugina di Ulrich, che lui chiama Diotima, e moglie di un alto funzionario della corte: Ulrich, nel comitato, ottiene un ruolo centrale, da segretario, diventando il punto di raccolta di tutte le idee che ruotano attorno all’Azione Parallela.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Tenendo conto di queste indicazioni potete richiedete in biblioteca L’uomo senza qualità di Robert Musil [rinnovando via via il prestito] in modo da leggere le prime due parti intitolate Una specie di introduzione e Le stesse cose ritornano [sono 850 pagine e, al ritmo di un quarto d’ora di lettura al giorno, occorrono circa sette mesi di tempo: il tempo in cui si svolgono i fatti narrati e, quindi, viene a determinarsi una dinamica contiguità tra il tempo di lettura e il tempo della narrazione]… 

     La terza parte del romanzo, intitolata Verso il Regno Millenario [320 pagine che si leggono in due mesi e mezzo] è dominata [e qui sale la curiosità] dal rapporto tra Ulrich e sua sorella Agathe [la bontà], più giovane di lui di cinque anni. I due, che erano stati separati fin dalla più tenera infanzia, si ritrovano in occasione dei funerali del padre e nasce tra loro un’intesa tanto profonda che si ritrovano a sperimentare un rapporto spirituale molto intenso che giunge ai limiti di una sorta di incestuosità che li spinge a intessere un dialogo appassionante sul tema della questione morale che rimane il tema centrale di tutto il romanzo. Infine la terza parte dell’opera contiene un’ampia sezione di 600 pagine di bozze preparatorie, di appunti frammentari, di note e di diverse versioni del finale: un materiale significativo per capire il lavoro di un autore che utilizza la scrittura per riflettere, perché - c’insegna Musil sulla scia di Kant - è per questo che serve la scrittura: a potenziare l’energia cognitiva della persona.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

Incuriositevi nei confronti de L’uomo senza qualità di Robert Musil perché la curiosità stimola la mente a investire in intelligenza…

     E ora - tratto dalla terza parte intitolata Verso il Regno Millenario [e con questo titolo Musil vuole manifestare tutta la sua disapprovazione nei confronti del regime nazista] - leggiamo un frammento dal capitolo 11 intitolato Dialoghi sacri. Inizio.

Robert Musil, L’uomo senza qualità

Le risposte di Ulrich avevano un altro carattere, non meno rivelatore … e raccontava ad Agathe molto di sé, specialmente della sua vita anteriore e più agitata. Agathe di sé non gli diceva nulla, ma ammirava in lui la capacità di parlare così della propria vita, e le sembrava giusto che egli traesse considerazioni morali da tutti gli spunti che lei gli offriva. Giacché la morale non è che un ordine dell’anima e delle cose comprendente l’una e le altre, e così non stupisce che i giovani, la cui volontà di vita non s’è ancora logorata, parlino tanto di essa. Mentre gli adulti parlano solo professionalmente della questione morale, quando ciò fa parte del loro linguaggio tecnico, in caso diverso la parola è già stata inghiottita dalle attività della vita e non torna più a galla. Che Ulrich parlasse di morale era quindi un grave disordine, dal quale Agathe si sentiva attratta per affinità. Ora si vergognava della sua confessione, un po’ semplice, di voler vivere «in perfetta armonia con se stessa» perché aveva ben inteso le intricate condizioni che vi si opponevano, ma desiderava con impazienza che il fratello giungesse in fretta a un risultato. … Nei due fratelli ciò si esprimeva anche esteriormente in un modo preciso, e quando avevano finito e tacevano, una tensione molto più ansiosa si vedeva sui loro visi. E così avvenne una volta che essi furon trascinati al di là del confine dove finora inconsciamente s’erano fermati.

Ulrich aveva dichiarato: - Il solo contrassegno fondamentale della nostra morale è che i suoi comandamenti si contraddicono. La più morale di tutte le sentenze è: l’eccezione conferma la regola! -  E forse l’aveva condotto fin lì solo l’avversione per un sistema morale che si dà per inflessibile e in pratica deve cedere a ogni pressione, e che dall’osservazione dell’esperienza, più che dalla ragione, ricava la legge. Egli conosceva naturalmente la differenza che esiste fra leggi naturali e leggi morali, ma a parer suo la morale si trovava in uno stadio dottrinale arretrato di cento anni e perciò era difficile adattarla alle esigenze mutate.  - Non hai detto una volta che la stessa azione può essere buona o cattiva, secondo le circostanze? - chiese Agathe. Ulrich confermò. Era la sua teoria, mutuata dalla lezione di Kant, che le regole morali non sono quantità assolute ma concetti funzionali derivati dai principi etici universali.  - E probabilmente è questo il punto dove qualcosa è fuori posto sulla strada della giustizia, - egli disse. - Come potrebbe d’altronde la gente morale essere tanto noiosa, - commentò Agathe, - mentre l’intenzione di essere persone buone dovrebbe essere la cosa più deliziosa, più difficile e più piacevole che ci si possa immaginare! …

     Musil fa riflettere Ulrich e Agathe secondo la lezione di Kant.

