Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 09-10-11 ottobre 2013
Leone Tolstòj
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE
SI CELEBRA IL TRADIZIONALE RITUALE DELLA PARTENZA
CON LA DEFINIZIONE DELLA NATURA E DEGLI OBIETTIVI DEL VIAGGIO DI STUDIO ...
Ben tornate e ben tornati a Scuola! Ben tornate alle veterane e ai veterani che frequentano da tempo la Scuola pubblica degli Adulti e ben venute [ce ne sono?] alle persone che sono qui per la prima volta ad intraprendere un Percorso didattico che si propone di “favorire l’esercizio delle azioni dell’Apprendimento”: infatti, il compito della Scuola è, prima di tutto, quello di insegnare ad apprendere perché: ad imparare s’impara. E più importante che sapere è non perdere la volontà di imparare.
Questo Percorso di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura [è un titolo lungo da dire e difficile da ricordare in prima istanza: ci vuole un po’ di esercizio ma, sulla soglia del trentesimo anno di attività, credo che sia ormai un dato acquisito questa denominazione] è un’offerta formativa di alfabetizzazione culturale e funzionale che inizia – secondo una tradizione ormai consolidata – con il consueto “rituale della partenza” e, come tutti i rituali, anche questo che ci accingiamo a compiere, ha un carattere ripetitivo ed è dotato di pesantezza. Ma, come c’insegna il testo del capitolo XXI del Piccolo Principe di Antoine de Saint-Exupéry [da quanto tempo non rileggete questo capitolo?]: «Ci vogliono i riti…perché un rito è quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore…».
Un Percorso di alfabetizzazione culturale e funzionale corrisponde [metaforicamente] ad un “viaggio” e questo significa che anche questo viaggio – di studio, virtuale [che si mette in movimento attraverso l’affabulazione e conserva la sua efficienza propulsiva con la ricerca che ciascuna viaggiatrice e ciascun viaggiatore mette in atto] – ha inizio con l’atto della partenza.
Questo viaggio di studio e di “cura” [visto che in latino la parola “studium” e la parola “cura” sono sinonimi e l’obiettivo primario per cui una persona deve fare un’esperienza di “studio” è quello di imparare a prendersi cura di se stessa in modo da poter prendersi cura degli altri, quindi, il termine “studium”, per sua natura, ha un’anima solidale] si compone [secondo il calendario dell’anno scolastico 2013-2014] di ventotto itinerari didattici [avete ricevuto - con il primo REPERTORIO E TRAMA ... - un calendario dettagliato sulle date degli itinerari] e, quindi, si parte adesso, all’inizio di quest’autunno e l’arrivo è previsto per l’ultima settimana di maggio, nella primavera inoltrata dell’anno che verrà, il 2014, con un’appendice [è, come sapete, un arrivo diversificato] nella prima settimana di giugno [di solito la ventottesima Lezione è corta e conviviale].
Ci accingiamo a compiere [e questo è il 30° Percorso della storia di questa esperienza didattica iniziata nella Scuola Media “Primo Levi” di Impruneta il primo ottobre 1984, e un certo numero di voi ha partecipato, nei locali della Biblioteca, la sera del 14 giugno scorso, alla manifestazione, organizzata dall’assessorato alle politiche della Formazione del Comune di Impruneta, che ha ricordato questo anniversario] un viaggio lungo,e anche faticoso, ma è così che la Scuola pubblica degli Adulti deve tener fede al mandato istituzionale che ha ricevuto: garantire a tutte le cittadine e i cittadini il diritto all’Apprendimento Permanente, un diritto che, in questo Paese – nonostante il dettato costituzionale, l’art.34 della Costituzione, –, non è stato ancora sancito per Legge: sull’Educazione degli Adulti continua ad esistere una normativa frammentata e soggetta all’instabilità e, spesso, all’arbitrio. Difatti siamo qui non in virtù di una Legge ma di un’Ordinanza Ministeriale: l’Ordinanza Ministeriale n.455 del 1997 che continua a fornirci una dignità normativa [sebbene nell’ambito della precarietà] e, quindi, gli Organi collegiali dell’Istituto scolastico a cui facciamo riferimento [l’Istituto Comprensivo “Antonino Caponnetto” di Bagno a Ripoli - Antella - Grassina] hanno deliberato che l’Educazione Permanente è un dovere istituzionale della Scuola pubblica e che questo dovere diventa inderogabile se c’è la richiesta e il consenso da parte di un certo numero di cittadine e di cittadini e io, quindi, ho ricevuto l’incarico – sebbene non faccia più parte dell’organico attivo della Scuola pubblica [anche se la Scuola pubblica mi considera virtualmente sempre in servizio] – di svolgere l’attività [o la missione volontaria senza oneri per l’amministrazione statale] dell’alfabetizzatore di strada. Siamo qui, quindi, per soddisfare un diritto in modo da esercitare il nostro dovere all’Apprendimento Permanente, e l’esistenza di un sistema di Educazione degli Adulti su questo territorio [un sistema imperfetto, tuttavia funzionante] dipende soprattutto dalla vostra partecipazione perché è nella persona di ciascuna e di ciascuno di voi che s’incarna l’Istituzione scolastica dando concretezza a quel fenomeno democratico che si chiama “cittadinanza attiva”, e l’azione principale che rende “attivo” il diritto di cittadinanza è proprio lo “studio” [l’esercizio in funzione dell’apprendimento e dell’investimento in intelligenza].
Prima di occuparci della natura e degli obiettivi di questa esperienza didattica [come prescrive il tradizionale rituale della partenza] dobbiamo riflettere sul fatto che in questo viaggio di studio [che ci stiamo preparando ad affrontare] attraverseremo, itinerario dopo itinerario, come da programma stabilito a giugno, il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”. Che significato ha questa dicitura: che caratteristiche ha il territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”? A questa domanda, che riguarda le qualità specifiche di questo territorio, risponderemo strada facendo [attraversandolo di volta in volta], ma ora – prima di prendere il passo –, è necessario fare chiarezza su alcuni elementi che caratterizzano questa vasta area culturale e che si riflettono sul rituale della partenza: dobbiamo sistemare nel nostro [metaforico] zaino intellettuale [nella nostra mente] il materiale utile per entrare nel territorio che stiamo per attraversare.
Il primo elemento riguarda lo spazio che dobbiamo fare nella nostra mente per contenere il perimetro del territorio dell’“Età alto-medioevale”. Questo territorio [abbiamo detto] comprende un’area piuttosto vasta e, per intuirne l’ampiezza, è significativo far corrispondere il tempo allo spazio: ebbene, “l’alto medioevo” si sviluppa, secondo la tesi storica più accreditata, dal V all’XI secolo [dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente al fatidico Anno mille] quindi per un arco temporale di circa settecento anni.
Chi ha partecipato al viaggio dello scorso anno sa che l’affermazione che abbiamo fatto è tuttavia soggetta al concetto della relatività per quanto riguarda i tempi [soprattutto in ingresso]: che cosa significa? Significa che, sul piano della ricerca direttamente collegata alla Storia del Pensiero Umano, c’è una grande flessibilità sulla data d’inizio del Medioevo: ci sono, in proposito [e lo abbiamo detto molte volte], più di cinquecento ipotesi, tutte ben accreditate culturalmente. Di conseguenza la prima difficoltà che incontriamo, questa sera, nel partire per questo nuovo viaggio, sta nel fatto che troviamo intorno a noi, anche dislocati ad una certa distanza tra loro, tanti eventuali punti di partenza. E allora: questo significa che non sappiamo da dove partire?
Noi [a maggio], già dagli ultimi itinerari dello scorso viaggio di studio, abbiamo individuato una base di riferimento da cui dobbiamo prendere il passo, abbiamo focalizzato un punto di raccolta adatto ad organizzare la nostra partenza, e questo determinato luogo è situato di fronte ad un paesaggio intellettuale [dove ci troviamo in questo momento] che rispetta la natura e le caratteristiche del nostro Percorso che è indirizzato in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Quindi, nel nostro caso [nel caso di viaggiatrici e viaggiatori, come siamo noi, orientati in funzione della didattica della lettura e della scrittura], quando inizia il Medioevo? Mettete gli occhi sul primo punto del REPERTORIO E TRAMA ... che è lo strumento che ci consente di orientarci meglio sul nostro cammino. [Riceveremo circa trecento pagine di REPERTORIO E TRAMA ... Questo materiale viene stampato dalla Scuola “Francesco Redi” di Bagno a Ripoli alla quale dobbiamo versare un contributo perché c’è una produzione di circa 90 mila pagine. È un contributo necessario - per la carta, per il toner, per la manutenzione della macchina -, però è volontario come sono volontari tutti i contributi - qualche spicciolo - legati alle spese di produzione di questa impresa].
