Prof. Giuseppe Nibbi Tragòs oidos 2003 26-27-28 novembre 2003
LA TRAGEDIA È IN CORRISPONDENZA CON IL FUOCO…
Abbiamo incontrato, la scorsa settimana, uno straordinario personaggio mitico: Prometeo, il titano che ruba il fuoco agli dèi! Abbiamo capito che nella tragedia di Prometeo il fuoco è una metafora del sapere! Prometeo ruba il fuoco del sapere, della sapienza che è il dono più ambito, il potere più grande. La tragedia, la rete dei racconti primordiali, contiene il fuoco del sapere, perché ha la pretesa di svelarci i misteri delle origini: che cosa è successo in principio? La tragedia è in corrispondenza con la conoscenza del racconto delle origini e la consapevolezza di questo sapere ha come simbolo mitico, il fuoco. Quindi la tragedia è in corrispondenza con il fuoco mitico delle origini, con la sapienza che tutto ha generato (qualcosa brucia sempre in scena). E il fuoco – se ci pensate – ha una doppia valenza: illumina e brucia. Che elemento straordinario è il fuoco! E come attira il nostro sguardo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Quale altra parola ti ricorda la parola: fuoco?
Scrivi quattro righe in proposito…
Il fuoco illumina, quindi fa conoscere e quindi sa far pensare. E il personaggio che nella tradizione della tragedia ha raccolto l’eredità del fuoco nella sua doppia valenza è Odisseo, Ulisse: Odisseo conosce il fuoco, lo incontra, lo sfida. Odisseo è colui che si distacca fra tutti i capi achei perché "sa pensare". Questa citazione esemplare la troviamo nel famoso canto X dell’Iliade ripetuta per ben tre volte: "Odisseo, colui che sa pensare". Odisseo è vicino al fuoco, e il fuoco illumina, fa conoscere, e quindi sa far pensare.
Odisseo non ha il potere militare di Agamennone, non ha il passo sfrecciante di Achille, non ha l'eloquenza massiccia di Diomede, ne la parlantina rotonda di Nestore, ma, al momento giusto, e nella giusta occasione, sa trovare la parola-chiave, e non una parola di troppo. Il famoso dramma satiresco di Euripide intitolato Il Ciclope (databile intorno al 420 a.C.) è l’unico testo di dramma satiresco che ci è pervenuto intero. Per essere precisi, qualche anno fa, è stato scoperto, in un papiro, anche un dramma satiresco di Sofocle (databile anch’esso, intorno al 420 a.C.), dal titolo I cercatori di tracce, ma c’è solo una parte della prima parte. Il dramma satiresco è un genere letterario, simile alla tragedia, però il trattamento del contenuto è satirico, ironico, anche comico. Il Ciclope di Euripide è un testo che rielabora il famoso episodio del libro IX dell’Odissea, quando Ulisse e i suoi compagni incontrano Polifemo e vivono una drammatica esperienza. Euripide mette bene in evidenza come Ulisse, nella caverna buia del Ciclope, sa ben pensare e sa trovare la parola-chiave, la parola giusta per dimostrare che il sapere, il conoscere e l’intelligenza sono superiori alla brutalità, all’ignoranza: "Come ti chiami, straniero?", chiede, con prepotenza, Poliremo, e Ulisse, sconcertando i compagni, i quali vorrebbero dicesse il suo vero nome, un nome conosciuto, un nome che dovrebbe incutere rispetto e anche timore, risponde invece in modo, lì per lì, paradossale: "Mi chiamo Nessuno, forse non mi hai mai sentito nominare", ma sono un essere umano che chiede rispetto e ospitalità. Questa parola-chiave scatenerà la vendetta, la rivincita finale e comica, in questo caso del dramma satiresco la rivincita del fuoco dell’intelligenza sul gelo della forza bruta.
Odisseo – leggiamo nel canto X dell’Iliade – è colui che sa «uscire da un braciere ardente».
LEGERE MULTUM….
