ASSOCIAZIONE ARTICOLO 34 - «LA SCUOLA È APERTA A TUTTI»
PERCORSO DEL PENSIERO UMANO IN FUNZIONE
DELLA DIDATTICA E DELLA SCRITTURA
Prof. Giuseppe Nibbi
In viaggio sul territorio del Romanticismo titanico
4-9-10 aprile 2025
SUL TERRITORIO DEL ROMANTICISMO TITANICO
CI S’INTERROGA SU QUALE SIA
“LA SCINTILLA CHE ILLUMINA L’INTERIORITÀ” …
Questo è il tredicesimo itinerario del nostro viaggio sul territorio del Romanticismo titanico, il terzultimo, che precede una pausa di ben quattro e cinque settimane, e durante l’itinerario scorso abbiamo incontrato Friedrich Schiller il quale ha fatto un’affermazione che ha aperto una questione di capitale importanza nella Storia del Pensiero Umano.
Friedrich Schiller, nel testo delle sue Lettere sull’educazione estetica, ha fatto un’affermazione che ha aperto una questione di capitale importanza nella Storia del Pensiero Umano; egli scrive: «La bellezza oltre che di fronte ai nostri sensi e alla nostra ragione si pone anche necessariamente di fronte al nostro Io.». Che significato ha questa affermazione e, soprattutto ci si deve domandare: che cosa accade quando ci troviamo di fronte al nostro Io? E, nell’ambito della Storia del Pensiero Umano, di che cosa si parla quando si parla dell’Io? E perché è molto facile dire Io [Io ve strapazzo perché io so’ io! E voi ... Come ha scritto Giuseppe Gioacchino Belli nel sonetto Li soprani der monno vecchio, rileggetelo...], mentre è più difficile stabilire perché “Io sono proprio Io”, e più difficile ancora sapere che origini ha “la consapevolezza dell’Io”?
A Weimar, nel cenacolo della duchessa Anna Amalia, si sviluppa un dibattito molto acceso sul tema dell’Io, e ci si domanda se “l’Io sia un contenitore” [come fosse una forma a-priori di tipo kantiano, una categoria dell’Intelletto] oppure se “sia un contenuto” [una sorta di principio che caratterizza l’interiorità della persona] e, quindi, ci si domanda se l’Io sia “lo spazio dell’interiorità” [una forma] oppure se sia “il soggetto presente in questo spazio” [un contenuto]. L’Io, nel quale ciascuna e ciascuno di noi s’identifica, si presenta come una forma o come un contenuto?
Sta di fatto [e qui non c’è dubbio] che il concetto dell’Io chiama in causa l’interiorità della persona. Il tema riguardante la natura dell’Io corrisponde a un vasto paesaggio intellettuale: variegato, eterogeneo e caratterizzato dalla presenza di significative aporie, contraddizioni. Per osservare questo suggestivo paesaggio intellettuale bisogna procedere con ordine e il primo scenario che ci si presenta davanti riguarda ancora l’attività di Friedrich Schiller, il quale, negli anni dal 1795 al 1797, dà alle stampe e dirige una rivista [ne aveva già fondato una nel 1786 dal titolo Thalìa (la musa della Commedia”, sulla scia delle riviste russe di Karamzin e de Il Mercurio tedesco di Wieland. La nuova rivista di Schiller s’intitola Die Horen [Le Ore] e “Le Ore” sono tre divinità della mitologia greca che simboleggiano i bei giorni di primavera quando si risveglia la Natura, rappresentate sul frontespizio della rivista. “Le Ore” portano le piante a fioritura e poi a fruttificare e, quindi, conducono a buon fine le azioni umane; “Le Ore” erano tre: Tallo [la fioritura], Carpo [la fruttificazione] e Auxo [il rigoglio] e vengono riconosciute dalla Teologia greca [da Esiodo nella Teogonia] come figlie di Temi e di Zeus e come protettrici delle Leggi che governano l’Universo e, sotto questo aspetto, vengono chiamate Eunomia [il buon governo], Dike [la giustizia] e Irene [la pace].
Alla stesura della rivista letteraria mensile Die Horen [Le Ore] collaborano Goethe, Herder, Fichte, Hölderlin e molti altri intellettuali. La rivista Die Horen [Le Ore] raccoglie soprattutto la materia riguardante le riflessioni che si sviluppano intorno al concetto dell’Io e da questo resoconto emerge soprattutto l’importanza che viene ad assumere la vita interiore nell’esperienza della persona [il tema dell’Io è corrispettivo a quello dell’interiorità]: una persona [e questo argomento viene sviluppato negli articoli della rivista] vale per la capacità che ha di gestire al meglio la propria vita interiore che si manifesta nella capacità di riflessione e di ragionamento, nel riconoscere e nell’aver cura dei propri sentimenti e nell’ascolto della voce della propria coscienza, e senza queste qualità interiori non potrà esserci una feconda ed efficace manifestazione esterna di idee, di pensieri, di azioni sociali e politiche.
La riflessione sul concetto dell’Io, documentata sulla rivista Die Horen-Le Ore, porta a considerare il fatto che la bontà dell’agire sul piano sociale e politico dipende dallo sviluppo della vita interiore della persona. Goethe, da vecchio, ricorda con nostalgia l’attività svolta collettivamente per comporre i numeri della rivista Die Horen [Le Ore]: «Ciò che in quel tempo di fervore editoriale [scrive Goethe] mi hanno dato, per lo sviluppo della mia vita interiore, Schiller, Wieland, Herder, Fichte, Schelling, Hegel mi fa pensare a loro con eterno senso di gratitudine.». Il dibattito sul ruolo dell’interiorità nella vita della persona in modo che possa agire all’esterno con atti virtuosi porta a far emergere la necessità di approfondire il tema della natura dell’Io: l’Io nel quale la persona s’identifica si presenta come una forma o come un contenuto?
REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Se voi voleste fondare oggi una rivista: come la intitolereste e quale simbolo scegliereste per il frontespizio, e perché?... Rispondete scrivendo un editoriale in quattro righe…
Siete [o siete state e stati] abbonati a qualche rivista?...
Scrivete quattro righe in proposito...
Gli avvenimenti incidono sull’andamento della Storia del Pensiero Umano.
A Weimar, nel cenacolo della duchessa Anna Amalia, il dibattito sul tema della natura dell’Io risente di un evento di portata epocale: la Rivoluzione francese, che provoca una scossa nella cerchia delle intellettuali e degli intellettuali europei con un’alternanza di simpatia e di rigetto nei confronti di questo avvenimento. Dopo l’entusiasmo iniziale, nel 1789, provocato dalla Carta dei diritti dell’Uomo e del Cittadino, che afferma i valori della socialità e della politica, il progressivo fallimento della Rivoluzione crea un contraccolpo che fa nascere in Europa nell’animo delle persone più sensibili e più attente la volontà di rifugiarsi in se stesse, nell’intimità della propria coscienza e del proprio intelletto e questo fatto porta, sul piano delle idee, a far sì che si affermi il primato della vita interiore; il fallimento della Rivoluzione crea tutta una serie di frustrazioni che portano molte persone a disimpegnarsi sul piano sociale e politico e, di conseguenza, a prendersi maggiormente cura della propria vita interiore: matura l’idea che la Rivoluzione va [e andava] preparata nell’interiorità delle coscienze [e come abbiamo già studiato questo è, per esempio, il compito che Schiller affida al Teatro].
Due date fondamentali riguardano l’evoluzione fallimentare di quel complesso avvenimento che è la Rivoluzione francese: la prima riguarda l’anno 1794 quando, con la caduta di Robespierre, si assiste alla fine dei tentativi di dare alla Rivoluzione un compimento democratico e popolare; la seconda data riguarda l’anno 1799 quando, con il fallimento del governo assembleare, sale al potere il Direttorio, espressione della borghesia affarista, e, subito dopo, inizia la dittatura militare di Napoleone Primo Console con il colpo di Stato del 18 brumaio (il 9 novembre) 1799. Il passaggio dall’euforia iniziale, con la proclamazione dei diritti e dei doveri del Cittadino, alla successiva frustrazione, per la nascita di una dittatura militare che conduce all’Impero, è stato significativamente documentato da molte opere letterarie [da Guerra e pace con centocinquanta personaggi tenuti alle briglie da Leone Tolstòj a Il resto di niente di Enzo Striano, il romanzo sulla Rivoluzione napoletana del 1799 e sulla vita di Eleonora Pimentel de Fonseca, solo per citare due titoli].
Uno dei testi fondamentali, di cui è necessario tener conto, per comprendere questo passaggio dall’entusiasmo rivoluzionario alla delusione per il fallimento della Rivoluzione è quello del romanzo intitolato La Certosa di Parma di Stendhal [Henri Beyle, 1783-1842] pubblicato nel 1839. Il celebre protagonista di questo romanzo si chiama Fabrizio del Dongo, ma non è l’unico personaggio significativo di quest’opera, sono molte le figure che spiccano e tra loro per esempio c’è la duchessa Sanseverina, c’è il conte Mosca della Rovere e c’è la fanciulla Clelia Conti. La vicenda considerata “squisitamente romantica” di Fabrizio del Dongo, nel quale Stendhal s’identifica, va al di là del romanzo storico perché la scrittura entra nel territorio della vita interiore delle singole persone e le sconfitte della Storia sul piano sociale e collettivo portano Fabrizio a cercare la felicità sul piano intimo e individuale. La Certosa di Parma non è solo un romanzo d’amore e di cappa e spada [è anche questo] ma è soprattutto un’opera dove emerge il sentimento della passione, ed è la passione che affiora dall’intimità di Stendhal che, come scrive lui stesso: «da scrittore, giunto ormai alla vecchiaia, ho inteso celebrare e riscoprire la mia giovinezza» Questa considerazione trova posto nel titolo La Certosa di Parma che si presenta come una evidente metafora: che cos’è una Certosa se non il luogo dell’interiorità, lo spazio della pace interiore, il posto in cui l’Io si confronta con l’intimità della propria coscienza; la metafora de La Certosa rappresenta il contrario della ricerca esteriore della gloria e della vanità da perseguire sul campo di battaglia. Tra le pagine più famose de La Certosa di Parma ci sono quelle in cui il diciottenne Fabrizio del Dongo compie, quello che lui crede, un gesto eroico: lascia la sua famiglia, una delle più illustri dell’aristocrazia lombarda, per unirsi all’esercito di Napoleone che lui ammira moltissimo, e che sta per combattere in Belgio, a Waterloo [il 18 giugno 1815], la battaglia decisiva. Ma la partecipazione di Fabrizio a questo evento destinato a diventare storico è del tutto casuale e deludente, e non privo di buffi contrattempi [e noi sappiamo che la tragedia paradossalmente presenta sempre risvolti comici]: Fabrizio viene derubato, perde il cavallo, è costretto a comprarsene uno a caro prezzo [scopre che la guerra è un vergognoso mercato, altro che esaltazione di ideali eroici], e si sente a disagio fra i soldati veterani che lui non conosce e che hanno come unico obiettivo quello di salvare la pelle. Mezzo ubriaco, finisce per non accorgersi neppure della presenza del mitico imperatore che passa vicino a lui, e lui non riesce neppure a vederlo.