Secondo la natura del nostro viaggio [in funzione della didattica della lettura e della scrittura] il Medioevo ha inizio quando certi studiosi [li incontreremo] – vista la situazione di totale degrado esistente sui territori dell’Impero romano – cominciano ad affermare che è necessario salvare e preservare le Opere “antiche [le Opere dei Classici greci e latini]”, perché l’implosione dello Stato dei Cesari, che domina sul territorio dell’Ecumene da più di cinquecento anni, sta facendo sprofondare nell’abisso tutto ciò che di buono, sul piano intellettuale, ha finora creato il Pensiero Umano. Dicendo di voler salvare e preservare le Opere “antiche [delle Opere dei Classici greci e latini c’era una tiratura molto limitata, riprodotta su rotoli di papiro, quindi, nella forma, fortemente deperibili e, per quanto riguarda il contenuto, queste opere erano spesso soggette a censure, a condanne e a distruzioni]”, questi intellettuali facendo questa affermazione e cominciando ad operare in questo senso [salvare e preservare le Opere “antiche”] dichiarano di essere pienamente coscienti che l’Antichità è ormai finita ed è necessario fare tutti gli sforzi possibili per salvaguardarne la memoria. Nasce, con questi personaggi, un metodo filologico con caratteristiche nuove non più “tardo-antiche” ma “post-antiche” e, quindi, nell’ottica della didattica della lettura e della scrittura [secondo la natura del nostro viaggio], il Medioevo inizia con un movimento culturale che vuole contrastare il nefasto degrado intellettuale provocato dal decadimento delle Istituzioni, e questo fatto corrisponde con il nostro punto di partenza, con la base da cui possiamo prendere il passo.
L’inarrestabile decadimento dell’Impero romano viene descritto [in molte Opere] come se fosse l’anticamera della fine del Mondo, una fine che, però, viene sistematicamente rimandata [e sembra che il fondo non debba mai essere toccato], ed è per questo che, sulla scia delle studiose e degli studiosi, abbiamo usato la parola-chiave “implosione” che indica il contrario di una “esplosione”. L’implosione è una sorta di schiacciamento graduale per cui l’eventuale esplosione che ne deriva può essere comunque governata in modo da sostenerne gli effetti. Praticamente dall’età degli Antonini, a cominciare con l’imperatore Elio Adriano [dal 117], l’amministrazione dello Stato romano, volente o nolente, è orientata a governare il fenomeno dell’implosione con provvedimenti che portano, nel volgere di circa tre secoli, alla dismissione dell’Impero in Occidente, e in Oriente [a Bisanzio] alla nascita di una nuova forma statale assai diversa da quella di Roma [l’Impero romano d’Oriente o Bizantino]. Il fatto è che, l’aver gradualmente evitato l’esplosione, non ha cambiato la situazione perché i danni che provoca un’implosione sono comunque molto distruttivi: lo schiacciamento [l’implosione] non è un fenomeno meno rovinoso di una deflagrazione [l’esplosione]. Il fatto che [storicamente parlando] il Medioevo abbia inizio con l’implosione dell’Impero romano ci porta a riflettere subito su questo termine: sulla parola-chiave “implosione”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste azioni – schiacciare, comprimere, premere, spingere, rompere, soffocare, angustiare - mettereste per prima acconto alla parola “implosione”?…
L’esercizio della scelta su un catalogo di parole - nella ricerca del termine che più ci aggrada, che più si avvicina alla nostra esperienza personale – permette la messa in moto delle azioni dell’apprendimento e, quindi, corrisponde ad un investimento in intelligenza…
Non rinunciate a scegliere e a scrivere la parola scelta …
In quale situazione vi siete sentite, vi siete sentiti schiacciare, soffocare, angustiare?…
Scrivete quattro righe in proposito consapevoli del fatto che la scrittura è sempre stata un’efficace strumento di descrizione delle implosioni, esteriori ed interiori…
Prima di occuparci della natura e degli obiettivi di questa esperienza didattica [come prescrive il tradizionale rituale della partenza] facciamo, in relazione a ciò che abbiamo appena detto, una riflessione su come agisce il fenomeno dell’implosione sul graduale logoramento e disfacimento delle Istituzioni dell’Impero romano d’Occidente.
Intanto il complesso fenomeno dell’implosione delle Istituzioni dell’Impero romano d’Occidente rappresenta il principale punto d’ingresso nel territorio alto-medioevale e genera una serie continua di corto circuiti che [stiamo usando una metafora] rendono via via inefficienti le centrali di erogazione della luce per cui, quando si pensa al Medioevo, si parla di “secoli bui”: con il graduale logoramento e disfacimento delle Istituzioni dell’Impero romano d’Occidente è come se fosse scesa una lunga notte, ma il cielo [autunnale, invernale, primaverile ed estivo] di questa lunga notte – in mancanza di inquinamento luminoso – si presenta talmente ricco di stelle che la visuale, sul territorio, è comunque ampia, e possiamo vedere bene come agisce il fenomeno dell’implosione nel provocare la graduale fine dell’Impero, quindi, la visione dei fatti – sotto le stelle dell’alto-medioevo – è assicurata e ci permette anche di rettificare alcuni luoghi comuni.
Sentiamo dire [per esempio], e leggiamo anche sui libri di testo, che nel V secolo [nell’anno 476] l’Impero romano d’Occidente “cade a causa dell’incontenibile irruenza delle invasioni barbariche” e questa descrizione fa pensare ad una sorta di esplosione [ad un badabum] ma, in realtà, nel 476, le popolazioni germaniche, i Goti – divisi in Visigoti [Goti dell’Ovest] e Ostrogoti [Goti dell’est] – e i Vandali, si erano stanziate ormai da secoli sul territorio dello Stato romano: vasti territori dell’Impero hanno cominciato ad essere abitati da nuove popolazioni a cominciare da trecento anni prima della caduta dell’Impero romano d’Occidente, quando l’imperatore della dinastia degli Antonini [gli imperatori più illuminati], Marco Aurelio, che [come sappiamo, perché conosciamo il personaggio] era un austero filosofo di Scuola stoica [autore di un’opera, intitolata “Ricordi”, che abbiamo incontrato e della quale abbiamo studiato le caratteristiche nel viaggio scorso], ha dovuto affrontare il problema di un vasto sconfinamento di popolazioni germaniche [che si erano messe in movimento a causa della pressione esercitata su di loro da altre popolazioni asiatiche in marcia da est verso ovest] i Marcomanni e i Quadi, che abitavano a nord del Danubio e che giunsero fino alle Alpi Orientali, a ridosso della città di Aquileia. Marco Aurelio – sebbene non avesse le qualità del guerriero [la sua imponente statua a cavallo è in piazza del Campidoglio] – li ha sconfitti [nel 178] e, con il trattato di pace, decide di concedere loro di stabilirsi dentro al territorio dell’Impero [del quale vaste aree erano disabitate] purché prestassero il servizio militare, anche perché la manodopera nell’esercito romano stava mancando ed era necessario assumere forze fresche nell’unica struttura statale che funzionava ancora bene. I giovani uomini germani hanno accettato con entusiasmo di diventare soldati romani perché l’esercito imperiale era un’istituzione molto ben organizzata che forniva servizi [un buon equipaggiamento, una mensa sostanziosa, comodi alloggiamenti, un’infermeria attrezzata]. Ebbene questa scelta dà l’avvio ad una consuetudine che si dimostra, col tempo, un espediente che contribuisce al fenomeno dell’implosione perché dà inizio all’inarrestabile germanizzazione dell’esercito romano e, due secoli dopo, l’esercito romano è totalmente germanizzato.
Ma la graduale penetrazione di stranieri [oi barbaroi] sul territorio dell’Impero e dentro alla principale struttura dello Stato,[l’esercito, non è la principale causa del degrado delle Istituzioni romane: prima di tutto gioca un ruolo fondamentale la crisi dell’economia e, in questo caso, l’implosione è data dal continuo dissesto delle risorse pubbliche rimpinguate con il pignoramento [spesso arbitrario] di risorse private da parte di governanti [gli imperatori illuminati sono stati ben pochi] incompetenti e spesso scellerati che nulla fanno per correggere l’ingiusta distribuzione della ricchezza e nulla fanno per modificare il perpetuarsi del sistema della manodopera su base schiavistica che non permette a grandi masse di avere un proprio reddito da gestire.
Poi un impulso al fenomeno dell’implosione lo dà l’inesorabile diffusione di un messaggio completamente alternativo all’ideologia imperiale romana [che era basata sulla guerra di conquista e sulla “mentalità predatoria”], questo messaggio è fondato su una “buona notizia [eu-anghelon]” che promette la resurrezione, e questo “forte annuncio di salvezza esistenziale”, diffuso in periodo di crisi, si propaga velocemente nelle città più importanti dell’Impero con l’assidua predicazione, con una Letteratura di gran pregio, con la disubbidienza civile e con l’animata discussione polemica sui principi della dottrina [e questi temi - che enumeriamo velocemente - li abbiamo studiati tutti nel viaggio dello scorso anno]. L’evento evangelico, proprio perché non nasce dal nulla, scombussola il modo di pensare su tutto il territorio dell’Ecumene. La dottrina del Cristianesimo [la linea ortodossa sostenuta dalla Chiesa di Roma, dai Padri Apostolici - Clemente Romano, Policarpo di Smirne e Ignazio di Antiochia -, dai Padri Cappadoci - Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa -, e le numerose varianti, le scelte diverse rispetto all’ortodossia, le eresie], si forma nell’ambito di una agguerrita polemica culturale [che genera un eterogeneo movimento intellettuale il quale di per sé ha carattere implosivo nei confronti dell’ideologia imperialista] e due sono le principali correnti di pensiero che si scontrano: la “tendenza conciliativa” che utilizza le parole-chiave della cultura classica e le idee-cardine della filosofia greca riconoscendone l’importanza [a cominciare da Paolo di Tarso e da Giustino di Efeso] e la “corrente intransigente” che tende a combattere tutte le altre culture con atteggiamenti fondamentalisti [Tertulliano, Cirillo di Alessandria. I temi relativi a queste due principali correnti - e i personaggi che abbiamo citato - li abbiamo studiati durante il viaggio dello scorso anno scolastico]. La dottrina cristiana [anche nelle sue varianti eretiche, come l’Arianesimo] riesce a contaminare le Istituzioni statali romane ma, a sua volta, subisce una forma di contaminazione: le eterogenee comunità cristiane finiscono per rimanere invischiate in ciò che resta dei meccanismi delle Istituzioni imperiali e questo fatto frena l’ideale slancio propulsivo delle origini, e difatti i Cristiani, nel IV secolo, contando sulla loro ormai numerosa presenza nella società, decidono di schierarsi politicamente sostenendo militarmente l’ascesa al potere di Costantino e, di conseguenza, con la vittoria di Costantino, il Cristianesimo diventa, per implosione, “la religione preferita dall’imperatore” che fa questa dichiarazione nell’Editto di Milano del 313 [sulla tolleranza religiosa], e poi il Documento base del primo Concilio di Nicea [il Credo, il Simbolo niceno] nel 325 fissa, come abbiamo studiato nella primavera scorsa, le linee di una nuova ideologia che si sovrappone a quella tradizionale dello Stato romano [Inizia qui il Medioevo, con questi due eventi: l’Editto di Milano e il Concilio di Nicea? Sono molti i sostenitori di queste due tesi] .
