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LA TRAGEDIA È IN CORRISPONDENZA CON LO STAMPO, TYPOS…

Lezione N.: 
10

Prof. Giuseppe Nibbi                Tragòs oidos 2003        10-11-12 dicembre 2003

LA TRAGEDIA È IN CORRISPONDENZA CON LO STAMPO, TYPOS

   Il mondo in cui viviamo, è come un magazzino pieno di calchi, di cui abbiamo perso di vista gli stampi originali! Investire in intelligenza significa anche risalire agli stampi originali, ai modelli che determinano la nostra cultura. Gli stampi provenienti dal territorio della tragedia sono fondamentali per leggere la realtà in cui viviamo, e per capire lo stato della "condizione umana". Per questo siamo in viaggio nell’immenso territorio della tragedia: a caccia di stampi, di modelli originali.

   La figura di Ulisse, il personaggio tragico di Odisseo – che abbiamo incontrato la scorsa settimana – è il calco di uno stampo originario; il fuoco che brucia e illumina, uno stampo che, in origine, troviamo nell’officina di Eraclito in un suo famoso frammento che abbiamo già citato: è dal Fuoco (Piros) che emana lo Spirito (Pneuma) che vivifica e che fa divenire tutte le cose. Ulisse, come Elena, Achille, Ifigenia, Prometeo, è un calco che continua a essere ricalcato, e per imparare a gustare la lettura, per accedere al piacere del testo, dobbiamo risalire agli stampi originali perché divengano un patrimonio culturale, in modo che la nostra mente si arricchisca di "paesaggi intellettuali": risalire calco per calco verso lo stampo è fare cultura, è la dinamica culturale, è investire in intelligenza.

   E allora quando diciamo che è come se abitassimo in un magazzino pieno di calchi di cui abbiamo perso di vista gli stampi che cosa vogliamo dire? Che cosa significa questa affermazione? È un’affermazione che merita un’attenta riflessione che abbiamo già iniziato a fare.

   Uno dei calchi più significativi sulla figura tragica di Ulisse è quello che ci presenta Dante Alighieri (1265-1321) nella Commedia, per la precisione nel XXVI canto dell’Inferno dal verso 85 al verso 142, quello che, comunemente, viene chiamato il canto di Ulisse! Lo avete letto? Dante incontra Ulisse nell’ottava bolgia dell’ottavo cerchio dell’Inferno, chiuso, inevitabilmente, dentro a una fiamma di fuoco: dove volete che sia Ulisse? A stretto contatto con il fuoco, e non perché siamo all’Inferno, ma perché il modello, la figura, il personaggio di Ulisse è stato creato (dagli aedi, da chi ha raccontato le storie sulle origini) a stretto contatto con il fuoco che, per sua natura, brucia e illumina. Ulisse è il personaggio per eccellenza che rappresenta il "fuoco", è un calco "tragico" del fuoco ("tragico", nel senso letterale – tragòs oidos – del termine: cioè come canto primordiale sulle origini).

   In tutta la cultura dell’età assiale dalla Mesopotamia all’Egitto, dall’India alla Cina, dall’altopiano Iraniano alle coste Ioniche, il "fuoco" è un fondamentale "stampo delle origini", e l’affermazione "Sia la luce, e la luce fu" che, nella cultura occidentale è strettamente legata alle origini, alla Genesi, presuppone il fuoco. Presuppone il "roveto ardente", ma questo è un altro itinerario, di un altro Percorso, su cui prima o poi torneremo!

   Nella cultura della tragedia, cioè nella grande rete dei racconti primordiali sulle origini, lo stampo del fuoco corrisponde al calco, al modello, al personaggio di Odisseo, Ulisse. E allora, dove volete che lo metta Dante, Ulisse, se non nel fuoco, chiuso in una fiamma formata da due corni, uno più grosso e uno più piccolo. Ulisse sta ne "lo maggior corno della fiamma antica": è un fiamma bifida, divisa in due, perché condivisa, insieme a chi? Naturalmente insieme a Diomede, che fa coppia con Ulisse nel famoso X canto dell’Iliade, che conosciamo.