Omero, Iliade Canto X 246 272 280
Odisseo, colui che sa pensare, è colui che sa uscire (nostèsaimen)
da un braciere ardente…
Nella parola che traduce quell’uscire (dal fuoco), nostesaimen nostèsaimen, c’è la parola nostos nòstos, che significa ritorno: Odisseo è il protagonista del più fantastico viaggio di ritorno (nòstos) che sia mai stato scritto, e che continua ad essere ripensato e riscritto.
L’uscire indenne dal fuoco è la metafora del "saper pensare" e per Odisseo "saper pensare", "saper investire in intelligenza" è un ritornare a se stesso. Nessuno sa ritornare come Odisseo. Questo vale anche per noi: un’esperienza di conoscenza, di studio, di investimento in intelligenza è un continuo ritornare a se stessi, forse, anche un continuo ritornare a Scuola.
Allora: Odisseo conosce il fuoco, lo incontra, lo sfida. E questo fatto, come è successo per Prometeo, lo avvicina, lo rende concomitante, come figura, alla cultura giudaico-cristiana. Ancora una volta, non possiamo non citare e non riflettere sugli Atti degli Apostoli che conosciamo. Negli Atti, la presenza di Gesù Cristo risorto, dopo la sua Ascensione al cielo, si manifesta nella Pentecoste (cinquanta giorni dopo) sotto forma di lingue di fuoco che donano, a chi lo riceve, la conoscenza, la sapienza, la comprensione. Sotto forma di lingue si fuoco si manifesta il Pneuma, lo Spirito di Dio, il Logos, la Parola, il Pensiero, la Sapienza di Dio. E anche gli Apostoli, come Odisseo, "escono dal braciere ardente" e cominciano ad esprimersi in società.
Voi intuite che ci sono moltissimi studi, dal 1700 ad oggi, che fanno la sinossi, cioè che mettono in parallelo la cultura biblica e la cultura dei Vangeli con i modelli simbolici della tragedia: leggiamo un famoso frammento (4 vv,) dal cap. 2 degli Atti degli Apostoli.
LEGERE MULTUM….
Atti degli Apostoli 2, 1-4
Quando venne il giorno della Pentecoste, i credenti erano riuniti tutti nello stesso luogo. All’improvviso si sentì un rumore in cielo, come quando tira un forte vento, e riempì tutta la casa dove si trovavano. Allora videro qualcosa di simile a lingue di fuoco che si separavano e si posavano sopra ciascuno di loro. Tutti furono ripieni di Spirito Santo e si misero a parlare in altre lingue, come lo Spirito concedeva loro di esprimersi.
Questo testo degli Atti ha la sua fonte nel cap. 12 della Lettera ai Corinti di Paolo di Tarso (54-55 d.C. quindi un testo di quarant’anni prima) dove descrive i doni dello Spirito. Dobbiamo ricordarci che quando si parla di Spirito (Pneuma), nella cultura greca, il riferimento va a Eraclito di Efeso (VI-V sec. a.C) in cui Spirito e Fuoco sono in corrispondenza, per essere precisi scrive Eraclito: lo Spirito emana dal Fuoco (Pìr) che è il principio (l’arché) supremo.
Odisseo "sa uscire dal fuoco" ed è come se una lingua di fuoco fosse posata sul suo capo. Ogni volta, per la curiosità di conoscere, Odisseo rischia di bruciare, di annientarsi: ma è un rischio che bisogna correre! Il fuoco illumina e brucia. Il fuoco è l’elemento che simboleggia l’incontro tra l’essere umano e il Logos, la Parola, il Pensiero.
Negli Atti degli Apostoli, il Logos, lo Spirito di Dio, la Sapienza di Dio, può bruciare o può illuminare. Nella cultura degli Atti degli Apostoli, lo Spirito, sotto forma di lingue di fuoco, illumina e brucia, distrugge la religione: il rito, il sacrificio, la certezza, la conservazione, il recinto, l’ideologia. Per contro, lo Spirito, sotto forma di lingue di fuoco, illumina e fa bruciare, fa ardere la fede, l’ideale: l’umanità, l’affetto, la ricerca, la sapienza, la saggezza. Nella cultura degli Atti degli Apostoli si attua, attraverso il fuoco che illumina e brucia, una netta distinzione tra la religione, come fenomeno che "rèlega", schiavizza, disumanizza l’individuo e la fede come fenomeno che libera l’essere umano, che lo rende consapevole del fatto che qualcuno (che può anche chiamarsi signor Nessuno) – sia Dio o il prossimo – può essere solidale: illuminato, ardente. Questa distinzione fondamentale tra la religione e la fede è uno dei fenomeni culturali più importanti che la Storia del pensiero umano abbia elaborato nel corso dei secoli. E la cultura della tragedia ha contribuito a questa elaborazione, e la figura mitica di Odisseo rappresenta questo fenomeno intellettuale.