La battaglia, nella descrizione di Stendhal, che è bravissimo a portarci dentro a questo avvenimento, è una carneficina immane e assurda, non solo priva di ogni carattere eroico ma anche priva di qualsiasi logica, e Stendhal affida al suo personaggio Fabrizio del Dongo il compito di de-sublimare la Storia attraverso una lenta e amara presa di coscienza della realtà dei fatti: la guerra non si coniuga con la gloria ma con la morte, con l’orrore e con la bestialità, ed è giusto [comincia a domandarsi Fabrizio] osannare e idolatrare quell’egocentrico guerrafondaio dell’Imperatore? Non è questa la via [comincia a pensare Fabrizio] da percorrere per dare valore al proprio Io.
REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In biblioteca potete richiedere La Certosa di Parma di Stendhal e leggendo [o rileggendo] il testo di questo romanzo potrete anche riflettere sul fatto che la vita è accompagnata da entusiasmi e da frustrazioni derivanti dall’amore, dalla politica, dagli ideali, dalla fede, dalla cultura utilizzata in modo improprio… E potete anche scrivere quattro righe in proposito...
La Certosa, in quanto edificio che rimanda al titolo del romanzo di Stendhal, non è molto probabilmente quella di Parma bensì la Certosa di Valserena che si trova nella frazione di Paradigna a nord di Parma e, quindi, navigando in rete andate a visitare questa ex abbazia cistercense [sconsacrata nel 1810 e oggi sede di un Centro studi dell’Università di Parma] dalle forme gotico-barocche, incuriositevi per favorire l’esercizio dell’Apprendimento ...
L’incipit de La Certosa di Parma descrive l’atmosfera eccitante creata dall’arrivo in Italia dell’armata napoleonica: in questo clima maturano le ambizioni eroiche e avventurose della generazione cosiddetta “romantica” alla quale anche Stendhal ha appartenuto vivendone gli entusiasmi e poi le successive frustrazioni. Leggiamo.
Stendhal, La Certosa di Parma
Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte entrò in Milano alla testa di quel giovine esercito che aveva allora varcato il ponte di Lodi e fatto sapere al mondo che, dopo tanti secoli, Cesare e Alessandro avevano un successore. I miracoli di ardimento e di genialità di cui fu testimone risvegliarono in pochi mesi un popolo addormentato; ancora otto giorni prima che arrivassero i francesi i milanesi non scorgevano in essi altro che un’accozzaglia di briganti, abituati a fuggir sempre davanti alle forze di Sua Reale Maestà; così, almeno, andava loro ripetendo, tre volte per settimana, un giornalucolo grande un palmo stampato su lurida carta. Nel medioevo i milanesi erano stati prodi come i francesi della rivoluzione e avevano meritato di vedere la loro città rasa al suolo dagl’imperatori di Germania. Da quando, però, erano diventati sudditi fedeli il loro gran da fare consisteva nello stampar sonetti su fazzoletti di seta rosa in occasione del matrimonio di qualche ragazza di famiglia nobile o ricca. Due o tre anni dopo quella gran data della sua vita quella stessa ragazza prendeva un cavalier servente: qualche volta il nome del cicisbeo, scelto dalla famiglia del marito, occupava un posto d’onore nel contratto nuziale. Ce ne correva tra questi costumi effeminati e le profonde emozioni suscitate dall’improvviso arrivo dell’esercito francese! Non tardarono a generarsi nuovi costumi pieni di passione. Il 15 maggio 1796 un intero popolo si accorse che tutto quello che aveva rispettato fino allora era sovranamente ridicolo e qualche volta odioso. La partenza dell’ultimo reggimento austriaco coincise con la fine delle antiche idee: il mettere a repentaglio la vita divenne di moda. Si vide che, per essere felici, dopo secoli e secoli d’ipocrisia e di deprimenti sensazioni, bisognava amare qualche cosa con vera passione e sapere, all’occorrenza, esporre anche la vita. …
Stendhal [che incontreremo ancora] è diventato famoso come scrittore nel 1817 con un’opera intitolata Storia della pittura in Italia: amava molto l’Italia [ha vissuto a lungo a Milano, a Civitavecchia, e ha imparato l’italiano da sua madre, Henriette Gagnon che, da bambino, prima che lei morisse ancor giovane, gli leggeva la Commedia di Dante; egli è autore anche di una raccolta di otto racconti e un’appendice intitolata Cronache italiane.
A Weimar, nel cenacolo della duchessa Anna Amalia, il dibattito riguardante i temi della natura dell’Io e del primato della vita interiore della persona risente anche in modo positivo dal pensiero di Kant [del quale non si può non tener conto].