   Ci siamo chiesti: anche Dante conosce il X canto dell’Iliade e lo ricalca? Lo ricalca perché lo conosce – abbiamo detto – ma non lo conosce direttamente. Lo conosce indirettamente, attraverso il sistema della triangolazione culturale! Dante non conosce "direttamente" l’Iliade (né l’Odissea), non conosce "direttamente" i personaggi dei poemi omerici! Dante conosce il greco come noi. Dante conosce bene la cultura omerica attraverso il latino – che è una lingua di sua competenza: egli infatti parla e scrive correttamente in latino –; quindi conosce la cultura omerica attraverso gli autori latini: Ovidio, Virgilio e Cicerone (106-43 a.C.) che parla di Ulisse, come modello culturale, in un’opera intitolata De Finibus bonorum et malorum, I limiti del bene e del male (45 a.C.).

   Ci dicono gli esperti che Dante dimostra di conoscere bene – lo sappiamo attraverso le sue opere – 35 testi su 58 opere di Cicerone. De Finibus – che Dante conosce bene – è un trattato in cinque libri, scritto sotto forma di dialogo platonico. Una serie di dialoghi, di conversazioni immaginate, tenute a Cuma, a Tuscolo e ad Atene, tra Cicerone e diversi personaggi: Catone, il fratello Quinto, il cugino Lucio, gli amici Attico e Pisone Calpurniano. In particolare – la parte più interessante dell’opera – sono i dialoghi tenuti con due intellettuali compagni di studi di Cicerone, Manlio Torquato, studioso di Epicuro, e Valerio Triario studioso dello stoicismo. Il tema di quest’opera è di carattere educativo e didattico e riguarda un problemino da poco: come fare per attuare il Bene ed per evitare di fare il Male? Un problema sempre di grande attualità! Per fare il bene ed evitare di fare il male – che è l’aspirazione che caratterizza l’essere umano, scrive Cicerone – è necessario conoscere profondamente i limiti umani della persona e prenderne atto: la conoscenza di quanto valiamo dipende dalla conoscenza dei nostri limiti. È necessario inquadrare i limiti dati dalla condizione umana, in modo da poter progettare un itinerario intellettuale per acquisire le virtù necessarie per dare alla vita una dignità, un senso, un valore. Più la vita della persona corrisponde alla humanitas, più la persona aspira a fare il bene ed evita di fare il male.

   In quest’opera Cicerone, per costruire un programma di studi che possa favorire l’apprendimento delle virtù necessarie allo sviluppo dell’humanitas, passa in rassegna il pensiero di Platone, di Aristotele, di Epicuro e di Antioco d’Ascalona (120 a.C. circa-67 a.C.).

   Chi è questo Antioco d’Ascalona, contemporaneo (un po’ più vecchio) di Cicerone? Antioco d’Ascalona è colui che Cicerone considera il suo maestro più importante, è il direttore dell’Accademia di Atene (la quinta Accademia) di cui Cicerone ha seguito le lezioni, ad Atene, negli anni 79-78 a.C.. Antioco d’Ascalona è il fondatore di quella corrente di pensiero che si chiama l’Eclettismo (dal verbo greco eklèkto che significa scegliere, eklèktikos è colui che sa scegliere): l’Eclettismo consiste nel fondere insieme la parte migliore (o che si ritiene tale) di dottrine diverse per farle conciliare, per concertarle in un programma intellettuale utile alla crescita della persona.