Il fenomeno implosivo relativo alla diffusione del Cristianesimo trova poi un impulso ancor più deciso con l’imperatore Teodosio che, nel 380, vara l’Editto di Tessalonica con cui il Cristianesimo diventa “la religione ufficiale dell’Impero” mentre condanna i culti pagani compresa la scienza alessandrina [abbiamo concluso lo scorso viaggio con il martirio della scienziata neoplatonica Ipazia] e condanna anche la filosofia greca che il Cristianesimo, già dal I secolo [con l’Epistolario di Paolo di Tarso], ha utilizzato con sagacia per costruire – in modo solido – la linea ortodossa della sua dottrina.
Quindi ora, in attesa di occuparci della natura e degli obiettivi di questa esperienza didattica [secondo il tradizionale rituale della partenza], ricapitoliamo e aggiungiamo, a questo catalogo iniziale [con cui stiamo preparando lo zaino], un ulteriore motivo implosivo su cui dobbiamo riflettere.
Le cosiddette “invasioni barbariche”, la inarrestabile crisi economica, la diffusione della dottrina del Cristianesimo sono tutti elementi che, messi insieme, determinano l’implosione dell’Impero romano d’Occidente, un fenomeno che – dal punto di vista storico – rappresenta il più importante punto d’ingresso sul territorio alto-medioevale [“Implode l’Impero romano e inizia il Medioevo”, così leggiamo sui libri di Storia]. Oltre a quelli elencati c’è ancora un ulteriore motivo implosivo che è legato alla nascita e alla diffusione del movimento filosofico più importante dell’Età tardo-antica: il Neoplatonismo, una corrente di pensiero che, nel viaggio dello scorso anno scolastico, abbiamo studiato con interesse anche perché, sulla scia di questo importante movimento intellettuale, il Cristianesimo [soprattutto con l’opera di Origene] ha costruito la sua solida base dottrinale, a cominciare dall’immagine trinitaria di Dio.
Il pensiero neoplatonico – nato ad Alessandria nel III secolo con la Scuola di strada di Ammonio Sacca – contribuisce all’implosione dell’Impero romano d’Occidente perché, in primo luogo, i valori che il Neoplatonismo propone [le idee che veicola in nome della riflessione intellettuale senza fare ricorso ad alcuna fede religiosa] contraddicono le principali convinzioni che hanno permesso allo Stato romano di costruire la propria egemonia sull’Ecumene. Queste convinzioni si possono sintetizzare in alcune affermazioni esemplari: la forza dà il diritto di essere nel giusto [quando si possiede la forza bisogna pensare di avere sempre ragione], l’obiettivo da perseguire è la rapida conquista [per imporsi bisogna agire senza temporeggiare e senza incertezze], la bramosia del comando è l’ideale di vita [bisogna coltivare la passione per la presa e il mantenimento del potere sapendo che i termini della verità li stabilisce il più forte, e la Storia la fanno e la determinano i vincitori].
Il pensiero neoplatonico, invece, – facendo anche tesoro della riflessione dei Classici [Cicerone, Lucrezio, Virgilio, Orazio, Ovidio] i quali esaltano non il diritto della forza ma la forza del diritto [perché la Legge deve essere uguale per tutti], non la guerra di conquista ma la pietà e la pace [perché si espanda l’humanitas], non la bramosia del potere ma lo slancio amoroso [perché è l’amore la forza propulsiva più efficace], e queste riflessioni, alternative all’ideologia del sistema imperialista, hanno dato vita alla prima importante stagione del dissenso della Storia della cultura [I testi dei Classici costituiscono una prima grande biblioteca di Opere di opposizione, e ne abbiamo studiato un certo numero] –, ebbene, il pensiero neoplatonico [nutrito dai Dialoghi di Platone, dalla Metafisica di Aristotele e dalle Opere dei Classici] contrappone alle convinzioni dell’imperialismo romano [la forza, la conquista, la brama predatoria] altre regole di carattere etico su cui fondare i rapporti umani: l’aporeìn aporein [il dubbio], l’epoché epoche [la sospensione del giudizio] e l’apàtheia apatheia [il controllo delle passioni mediante la ragione]. Queste tre regole stanno alla base del pensiero di un filosofo [noto a molte e a molti di noi], Plotino di Licapoli, la cui figura spicca più in alto di tutte nella “Scuola di Atene” di Raffaello, autore di un’opera intitolata Enneadi, che abbiamo studiato nella scorsa primavera, sulla quale poggiano le fondamenta della filosofia medioevale. Il pensiero contenuto nelle Enneadi di Plotino è come se fosse compreso all’interno del perimetro di un triangolo ai cui vertici ci sono tre parole-chiave: l’armonia, la solidarietà e l’essenzialità, che illustrano quali sono le caratteristiche dello stile di vita utile a migliorare la qualità dell’esistenza umana [specialmente in tempo di crisi] .
Dopo i cinquant’anni Plotino [che ha studiato alla Scuola di Ammonio ad Alessandria insieme ad Origene e Cassio Longino] comincia a scrivere una serie di trattati [54 trattati] che, dopo la sua morte, il suo discepolo Porfirio di Tiro ordina in sei raccolte, ciascuna comprendente un gruppo di nove trattati, perciò dette Enneadi [in greco “ennea ennéa” significa “nove” e un’enneade è un insieme di nove oggetti]. Ogni raccolta di nove trattati [ognuna delle sei Enneadi] sviluppa, nell’ordine, un tema specifico: l’etica, la fisica, il tempo, l’anima, l’intelletto e l’essere. Plotino riflette su questi grandi argomenti e il risultato della sua meditazione [Plotino è un mistico di spirito laico e razionale] diventa il principale filtro tra il pensiero greco tardo-antico [laico e razionale] e la nascente filosofia cristiana medioevale. Agostino di Ippona [che abbiamo incontrato alla fine di maggio al termine del viaggio scorso e con il quale avremo ancora a che fare] scrive: «Cambiate solo qualche parola nel testo delle Enneadi di Plotino e avrete il pensiero di un perfetto cristiano». [Plotino non si sarebbe riconosciuto in questa affermazione perché del Cristianesimo non condivide l’idea della resurrezione dei corpi, la santificazione della materia e considera l’eucaristia un rito cannibalico]. Plotino ha una visione intellettuale della realtà [è reale ciò che è animato dall’Intelligenza] e ha una concezione spirituale della natura umana [l’elemento qualitativo della persona è l’anima emanata dall’Intelletto] e questo fatto influenza i pensatori medioevali [Agostino per primo] che ritengono importante dare un’anima intellettuale alla dottrina cristiana. Secondo Plotino – come abbiamo studiato la primavera scorsa – tutte le cose che formano la realtà derivano dall’Uno [En] che è un Ente assolutamente ineffabile [il supremo concetto intellettuale del quale non si può dire nulla], possiamo solo intuire che sia la sintesi primaria [la potenza di tutte le cose] ma, in effetti dell’Uno noi possiamo dire solo ciò che non è: non è qualità, né quantità, né anima, né Dio, né pensiero, né volontà. Nella stessa [inarrestabile] maniera in cui la nostra mente produce i pensieri [afferma Plotino] dall’Uno sgorgano, in modo naturale e necessario, gli elementi fondamentali della realtà in modo gerarchico: l’Uno emana l’Intelletto [il Nous, il luogo dove sono le Idee platoniche, dove sono tutte le cose a livello ideale], e l’Intelletto effonde l’Anima del mondo [Psiche, che è Intelligenza ed avvolge tutte le cose]. Alla fine del processo di emanazione c’è la Materia che è inerte [priva di Intelligenza] perché troppo lontana dall’Uno [dalla fonte della Realtà].