     Kant, nel testo della Critica della ragion pratica, scrive che la questione morale comporta una riflessione continua da parte della persona, perché il non rubare [per esempio] è un comportamento morale, ma, si domanda Kant invitando alla riflessione, resistere alla tentazione di rubare è più facile per una persona ricca o per una povera? Se il bambino di una donna povera muore di fame: questa madre, si domanda Kant per invitare alla riflessione, deve rinunciare a rubare il latte per mantenere la propria moralità? Se le condizioni sono diseguali [e don Lorenzo Milani - con il Vangelo in mano - l’ha studiata bene la lezione di Kant] anche gli esseri umani, scrive Kant, sono altrettanto diseguali davanti alla possibilità di comportarsi moralmente. Scrive Kant nel testo della Critica della ragion pratica: «Le condizioni sociali hanno un peso sulla questione morale. I ricchi, di solito, predicano la morale per colpevolizzare i poveri, salvo essere tolleranti ogni tanto per salvare le apparenze, la buona coscienza, ma è palese che si tratta di una falsa morale la loro.». Per questo, sostiene Kant, è necessario riflettere sulla provenienza delle idee morali perché l’Umanità, nella sua evoluzione storica, modifica le condizioni della sua esistenza, e cambiano i comportamenti collettivi: si creano nuovi valori e nuovi principi universali che sono più o meno durevoli e possono differire secondo le culture o estendersi col tempo alla maggior parte dei popoli, come è avvenuto - nei principi almeno, anche se non nella pratica, afferma Kant, che parla da illuminista - per la dignità da attribuire a ogni persona umana, per la proclamazione dell’uguaglianza dei popoli, dei sessi, degli individui, per la definizione di un’idea generale di giustizia e di solidarietà. Ebbene, questi principi, afferma Kant, sui quali dobbiamo fondare la morale, nel corso dei secoli diventano universali, ma sono anche legati ai fatti storici, col tempo diventano assoluti ma sono anche relativi alle circostanze. Bisognerebbe dunque, afferma Kant, che le persone riconoscessero la necessità di imparare a riflettere su tutto ciò che può arricchire la morale. E, quindi, scrive Kant nel testo della Critica della ragion pratica: «è necessario che i governi delle nazioni promuovano un sistema educativo pubblico attraverso il quale si possa insegnare alle persone “a filosofare” cioè a prendere continuamente coscienza che non si può fare a meno di riflettere sulla questione morale in modo che ogni persona capisca, nei limiti della propria ragione che, con la volontà, si può operare per il bene proprio e della collettività al di sopra di ogni interesse personale.». Ogni persona, scrive Kant, può arricchire il proprio senso morale quando impara a riconoscere il carattere storico delle idee morali perché le idee morali hanno una Storia che coincide con quella del Pensiero Umano, e il senso morale della persona si arricchisce quando comprende che non esiste una morale basata sulle buone intenzioni personali in quanto la morale può essere fondata esclusivamente su principi universali sviluppatisi nell’ambito dell’Umanesimo.

     Kant questa sera ci direbbe che facciano bene a promuovere e a ad animare un Percorso di Storia del Pensiero Umano e ci direbbe che noi cittadine e cittadini italiani siamo fortunati perché possiamo fondare la nostra morale su un documento che ci orienta nei confronti dei principi universali: la Costituzione della Repubblica promulgata il 27 dicembre 1947, ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Sappiamo che tra i 556 deputati all’Assemblea Costituente, elette ed eletti per scrivere il testo della Costituzione, la lezione di Kant ha giocato un ruolo fondamentale in quanto unificante tra le varie correnti di pensiero. La morale, secondo il pensiero di Kant, si arricchisce quando le cittadine e i cittadini incarnano, nei loro atti materiali e nelle loro riflessioni intellettuali, le idee storiche e i principi universali contenuti nel dettato costituzionale. Purtroppo i dati Istat [sono impietosi, e non vengono mai citati] ci dicono che l’87% delle elettrici e degli elettori italiani non hanno mai letto il testo della Costituzione e la maggior parte della popolazione ha complessivamente “una vaga percezione” del testo della Costituzione [Kant sarebbe molto dispiaciuto!]. Il fatto è che - secondo la Critica della ragion pratica di Kant - noi dovremmo pretendere da noi stesse e da noi stessi [e da chi occupa posti di rilievo negli organismi istituzionali] di non travalicare le idee storiche e i principi universali su cui la Costituzione della Repubblica si fonda partendo dal presupposto fondamentale che, da circa trent’anni, è stato stravolto impunemente e incomprensibilmente in quanto la Storia del nostro Paese è ancora quella della prima Repubblica. L’ipotesi che possa subentrare [malauguratamente] un’altra Repubblica si avvererebbe con la scrittura del testo di un’altra Costituzione: il popolo italiano  inconsapevolmente, a causa della dilagante debolezza cognitiva, è stato portato a giocare alla seconda [ma si parla di una terza, di una quarta] Repubblica, ebbene, questo è un palese atto immorale.