   Cicerone aderisce all’Eclettismo, e a Roma porta avanti queste idee: il De Finibus è un manifesto dell’Eclettismo in cui Cicerone (superata una fase di Scetticismo) tende a conciliare e a concertare le idee di Platone, di Aristotele, di Epicuro, di Catone, utilizzando il metodo di Antioco d’Ascalona.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Oggi la città di Ascalona (città natale di Antioco) si chiama Ashqelon e si trova sulla costa d’Israele, a nord di Gaza. Questa cittadina, 2000 anni fa, era un importante centro di cultura ellenistico orientale e conserva resti di monumenti ellenistici, romani, arabi, bizantini…

Con l’atlante, con una guida d’Israele, con l’enciclopedia prova ad avvicinarti a questa cittadina e scrivi quattro righe in proposito…

    Torniamo a Cicerone e al De Finibus: in quest’opera si parla anche della figura di Odisseo, del calco di Ulisse come stampo del fuoco che illumina e brucia. Cicerone impara a conoscere il calco di Ulisse dalle lezioni di Antioco d’Ascalona che naturalmente conosce bene la letteratura omerica con i suoi simboli e li trasmette attraverso l’Accademia di Atene. E Dante, a sua volta, riprende il calco di Ulisse da Cicerone, e dagli autori latini. La Letteratura omerica, e la filosofia greca, nel Medioevo, in Europa, la si conosce attraverso le opere e le citazioni degli autori latini: Ovidio, Virgilio, Cicerone che erano in contatto diretto con la cultura greca, e gli autori latini privilegiano, per la figura di Ulisse, un finale diverso da quello romanzesco, familista e consolatorio dell’Odissea.

   Una tradizione – che andrà sempre di più affermandosi – racconta che Ulisse non è mai tornato a Itaca (come Elena non è mai arrivata a Troia) perché per sete di sapere, per inesauribile curiosità intellettuale, per la voglia di cercare la verità, ha osato superare le Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra), limite invalicabile del mondo, per volere divino. Ulisse trasgredisce – c’è una riproposizione, in chiave ellenistica, del peccato originale – e Ulisse viene punito con la morte, inghiottito dall’Oceano. Il calco dell’Ulisse di Dante è quello descritto da Cicerone nel De Finibus, e che Cicerone ha imparato a conoscere, ad Atene, dalle lezioni di Antioco d’Ascalona. Viviamo in un deposito di calchi, che vengono sistematicamente ricalcati e, oltre ad andare alla ricerca degli stampi, è significativo osservare i calchi, via via che, da un’epoca all’altra vengono ricalcati.

   Quindi è interessante andare a leggere una pagina del De Finibus di Cicerone, una di quelle pagine che ha letto anche Dante. Perché è interessante questa lettura? Perché possiamo capire, come il calco di Ulisse, pur rimanendo legato allo stampo originario del fuoco, si trasformi attraverso l’evoluzione culturale, la Stopenum. Attraverso Antioco d’Ascalona, Cicerone distingue, già 2000 anni fa, il calco, la figura antica, arcaica di Ulisse (quello "omerico" che torna a Itaca) da un nuovo calco di Ulisse, quello ellenistico che va oltre e sfida i limiti del sapere umano. Su queste pagine, Dante trova l’ispirazione per costruire, in versi, il suo Ulisse che poi è quello del X canto dell’Iliade di stile ellenistico, quello di Antioco d’Ascalona, dell’Accademia di Atene, quello dell’eclettico Cicerone…

LEGERE MULTUM….

Marco Tullio Cicerone, De Finibus bonorum et malorum (45 a.C)