La filosofia di Plotino è di carattere educativo e nel testo delle Enneadi il filosofo delinea un percorso di studio per far sì che l’Anima di ogni persona possa tornare verso l’Uno [il Sommo Bene]: per prima cosa [scrive Plotino] bisogna educare l’Anima a prendere le distanze dalla Materia coltivando le quattro “virtù cardinali”: la sapienza, la temperanza, la fortezza, la giustizia. A queste quattro virtù cardinali corrispondono quattro azioni fondamentali della nostra vita: studiare [per acquisire la sapienza e far crescere le competenze intellettuali], lavorare [per acquisire la temperanza necessaria per saper gustare i piaceri essenziali frutto di una vita frugale], meditare [per acquisire la fortezza e coltivare la volontà] e patteggiare [per condividere le regole e garantire la realizzazione della giustizia]. Poi [scrive Plotino], per dare “qualità” alla vita, è necessario imparare a percorrere tre vie: la via della musica [per dare armonia alla vita], la via dell’amore solidale [per creare fratellanza nel mondo] e la via della filosofia [per imparare a trascendere la materia e a contemplare l’essenza ideale delle cose in modo da valutarne la qualità: “fare filosofia” significa capire che cosa è essenziale e imparare a desiderare ciò che è veramente necessario escludendo tutto ciò che è superfluo]. Il percorrere queste vie [l’armonia, la solidarietà, l’essenzialità], che conducono verso la fonte dell’Intelligenza [all’Uno, alla sintesi], ci permette, scrive Plotino, di trovare le ragioni per amare lo studio, perché “l’amore per lo studio serve [scrive Plotino] per superare la noia, l’insofferenza, l’indignazione spicciola, l’egoismo, l’attenzione esclusiva per il proprio tornaconto”: percorrere le vie dell’armonia, della solidarietà e dell’essenzialità ostacola, scrive Plotino, la diffusione epidemica di quella malattia della ragione che si chiama furbizia la quale distrugge i buoni frutti dell’Intelligenza per far dominare l’ignoranza. L’acquisizione di competenze utili a far sì che la persona possa “diffondere l’armonia”, possa “praticare la solidarietà” e possa “coltivare l’essenzialità” produce uno stato di soddisfazione, di calma, di piacere e di illuminazione intellettuale che Plotino chiama Ékstasis Ekstasis. Il termine “ékstasis” in greco, letteralmente, significa “che proviene”. Si legge nelle Enneadi: «Se l’Uno fosse il sole, l’Intelletto sarebbe la luce e l’Anima sarebbe la luce riflessa dalla luna, che proviene [ékstasis] da dove scaturisce il Sommo Bene». Come dire che il Bene assoluto non è arrivabile ma di riflesso ci si può avvicinare al Bene, solidarizzando.
Quante cose [invasioni barbariche, crisi economica, evento evangelico, movimento neoplatonico] abbiamo detto sulla scia della parola-chiave “implosione” collocata nel punto dove stiamo preparando la partenza! Come quando, in procinto di partire, facciamo il bagaglio e, alla prima preparazione, raduniamo tanta di quella roba che non entrerà mai nello zaino, così abbiamo fatto noi finora: abbiamo ammucchiato molte cose [tutti temi già studiati], tutte cose utili, ma troppo ingombranti e pesanti. Quindi, dopo aver fatto l’inventario, dobbiamo capire quali parole-chiave e quali idee-significative possano facilitare la nostra partenza per un viaggio in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Dal punto dove ci troviamo ora il panorama che abbiamo di fronte si compone di due scenari: c’è quello della dottrina ecclesiastica del Cristianesimo che si sta sovrapponendo a tutte le culture dell’Ecumene e quello del progetto educativo del Neoplatonismo che cerca di difendere la sua identità laica. Questi due significativi apparati culturali, l’evento evangelico e il movimento neoplatonico, costituiscono la base su cui poggiano le fondamenta dell’edificio medioevale e – seppure ben distinti tra loro – condividono un catalogo di idee comuni che può essere sintetizzato in una sola parola che, all’ingresso del territorio della “sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale”, risulta essere la più dirompente di tutte: la parola “amore” [anche in contrasto con l’ondata di odio che la crisi scatena]. Questa parola si presenta, in questo momento, – tanto nel pensiero cristiano quanto in quello neoplatonico – con un ampio ventaglio di significati: affetto, attrazione, predilezione, ardore, solidarietà, benevolenza.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di questi termini - affetto, attrazione, predilezione, ardore, solidarietà, benevolenza – mettereste per primo accanto alla parola “amore”?…
Scrivetelo…
Questo termine – vale a dire la parola che avete scelto [o che state per scegliere] da mettere, per prima, accanto alla parola “amore” – costituisce il materiale utile da sistemare nello zaino prima di prendere il passo: è un oggetto [qualunque sia la parola che avete scelto, o che state per scegliere] che occupa poco spazio, ma non è un oggetto leggero [la parola “amore” è dotata di un’insostenibile leggerezza]. Questo oggetto va collocato con un certo criterio [filologico] in relazione alla natura del viaggio che stiamo per affrontare. E il viaggio che ci accingiamo a compiere – come tutti quelli che abbiamo intrapreso in questi decenni – non è facile, ma ciò non significa che gli itinerari proposti settimanalmente non siano percorribili: se non fossero percorribili da tutti [indipendentemente dai livelli di scolarizzazione di ciascuna e di ciascuno di noi] questa esperienza di Educazione Permanente non sarebbe stata frequentata [nel corso degli anni] da più di 1200 cittadine e cittadini che hanno sentito e sentono, come la sentite voi, la necessità di misurarsi con ciò che è meno convenzionale [frequentare la Scuola da Adulti, che è il modo migliore per esprimere la propria “adultitudine”] proprio perché voi sapete che le difficoltà intellettuali [il “sapere di non sapere”: come c’insegna Socrate attraverso i Dialoghi di Platone] stimolano la curiosità, spingono alla ricerca e risvegliano il desiderio di investire in intelligenza e come si fa a vivere senza la curiosità, senza la ricerca e senza l’investimento in intelligenza?
E ora – secondo la natura del nostro Percorso in funzione della didattica della lettura e della scrittura [e tra poco spiegheremo meglio - mentre celebriamo il tradizionale rituale della partenza - la sostanza di questa natura] – accompagniamo le prime riflessioni che abbiamo fatto finora, in relazione ai caratteri del territorio nel quale stiamo per entrare, con la lettura di un testo: questo testo, secondo una prassi ormai consolidata all’inizio dei nostri viaggi, funge da “veicolo” e serve per cominciare a farci muovere i primi passi sul cammino che dobbiamo intraprendere.
Nel testo che stiamo per leggere ha un ruolo fondamentale la parola-chiave “amore” con l’ampio ventaglio di significati – affetto, attrazione, predilezione, ardore, solidarietà, benevolenza – che ne valorizzano il senso, ma questo testo è stato scelto anche in attinenza al risultato delle risposte che voi avete dato nel tradizionale questionario di fine anno che serve per dare una forma ai territori culturali che noi attraversiamo [la prossima settimana, nel corso del prossimo itinerario, prenderemo visione di questi risultati]. Il testo che stiamo per leggere [una prima parte questa sera e una seconda parte la prossima settimana] appartiene ad un racconto che assume la forma di un breve romanzo, ed è stato scritto da uno scrittore ben noto a tutte e a tutti noi per varie ragioni il quale, per comporre quest’opera, ha utilizzato i generi letterari della fiaba e della favola intrecciandoli insieme ad arte [in funzione didattica]. Prima di cominciare a leggere il testo di questo romanzo-breve dobbiamo fare una considerazione indispensabile [di carattere letterario] per capire il senso di questa composizione e l’intreccio filologico per cui l’abbiamo scelta.
Se prendiamo il volume della Bibbia che [sicuramente] conserviamo nella nostra biblioteca domestica e scorriamo l’indice delle opere del Nuovo Testamento [della Letteratura dei Vangeli] possiamo constatare che, proprio nella parte finale, collocate tra le Lettere di Paolo di Tarso [l’ultima è la Lettera ai Ebrei] e l’Apocalisse di Giovanni [che è l’ultimo libro della Bibbia], ci sono sette lettere chiamate Lettere cattoliche [Lettere alla Chiesa universale]. Si tratta di sette brevi componimenti, che si presentano sotto forma di lettera, i quali trattano di questioni generali e sono rivolti ad una vasta cerchia di lettrici e di lettori, sono documenti di carattere pastorale che riassumono i principi della Letteratura dei Vangeli e i punti salienti della dottrina [dell’ortodossia].
Queste sette Lettere compaiono sulla scena della Letteratura dei Vangeli nel corso del IV secolo [si tratta di una tarda Letteratura evangelica quando è ancora in corso lo scontro tra l’ortodossia dettata dal Concilio di Nicea e il pensiero eretico ariano] e portano i nomi di personaggi autorevoli, di figure prestigiose vissute a diretto contatto con Gesù di Nazareth che, naturalmente [secondo una prassi consueta per la Letteratura dei Vangeli], non corrispondono agli autori: c’è una Lettera di Giacomo [il più autorevole dei fratelli di Gesù], ci sono due Lettere di Pietro, tre Lettere di Giovanni, e una Lettera di Giuda [il fratello più anziano di Gesù]. Le studiose e gli studiosi non sono riusciti a dare un nome agli autori di questi scritti che sono il frutto di molteplici rielaborazioni avvenute in città diverse e in tempi diversi: le ultime stesure sono state redatte tra il IV e il V secolo ma non è facile stabilire delle datazioni precise. In questi testi emerge un Cristianesimo [quello tra il IV e il V secolo, contemporaneo al momento della nostra partenza] già consolidato sul piano sociale e dottrinale ma sempre agitato da grandi polemiche ideologiche [lo scontro tra Ortodossia e Arianesimo, tra tendenza conciliativa e tendenza intransigente] e anche consapevole di essere parte attiva nel provocare l’implosione delle Istituzioni imperiali romane delle quali, però, vuole salvare la struttura per riempirla di nuovi contenuti.