La pubblicazione nel 1790 della Critica del giudizio di Immanuel Kant condiziona in modo positivo il dibattito riguardante i temi della natura dell’Io e del primato della vita interiore della persona e c’è un frammento autobiografico scritto da Goethe in cui dichiara: «Ricordo l’entusiasmo con cui ho letto l’Opera sul giudizio [la Critica del giudizio] del vecchio saggio di Königsberg: un entusiasmo pari alla noia con cui ho letto, anni prima [nel 1781], la Critica della ragion pura.». Sappiamo che l’entusiasmo per il pensiero di Kant contenuto nella Critica del giudizio, a Weimar, lo suscita Schiller, ed è un entusiasmo che viene condiviso da tutte e da tutti i frequentati del cenacolo della duchessa Anna Amalia. Sulle colonne della rivista Die Horen-Le Ore, Schiller sostiene [che tra l’Arte e la Scienza deve esserci una stretta parentela, ed è ben lieto di scoprire che nel testo della Critica del giudizio Kant dimostra [e lo abbiamo studiato nell’ultimo itinerario del viaggio scorso] come l’Arte poetica e lo studio della Natura siano strettamente apparentati, e «l’apparentamento tra l’Arte poetica e lo studio della Natura [sostiene Kant, e Schiller lo cita] avviene perché tanto l’Estetica [che cos’è bello?] quanto la Scienza [che cos’è vero?] si compenetrano nella facoltà del giudicare.».
Che significato ha questa affermazione, si domanda Schiller? Schiller per promuovere il dibattito utilizza il testo dalla Critica del giudizio di Kant [che abbiamo studiato nell’ultimo itinerario del viaggio scorso, e vi verrà in mente]: secondo Kant, ribadisce Schiller, i giudizi che una persona dà sono di due tipi perché l’azione del giudicare, che è una sintesi a priori, comincia a prendere forma da un’analisi data da due elementi, uno razionale e l’altro sentimentale, anche se poi, come azione, il giudizio si manifesta pienamente solo come atto morale [il giudizio a parole è sterile: sono i fatti conseguenti che contano]. I due elementi da cui comincia a prendere forma l’azione del giudicare [scrive Kant, e Schiller approva] corrispondono a due tipi di giudizio: il giudizio determinante, supportato dalla ragione, e il giudizio riflettente, condizionato dai sentimenti. Questo significa [scrive Kant e Schiller lo ribadisce] che esistono giudizi conoscitivi o scientifici che possiamo chiamare “giudizi determinanti” perché definiscono gli oggetti e ce li fanno conoscere mediante quelle che Kant chiama le forme a priori della mente [lo spazio, il tempo, le categorie dell’intelletto] per cui si può dire [e Schiller ripropone gli esempi fatti da Kant che conosciamo] che «questo tavolo è rettangolare, è basso, è di legno»: questi sono giudizi determinanti che ci fanno conoscere materialmente un oggetto. Ma al giudizio determinante [scrive Kant, e Schiller lo ribadisce] è sempre legato un altro tipo di giudizio che Kant chiama il giudizio riflettente in quanto riflette sull’oggetto il sentimento della persona la quale [e Schiller ripropone gli esempi fatti da Kant] si trova a dire: «Ma guarda che bel tavolo!» oppure «che stupendo tramonto!» o «che libro intrigante!». Il giudizio determinante [«questo è un tavolo, il sole ora tramonta più tardi, questo libro ha tante pagine»] e il giudizio riflettente [«Che bel tavolo! Che romantico tramonto! Che libro avvincente!»] sono [scrive Kant, e Schiller lo ribadisce] sempre direttamente collegati tra loro perché nel momento in cui la persona “determina” una cosa con la ragione, non può fare a meno anche di far “riflettere” un sentimento su questa stessa cosa, ed ecco che il giudizio riflettente - che esprime il sentimento della persona nei confronti di un oggetto - diventa fondamentale perché costituisce l’anello di congiunzione tra il conoscere e l’agire: l’atto dell’agire [scrive Kant, e Schiller approva] è il momento in cui si manifesta realmente il giudizio come reale atteggiamento morale, perché il giudizio a parole è sterile: sono i fatti conseguenti che contano nel giudicare. Quando la persona, per esempio, afferma «questo è un libro» esprime un giudizio determinante [conosce l’oggetto] ma questo non è ancora l’atto del giudicare: ma è l’atto del conoscere. Quando la persona dice «che bel libro!» esprime un giudizio riflettente [si manifesta il suo sentimento] ma non è ancora l’atto del giudicare: è la congiunzione dell’atto del conoscere e con l’atto del riflettere che, però, mette la persona, inequivocabilmente [scrive Kant. e Schiller ne conviene], in relazione con la questione morale perché, di conseguenza, nella mente della persona emerge sempre un interrogativo: «questo è un bel libro, lo compro o non lo compro oppure lo rubo o non lo rubo?»; a questo punto [scrive Kant, e Schiller lo ribadisce], ecco che si manifesta l’atto del giudicare perché, nel momento in cui la persona agisce [compra il libro o lo ruba], la persona giudica e, quindi, è dal giudizio riflettente [scrive Kant, e Schiller lo ribadisce] che dipende l’azione morale conseguente. E allora, per concludere tutto questo necessario ragionamento kantiano che sta a cuore a Schiller, si deve affermare che tra la determinazione, che fornisce la conoscenza di un oggetto [«questo è un libro»] e l’azione morale [«lo compro o lo rubo questo libro così intrigante?»] è sempre presente l’ispirazione sentimentale data da un giudizio riflettente [e, di conseguenza, afferma Kant e Schiller è d’accordo con lui, è più che mai necessaria nella società, mediante la Scuola pubblica, tanto l’educazione intellettuale quanto quella sentimentale].