L’antico Odisseo è l’eroe che, come nel vincere la guerra usò ora forza tenace, ora pieghevoli accorgimenti, così, nelle varie vicende occorsegli nei suoi viaggi, ora supera con fermezza impedimenti naturali, ora delude con astuzia malefiche seduzioni e da ultimo rimpatria nella sua dimora insulare. Il nuovo Ulisse è un navigatore d’elezione che corre mari sconosciuti per un innato e sempre mai sazio bisogno di veder nuovo mondo, per un suo intellettuale istinto che lo porta a cercare nuovi paesi, genti nuove e soprattutto a conoscere nuove parole e nuove idee. Lo spirito di ricerca e lo spirito di osservazione fa di lui un conoscitore di esseri umani. Questa sua irrequieta brama di esperienze umane fa tacere in cuor suo tutti gli affetti. Ma chi può condannare lo spirito errante che, affidandosi al folle volo della ragione naviga nel grande mare dell’Essere, per incontrare una verità cercata invano? Certo è che l’ardimento, la sofferenza del rischio, l’amore del conoscere sono grandi virtù umane: se da una parte si potrebbe condannare l’empio violatore dei divieti posti dalla volontà degli dèi e immaginarlo punito con la morte al temine del folle viaggio per i flutti vietati, dall’altra si potrebbe elevare alla gloria degli spiriti superiori che muoiono sulle mura violate additando nuove vie e nuovi ideali

    Adesso dovremmo leggerci il canto XXVI dell’Inferno della Commedia di Dante, ma noi dobbiamo seguire un itinerario che presuppone l’incontro con altri calchi e con altri stampi. Fatelo per conto vostro questo esercizio – se volete – seguendo le note che accompagnano sempre il testo della Commedia in qualunque edizione voi la possediate, e anche facendo tesoro delle indicazioni che, nel nostro itinerario, anche questa sera abbiamo raccolto: penso che il piacere del testo non vi possa mancare. Per incentivare questo esercizio leggiamone comunque un frammento dal XXVI canto dell’Inferno, dal verso 106 al verso 142: è Ulisse che, dal fuoco nel quale è immerso con Diomede, parla e ci racconta l’epilogo drammatico della sua avventura.

   Leggiamo, questo frammento, senza commentarlo, anche perché potete tornarci sopra autonomamente per studiarvelo più da vicino: noi lo leggiamo per tre motivi (ma potrebbero essere cento…)! Quali sono questi tre motivi? Prima leggiamo poi riflettiamo.

LEGERE MULTUM….

Dante Alighieri, Inferno Canto XVI 106-142

Io e i compagni eravam vecchi e tardi

    quando venimmo a quella foce stretta (lo stretto di Gibilterra)

    dov’Ercole segnò li suoi riguardi (i segni che Ercole pose)

acciò che l’uom più oltre non si metta: (come insuperabili per l’uomo)

    dalla man destra mi lasciai Sibilia, (Siviglia)

    dall’altra già m’avea lasciata Setta. (la Septa dei Romani, oggi Ceuta)

"O frati", dissi "che per cento milia perigli

    siete giunti all’occidente,

    a questa tanto picciola vigilia

de’ vostri sensi ch’è del rimanente,

    non vogliate negar l’esperienza,

    diretro al sol, del mondo senza gente!

(Non vogliate negare ai vostri sensi di fare l’esperienza di conoscere il mondo disabitato che sta dietro il sole)

Considerate la vostra semenza: (possedete la ragione!)

    fatti non foste a viver come bruti,

    ma per seguir virtute e conoscenza".

Li miei compagni fec’io sì acuti, (così desiderosi di seguirmi)

    con questa orazion picciola, al cammino,

    ch’a pena, poscia, li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,

    de’ remi facemmo ali al folle volo (remammo, che sembrava avessimo le ali)

    sempre acquistando dal lato mancino. (navigando a sinistra, verso sud-ovest)

Tutte le stelle già dell’altro polo

(cominciammo a vedere le stelle del cielo a sud dell’equatore, del cielo antartico)

    vedea la notte, e il nostro tanto basso,

    che non surgeva fuor dal marin suolo.

(mentre il nostro cielo, artico, spariva sotto l’orizzonte marino

Cinque volte racceso e tante casso (spento)

    lo lume era di sotto dalla luna,

(cinque volte si era compiuto il plenilunio, la luna era accesa, e cinque volte il novilunio, la luna era spenta: erano passati cinque mesi)

    poi ch’entrati eravam nell’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna

    pe’ la distanza, e parvemi alta tanto,

    quanto veduta non n’aveva alcuna.