Uno dei temi – il tema principale – che questi scritti [le Lettere alla Chiesa universale] trattano è quello dell’Amore [l’Amore divino e l’amore umano] perché questo valore si presenta come l’argomento vincente nella diffusione del Cristianesimo sul territorio dell’Ecumene: il Dio cristiano [il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo] non è un Principio supremo dotato di incomunicabilità né un Demiurgo dalle possibilità limitate, non è neppure un Intelletto freddo e impersonale ma è Amore [un Padre che ama in modo incondizionato] e l’essere umano si sente confortato dall’Amore Divino che lo riscatta dalla miseria e lo rende partecipe della beatitudine celeste. Questa concezione teologica fondata sull’Amore [l’amore solidale] si presenta come una novità [come una “buona notizia, euanghelon” nella Storia del Pensiero Umano].
La più significativa delle sette Lettere cattoliche – quella che ha avuto il maggior numero di citazioni sul piano letterario e filosofico – è certamente la Prima Lettera di Giovanni che è un breve scritto di soli cinque capitoletti [le altre sei Lettere cattoliche sono ancora più brevi] che nei contenuti si presenta come un commento al Prologo del Vangelo secondo Giovanni e comincia proprio allo stesso modo: «La Parola [o Logos ò Logos] che dà la vita esisteva fin dal principio [en arche en arché]: noi l’abbiamo udita, l’abbiamo vista con i nostri occhi, l’abbiamo contemplata, l’abbiamo toccata con le nostre mani», e se volessimo sintetizzare l’argomento di cui tratta questo scritto, potremmo farlo con un’affermazione: “bisogna vivere nell’amore” [affermarlo è facile, farlo un po’ meno].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Andate a cercare sul volume della Bibbia le pagine che contengono le sette Lettere cattoliche: sfogliate queste pagine, osservate i titoli [in neretto] che annunciano gli argomenti trattati nei vari testi e leggetene qualche riga, fate degli assaggi…
E questo esercizio di lettura cominciamo a farlo fra poco insieme ad uno scrittore che si chiama Leone Tolstòj. Lo scrittore Leone Tolstòj [1828-1910] lo abbiamo incontrato molte volte nei nostri Percorsi, abbiamo trattato vari aspetti della sua ricca ed interessante biografia, abbiamo letto numerose pagine delle sue celebri opere, penso anche che lo incontreremo da vicino in un futuro Percorso quando ci dovremo occupare della sua morte, un argomento [la morte di Tolstòj] che non abbiamo ancora trattato nei particolari e che ha una notevole valenza letteraria che non possiamo ignorare. Quindi ora Tolstòj lo lasciamo [metaforicamente] vivere in modo che possa raccontare: che possa narrarci le sue storie.
Il romanzo-breve che stiamo per leggere – e che s’intitola interrogativamente Che cosa fa vivere le persone? – è stato scritto, nel 1881, con uno stile particolare: uno stile diretto simile a quello del racconto orale, uno stile difficile da tradurre ma molto efficace, e soprattutto funzionale all’obiettivo educativo che lo scrittore si è dato.
Tolstòj – così come ha fatto quando ha scritto I quattro libri di lettura per gli alunni della Scuola che ha fondato a Jasnaja Poljana per istruire i figli dei contadini [i suoi servi della gleba] ai quali dona le terre di sua proprietà – rielabora questa breve opera, intitolata [in modo interrogativo] Che cosa fa vivere le persone?, sulla base di una leggenda che ha sentito raccontare da un contadino, a veglia, dandogli quel tocco di realismo che sta alla base di tutti i romanzi allegorici scritti per far riflettere sulla necessità di coltivare i valori dell’Umanesimo, in particolare l’amore solidale. Ma Tolstòj – in quanto esegeta e studioso della Letteratura dei Vangeli [tuttora scomunicato dalla Chiesa Ortodossa per le sue posizioni eterodosse] – vuole anche ribadire che la Verità, la quale corrisponde all’Amore, si manifesta nella saggezza popolare e trova posto nelle leggende e nei racconti della tradizione legati alla cultura [la coltura] contadina e, quindi, per avvalorare questo fatto decide di far scaturire la sua narrazione da una serie di citazioni “canoniche” provenienti dalla Prima Lettera di Giovanni il cui argomento, l’Amore, è attinente al racconto che Tolstòj scrive.
E allora, per celebrare il tradizionale rituale della partenza, ci avvaliamo di questo racconto che propone l’intreccio tra la saggezza popolare e la sapienza evangelica.
LEGERE MULTUM….
Lev Tolstòj, Che cosa fa vivere le persone?
Noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita, perché amiamo il prossimo; chi non ama il prossimo rimane nella morte. (Prima Lettera di Giovanni III, 14)
E chi ha i mezzi per vivere nel mondo ma vedendo una persona nel bisogno le chiude il proprio cuore: in qual modo l’amore di Dio rimane in lui? (III, 11)
Figlioli miei! Amiamo non con la parola o con la lingua, ma con le opere e con la verità. (III, 18)
L’amore è da Dio, e chiunque ama è nato da Dio e conosce Dio. (IV,1)
Chi non ama, non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. (IV, 8)
Dio non l’ha mai veduto nessuno. Se noi ci amiamo l’un l’altro, Dio dimora in noi. (IV, 12)
Dio è amore, e chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui. (IV, 16)
Chi dice: io amo Dio, ma odia il prossimo, è un bugiardo; giacché chi non ama il prossimo, che egli vede, come può amare Dio, che egli non vede? (IV, 20)
Viveva un calzolaio, con la moglie e i figli, nella casa di un mužik. Non aveva né una casa sua, né terra sua, e per campare, lui con la sua famiglia, aveva soltanto il suo lavoro di calzolaio. Il pane costava caro, il lavoro invece costava poco, e così tutto quel che guadagnava lo spendeva per mangiare. Aveva, quel calzolaio, una sola pelliccia, che serviva tanto a lui che a sua moglie, e anche questa pelliccia era tutta a brandelli, tanto l’avevano portata; e da più d’un anno oramai il calzolaio metteva da parte i soldi per comperarsi qualche pelle di pecora e farcisi una pelliccia nuova. Verso l’autunno il calzolaio pensò di averne di soldi, quanti ne bastavano: che tre rubli di carta ce li aveva la baba nel baule, e altri cinque rubli e 20 kopejki glieli dovevano i mužikì, al paese. E al mattino presto il calzolaio si preparò ad andare al paese per la pelliccia. Si infilò sopra la camicia la giubbetta di nanchino imbottita della sua baba, e poi sopra il caffettano di panno, si mise in tasca il biglietto da tre rubli, si fece un bastone, e dopo mangiato partì. Pensava: “Cinque rubli me li daranno i mužikì, ci aggiungo i miei tre, e mi compro le pelli di pecora per la pelliccia”.
Il calzolaio arrivò al villaggio, passò da uno dei mužikì, e il mužik non era in casa, la sua baba promise che gli mandava il marito a portargli i soldi in settimana, ma lei soldi non gliene dette; lui passò da un altro mužik, ed era andato in miseria, quest’altro mužik, tanto che non ne aveva proprio più, di soldi, e gli dette soltanto 20 kopejki per uno stivale che gli aveva riparato. Il calzolaio allora pensò di prendersi le pelli di pecora a credito, ma il pellaio non glielo fece, il credito. «Prima portami i soldini» dice «e poi ti potrai pigliare quelle che vuoi, che lo sappiamo noialtri cosa vuol dire farsi pagare i debiti». Sicché non combinò proprio nessun affare il calzolaio, e se ne tornò soltanto con i 20 kopejki di quello stivale, e con un paio di vecchi vàlenki [Stivaloni di feltro, invernali], che gli aveva dato un mužik, da rivestirglieli di cuoio. Gli venne una gran tristezza, al calzolaio, quei 20 kopejki se li bevette tutti all’osteria, e poi si incamminò verso casa senza la pelliccia. Quel mattino gli era sembrato, al calzolaio, che ci fosse gelo, ma adesso che aveva bevuto, aveva caldo anche senza pelliccia. E così cammina cammina il calzolaio per la sua strada, con una mano picchia col suo bastoncino i cespugli gelati, e con l’altra fa dondolare gli stivali di feltro, e intanto parla con se stesso. “Io” dice “sto caldo anche senza pelliccia. Mi sono bevuto un quartino, e me lo sento in tutte le vene, adesso. Anche senza tulùp [l’ampia pelliccia senza cinta, tradizionale in Russia] posso stare, io. Cammino e non ci penso ai miei guai, io. Ecco che uomo sono! Che mi importa a me? Tirerò avanti anche senza la pelliccia. Io, per me, ne faccio a meno anche per tutta la vita, io. Solo che la baba ci resterà male. E poi dispiace, anche, tu lavori per lui, e lui ti prende in giro. Ma aspetta, aspetta; che se non mi porti i soldi, ti butto giù il cappello, io, veriddio altroché se te lo butto giù, io. Sennò cos’è ‘sta roba! Due grìvenniki [il grìvennik era la moneta da dieci kopejki.] mi dà! E che ci faccio io con due grìvenniki? Ci posso bere, e basta. Dice che è povero. Tu sei povero, e io non sono povero? Tu almeno ci hai la casa, le bestie, e tutto quanto, e io invece sono qua come mi vedi; tu hai il grano tuo, e io invece me lo devo comperare, il pane, e girala come ti pare, ma tre rubli alla settimana devi cacciarli fuori, soltanto per il pane. Adesso arrivo a casa, e la farina è già bell’e finita; e giù, caccia un altro rublo e mezzo. E allora tu dammi quello che mi spetta, no?”.