Schiller propone nel cenacolo di Weimar e all’Università di Jena questi concetti dopo aver studiato la Critica del giudizio di Kant e si domanda: ma tutta questa operazione mentale [che abbiamo descritto] - in cui viene a determinarsi l’azione del giudicare come atto morale - dove avviene o per meglio dire da che cosa è condizionata? Sappiamo che Kant in materia, sul tema della capacità di formulare un giudizio, non enuncia una verità ma come fa sempre afferma di aver aperto una questione da portare avanti, sulla quale riflettere, dichiarando soltanto che secondo lui il giudizio determinante e il giudizio riflettente possono incontrarsi mediante un’intuizione della mente, però non dice se questa intuizione che porta ad esprimere un giudizio è indotta dall’esperienza esteriore della persona o dalla sua vita interiore.
Il dibattito, l’attività interlocutoria promossa dal pensiero di Kant, che si accende a Weimar e a Jena soprattutto per iniziativa di Schiller sulle pagine della rivista Die Horen-Le Ore, ruota attorno a questa domanda: nell’atto del conoscere [con la ragione], in quello del riflettere [in virtù dei sentimenti] e nell’azione di giudicare [come atto morale] il primato appartiene all’esteriorità o all’interiorità? La conoscenza, la riflessione e il giudizio, le tre attività intorno alle quali ruota principalmente la vita delle persone, dipendono dagli oggetti esterni alla persona oppure da un principio soggettivo interno alla persona? La conoscenza, la riflessione e il giudizio dipendono dal Mondo [dalla realtà esterna] oppure dipendono da un principio soggettivo interiore che possiamo chiamare Io?
È così [dal dibattito suscitato dalla lettura del testo della Critica del giudizio di Kant] che a Weimar e a Jena si apre la discussione assai vivace e animata sul tema del concetto dell’Io perché se la conoscenza, la riflessione e il giudizio - oltre a essere influenzati dalla realtà esterna [dal Mondo] - dipendono anche dell’Io [dalla realtà interiore] è necessario che ci si domandi che cosa s’intende per Io e ci si chieda: l’ Io è un contenitore [come fosse una forma a-priori di tipo kantiano, una categoria dell’Intelletto] oppure è un contenuto [un principio che caratterizza l’interiorità della persona]: quindi torniamo da dove siamo partite e partiti, l’Io, nel quale ciascuna e ciascuno di noi s’identifica, si presenta come una forma o come un contenuto?
Ci importa conoscere questo [direte]? Ci deve importare [affermano Kant e Schiller] visto che diciamo troppi «Io, Io sono Io» senza sapere bene di che cosa stiamo parlando, e allora: l’Io, nel quale ciascuna e ciascuno di noi s’identifica, si presenta come una forma o come un contenuto? C’è una risposta a questa domanda? Le risposte in proposito, come vedremo strada facendo nei secoli sul cammino della Storia del Pensiero Umano, sono molteplici, e se ne continuano a dare in proposito, e allora riflettiamo.
REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Secondo voi quando si dice “Io” a che cosa ci si riferisce: all’essere stesso della persona [alla categoria dell’essere], o al soggetto pensante che la persona è [alla categoria del pensiero], o al fatto che la persona può mostrarsi come uno, nessuno o centomila [alla categoria della quantità], o a quell’elemento che rende la persona speciale [alla categoria della qualità]?...
Rispondere a questa domanda non è difficile: è difficilissimo!...
Ma voi sfidate le difficoltà e scrivete per prima l’affermazione che vi piace di più, non rinunciate a decidere quale dimensione volete dare all’Io per poter dire, umilmente e con maggior consapevolezza, «Io sono Io in relazione umana con miliardi di altri Io»...
Ma a Weimar [siamo ancora a Weimar] che cosa pensano in proposito?
A Weimar, su sollecitazione di Schiller, si dibatte a lungo dal 1790 sul tema della natura dell’Io, ragionando sul pensiero di Kant, fino a produrre una sintesi [che, a sua volta, ha costituito un punto di partenza]: si ritiene che l’elemento unificante tra la Scienza [che cos’è vero?], l’Estetica [che cos’è bello?] e la Morale [che cos’è bene?] possa corrispondere a un principio, chiamato “Io”, da cercarsi nell’interiorità della persona. Questa scelta viene fatta proprio in riferimento al pensiero di Kant contenuto [questa volta] nel testo della Critica della ragion pura dove Kant scrive che nell’intelletto della persona - per coordinare e unificare l’attività del conoscere con quella del riflettere allo scopo di giudicare e agire moralmente - opera una super-categoria che Kant chiama “Io-penso” o appercezione trascendentale. Ma per Kant “l’Io penso” non è altro che la ragione che riconosce se stessa e le sue funzioni, mentre le intellettuali e gli intellettuali di Weimar ritengono invece che l’Io sia un principio unificante e autonomo che non s’identifica con la ragione, ma che la contiene e, quindi, l’Io sarebbe un contenuto nel quale il soggetto, l’oggetto, la natura e lo spirito diventano una sola cosa.
Però se “l’Io” [unificante] contiene questi elementi è anche un contenitore, quindi siamo da capo: l’Io è un contenuto o è una forma? Per cui le intellettuali e gli intellettuali di Weimar ritengono di doversi domandare in primo luogo: che tipo di spazio è quello dell’interiorità e quali sono le sue caratteristiche? La prima risposta che viene data è interlocutoria e consiste nel dichiarare che deve essere la filosofia critica di stampo kantiano a occuparsi di questo interrogativo [che tipo di spazio è quello dell’interiorità?] per capire se quest’area possa identificarsi con un principio unificante corrispondente a un concetto unico e originario [in cui forma e contenuto si compenetrano] che potrebbe essere chiamato “Io puro”.
Da Weimar, quindi, parte quello che è stato chiamato “il sentiero dell’Io” e su questo tragitto [che attraversa il territorio europeo della Storia del Pensiero Umano] si scatena la battaglia delle idee: l’Io è un contenuto, è una forma, è tanto forma quanto contenuto oppure non è né una forma né un contenuto? Se l’Io è un contenuto è un principio e i principi sovrastano le idee quindi in questo caso si può parlare di Io-egemone? Se l’Io è una forma è un contenitore di idee e quindi in questo caso si può parlare di Io-riflessivo? Se l’Io è tanto una forma quanto un contenuto è un redattore di idee e quindi in questo caso si può parlare di Io-narrante? E se l’Io non è né una forma né un contenuto è un soggetto visionario, è un’entità sognatrice di idee e quindi in questo caso si può parlare di Io-onirico? E voi capite che il paesaggio intellettuale dell’Io [che si protende nello spazio e nel tempo della Storia del Pensiero Umano] è enorme.
E ora, per illustrare [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] la battaglia delle idee su questo tema, sul quale si è sbizzarrita la Letteratura, possiamo come esempio utilizzare una raccolta di quattro racconti pubblicata nel 1982 intitolata, come il primo, Goethe muore [e non ci si allontana da Weimar], opera dello scrittore austriaco Thomas Bernhard [1931-1989, che abbiamo incontrato più volte in questi anni, anche a Teatro]. In questi quattro apologhi Bernhard, con la sua sarcastica ironia, mette in scena le quattro variazioni che abbiamo esposto sulla natura dell’Io.
Nel primo, intitolato Goethe muore, Goethe, celebre e glorificato nel Mondo, il Titano, giunto alla fine dei suoi giorni [muore nel marzo del 1832], fa i conti con il suo smisurato Io-egemone e, a Weimar, convoca Ludwig Wittgenstein [1889-1951, il noto filosofo del linguaggio - autore del celebre Tractatus logico-philosophicus - che però non è ancora nato] perché ha capito che la Letteratura non conta quasi più nulla [il numero delle persone che leggono diminuisce, e altri linguaggi, legati soprattutto all’immagine, prendono il sopravvento, e allora?].
Nel secondo apologo intitolato Montaigne, svetta la figura di Montaigne che, con il suo Io-riflessivo, fa da modello al protagonista il quale abbandona la famiglia, fugge dai genitori che lo angariano e si rifugia nella vecchia biblioteca, abbandonata da tempo, posta nell’antica torre del palazzo dove questo ragazzo abita per dedicarsi, come ultima salvezza, a leggere i Classici [e qual è l’effetto?].
Nel terzo apologo intitolato Incontro, due amici di vecchia data s’incontrano in una stazione e uno inizia, travolto dal suo Io-narrante, a rievocare ricordi della loro infanzia [perché colui che ascolta non si era accorto del disagio del suo amico che pensava fosse felice?].
Nel quarto apologo intitolato Andata a fuoco, un narratore fa il resoconto, con il suo Io-onirico, di un sogno apocalittico in cui l’Austria, che si dice cattolica ma conserva l’impronta del nazismo [come Bernhard ha sempre sostenuto], va finalmente in fiamme e resterà solo una distesa di cenere [che cosa insegna l’attività onirica?].
REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Richiedete in biblioteca la raccolta Goethe muore di Thomas Bernhard... La lettura dei testi dei quattro apologhi fa riflettere sul fatto che, a seconda delle circostanze, nella stessa persona l’Io può manifestarsi con funzioni diverse: in modo o egemone o riflessivo o narrante o onirico: e allora in quali circostanze il vostro Io si è rivelato egemone o riflessivo o narrante o onirico...
Scrivete quattro righe in proposito per imparare a gestire le funzioni del vostro Io...
E a Weimar [e siamo sempre a Weimar dal 1790, ma anche a Jena] il dibattito continua.
Le intellettuali e gli intellettuali di Weimar e di Jena si considerano figlie e figli dell’età dei Lumi ma come sappiamo ne elaborano criticamente [anche tornando ai Classici] l’eredità fino a considerare superato l’utilizzo della metafora illuminista della luce: la metafora della luce [la luce della ragione che illumina la realtà esteriore favorendone la conoscenza] viene sostituita da un’altra figura simbolica, quella de “la scintilla”: una folgorazione momentanea, un lampo, che illumina la realtà interiore della persona. Questa nuova metafora, la scintilla che illumina la realtà interiore della persona, rappresenta lo snodo in cui l’Illuminismo e il Romanticismo si differenziano: per il pensiero illuminista è la luce della ragione che, illuminando l’esteriorità, mette in luce la Natura e favorisce la conoscenza del Mondo e della realtà e, utilizzando la ragione, le persone possono contribuire a modificare e a costruire il Mondo. Ma è proprio vero [si era già domandato Kant] che la ragione fornisce una luce continua, diffusa e incessante? Ed è proprio vero [si era già domandato Kant] che le zone d’ombra, gli angoli bui che la ragione non riesce a illuminare sono da considerarsi fuori dalla realtà? Per il pensiero “romantico” [che si va formando a Weimar e a Jena] la metafora de “la luce continua, diffusa e incessante” lascia il posto a quella de “la scintilla dell’intuizione geniale” che illumina con un lampo l’interiorità della persona la quale percepisce una realtà, la realtà interiore, che può così essere percepita e pensata dalla persona stessa come la sede del proprio Io: quindi, affermano a Weimar e a Jena, avviene che il pensiero dell’Io dipende proprio dall’Io stesso e, di conseguenza [si domandano a Weimar e a Jena], l’attività del pensiero è avvalorata dall’Io, e prima dell’Io-penso c’è l’Io-puro, ed è dall’Io-puro che scaturisce la scintilla dell’Io-penso? Certo che, affermano a Weimar e a Jena, la persona, prima della Natura e del Mondo, pone sempre avanti l’idea di se stessa, antepone sempre il proprio Io, ed è, quindi, con il proprio Io che la persona interpreta la Natura e il Mondo perché l’unico principio incondizionato della realtà dimostra di essere l’Io.
La realtà esteriore, pensano a Weimar e a Jena, non esiste in quanto tale, tutto è contenuto nell’Io e, quindi, nell’interiorità. La realtà esteriore appare solo nel momento in cui l’Io, dalla sua sede interiore, si espande all’esterno. Quando a breve incontreremo Fichte e Schelling potremo approfondire questa questione che ci riguarda da vicino [in quanto tutte e tutti noi abbiamo un Io nel quale ciascuna e ciascuno di noi s’identifica]. Intanto la metafora de “la scintilla che scaturisce dall’Io” ci fa riflettere sul nostro rapporto con “le scintille” e con i modi di dire che ne derivano.
REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In quale situazione per voi è “scoccata la scintilla” [vi siete sentite e sentiti attratti da una persona, da una cosa, da un fatto]?... E qual è l’ultima volta che “avete fatto scintille” [che vi siete occupate e occupati con successo di qualcosa con grande energia, vivacità, entusiasmo, e particolare coinvolgimento]?...
Scrivete quattro righe in proposito...
La metafora de “la scintilla che scaturisce dall’Io” ha una sua storia.
Le intellettuali e gli intellettuali di Weimar e di Jena hanno elaborato la metafora de “la scintilla dell’intuizione geniale” studiando la Storia del Pensiero Umano, e ne rende testimonianza Schiller quando, nel 1796 in un articolo sulla rivista Die Horen-Le Ore, scrive: «Le radici della metafora della scintilla che scaturisce dall’Io si trovano nel pensiero di Meister Eckhart.». Meister Eckhart, nato a Hochheim in Turingia intorno al 1260 e morto ad Avignone nel 1327 (che abbiamo incontrato sul terreno della Scolastica e ne abbiamo studiato il pensiero più di vent’anni fa), è considerato uno dei massimi scrittori mistici del Medioevo e uno dei più significativi esponenti della Scolastica europea.
Meister Eckhart ha insegnato a Parigi alla facoltà delle Arti [dal 1300 al 1311 ricopre la cattedra che era stata di Tommaso d’Aquino e per questo ha acquisito il titolo di Magister-Meister che accompagna il suo nome], è un domenicano coltissimo ma capace di esprimere concetti difficili in una forma semplice, essenziale e diretta: difatti propone temi teologici e filosofici molto complessi rendendoli comprensibili in particolare quando gli viene affidato l’incarico di predicatore presso i conventi delle suore domenicane che erano donne umili e spesso analfabete; una delle opere più famose di Eckhart raccoglie le sue Prediche con le quali si rivolge alle suore domenicane elaborando - per metterle nelle condizioni di conoscere e di capire - un linguaggio che, pur contenendo difficili temi dottrinali, tuttavia risulta comprensibile perché “ripulito” dai termini tecnici e spesso astrusi della Teologia. Naturalmente questo suo zelo didattico non piace alle autorità che preferiscono si mantenga un adeguato livello di ignoranza nella società. Meister Eckhart ha il merito [che le intellettuali e gli intellettuali di Weimar e di Jena gli riconoscono per primi] di aver gettato le basi del vocabolario tedesco moderno che ha acquisito una terminologia più funzionale e facile da capire soprattutto da parte di chi aveva un’istruzione limitata.
Le intellettuali e gli intellettuali di Weimar e di Jena [e Schiller ci mette al corrente] studiano soprattutto il trattato di Eckhart intitolato Sul distacco nel quale affronta il tema esistenziale del disprezzo delle cose superflue: più la persona si libera dall’interesse e dall’attrazione per le cose superflue [«dalla sbornia consumistica», scrive Eckhart], più fa posto nella sua interiorità alla presenza di Dio la cui immagine [scrive Eckhart che riflette secondo i canoni della Fede] non può essere frutto dell’Io-penso perché inevitabilmente la persona non fa altro che raffigurarsi “un idolo vano e ingannevole”, un prodotto al pari, se non peggio, a quello di ogni altra cosa superflua; più la persona è capace di liberarsi dalle cose superflue, più il “Dio vivente che esiste al di sopra di ogni cosa” invade la sua interiorità, e la scintilla divina illumina l’interiorità della persona facendole conoscere, nella loro essenza, il bello, il giusto e il bene, e Dio [scrive Eckhart] diventa tutt’uno con l’interiorità della persona. Questa affermazione - che equipara la persona a Dio - non piace al Vescovo di Strasburgo che, nel 1326, denuncia Eckhart e, quindi, nel 1329, un decreto del Sant’Uffizio [firmato da papa Giovanni XXII] condanna 28 tesi di Eckhart come eretiche, ma lui non può controbattere essendo morto da due anni.
La riflessione di natura mistica di Eckhart si basa sul fatto che il valore più importante per l’Umanità è l’incarnazione di Dio nella storia come afferma il testo del Vangelo Secondo Giovanni: «La Parola di Dio si è fatta carne e abita in noi » [Et verbum caro factum est et abitavit in nobis], ma questo valore [scrive Eckhart] contiene un’enorme contraddizione che consiste nell’unione di due realtà, l’umana e la divina, biologicamente e razionalmente incompatibili; però se il valore più importante per l’Umanità, l’incarnazione [mistero della Fede], corrisponde a una contraddizione [un’aporia] ciò significa che “l’essenza del valore s’identifica con quella della contraddizione” [in greco “Areté on aporeté”, le contraddizioni danno un senso agli autentici valori umani]. Se Dio, di natura divina, si è fatto carne, avvalorando la massima contraddizione dell’unione tra umano e divino, ciò significa [scrive Eckhart] che la storia della salvezza passa attraverso le contraddizioni [le aporie], e i valori, di conseguenza, si trovano nel punto d’incontro delle contraddizioni [come documentato dalla Letteratura dei Vangeli, basta leggere il testo delle Beatitudini o quello del discorso della Montagna]; quindi, Dio lo si può trovare nella massima contraddizione teoretica: al punto d’incontro tra l’Essere e il Nulla, e l’interiorità della persona risulta essere un Nulla finché la scintilla dell’Essere divino non la illumina. Ed ecco su quali basi teoretiche le intellettuali e gli intellettuali di Weimar e di Jena elaborano la metafora de “la scintilla dell’intuizione geniale” che li porta ad esplicitare il concetto dell’Io-puro.
REPERTORIO E TRAMA … per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Le riflessioni contenute nelle Prediche di Meister Eckhart possono sembrare paradossali ma molte lettrici e lettori dal ‘500 al ‘900 le hanno trovate affascinanti... Incuriositevi...
Leggiamo un frammento dal trattato Sul distacco di Meister Eckhart.
Meister Eckhart, Sul distacco
In breve, se considero tutte le virtù, non ne trovo alcuna che sia così completamente senza difetto e che unisca a Dio tanto quanto il distacco dalle cose superflue. Il maestro persiano Avicenna dice che la nobiltà dello spirito che permane distaccato dalle cose superflue è tanto grande che, tutto quel che contempla è vero, tutto quel che desidera gli è accordato. Quando la persona non partecipa alla sbornia del superfluo invita Dio a venire verso il suo essere e a riempire la sua interiorità, in modo che l’intimo della persona possa prendere l’essenza propria di Dio. Perciò se Dio abbraccia l’Io liberato dall’interesse e dall’attrazione per le cose superflue, dona Se stesso. Il distacco dalle cose superflue permette alla scintilla divina, che trova dimora nell’interiorità, di illuminare il volto di Dio: a questo punto Dio e l’Io non sono che una cosa sola, e l’interiorità umana è una cosa sola con Dio. …
«La scintilla divina illumina l’interiorità [scrive Meister Eckhart] sulle contraddizioni perché la persona possa distinguere il bene dal male, il giusto dall’iniquo, il bello dal perverso e senta il desiderio della redenzione.». L’itinerario intellettuale che abbiamo descritto - dalla Critica del giudizio di Kant e poi, a ritroso, fino al pensiero mistico di Meister Eckhart - viene riportato da Schiller nel 1796 sulle colonne della rivista Die Horen-Le Ore ma Schiller ci mette al corrente che il tema de “la scintilla che illumina lo spazio dell’interiorità” trova un ulteriore sviluppo nel Rinascimento e di questo ce ne occuperemo prima di incontrare Fichte e Schelling, dopo la pausa pasquale.
E anche Meister Eckhart per celebrare la Pasqua sarebbe d’accodo a richiamare l’attenzione su papa Gregorio Magno il quale nell’anno 590 ha redatto - nel secondo Libro dei suoi Dialoghi - la Regola di San Benedetto che corrisponde a un programma politico [con una giornata che prevede quattro ore per lavorare, quattro ore per studiare, quattro ore per pregare e per riflettere, quattro ore per prendersi cura di sé e degli altri, otto ore per riposare] che, attuato concretamente con la fondazione delle Abbazie, ha risollevato le sorti dell’Europa dopo “la cosiddetta caduta dell’Impero romano d’Occidente” [provocando una Rinascita]: e sul “benedetto progetto politico gregoriano” bisognerebbe promuovere una riflessione universale.
E ora, come è tradizione, ricordiamo dai Dialoghi di Gregorio un frammento del programma di questo progetto che sintetizza da dove può iniziare la Rinascita.
Gregorio Magno, Dialoghi
La luce che risplende nelle tenebre dell’ignoranza è generata dallo studio, e chi studia comincia a risorgere. …
E, di conseguenza, “studiare”, cioè prendersi cura della propria anima, del proprio intelletto e del proprio corpo, è un gesto pasquale per eccellenza da coltivare per rivendicare il nostro diritto-dovere all’Apprendimento permanente. Studiare è cominciare a risorgere perché lo studio è cura: stimola il sistema immunitario e rinfranca e ritempra lo spirito rendendoci consapevoli del fatto che non dobbiamo mai perdere la volontà d’imparare.
Per questo la Scuola è qui e il viaggio continua [mercoledì 7 maggio a Bagno a Ripoli, giovedì 8 maggio a Tavarnuzze e venerdì 9 maggio a Firenze] e, inoltre, è stata una risurrezione alla democrazia per l’Europa e per l’Italia anche il momento della Liberazione dalle atrocità della dittatura nazi-fascista, e il calendario di quest’anno, di conseguenza, prevede che, con l’augurio di una buona Pasqua di studio, si proclami anche: Viva il 25 aprile e Viva il 1° maggio!
E, secondo tradizione, fate ruzzolare l’uovo. Auguri!...