(era la montagna del Purgatorio, il limite invalicabile del confine cristiano)

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto;(passammo dall’allegria alla disperazione)

    ché dalla nuova terra un turbo nacque, (si alzò una terribile tempesta)

    e percosse del legno il primo canto. (la prua della nave)

Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque;

    alla quarta levar la poppa in suso

    e la prora ire in giù, com’altrui piacque, (così piacque a Dio)

infin che il mar fu sopra noi richiuso".

   Il primo motivo su cui riflettere riguarda un problema di sinossi, che significa mettere una cosa di fronte all’altra, di solito due testi (sin optikos sin optikos, guardare insieme): se mettiamo uno di fronte all’altro il testo del canto XXVI, i 36 versi che abbiamo letto, e il frammento dal De Finibus di Cicerone, che abbiamo letto precedentemente, prendiamo atto che ci sono proprio delle affinità formali e contenutistiche. Dante ha proprio ricalcato quel calco con grande maestria!

   Il secondo motivo riguarda una differenza ermeneutica, cioè una differenza di interpretazione del calco ellenistico di Ulisse, data da una differente visione del mondo, relativa a epoche diverse. Se riflettiamo sul canto XXVI dell’Inferno, prendiamo atto che Dante mostra una grande simpatia per Ulisse e lo celebra, ma contemporaneamente lo condanna: come cristiano e come teologo medioevale, Dante, condanna "l’empio violatore dei divieti posti dalla volontà di Dio" e immagina la sua morte e la sua punizione al termine del "folle volo". Se confrontiamo il canto XXVI dell’Inferno con un’opera che abbiamo presentato la scorsa settimana, possiamo completare il nostro ragionamento ermeneutico, sull’interpretazione che si modifica nel corso dell’evoluzione culturale. L’opera in questione – con la quale confrontare il canto di Dante – s’intitola Ulissea, ou Lisboa edificada, che è un poema epico in dieci canti, in ottava rima, di Gabriel Pereira de Castro (1571-1632), uno dei più importanti poeti della letteratura portoghese. Il poema Ulissea è stato pubblicato a Lisbona nel 1636. Questo poema vuole celebrare le origini leggendarie, mitiche, della città di Lisbona, seconde le quali la città sarebbe stata fondata da Ulisse nel corso del suo viaggio ai confini del mondo occidentale, al di là delle Colonne d’Ercole (lo stretto di Gibilterra) e questa città si sarebbe chiamata Ulissipona, da cui il nome: Lisbona. Attenzione: Pereira de Castro non ci sta a far punire e a far morire Ulisse. Ragiona non più con la mentalità medioevale di Dante, ma come un cristiano e come un teologo moderno: non si può pensare che Dio punisca la "curiosità intellettuale" degli esseri umani, la sete di sapere è cosa buona. E allora Pereira de Castro immagina che, dopo l’inabissamento della barca di Ulisse e compagni, Dio ci ripensi, e li faccia riemergere, e con un’onda assai lunga li spinga a nord, proprio davanti alla baia dove sfocia un grande fiume, il Tago: lì Ulisse fonda Lisbona e – colpo di scena – incontra anche Penelope che, stufa di aspettarlo sull’isoletta, si mette a cercarlo viaggiando verso occidente: "e lo conosco io… e che – dice Penelope – lui se ne va in giro per il mondo, e io me ne devo stare qui ad aspettarlo, a fare la tela…". Penelope arriva fino all’estremità del mondo conosciuto e ritrova Ulisse (il quale non la riconosce) e non sarà lei che dovrà riconoscere lui, ma sarà Ulisse che dovrà riconoscere Penelope e riconquistarla con il fuoco dell’amore. Attenzione! Da Omero nel VI secolo a.C, ai grammatici alessandrini nel III secolo a.C, ad Antioco d’Ascalona e Cicerone tra il II e il I secolo a.C, a Dante Alighieri nel XIV secolo, a Pereira de Castro nel XVII secolo, via via di epoca in epoca il calco si trasforma, ma continua a riprodursi da uno stampo iniziale che conserva la sua identità originaria.