E così arriva, il calzolaio, alla cappella che c’è alla curva, e guarda, proprio dietro alla cappella c’è qualcosa di bianco. Stava già facendo buio. Ci guarda meglio, il calzolaio, e però non riesce lo stesso a distinguere cos’è. “Una pietra così non c’era, là dietro” pensa. “Sarà una bestia? Ma non somiglia mica a una bestia. Di testa somiglia a una persona, ma come mai è bianco. E che ci fa una persona qua?”. Si avvicinò, e lo vide bene. Che cosa strana: era proprio una persona, non si capiva se viva o morta, era uno che se ne stava lì tutto nudo, appoggiato alla cappella, e non si muoveva. Ebbe paura il calzolaio; pensò: “Qua qualcuno ha ammazzato una persona, l’ha spogliata e l’ha buttata lì. Se mi avvicino, poi va a finire che non me ne tiro più fuori”. E passò oltre, il calzolaio. Si lasciò alle spalle la cappella, e non la vide più quella persona. Passò oltre la cappella; si voltò e vide che l’uomo si era scostato dalla cappella, si muoveva, pareva quasi che lo guardasse. Si spaventò ancora di più, il calzolaio; e pensa: “Vado lì o proseguo? Se ci vado, magari va a finire male: chi lo sa chi è quello lì? Non è mica per qualche cosa di buono che è andato a finire lì, no? Io mi avvicino, e lui magari salta su e mi strozza, e non gli scappi più. E anche se non mi strozza, come te la sbrighi con uno così. Che ci fai, tutto nudo com’è? Mica posso togliermi io i vestiti, e dargli le ultime cose che ho. Macché, mi scampi Iddio e via svelto!”. E il calzolaio, affrettò il passo. Stava già lasciandosi indietro la cappella, ma la coscienza gli rimordeva. E si fermò, il calzolaio, in mezzo alla strada. “Ma Semën, che stai facendo?” dice a se stesso. “Lì c’è uno che muore nella disgrazia, e tu ti sei spaventato e te ne vai per la tua strada. Cos’è, sei diventato troppo ricco? Hai paura che ti portino via tutte le tue ricchezze? Ah, Sëma [diminutivo di Semën] non è bene far così”. Semën si voltò e andò da quella persona.
Semën si avvicina all’uomo, lo guarda bene e vede: è un uomo giovane, in forze, non ha segni di botte sul corpo, solo che si vede bene che è tutto intirizzito e spaventato; se ne sta lì appoggiato e non guarda verso Semën, come se fosse talmente debole da non riuscir nemmeno ad alzare gli occhi. Gli si fece vicino, Semën, e a un tratto, come se si fosse ripreso, l’uomo alzò la testa, aprì gli occhi, e guardò Semën. E da quello sguardo quella persona piacque a Semën. Allora gettò a terra i vàlenki, si tolse la sua cintura di stoffa, gettò la cintura sui vàlenki, si tolse il caffettano. «Basta star qua a pensare!» dice. «Vestiti, no? Dai, forza!». Prese l’uomo di sotto il gomito, provò a farlo alzare. E l’uomo si alzò. E vede, Semën, che il corpo ce l’ha fine, pulito, le mani e i piedi non sono sgraffiati, e il volto è bello. Semën gli gettò il caffettano sulle spalle, ma l’uomo non riusciva a infilare le maniche. Semën gli guidò le braccia, glielo infilò, abbottonò il caffettano e gli legò ben stretta la cintola. Semën si tolse il suo berretto lacero, voleva metterlo in testa all’uomo nudo, ma sentì freddo alla testa, e pensa: “Io ce l’ho tutta calva la testa, e lui invece ha capelli ricci, lunghi”. Se lo rimise. “Meglio che gli metta gli stivali”. Lo fece sedere e gli infilò gli stivaloni di feltro. Lo calzò, il calzolaio, e poi dice: «Ecco qua, fratello. Dai, sgranchisciti un po’ e scaldati. E gli affari li sbrigheranno anche senza di noi, eh? A camminare ci riesci?». Sta lì in piedi, l’uomo, e guarda con tenerezza Semën, ma a parlare non ci riesce. «Ehi, ma perché non parli? Mica dobbiamo passare l’inverno qua. Bisogna andare a casa. Su, forza, ecco qua il mio bastone, appoggiatici se non riesci a star su. Dai, muovi le gambe!».
E l’uomo camminò. E camminava agile, non restava indietro. Vanno lungo la strada, e dice Semën: «Tu insomma di chi sei?» [È una formula più frequente, nella parlata popolare russa, che non «tu chi sei?», «di chi sei» significa propriamente: qual è il tuo barin, quale la tua famiglia?]. «Non sono di qua». «Be’, quelli di qua li conosco, io. E com’è che sei finito qua alla cappella?». «Non posso dirlo». «Ti avrà fatto del male qualcuno, eh?». «Nessuno mi ha fatto del male. È stato Dio che mi ha punito». «Ah questo si sa, è sempre Dio che fa tutto. Però da qualche parte bisogna pur andare, no? E tu dov’è che devi andare?». «Per me fa lo stesso». Si stupì, Semën. A vederlo, non sembrava uno di quelli che fanno a botte, e parlava dolce, però non diceva niente di chi era e da dove veniva. E pensò Semën: “Mah, ne capitano tante di cose” e dice all’uomo: «Allora andiamo a casa mia, così almeno te ne vieni via di lì, pian pianino, eh?». E cammina, Semën, e il pellegrino non gli rimane indietro, cammina accanto a lui. Si levò il vento, fece venire i brividi a Semën sotto la camicia, e cominciò a passargli l’ubriacatura, e cominciava a sentir freddo. E così cammina, tira su col naso, si tiene stretta sul petto la sua giubbetta da donna e pensa: “Eccotela la pelliccia, sono andato a prendere la pelliccia, e torno a casa senza caffettano e per di più porto dietro un tizio nudo. Ah, non mi loderà di certo, Matrëna!”. E non appena pensava a Matrëna, si sentiva triste. Ma poi, appena si volgeva verso il pellegrino, e si ricordava di come lui l’aveva guardato là vicino alla cappella, subito gli si ravvivava il cuore... …
E così, insieme al calzolaio Semën e a questo silenzioso e misterioso giovane, abbiamo, lentamente, preso il passo e, nel momento della partenza, la Scuola deve raccomandare alle studentesse e agli studenti di essere pazienti, tenaci e determinati. Voi, queste qualità, queste virtù – la pazienza, la tenacia, la determinazione – [e lo dimostra il fatto che siete qui] le possedete e queste qualità sono necessarie, oggi, per affrontare uno dei nodi cruciali che riguarda la società in cui viviamo: in questi ultimi tre decenni è aumentato il potere della “dittatura dell’ignoranza” e [secondo i dati di Eurostat] l’81% degli Italiani soffre di varie patologie legate all’analfabetismo [ne abbiamo parlato la sera del 14 giugno scorso nella Biblioteca di Impruneta ricordando i trent’anni di questa esperienza di alfabetizzazione dicendo che c’è un legame tra la salute e l’esercizio della lettura e della scrittura].
Il primo danno [e tutte le studiose e gli studiosi sono d’accordo] che crea la “dittatura dell’ignoranza” è la perdita della memoria. Se siete qui questa sera è anche perché – in quanto cittadine e cittadini consapevoli – avete capito perfettamente il pericolo insito in questa grave situazione: la perdita della memoria favorisce il degrado cognitivo e il degrado cognitivo è la prima causa che porta verso l’affievolirsi dei valori costitutivi dell’Umanesimo.
Oltre alla salvaguardia della “memoria individuale e collettiva”, quali obiettivi didattici propone questo Percorso di alfabetizzazione culturale che utilizza la Storia del Pensiero Umano in funzione dell’esercizio della lettura e della scrittura: per quale motivo dobbiamo frequentare settimanalmente la Scuola pubblica degli Adulti? Quasi tutte e quasi tutti voi siete già al corrente della natura e degli obiettivi di questo Percorso di studio ma la celebrazione del tradizionale rituale della partenza ci obbliga a ravvivarne il ricordo: i rituali sono ripetitivi proprio perché servono per ravvivare la memoria e “repetita iuvant [le cose ripetute sono di giovamento]”.
Il primo obiettivo didattico che questo viaggio di studio si propone è quello di “imparare ad ascoltare con attenzione”: l’attenzione è una facoltà che si apprende e sulla quale è necessario esercitarsi. Imparare ad ascoltare significa imparare a selezionare le parole, a controllare le idee, a catalogare i pensieri e, quindi, a seguire le varie fasi di un ragionamento progressivo.
Il secondo obiettivo è quello di incentivare l’esercizio della lettura e della scrittura: la lettura e la scrittura sono due attività fondamentali per la riflessione e per lo sviluppo del processo di apprendimento. L’esercizio quotidiano della lettura e della scrittura mette in moto l’attività cognitiva che ci permette di imparare.
La persona – e lo sapete [ma il rituale della partenza è ripetitivo] – impara attraverso sei azioni fondamentali [e chi vuole usufruire del diritto-dovere all’Apprendimento deve esserne sempre consapevole], le azioni cognitive che ci permettono di imparare ad imparare sono: conoscere, capire, applicare, analizzare, sintetizzare e valutare. Ogni itinerario [l’andamento di ogni Lezione che, di settimana in settimana, percorreremo] si sviluppa sotto forma di “ragionamento progressivo” scandito dalle azioni attraverso cui si sviluppa l’Apprendimento e, di conseguenza [e questo è il compito specifico della Scuola] ci eserciteremo a conoscere, a capire, ad applicare, ad analizzare, a sintetizzare e a valutare.