Nella cultura della tragedia c’è un pezzo di letteratura molto significativo che dobbiamo conoscere e sul quale dobbiamo riflettere. Questo testo si trova in un poema che continuiamo a sfiorare: l’Iliade, ed è il famoso X canto. Più volte abbiamo citato l’Iliade, e ne abbiamo parlato non in modo organico, anche perché per fare questo dovremmo dedicare a quest’opera un intero Percorso annuale, e questo vale anche per l’Odissea, l’altro grande poema omerico. Adesso forniamo alcune indicazioni sull’Iliade da utilizzare in funzione dell’itinerario di questa sera in cui rappresentiamo la tragedia di Odisseo.
Uno dei personaggi dell’Iliade è Odisseo, Ulisse, il quale è protagonista soprattutto nel famoso canto X. Che cos’ha di così speciale questo canto X? Dobbiamo sapere che l’Iliade e l’Odissea sono due opere complesse, le quali naturalmente sono passate attraverso un secolare processo di elaborazione. Questi due poemi non sono nati bell’e confezionati come noi li possediamo oggi: ordinati e codificati in 24 canti ciascuno così come sono. Gli aedi, i cantautori, tra l’VIII e il VI secolo a.C., hanno composto canzoni, ballate, poemetti su alcuni grandi argomenti, poi fusi insieme: l’assedio di Troia e l’ira di Achille e i viaggi di ritorno, i nostoi, dei guerrieri greci da Troia verso casa, non sarà facile tornare per nessuno (il testo dell’Iliade, per esempio, è composto dalla ricucitura, dalla rapsodia di 16 poemetti). Questi problemi di filologia e di esegesi omerica sono stati studiati, con grande interesse a partire dal 1700, da alcuni studiosi: primo fra tutti Gian Battista Vico nel 1730 nei suoi Principi di Scienza Nuova, e poi dal tedesco Federico Augusto Wolff nell’opera Prologomena ad Omerum (1795). Questi studiosi ci hanno fatto capire che tutto il materiale cantato nei secoli dagli aedi (canzoni, ballate, poemetti…) è stato poi assemblato in due poemi, Iliade e Odissea e i due poemi sono stati ordinati e codificati successivamente dai cosiddetti grammatici alessandrini, tra il III sec. a.C e il III sec. d.C. (Alessandria, con le sue famose scuole e la sua leggendaria biblioteca, è sempre stata un grande laboratorio culturale, lo sapete!). Qualche anno fa – e molti si ricorderanno – abbiamo studiato quella straordinaria operazione culturale alessandrina che è stata la traduzione in greco dei testi dell’Antico Testamento (Filone di Alessandria…): ricordate?
I grammatici alessandrini sono gli intellettuali (gli scribi) che avevano in mano la gestione dei testi della grande biblioteca e li fornivano, li mettevano a disposizione delle scuole e degli studenti. Essi svolgevano anche un lavoro di riordino, di ricopiatura, di chiosa, di esegesi sui testi più antichi, e Vico, poi Wolff , hanno cominciato a studiare il lavoro di intervento da parte dei grammatici sui testi, e ci hanno fatto notare che si vedono bene gli interventi, le interpolazioni, le ristrutturazioni che sono state fatte, e come e quando sono state fatte. I grammatici alessandrini hanno ricucito (rapsodiato), raccolto, strutturato, ordinato l’Iliade (e l’Odissea) in 24 canti, e hanno anche aggiunto parole e versi che mancavano.