   A proposito di trasformazione del calco, il terzo motivo di riflessione riguarda i molti oggetti culturali che oggi ricalcano il modello di Ulisse cioè lo stampo del fuoco che illumina e brucia: dobbiamo riflettere su questo modello tragico e attivare il nostro spirito di ricerca. Tra i tanti oggetti culturali in questione – che potete rintracciare e segnalare anche voi – ne ricordiamo due. Il primo è un libro, un romanzo che, in età contemporanea, sintetizza molte delle sfumature che il calco, derivante dallo stampo del fuoco, ha assunto nel corso delle varie epoche (da Omero, ai grammatici alessandrini, ad Antioco d’Ascalona, a Cicerone, a Dante, a Pereira de Castro): si tratta di Memoriale del convento, pubblicato nel 1982 da José Saramago, scrittore portoghese al quale nel 1998 è stato conferito il premio Nobel per la Letteratura. Saramago – scrittore non facile da leggere – continua una tradizione mettendo insieme scrittura epica, ellenistica, accademica, oratorio sacro, stile picaresco, opera comica, commedia dell’arte e tragedia. Il convento in questione è quello della cittadina portoghese di Mafra (cercatela su una guida e sull’atlante) – siamo nel Portogallo del 1700, dominato dall’Inquisizione, dove bruciano molti roghi (fuochi), ma dove ardono anche spiriti ardenti, illuminanti! Il convento viene fatto costruire dal re Giovanni V in cambio della grazia ricevuta per la nascita dell’erede maschio.

LEGERE MULTUM….

José Saramago, Memoriale el convento (1982)

 Don Giovanni, quinto del nome nella successione dei re, andrà questa notte in camera di sua moglie, donna Maria Anna Giuseppa, che è giunta da più di due anni dall'Austria per dare infanti alla corona portoghese e fino ad oggi non ce l'ha fatta a ingravidare. Già si mormora a corte, dentro e fuori del palazzo, che la regina probabilmente ha il grembo sterile, insinuazione molto ben difesa da orecchie e bocche delatrici e che solo fra intimi si confida. Che la colpa ricada sul re, neppure pensarlo, primo perché la sterilità non è male degli uomini, ma delle donne e per questo tante volte sono ripudiate, e secondo, tangibil prova, se pur fosse necessaria, perché abbondano nel regno bastardi del real seme e anche ora la fila gira l'angolo.

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    Ma i protagonisti veri del romanzo sono altri: sono due personaggi del popolo, una coppia di tenerissimi e tenacissimi amanti (tutta il contrario della coppia reale), Baltasar Mateus detto Sette-Soli, ex soldato che ha perso una mano in battaglia (forse il suo Angelo Custode era disattento in quel momento?) e la giovane Blimunda detta Sette-Lune, dotata di poteri straordinari e occulti: sa guardare dentro le persone, quando è a digiuno (e finirebbe molto male se rivelasse questo suo potere!). Ma il personaggio-chiave è soprattutto padre Bartolomeu Lourenço de Gusmão, che mescola misticismo e scienza, nel progetto (folle, vietato, sacrilego, ma illuminato) di vincere la gravità, di sollevarsi da terra, costruendo una macchina per volare. Tra i personaggi di questo romanzo incontriamo anche il musicista napoletano Domenico Scarlatti che si trovava in quegli anni a Lisbona: serve anche la musica per volare, più che per celebrare eventi di potere. I destini di questi personaggi, s’intersecano tra l’utopia, la morte, la comicità e la tragedia: non resta che leggere e identificare i calchi!