Ci eserciteremo a “conoscere le parole-chiave” più importanti [una o due] del repertorio previsto per ogni tappa perché senza “conoscere” le parole-chiave della Storia del Pensiero Umano non s’impara a leggere.
Ci eserciteremo a “capire le idee più significative” che troveremo, strada facendo, sul territorio che attraverseremo perché non si impara a leggere senza “capire” le idee-cardine della Storia del Pensiero Umano.
Ci eserciteremo ad “applicare” e, nel nostro Percorso, “l’applicarsi” corrisponde all’esercizio della lettura e della scrittura … Nel nostro paese queste due attività cognitive – il leggere e lo scrivere – sono marginali e dipende, prima di tutto, dal fatto che l’81% della popolazione, nella fascia tra i 18 e i 65 anni, si trova in condizione di analfabetismo.
Come ci si deve applicare nella lettura e nella scrittura? Dobbiamo acquisire la buona abitudine di leggere e di scrivere [di applicarci intellettualmente] per dieci minuti al giorno: è un buon investimento in intelligenza! Per quanto riguarda la quantità, il leggere dieci minuti al giorno, il “legere multum” [“legere multum” in latino significa “leggere in modica quantità ma costantemente e con la dovuta attenzione”], ebbene, leggere dieci minuti al giorno significa leggere quattro pagine e, quindi, circa 1500 pagine in un anno, vale a dire un certo numero di libri: “Per leggere molti libri [multa] – c’è scritto anche nel programma del 1247 della facoltà delle Arti di Parigi – bisogna leggere poco e con attenzione [multum] quotidianamente [Oportet cotidie legĕre multum]”. Scrivere quattro righe al giorno, poi, significa, in un anno scolastico, riempire per intero il proprio quaderno e, quando lo rileggeremo scopriremo quanto sia importante “dare un’anima e un corpo alla memoria”.
Ci eserciteremo poi ad “analizzare”, e “analizzare” significa mettere in ordine i pensieri che ci vengono in mente attraverso le “trame” proposte dai repertori del nostro Percorso.
Ci eserciteremo a “sintetizzare”, e “sintetizzare” significa “mettere per iscritto” un nostro pensiero, uno di quelli [quello che ci piace di più] che siamo state, che siamo stati capaci di mettere a fuoco e di ordinare: bastano quattro righe scritte per far sì che un nostro pensiero si materializzi, e quattro righe di scrittura “autobiografica” sono una bella cedola di investimento in intelligenza che serve, giorno per giorno, anche ad allargare e ad allungare la nostra vita.
Infine dobbiamo esercitarci a “valutare”, ad “auto-valutare” l’andamento del nostro cammino intellettuale, e questo dispositivo dell’auto-valutazione è legato allo svolgimento del “compito” che – sebbene facoltativo – la Scuola propone di eseguire invitando ciascuna e ciascuno di voi a dedicarsi all’uso del repertorio E TRAMA [il fascicolo che avete tra le mani] da utilizzare, in un tempo che va dai dieci minuti alle due ore, nel corso della settimana, nell’intervallo tra un itinerario e l’altro.
Il conoscere, il capire, l’applicarsi, l’analizzare, il sintetizzare e il valutare sono le “azioni cognitive” attraverso le quali ciascuna e ciascuno di noi ha la possibilità di cominciare a misurare il proprio “tasso di apprendimento” perché l’intento del nostro viaggio è quello di stimolare il funzionamento dei meccanismi utili per imparare ad imparare con l’obiettivo di gettare le basi perché si possano creare sul territorio una serie di “officine dell’Apprendimento” – e ce ne sono già di attive e sono le Associazioni culturali di cui molte e molti di voi fanno parte [l’Alfabetizzazione deve agire sotto traccia per essere a servizio delle cittadine e dei cittadini perché possano creare la cultura] – in modo che si possa sviluppare una “comunità educante”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Tutta l’attività didattica messa in atto la si trova contenuta su due siti che potete consultare e ai quali è utile iscriversi: www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net…
Nel corso del nostro viaggio osserveremo tanti “paesaggi intellettuali” e verremo a contatto con tanti “contenuti” [nozioni, dati, date, luoghi, personaggi, ragionamenti], e succederà che – come dicono i manuali di tecnologia dell’apprendimento – «dei contenuti di una Lezione, nella fase del primo impatto [dell’affabulazione], in media, ne perderemo oltre il 70%, mentre circa il 30% rimarrà, in modo più o meno frammentario, nella nostra mente», e questo per tutta una serie di limitazioni che ciascuna e ciascuno di noi, in quanto essere umano, possiede [per fortuna la nostra memoria non funziona come un registratore ma può obliare].
L’obiettivo principale in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura non consiste nell’immagazzinare contenuti: questo esercizio lo possiamo fare in un secondo momento rileggendoci con calma i testi del REPERTORIO E TRAMA e leggendoci il testo integrale della Lezione che viene inserito sui nostri siti [e che possiamo stampare e rileggere ad libitum], ma l’obiettivo principale in un Percorso di didattica della lettura e della scrittura consiste nell’esercitare la mente all’ascolto, alla selezione, alla catalogazione, in modo da imparare ad identificare le forme contenute nella nostra mente perché senza contenitori la sostanza si disperde disordinatamente. A questo proposito è doveroso [come sempre nel tradizionale e ripetitivo rituale della partenza] citare ancora una volta il signor Michel de Montaigne che nei suoi Saggi [1580-1588] ci ricorda che l’obiettivo dell’Educazione e della Scuola consiste nel favorire la formazione di “una testa ben fatta, piuttosto che di una testa ben piena” e, quindi, non è la Lezione che deve entrare nella vostra mente [per produrre una sorta di indottrinamento] ma è la vostra mente che deve entrare nella Lezione in modo da poterne utilizzare gli elementi utili perché ciascuna e ciascuno possa investire in intelligenza come meglio crede.
E ora, per concludere, leggiamo ancora alcune pagine dal breve-romanzo intitolato Che cosa fa vivere le persone? scritto da Leone Tolstòj nel 1881 anche per fungere da veicolo nel tradizionale rituale della partenza del nostro trentesimo viaggio di studio.
LEGERE MULTUM….
Lev Tolstòj, Che cosa fa vivere le persone?
Aveva sbrigato presto le sue faccende, la moglie di Semën. Aveva spaccato la legna, aveva portato l’acqua, aveva dato da mangiare ai bambini, aveva mangiato anche lei qualcosina e si era messa a pensare; si era messa a pensare a quando mettere in forno i pani: oggi o domani? Di pane ne era rimasto ancora un pezzo grande. “Se” pensava “Semën ha pranzato là e stasera non mangerà tanto, per domani dovrà bastare, il pane”. Girava e rigirava, Matrëna, il suo pezzo di pane, e pensava: “No, non li metto in forno oggi, i pani. Di farina ne è rimasta per un’infornata sola. Tireremo ancora fino a venerdì”. Matrëna ripose il pane e si sedette al tavolo a cucire una pezza sulla camicia del marito. Cuce e intanto pensa, Matrëna, al marito, alle pelli di pecora che avrebbe portato a casa, per la pelliccia. “Purché non lo imbrogli, il pellaio. Che è talmente un sempliciotto il mio uomo. Non imbroglia mai nessuno, e lui invece perfino un bambino piccolo lo mena per il naso. Otto rubli non son mica pochi soldi. Ci si può comperare una buona pelliccia. L’inverno scorso quanto abbiamo penato, senza pelliccia! Non si poteva andare neanche al fiume, da nessuna parte proprio. E anche oggi, ecco, è uscito lui e si è messo addosso tutto quanto, e io non ho più niente da mettere. E non è mica da poco che è uscito, però. Sarebbe anche ora che tornasse. Sarà mica andato a spassarsela, il mio bel falco?”.
Appena Matrëna l’ebbe pensato, cricchiarono i gradini del porticato, e qualcuno entrò. Matrëna puntò l’ago, uscì nell’andito. Vede che sono entrati in due: Semën e con lui un mužìk senza cappello e con i vàlenki. Subito Matrëna sentì venire odore di vodka dal marito. “Eccolo lì” pensò “è proprio andato a spassarsela”. E quando vide che era senza caffettano e aveva indosso soltanto la giubbetta, e che non aveva niente in mano, e stava zitto, e si era fatto piccino, allora le si spezzò proprio il cuore, a Matrëna. “Si è bevuto tutti i soldi” pensò “è andato a spassarsela con qualche poco di buono, e perfino qua a casa se l’è portato”. Li fece entrare nell’isba, Matrëna, entrò anche lei, e vede che l’uomo è un forestiero, giovane, magrolino, e che il caffettano che ha indosso è il loro. La camicia non gli si vede sotto il caffettano, e il berretto non ce l’ha. E appena è entrato, è rimasto lì, senza muoversi più, e non alzava nemmeno gli occhi. E pensa, Matrëna: “non è una brava persona, questo qua, ha paura”. Fece il broncio, Matrëna, andò alla stufa, e intanto stava a vedere quel che avrebbero fatto loro. Semën si tolse il berretto, si sedette sulla panca, buono buono. «Be’» dice «Matrëna, prepara un po’ la cena, insomma!». Matrëna borbottò qualcosa tra sé e sé, sotto il naso. E si era messa vicino alla stufa e se ne stava lì così, e non si muoveva: guardava ora l’uno ora l’altro e scuoteva la testa, e basta. E lo vede bene, Semën, che la baba è proprio furiosa, ma che farci: e fa finta di non essersene accorto, e prende per il braccio il pellegrino. «Siediti fratello» dice «adesso ceniamo». Il pellegrino si sedette sulla panca. «Ma cos’è, non hai preparato?». Le venne rabbia, a Matrëna. «Non è per te che ho preparato da mangiare, io. Perfino il cervello ti sei bevuto, me ne sono accorta sai? Sei andato a comperare la pelliccia, e torni senza neanche il caffettano, e ti sei anche portato dietro questo vagabondo nudo. Non ce l’ho io la cena per voi, ubriaconi». «Basta, Matrëna, cosa fai andare la lingua così per niente! Prima chiedi chi è questo qua …». «E tu prima dimmi, dov’è che li hai messi i soldi?». Semën frugò nel caffettano, tirò fuori il biglietto, lo spiegò. «Eccoli qua, i soldi, è che Trìfonov non me li ha mica dati, ha promesso che me li manda domani». Si arrabbiò ancora di più, Matrëna: la pelliccia non l’aveva comperata, e l’ultimo caffettano che gli era rimasto lo aveva infilato a quel tizio nudo, e se l’era portato a casa. Prese il biglietto dal tavolo, andò a nasconderlo, e intanto dice: «Non ce l’ho, la cena. Mica si può dar da mangiare a tutti i vagabondi nudi che ci sono in giro».