Che cos’ha di così speciale il canto X dell’Iliade? Questo canto è una delle più significative interpolazioni della storia della letteratura, è – potremmo dire – un canto apocrifo, cioè non è stato aggiunto successivamente. Il canto X è stato scritto o riscritto tutto dai grammatici alessandrini: l’antico originale è, probabilmente, andato perduto, o quasi tutto perduto.
Quando è stato scritto il canto X e perché? C’è chi dice, tra gli esperti, che è stato composto nel III sec a.C.. Se noi abbiamo la pazienza di leggere il testo dell’Iliade con attenzione (l’esegesi…), ci accorgiamo anche noi – sebbene non siamo degli esperti – che questo testo appare stilisticamente assai diverso dagli altri canti. Il fatto è che, comunque anche questo canto è un capolavoro di poesia: questi grammatici alessandrini erano anche degli artisti, oltre che degli eruditi.
Perché è stato scritto questo canto: era proprio necessario? Naturalmente era necessario per ripristinare un tassello fondamentale nel racconto dell’Iliade che era venuto a mancare, ma non solo: nel lavoro dei grammatici alessandrini c’è anche un motivo esegetico, vogliono che la tragedia dell’Iliade assuma un significato ben preciso. L’argomento del canto X è un passaggio fondamentale nel racconto di questa grande tragedia raccontata dall’Iliade!
Che cosa succede nel canto X ? Per raccontare che cosa succede nel canto X e valutarne l’importanza epica, mitica, e il significato profondo, dobbiamo raccontare – ma proprio a grandi linee – la struttura narrativa dell’Iliade, perché forse magari a tutti non è chiara, o forse non ce la ricordiamo bene. Il poema Iliade è ambientato negli ultimi cinquantuno giorni della guerra di Troia, quindi non racconta la guerra di Troia, ma l’argomento dell’Iliade è l’ira, menis di Achille, che abbiamo già incontrato, come personaggio.
Attenzione, l’ira di Achille non è proprio l’argomento principale dell’Iliade, ce n’è uno ancora più importante che proprio i grammatici alessandrini tendono a mettere in evidenza! Quale? Procediamo con ordine, l’Iliade racconta la tragedia dell’ira di Achille! Per la precisione racconta la doppia ira di Achille! Che cosa significa la doppia ira di Achille?
Il poema inizia sotto le mura di Troia dove piuttosto che pensare alla guerra, Achille e Agamennone litigano per il possesso di una fanciulla, Briseide: Agamennone usando la sua autorità di capo supremo militare la strappa ad Achille! Achille s’infuria e si ritira dal campo di battaglia con Patroclo, il suo fedele compagno e i suoi Mirmidoni: egli sa che, senza di lui, la città non potrà essere presa, nonostante tra gli Achei ci siano molti fortissimi guerrieri, come Diomede, gli Aiaci, Ulisse. I Troiani approfittano dello sciopero di Achille per organizzare, al comando di Ettore – il personaggio più umano del poema – una sortita fuori dalle mura. I Troiani vanno all’attacco e costringono gli Achei a retrocedere, a barricarsi dietro le navi che avevano tirato in secca e messe a semicerchio sulla spiaggia. I Greci, senza Achille, Patroclo e i suoi Mirmidoni, sono costretti a subire questo deciso attacco, alcune navi vanno a fuoco, e i Greci da assedianti diventano assediati, e rischiano di non poter neppure scappare.
È qui che comincia il canto X. I Troiani assediano gli Achei, barricati, come in un fortino, dietro le loro navi e da assedianti diventano assediati: cala la sera su questa drammatica situazione. I capi greci decidono che, durante la notte, qualcuno deve andare in avanscoperta per carpire notizie utili, per capire che intenzioni hanno i Troiani per la battaglia del giorno dopo. Il canto X è l’unico naturalmente a raccontare un episodio notturno: una caratteristica della poesia omerica è quella di far succedere tutto nella luce abbacinante del mezzogiorno e del primo pomeriggio, mentre la scenografia notturna è tipicamente alessandrina e non omerica.
Allora: in questa notte fatale in cui ci porta il canto X, chi viene mandato in perlustrazione? Per andare in perlustrazione si propone Diomede – che in questo momento è il guerriero greco più forte ed è anche un po’ in competizione con Achille – e poi viene scelto Ulisse. È proprio Diomede a chiede che sia Ulisse ad accompagnarlo: Ulisse, l’unico, dice Diomede, che sappia uscire dal braciere ardente. Che cosa succede in questa pericolosissima escursione notturna? Questo lo raccontiamo dopo, ora andiamo avanti a definire lo schema generale del poema.
Intanto, subito dopo la sortita dei Troiani, visto il pericolo, viene mandata una delegazione ad Achille, il quale si era accampato, con i suoi, su una collinetta a sud della città e aveva anche visto il fumo delle navi bruciate. Ma l’ira di Achille è ancora troppo forte e rifiuta, nonostante i doni e i risarcimenti, di ritornare sul campo di battaglia. Allora – qui c’è un elemento narrativo molto creativo – Patroclo, che sente il dovere di intervenire in soccorso dei compagni in pericolo, chiede ad Achille di poter tornare a combattere, anzi chiede anche ad Achille di prestargli le sue armi, la sua armatura per poter disorientare il nemico. Achille temporeggia, ma poi acconsente: non sa dire di no a Patroclo, come sappiamo è molto legato a lui.
Il mattino dopo è Patroclo, al comando dei Mirmidoni, vestito con le armi di Achille che dirige il contrattacco degli Achei. Ettore lo vede, lo crede Achille e lo affronta: Patroclo si batte quasi come Achille ma Ettore lo uccide, lo spoglia e s’impossessa delle armi di Achille, ma, sconcertato, si accorge dell’equivoco: quel guerriero non è Achille. Achille, alla notizia della morte di Patroclo – di cui è anche un po’ responsabile – fa esplodere tutta la sua seconda ira (menis), ancora più tragica della prima. Lancia i tre famosi urli evocando il nome di Patroclo, si dispera e chiede ad Efesto, che lavora, come fabbro, nell’officina di Vulcano, di rifargli le armi. Quando, di lì a poco, le nuove armi di Efesto sono pronte, Achille ricompare sul campo di battaglia portando lo scompiglio tra i compagni e i nemici. Finché Achille ed Ettore si incontrano, lì tutto si ferma, e l’attenzione si concentra sul grande duello, sul terribile combattimento finale: Achille uccide Ettore.
Attenzione, l’Iliade non termina con la caduta di Troia: il racconto del cavallo (la famosa trappola di Ulisse) è nell’Odissea. La guerra si ferma e l’Iliade termina con due bei funerali! Il funerale di Patroclo (nel penultimo, ventitreesimo canto) a cui anche i Troiani assistono in silenzio sulle mura e mandano una corona. E, nell’ultimo canto, il poema termina con il funerale di Ettore. L’Iliade termina con due fuochi: i fuochi delle cremazioni di due persone amate. Il poema termina nella misericordia per i morti, nella pietà per i caduti, termina – ed è questo il principale significato di quest’opera – con una forte denuncia dell’inutilità della guerra che spezza i legami affettivi, civili, sociali, umani. La guerra è un funesto rituale non degno dei valori dell’umanità: non si può perseguire l’ideale della guerra come risoluzione delle contese. La pace è l’ideale che l’essere umano deve perseguire. Le religioni fomentano le guerre, la fede costruisce la pace. Sotto le mura di Troia finisce, si brucia, la stirpe degli eroi, dei guerrieri. E il fuoco delle pire funerarie brucia i corpi dei guerrieri e illumina uno scenario che ammonisce ad avere fede nella pace.
I grammatici alessandrini hanno voluto dare questo taglio interpretativo all’Iliade. In realtà il vero argomento del poema è ancora una volta una riflessione profonda sulla distinzione tra la religione e la fede: due concetti in contrasto, alternativi! Due concetti che trovano nel "fuoco" un elemento simbolico fondamentale che li accomuna e li distingue: il fuoco del sacrificio, della religione, brucia e distrugge i valori umani; il fuoco dell’amore solidale, della fede, illumina e fa ardere per i valori umani. E il canto X è il cuore di questa interpretazione.
Come viene rappresentato, nel canto X, questo concetto, questa distinzione tra religione e fede? Diomede ed Ulisse partono per la loro pericolosa missione notturna, si sono mimetizzati: hanno nascosto le armi, le armature con rami, fronde, sembrano due alberi, o due cespugli semoventi. Beh, è una missione difficile, c’è anche bisogno di una protezione divina, ed entrambi – Diomede ed Ulisse – senza dirselo, ci pensano. Entrambi pensano alla dèa Atena, la dèa del lavoro fecondo dei campi, della polis operosa, della giustizia, delle arti, dello Stato e delle opere pubbliche, la dèa dell’ulivo, insomma pensano alla dèa della pace. Forse, nel loro intimo, pensano anche: ma chi ce l’ha fatto fare di venire a combattere fin qui! (Quel Menelao, se la moglie gli era scappata, non poteva, prendere il treno, e venire lui, qui, per conto suo, a chiedere spiegazioni: si sarebbe accorto, forse, che, Elena, non c’era neppure, lì). Insomma, Diomede ed Ulisse, immersi nel silenzio della loro missione, pensano. Ad un tratto, mentre avanzano con grande circospezione verso l’accampamento troiano, i due uomini sentono il grido di un airone, l’uccello sotto le cui sembianze si manifesta la dèa Atena. Loro, l’airone non lo vedono, ma lo sentono (anche Atena è come il chiù nell’ellero: si sente ma non si vede…) e capiscono che la dèa Atena li ha sentiti, ha letto nei loro cuori e li segue, e si occupa di loro.
Chi ha scritto il canto X dell’Iliade utilizza questa situazione poetica ricca di suspence, per riflettere sulla distinzione tra la religione e la fede, per ragionare sulla distinzione tra l’uomo religioso, condizionato dalla superstizione (in questo caso Diomede), e l’uomo illuminato dalla fede (Ulisse). Diomede, appena percepisce – dal grido dell’airone – la presenza della dèa Atena, sottovoce, inizia a rivolgerle una lunga preghiera molto ampollosa e retorica; comincia a lodare esageratamente tutti i parenti della dèa, il padre Zeus e la madre Metis (la saggezza), le sue qualità, i suoi meriti, le sue virtù, la sua bellezza e la sua bontà. Poi, Diomede, naturalmente, in cambio della protezione, promette in onore della dèa: suntuosi sacrifici, doni preziosi, solenni celebrazioni. Insomma, Diomede, si esprime utilizzando tutto l’apparto retorico della religione. Odisseo, invece si rivolge alla dèa, che sempre gli è stata accanto, e pronuncia poche parole, asciutte e intime. Odisseo non ricorda precedenti paterni, materni, virtù, pregi, qualità e, soprattutto, non promette sacrifici. Odisseo, come uomo di fede, cerca "amore", amore solidale, comprensione, compassione, bontà e misericordia: mormora solo una frase, e dice alla dèa: «Per una volta ancora amami, Atena, amami il più possibile». Odisseo sente nel cuore un sentimento per cui coltiva la speranza di potersi affidare è un problema di solidarietà, non di sacrificio.
Incontriamo ora un personaggio che conosciamo, che ci ha accompagnato due settimane fa: è il poeta Friedrich Hölderling, di cui abbiamo letto un passo da Iperone. Ebbene, in una famosa lettera del 12 dicembre 1801 all’amico Böhlendorff , Hölderling ci fa sentire tutta la nostalgia che sente – lui e tutta la generazione romantica – per il mondo greco. Quella nostalgia (lo struggente desiderio di ritornare di Ulisse) ci è stata lasciata in eredità dal pensiero tra 1700 e 1800 nel quale viaggeremo.
Questa nostos-algìa in parte è lo stesso sentimento che anche noi proviamo quando visitiamo i siti archeologici possedendo i modelli culturali, le chiavi di lettura, gli stampi intellettuali per poterne capire, sentire, il significato: è chiaro che quando siamo a Pestum, al tramonto, in mezzo alle forme così pregnanti dei templi dorici più spettacolari che ci siano al mondo, non possiamo fare a meno di sentirci un po’ come Odisseo, cioè di sentire in noi, il "fuoco del cielo", che illumina e brucia, che ci fa conoscere e ci fa ardere. E non possiamo fare a meno di mormorare come Hölderling: «Per una volta ancora amami, Atena, amami il più possibile».
Se Atena ci ama ci concede i suoi doni: la curiosità, la conoscenza, la saggezza…
LEGERE MULTUM….
Friedrich Hölderling, Lettera a Böhlendorff del 12 dicembre 1801
Nella notte più disperante per gli Achei, quando sono stretti alle loro navi dall'assalto degli assediati, quando insieme Diomede e Odisseo stanno per partire in una missione rischiosa per captare qualche segreto al campo nemico, giunge a loro lo strido di un airone invisibile nella notte. È Atena che manifesta la sua presenza. Allora Diomede e Odisseo pregano, l’uno da uomo del sacrificio, l’altro da uomo di fede. Tra il fasto retorico e sovraccarico di Diomede e la disadorna limpidezza di Odisseo si spalanca una storia che avrà bisogno di secoli, ritorni e sovvertimenti per esplicarsi, la storia della distinzione tra la religione del sacrificio e la fede del cuore. E in quella notte la religione e la fede non sono più unite, si sfiorano come ancora si sfiorano le armi tremende che i due eroi hanno appena calcato sul loro corpo. E la dèa è ancora ugualmente presente a entrambi. Comunicano in Lei, prima che fra loro. Ma è Odisseo che partecipa del "fuoco del cielo". Oggi abbiamo dimenticato quella sobrietà che è rimasta sola a sopravvivere, senza memoria del fuoco che ha attraversato, abbiamo dimenticato anche quella antica familiarità con la dèa che si lasciava intimare dall'eroe di amarlo e per una volta ancora, di amarlo il più possibile. Come vorrei rivivere quella notte per poter dire anch’io: «Per una volta ancora amami, Atena, amami il più possibile».
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Alla categoria dello "splendore" appartiene anche il "fuoco". Prometeo ruba il fuoco a Zeus per donarlo agli uomini; Ulisse è colui che "sa uscire dal fuoco"…
Rifletti, ricordando oggetti, episodi, situazioni, che riguardano il fuoco e rifletti sulla frase "uscire indenne dal braciere ardente" cioè "uscire o aiutare altri a uscire da una situazione difficile".
Scrivi quattro righe in proposito…
Non possiamo terminare questo itinerario, che ha come protagonista la figura mitica di Ulisse, con alcune curiosità letterarie molto significative. La prima si intitola Ulissea, ou Lisboa edificada, pubblicato a Lisbona nel 1636, è un poema epico in dieci canti in ottava rima di Gabriel Pereira da Castro (1571-1632), uno dei più importanti poeti della letteratura portoghese, contemporaneo di Ludovico Ariosto e Torquato Tasso.Questo poema vuole celebrare le origini leggendarie, mitiche, della città di Lisbona. La leggenda sulle origini di Lisbona dice che sarebbe stata fondata da Ulisse nel corso del suo viaggio ai confini del mondo occidentale, al di là delle colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra); questa città si sarebbe chiamata Ulissipona, da cui il nome Lisbona. Naturalmente questo è un pretesto che, Pereira de Castro, utilizza per parlare della mitica figura di Ulisse, in lingua portoghese. Pereira de Castro è un buon poeta ed è anche un intellettuale colto e vivace, che coglie il significato tragico della figura di Odisseo, e quindi il suo poema, l’Ulissea, è anche un pretesto per parlare del "fuoco della curiosità e della conoscenza" che spinge Ulisse, che muove il personaggio tragico di Ulisse. Questo "fuoco della curiosità e della conoscenza" è una caratteristica che i Lusitani hanno ereditato da Ulisse, ma, avverte, sostiene Pereira de Castro, se il fuoco della curiosità e della conoscenza si trasforma in fuoco di conquista e di sopraffazione, sono guai: gli dèi puniranno la città e i suoi abitanti. C’è chi ha visto (Fernando Pessoa, per esempio) in questo poema una terribile, e tragica premonizione: i Portoghesi sono stati sì, grandi e curiosi esploratori, ma anche terribili e rapaci conquistatori. Il fuoco della curiosità e della conoscenza non può essere un fuoco di conquista; la conoscenza non si conquista, si gusta; la conoscenza, se è un potere, cessa di essere un piacere. Sarà per questo motivo che – come ricorderete – nel 1755 la città di Lisbona è stata distrutta completamente da quel terribile terremoto che ha causato quell’enorme incendio che ha bruciato tutta la città? Il terremoto e l’incendio di Lisbona: una delle più grandi tragedie della storia dell’Umanità! Il fuoco di Ulisse deve illuminare e farci ardere di curiosità in funzione di una saggia conoscenza, contrariamente brucia, distrugge, divora, incenerisce…
Leggere l’Ulissea di Gabriel Pereira Castro è certamente un’impresa difficilissima ma è interessante sapere che c’è.
La seconda curiosità letteraria sulla figura di Ulisse che citiamo è un romanzo, che possiamo anche leggere – ammesso che si trovi in qualche biblioteca – e si intitola Ulisse Creolo, è stato pubblicato nel 1936 ed è opera dello scrittore, saggista, filosofo messicano José Vasconceros (1881-1959). Vasconceros ha fatto parte del circolo letterario dei giovani intellettuali che hanno preparato la Rivoluzione messicana, un avvenimento che noi conosciamo pochissimo, per noi è più che altro folklore (Pancho Villa, Emiliano Zapata). Questo romanzo, Ulisse Creolo, è il primo di cinque libri, di una pentalogia, in cui Vasconceros racconta con grande partecipazione emotiva e con sincerità questa grande e tragica pagina di storia. Ulisse Creolo, dicono gli esperti, è un capolavoro della narrativa, ed è certamente il testo più geniale e sorprendente di Vasconceros: è lui che, bambino, ci racconta il Messico di fine ottocento, con i suoi usi, costumi, tradizioni popolari, religiose e culturali, tra superstizione e fede, tra violenza e solidarietà. Il titolo ha il suo significato: creola è una razza meticcia, che viene contaminata da diverse culture e tradizioni, per cui niente mi è estraneo e tutto mi incuriosisce; e poi Ulisse Creolo sta a significare la tragica odissea dell’autore da bambino, dentro questi avvenimenti che sfoceranno nella Rivoluzione messicana.
La terza e ultima curiosità letteraria è fin troppo scontata! Ed è uno dei romanzi più noti della storia della letteratura: Ulisse di James Joyce (1882-1941), il famoso scrittore irlandese. Ulisse di Joyce, pubblicato nel 1922, racconta la giornata del 16 giugno 1904 del signor Bloom (Ulisse) a Dublino. La vita del signor Bloom, mediocre e un po’ squallido uomo qualunque non ha proprio nulla di mitico, di epico, come apparentemente la vita di tutti noi, ma, in realtà ogni episodio nasconde un mito: siamo in un magazzino pieno di calchi di cui abbiamo perso gli stampi! Ogni episodio nasconde una tragedia, la traccia del canto del caprone. Un episodio vissuto è nulla, ma se uno lo racconta ecco che diventa subito logos, epos, mytos. Joyce racconta ed evoca, e tira fuori dalla banalità, in modo tragicomico, il mytos, le impronte del caprone. Siamo in un magazzino pieno di calchi di cui abbiamo perso gli stampi! Che cosa significa questa affermazione? Ci rifletteremo la prossima settimana!
E non solo la prossima settimana andiamo nel Peloponneso – sapete, vero, dove si trova la penisola del Peloponneso! – dove dobbiamo incontrare un personaggio: si chiama Pelope e con il Peloponneso ha a che fare eccome, gli ha dato il nome: il Peloponneso è la scapola di Pelope. Sapete come ci è finita, proprio lì, la scapola di Pelope, e sapete chi è Pelope, il più inquietante personaggio della tragedia? Sì, lo sapete, queste cose non avvennero mai, ma sono sempre…
Quindi, accorrete: la Scuola è qui…