   Il secondo oggetto culturale è un film, dal titolo apparentemente frivolo Ebbro di donne e di pittura (2002): in realtà è un film impegnato, fatto in economia, è un film coreano, del regista (il cui nome è difficile da pronunciare) Kwon Taek Im (nato nel a Pusan nel 1936 ). Questo film racconta la storia travagliata della Corea nella seconda metà dell’800 mettendo però in primo piano la vita, altrettanto travagliata, del grande pittore coreano Ohwon (soprannominato il Van Gogh coreano) vissuto tra il 1843 e il 1897. Se avete visto questo film non svelate il finale, e se non lo avete visto, guardatelo, se vi capita: è il fuoco materiale che tempra la terracotta e ne fa un’opera d’arte, come è il fuoco intellettuale, spirituale che dà vita all’Arte! Il fuoco brucia e illumina: senza questo dualismo (aporia) non ci sarebbe l’Arte.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

In quali altri oggetti culturali pensi di aver potuto rinvenire lo stampo del fuoco che brucia e che illumina o il calco di Ulisse?

Scrivi quattro righe in proposito…

    E ora tiriamo le conclusioni in relazione al nostro Percorso nel territorio della tragedia. Possiamo affermare che la tragedia è il contenitore di una serie di stampi fondamentali: che cosa rappresenta lo stampo? L’esistenza dello stampo rappresenta la lotta contro il mostro, contro il mostro più temibile: l’ignoranza. L'attività intellettuale greca per eccellenza è la formazione degli stampi. Costruire uno stampo è dare forma ad un’idea: lo stampo è l’idea stessa! Per questo motivo Platone era tanto curioso del lavoro degli artigiani (demioΰrgoi demioùrgoi) che lavoravano nelle loro botteghe attorno all’Acropoli di Atene, e con il nome della loro corporazione ha chiamato l'artefice del mondo: il dio che crea viene chiamato da Platone il demiurgo, l’artigiano. Sono gli artigiani che sanno costruire gli stampi e che sanno ricalcarli alla perfezione! Creare uno stampo significa applicarlo ai più diversi materiali, e produrre calchi innumerevoli, infiniti. Ancora oggi – oggi più che mai – un'impresa cerca di imporre un marchio! Non mi dite che i concetti della cultura tragica sono lontani nel tempo! Oggi si cerca di imporre il primato gerarchico dello stampo, in greco, del typos typos. Imporre lo stampo, il typos, il marchio è manifestazione di potenza, concretizzazione del potere. In principio c’è lo stampo, il typos, il marchio!

 REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

"In principio era lo stampo"… Ragioniamo su questa idea: imprimere, lasciare un’impronta, fissare nella mente, fissare nell’animo… e ragioniamo sulle parole che da questa idea derivano: stampo, modello, impronta, forma, timbro, marchio, marca, tipo…

Queste parole ci fanno certamente ricordare oggetti da descrivere, episodi da raccontare, fatti su cui argomentare, sentimenti da esprimere.

Scrivete quattro righe in proposito…

    L'immagine più approssimata delle idee di Platone sta in una grande scoperta archeologica: gli stampi che sono stati trovati a Olimpia nello studio di Fidia, il grande scultore: sono gli stampi per il frontone del tempio di Zeus. Alla lunga, però, gli stampi originali si perdono, e rimane il calco. Noi viviamo in un magazzino di calchi che hanno perduto i loro stampi. Ma in principio era lo stampo, e questo vale anche quando la materia, a cui dare forma, sono le parole, le storie, i racconti. La rete dei racconti, le storie mitiche nascono attraverso gli stampi originali e sono sempre fondatrici, e ne continuiamo a ricalcare i calchi. E possono fondare sia l'ordine, sia il disordine.