«Eh, Matrëna, tienla ferma la lingua. Ascolta, prima, che cosa ci ho da dire io…». «Ah, c’è niente da ascoltare da un ubriaco scemo. Mica per niente non volevo sposarti, a te, ubriacone che sei. La mamma mi aveva dato i lini, mi aveva dato, e tu te li sei bevuti; sei andato a comperare la pelliccia, e te la sei bevuta anche quella». Provò a spiegarle, Semën, che si era bevuto soltanto quei 20 kopejki; voleva raccontarle dove l’aveva trovato quell’uomo lì, ma Matrëna neanche una parola gli lasciò dire: subito lo rimbeccava, e gliene diceva di tutti i colori e talmente in fretta parlava che pareva dicesse due parole alla volta. E tutto gli ritirava fuori, anche certe cose che eran successe magari dieci anni prima. Parlava, parlava Matrëna, poi d’un balzo andò da Semën, lo prese per la manica. «Dammela qua la mia giubba. Questa sola m’è rimasta, e anche questa m’hai tolta e te la sei tenuta tu. Dammela, cane lentigginoso, ti venga un colpo, ti venga!». Cominciò a togliersi la giubbetta, Semën, gli si impigliò una manica, la baba gliela strappò di mano e la giubbetta si strappò lungo le cuciture. Matrëna la afferrò, se la buttò sulla testa e prese la porta. Voleva andar via ma si fermò: un po’ perché ci aveva la rabbia nel cuore, e voleva fargli un’altra scenata, e un po’, però, anche perché voleva sapere chi fosse, quell’uomo lì.
Si fermò. Matrëna, e dice: «Fosse una brava persona, non sarebbe lì tutto nudo, e invece non ha nemmeno la camicia, non ha. Se fossi andato a far cose buone, me l’avresti detto da dove me l’hai portato, un elegantone come quello lì». «Ma te lo dico sì: stavo andando, e vedo che vicino alla cappella c’è seduto questo qua, spogliato, tutto intirizzito. Non è mica estate da andare in giro nudi. Be’, è proprio stato Dio che me lo ha fatto incontrare, ‘sto qua, che sennò era perduto. E insomma, che potevo fare? Eh, ne capitano di cose, valle a sapere! L’ho preso, l’ho vestito e l’ho portato qua. Calmati il cuore. È peccato, Matrëna. Tutti si deve morire». Matrëna volle ancora imprecare, ma guardò il pellegrino e tacque. Se ne sta lì seduto, il pellegrino, e non s’è nemmeno mai mosso da quando si è seduto sull’orlo della panca. Le mani le tiene sulle ginocchia, la testa l’ha china sul petto, gli occhi non li apre e la faccia l’ha tutta corrugata, come se qualcosa lo stesse soffocando. Tacque, Matrëna. E Semën dice: «Matrona, ma Dio non c’è in te?». Udì queste parole, Matrëna, guardò ancora il pellegrino, e a un tratto il cuore le si sciolse. Si scostò dalla porta, andò all’angolo della stufa, prese la cena. Mise una scodella sul tavolo, ci versò lo kvas, mise lì l’ultimo pane. Portò il coltello e i cucchiai. «Be’, mangiate, no?» dice. Semën fece avvicinare il pellegrino. «Forza, da bravo» dice. Semën tagliò il pane, lo spezzettò, e cominciarono a mangiare. E Matrëna sedeva all’angolo del tavolo, si era appoggiata a un gomito e guardava il pellegrino. Ed ebbe compassione, Matrëna, del pellegrino, e le piacque. E a un tratto il pellegrino si rallegrò, smise di corrugarsi il viso, alzò gli occhi verso Matrëna e sorrise. Cenarono: poi la baba sparecchiò e cominciò a chiedergli, al pellegrino: «Ma tu di chi saresti?». «Non sono di qua». «E com’è che sei finito sulla strada?». «Non posso dirlo». «Chi è che ti ha rubato tutto quanto?». «È Dio che mi ha punito». «E stavi lì tutto nudo?». «Così stavo, nudo, a congelare. Mi ha visto Semën, ha avuto compassione, si è tolto il caffettano, me l’ha infilato e mi ha comandato di venir qua. E qua tu mi hai dato da mangiare, da bere, hai avuto compassione di me. Vi salvi il Signore!». Si alzò, Matrëna, prese dalla finestra una camicia vecchia di Semën, quella stessa che stava rattoppando, la dette al pellegrino; trovò anche un paio di calzoni, glieli dette. «To’ tieni, vedo che non hai nemmeno la camicia. Vestiti e stenditi un po’ dove ti piace, sulla panca o sulla stufa». Il pellegrino si tolse il caffettano, si infilò la camicia e i calzoni e si distese sulla panca. Matrëna spense la luce, prese il caffettano e si distese vicino al marito. Si coprì, Matrëna, con un lembo del caffettano, e stava lì distesa ma non dormiva, quel pellegrino non le usciva dai pensieri. Quando si ricordava che lui s’era mangiato l’ultimo pezzo di pane e che per domani non ce n’era rimasto più, di pane, e quando si ricordava che gli aveva dato la camicia e i calzoni, si sentiva dentro una tale malinconia, Matrëna; ma quando si ricordava di come aveva sorriso, le si ravvivava subito il cuore. A lungo non riuscì a dormire, Matrëna, e sentiva che anche Semën non stava dormendo, e si tirava addosso il caffettano. «Semën!». «Eh!». «L’abbiamo finito tutto, il pane, e io per domani non ne ho mica messo in forno. Per domani non so come si farà. Mi sa che dovrò chiederlo alla comare Malan’ja». «Vivremo e mangeremo». Se ne rimase lì per un po’ in silenzio, la baba. «E quello lì, sai, lo si vede che è una brava persona, solo chissà come mai non dice niente di chi è, da dove viene…». «Si vede che non può». «Sëm!». «Eh!». «Noi diamo agli altri, e allora perché nessuno ci dà niente a noi?». Non sapeva cosa dire, Semën. E allora le dice: «Be’, basta adesso far chiacchiere». E si voltò, e si addormentò. …
La prossima settimana continueremo a leggere il testo di questo romanzo-breve e cominceremo a muoverci riflettendo sul rapporto che c’è tra il termine “implosione” e il termine “amore”.
E così anche questo viaggio di studio – dell’anno scolastico 2013-2014 –, con il ripetitivo ma doveroso rituale della partenza sta per iniziare [anche se il rituale della partenza non lo abbiamo ancora celebrato completamente, ci sono ancora alcuni atti importanti che dobbiamo compiere la prossima settimana] .
Abbiamo dunque preso il passo sulla scia dell’Alfabetizzazione e dell’Apprendimento permanente perché l’Alfabetizzazione culturale e funzionale è un bene comune [come il rito quando lo si celebra a fin di bene] e l’Apprendimento permanente è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui.
Un viaggio inizia sempre con un primo passo: non so se faremo un grande viaggio [lungo senz’altro] ma questa sera un piccolo passo lo abbiamo comunque compiuto.
Buon viaggio…
Ministero della Pubblica Istruzione
CENTRI TERRITORIALI PERMANENTI PER L'ISTRUZIONE IN ETÀ ADULTA
Istituto Comprensivo “Antonino Caponnetto” Bagno a Ripoli Antella Grassina - Firenze
ANNO SCOLASTICO 2013 2014
Percorso di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura
Nel territorio della sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale …
prof. Giuseppe Nibbi
Sui siti… www.inantibagno.it e www.scuolantibagno.net
Centri Territoriali Permanenti per l’istruzione in età adulta
Percorsi di Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura
Dove come quando …
Tutti i mercoledì: dal 9 ottobre 2013 al 28 maggio 2014 dalle ore 20.30 alle 23.30
presso la Scuola Media F. Redi, Antella - Bagno a Ripoli, Firenze [tel. 055 640645]
Tutti i giovedì: dal 10 ottobre 2013 al 29 maggio 2014 dalle ore 20.30 alle 23.30
presso la Scuola Media P. Levi, Tavarnuzze - Impruneta, Firenze
Tutti i venerdì: dall’ 11 ottobre 2013 al 6 giugno 2014 dalle ore 17 alle 19.30
Centro Soci Coop. di Ponte a Greve, Firenze