     Tra i deputati Costituenti attenti alla lezione di Kant c’era anche Giuseppe Dossetti, e sarebbe una grave omissione da parte della Scuola non citarlo in concomitanza con il testo della Critica della ragion pratica. Dossetti, nato a Genova nel 1913, laureato in giurisprudenza e professore universitario, è stato un dirigente della Resistenza [Benigno], ha militato nella Democrazia Cristiana di cui è stato vicesegretario [fondatore della corrente di “Cronache sociali”]. Nel 1952 si è allontanato dalla politica attiva ed è entrato in convento. Ha partecipato dal 1962 al 1965 come consulente del cardinale Lercaro ai lavori del Concilio Ecumenico Vaticano II. A lungo ha vissuto in Terra Santa come monaco, ha fondato due eremi [le Piccole famiglie dell’Annunziata], uno in Palestina e uno a Monteveglio sull’Appennino bolognese dove è morto nel 1996. Dossetti ha voluto essere sepolto nel cimitero di Casaglia di Monte Sole insieme ai martiri dell’eccidio di Marzabotto.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

La vita e le opere di Giuseppe Dossetti meritano di essere conosciute in modo più approfondito e, in proposito, potete utilizzare l’enciclopedia e la rete…

Incuriositevi perché certi personaggi della Storia italiana devono essere conosciuti: siamo circondate e circondati da troppe figure opache...

     Leggiamo solo un frammento del testo pronunciato da Dossetti [durante l’ultimo raro intervento pubblico] a Milano il 20 gennaio 1995 in occasione del convegno Costituzione oggi: principi da custodire, istituti da riformare.

REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:

In rete trovate e potete leggere il testo completo e lungimirante dell’intervento di Giuseppe Dossetti intitolato Costituzione oggi: principi da custodire, istituti da riformare...

Poi - con una guida dell’Emilia Romagna e navigando in rete - potete fare una visita a Monteveglio nel comune di Valsamoggia in provincia di Bologna... 

Incuriositevi per preservare la memoria...

Giuseppe Dossetti, Costituzione oggi: principi da custodire, istituti da riformare

Comincerò con una questione preliminare, che potrebbe sembrare anche solo nominale ma che, a mio avviso, è di grande importanza per un sano orientamento nel complesso dei problemi che oggi si sono affrontati. Credo che per ora non si possa e non si debba, in nessun modo, parlare di seconda Repubblica. Direi piuttosto che questo termine, per ora, debba essere totalmente bandito: in quanto nato da un’avventata superficialità giornalistica e supinamente ricevuto da una vasta parte dell’opinione pubblica, già profondamente disorientata e ulteriormente, proprio da questa locuzione, tratta in una serie inestricabile di inganni. Di seconda Repubblica, sino ad ora, non c’è né il fondamento storico né il fondamento giuridico, quindi, a ben riflettere, tale locuzione va, per ora, decisamente rimossa, perché essa è una formula inesatta e impropria, che può solo veicolare dei veri e propri errori storici, giuridici, politici, etici: cioè traina e insinua nelle menti, che supinamente l’accettano, una falsa cultura decadente e disgregante. …

     La Costituzione della Repubblica italiana [la prima Repubblica, democratica e antifascista] viene considerata “un’opera bella”, e Kant si è domandato: che cos’è un’opera bella, che cos’è un’opera sublime, e in che modo un’opera ammirevole, lodevole, esemplare può stimolare il senso morale?

     Nel 1790 Kant fa pubblicare la Critica del giudizio, e con quest’opera Kant imbocca un sentiero che porta verso un nuovo territorio. Come e perché l’illuminista Kant ci sta portando su un territorio che va oltre l’Illuminismo? Per rispondere a queste domande bisogna procedere con lo spirito utopico che lo studio porta con sé [non perdete l’ultimo itinerario di questo viaggio, in cui riceverete anche il Calendario del prossimo, se saremo ancora in grado di viaggiare. «Si parte per assaporare la voglia di tornare e si torna per coltivare ancora il desiderio di partire»] e, quindi, consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà di imparare, la Scuola è qui, e il viaggio, il 40° di questa esperienza, si avvia verso la sua conclusione…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 17, 2024