   La Grecia, i racconti mitici, li ha spartiti geograficamente, con un taglio netto, a nord e a sud del golfo di Corinto che fa da linea di confine, consultate l’atlante! A nord troviamo, alle origini, gli uccisori di mostri, coloro che combattono contro l’ignoranza: Apollo a Delfi, Cadmo a Tebe, Teseo ad Atene. Apollo è il modello di ogni uccisore di mostri, è anche musico e guida delle Muse. Cadmo introduce in Grecia l'alfabeto fenicio, e Teseo raggruppa alcuni modesti villaggi in una nuova entità che diventa Atene, la polis per eccellenza. Apollo, Cadmo e Teseo – attraverso i racconti mitici – ci appaiono come costruttori di stampi civilizzatori.

   Nulla di simile troviamo a sud del golfo di Corinto, nella terra che si chiamò Peloponneso: l’isola di Pelope, o meglio la scapola di Pelope. E la scorsa settimana abbiamo detto che saremmo sbarcati nel Peloponneso. Qui troviamo un personaggio, un calco tragico per eccellenza (ma la storia di Pelope e dei Pelopidi – al contrario di quelle di Apollo, di Cadmo e di Teseo – non ha nulla di civilizzatorio, se non involontariamente: dovrebbe servire d’ammonimento!).

   La storia di Pelope è la fondazione di un dissesto insanabile per l’Umanità, è una sequenza di vendette familiari, di maledizioni che si ripercuotono, di gesti che, inesorabilmente ricadono su chi li ha commessi, di inganni disgustosi, di omicidi orribili. La storia di Pelope è uno stampo, una tragedia di cui non ci siamo più liberati. La storia di Pelope sembra ripetersi nella tragedia quotidiana! Oggi della storia di Pelope continua a rimanere un groviglio di calchi, e, calco dopo calco, la tragedia si ripropone, puntuale e quotidiana.

   Ma come cominciò tutto? Qual è lo stampo con il quale si ricalca la complicata rete dei racconti su Pelope? Tutto cominciò con un invito a pranzo, rivolto da un mortale agli Olimpi. Sapete chi era costui? E sapete come si sono svolti i fatti? E soprattutto, questi fatti che non avvennero mai, ma sono sempre: come facciamo a saperli – qualcuno ce li avrà raccontati, tramandati – ebbene, chi ce li ha raccontati, chi ce li ha tramandati?

   Prima di pronunciare le fatidiche parole conclusive (accorrete, la Scuola è qui!), leggiamo ancora un frammento da Memoriale del convento. I nostri eroi stanno per mettere in funzione la macchina per volare (l’uccellaccio), tentano di spiccare il primo volo (voleranno?), e la saggia Blimunda rivolge all’Angelo Custode una preghiera, e gli rammenta le tredici parole-chiave che un Angelo Custode deve conoscere: sarà bene che le conosciamo anche noi, queste parole, per dare una mossa agli Angeli, che non perdano la memoria, proprio ora, in un momento dell’anno, in cui, devono prepararsi a cantare: Beate le persone di buona volontà…

LEGERE MULTUM….

 José Saramago, Memoriale del convento (1982)

E ora che farai tu, Angelo Custode, non sei mai stato tanto necessario da quando ti hanno nominato per questo posto, ecco qui questi tre che fra non molto si solleveranno nell'aria, dove gli uomini non sono mai andati, e hanno bisogno di chi li protegga, loro hanno già fatto quanto potevano da soli, hanno riunito i materiali e le volontà, hanno coniugato il solido e l'evanescente, hanno unito tutto alla loro audacia e sono pronti, si tratta solo di finire di togliere questo tetto, chiudere le vele lasciar entrare il sole, e addio, andiamo, se tu, Angelo Custode, non aiuterai un pochettino almeno, non sei angelo né sei qualcos’altro,

... continua la lettura ...

    Tutto cominciò con un invito a pranzo, rivolto da un mortale agli Olimpi. Sapete chi era costui? E sapete come si sono svolti i fatti?

   Accorrete, allora, che è anche l’ultimo itinerario dell’anno 2003!

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Dicembre 12, 2003
Anno Scolastico: