Prof. Giuseppe Nibbi Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2004 3-4-5 novembre 2004
IL "ROMANTICISMO GALANTE" DI ELISABETH VIGÉE-LEBRUN …
La scorsa settimana, in compagnia del signor Vivant Denon, abbiamo riflettuto sul significato della parola "fascino", e sull’idea che questa parola esprime. Sappiamo che la parola "fascino", è strettamente collegata alla parola "museo". E sappiamo che queste due parole-chiave, museo e fascino, sono fondamentali nel dibattito culturale che, in questo momento – in quest’epoca, tra il 1700 e il 1800 – si sta svolgendo in Europa.
Questa sera, abbiamo un altro appuntamento, con il signor Vivant Denon perché è uno degli intellettuali europei che, in quest’epoca, partecipa intensamente al dibattito culturale. Chi è Vivant Denon, e che cosa possiamo conoscere e capire percorrendo il sentiero della sua vita che attraversa quest’epoca, ai confini tra l’illuminismo e il romanticismo? Ci siamo già imbattuti in alcuni frammenti della sua vita che coincide con un’epoca. Un’epoca, in cui si aprono, nelle città, degli spazi pubblici chiamati musei, un’epoca in cui entra, in un museo, anche un dipinto che sarà destinato a diventare il quadro più famoso del mondo: La Gioconda.
Nelle scorse settimane abbiamo osservato con attenzione la parola "fascino", l’abbiamo osservata nei suoi significati – priapèo e abrosyneo. Per capire il fascino che La Gioconda esercita tuttora, dobbiamo capire il clima culturale di un’epoca, posta tra il 1700 e il 1800, che chiamiamo genericamente l’epoca del "romanticismo".
Non è casuale il fatto per cui abbiamo conosciuto il signor Vivant Denon: noi lo abbiamo incontrato in quanto sovrintendente del museo del Louvre, il quale – in quanto sovrintendente – ha scritto, per primo, nel 1802, una Notizia, una descrizione ufficiale del dipinto intitolato La Gioconda che abbiamo letto e commentato. Questa sera, Vivant Denon, ci ha dato appuntamento, prima di tutto, ancora una volta, non proprio per parlarci di sé, ma per presentarci una persona, che, come lui, rappresenta anch’essa, un’epoca, ed è la protagonista dell’itinerario di questa sera. Questa persona si chiama Madame Elisabeth Vigée-Lebrun
Per capire di chi stiamo parlando, non facciamo gli indiscreti se, per prima cosa, andiamo a curiosare in un diario, in un diario scritto proprio da Madame Elisabeth Vigée-Lebrun (1755-1842), che è stato pubblicato, nel 1842, subito dopo la sua morte, col titolo di Souvenirs, (Ricordi), Sapete, il genere letterario "dell’autobiografia sotto forma di diario" è un genere che spesso si presenta noioso alla lettura: perché? Perché – ci dicono gli esperti di didattica della lettura e della scrittura – per avvicinarsi alla lettura dei diari personali è necessario un prerequisito: bisogna conoscere (almeno a grandi linee) il contesto storico, politico, sociale nel quale si svolgono gli avvenimenti personali raccontati. In questo caso, il diario, diventa una vera e propria miniera di dati, di notizie, di parole-chiave, di idee significative, utili, per investire in intelligenza. Naturalmente anche scrivere un diario risulta un costante investimento in intelligenza!
Madame Elisabeth Vigée-Lebrun, oltre ad avere la benemerita virtù di scrivere dieci minuti al giorno, è stata soprattutto una stimata pittrice, di ritratti a olio e a pastello. È stata anche la pittrice preferita di Maria Antonietta e, allo scoppio della Rivoluzione, per prudenza, Madame Vigée-Lebrun si è allontanata dalla Francia e ha viaggiato molto in Europa: è tornata a Parigi nel 1802, l’anno in cui Vivant Denon riceve l’incarico (da Napoleone) di sovrintendente del Louvre. Nel 1810, Madame Elisabeth Vigée-Lebrun, si trasferisce in un castello, in una piccola località nei dintorni di Parigi, a nord-est di Versailles che si chiama Louveciennes, nei pressi di Marly-le-Roi. A Louveciennes – che è un caratteristico borgo sulle alture che dominano una delle più ampie anse della Senna – Madame Elisabeth Vigée-Lebrun, si è dedicata soprattutto alla pittura di paesaggio.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Utilizzando una guida di Parigi, dell’Ile-de-France, potete fare una visita a questi luoghi - Marly-le-Roi, Louveciennes - e potete scoprire anche la presenza artistica di Madame Elisabeth Vigée-Lebrun, che ha lasciato traccia della sua arte nella bella chiesa gotica di St-Martin…
Andate alla ricerca, buon viaggio…
Sul suo diario Madame Vigée-Lebrun scrive anche una pagina in cui rievoca (50 anni dopo) una deliziosa serata (alla quale abbiamo già fatto cenno due o tre settimane fa) a Venezia, al Caffè Florian, nel 1792, in cui ha avuto Vivant Denon come accompagnatore. Leggiamo questa pagina.
LEGERE MULTUM…
Elisabeth Vigée-Lebrun, Ricordi (1842)
Ho passato una deliziosa serata veneziana, al Caffè Florian, in compagnia di Monsieur De Non (Madame Vigée-Lebrun scrive De Non staccato, nella forma originaria della nobiltà dell’Antico Regime: quando Monsieur De Non tornerà a Parigi, dopo la Rivoluzione, riterrà opportuno rendere il suo cognome con una parola sola, alla borghese). Monsieur De Non, anche quando era molto giovane, non è mai stato bello, il che non gli ha impedito di piacere a un gran numero di belle donne perché era dotato di tutte quelle doti che vanno sotto il nome di spirito: vivacità, galanteria, e quel non so che di malizioso nello sguardo, e nel sorriso, che tanto si teme e che pur tanto piace. E, con singolare e forse unico esempio, fu sempre carissimo agli uomini, benché fosse infinitamente caro alle donne, perché uomo di qualità, uomo galante e uomo onesto. Monsieur De Non ha incarnato nella sua persona tutto quanto di meglio aveva espresso un’epoca…
Questa pagina di diario di Elisabeth Vigée-Lebrun conferma quello che abbiamo già detto a proposito del dibattito in corso, in questo periodo, in Europa. Elisabeth Vigée-Lebrun scrive che: Monsieur De Non è dotato di tutte quelle doti che vanno sotto il nome di spirito (con la "s" minuscola). E la parola spirito (anche con la "s" minuscola) rimanda al concetto di interiorità.
Attenzione, dobbiamo ricordare che – come ci spiegano gli esperti – in Francia, nella seconda metà del 1700, si sviluppa un movimento culturale non omogeneo, al quale appartengono molti intellettuali, soprattutto artisti e artiste (ci sono molte donne). Questo movimento viene chiamato del "romanticismo galante": Vivant Denon, e Elisabeth Vigée-Lebrun vengono considerati appartenenti a questo movimento. Il "romanticismo galante francese" si differenzia dal "romanticismo titanico tedesco". Una delle differenze fondamentali, che abbiamo già avuto occasione di prendere in considerazione, riguarda il significato della parola "interiorità". Come sapete: la parola "interiorità" è una delle parole-chiave più importanti del romanticismo nel suo complesso e l’anno scorso abbiamo ampiamente riflettuto sul concetto di "interiorità" per introdurre il tema filosofico dell’Io che abbiamo svolto incontrando Fichte e incontrando Schelling (dico, per i corsari della primavera scorsa…). Anche per Vivant Denon – in quanto appartenente al movimento culturale del "romanticismo galante francese" – il concetto di interiorità fa riferimento diretto ai problemi dello spirito: avere uno "spirito interiore" significa coltivare delle competenze nel senso della "galanteria". Con lo spirito interiore si coltivano competenze galanti: il garbo, l’eleganza, la finezza, la distinzione, la gentilezza, la cortesia, la bella maniera, il complimento, la civetteria. Ecco una serie di elementi, di parole-chiave, che caratterizzano il romanticismo galante, e che condizionano la produzione artistica.
E qui ci dobbiamo domandare: sono queste competenze – oltre alle competenze artistiche – che hanno permesso a Vivant Denon (e anche a Elisabeth Vigée-Lebrun) di passare indenne attraverso un’epoca di repentini e drammatici cambiamenti politici – rimanendo, tra l’altro, sempre sulla cresta dell’onda – dall’Antico Regime dei re, attraverso le varie fasi della Rivoluzione, dell’impero napoleonico, fin oltre la Restaurazione borbonica? Per Vivant Denon – e per Elisabeth Vigée-Lebrun – la parola "interiorità" fa riferimento diretto alla coscienza del proprio narcisismo, alla capacità di piacersi nel proprio intimo per essere in grado di emanare fascino, un "fascino naturale". Che cosa significa? Ecco che, la parola "fascino" – di cui conosciamo la storia nei suoi risvolti priapèi e abrosynei – comincia ad essere accompagnata da alcuni aggettivi, uno di questi è l’aggettivo "naturale". Per Vivant Denon – e per Elisabeth Vigée-Lebrun – l’interiorità, s’identifica, non tanto con la "tragedia interiore" – cara ai "romantici tedeschi" – in cui, nell’intimo della coscienza, ci si domanda, drammaticamente: c’è del "bene" dentro di me? E si dà, prima di tutto, una valutazione morale, etica della realtà. Per Vivant Denon – e per Elisabeth Vigée-Lebrun – l’interiorità, s’identifica piuttosto con la "commedia interiore" in cui, nell’intimo, ci si pone il problema di come poter emanare il fascino necessario per piacere all’esterno: c’è del "bello" dentro di me?
Con questo interrogativo si pensa, prima di tutto, a dare una valutazione estetica della realtà…e ci si pone il problema di come mostrare il "bello" che è dentro di noi, e, soprattutto di mostrarlo: "in modo naturale".Quindi, per il romanticismo galante francese, il tema di come mostrarsi in "modo naturale" (Comportati in modo naturale!) diventa il problema culturale da affrontare. E, che cos’è "il bello" per questi artisti (Denon, Vigée-Lebrun)? Il "bello" – per questi artisti – corrisponde a ciò che è "naturale". Che cosa significa? Significa che corrisponde a ciò che è vitale, originario, nativo, innato, spontaneo.
I Ricordi, il diario di Elisabeth Vigée-Lebrun ha proprio la caratteristica di osservare e di descrivere gli avvenimenti, gli oggetti e le persone attraverso uno spirito interiore permeato da competenze galanti: il garbo, l’eleganza, la finezza, la distinzione, la gentilezza, la cortesia, la bella maniera, il complimento, la civetteria. Attenzione: queste competenze galanti – fuori dall’ambito della frivolezza – condizionano il modo di usare le parole, di usare i colori, di usare le forme: condizionano il modo di fare arte. Le competenze galanti devono manifestarsi con "naturalezza": contrariamente danno luogo a una forma, a una maniera di esprimersi ridicola, affettata, innaturale. Il romanticismo galante francese reagisce, con pungente ironia, contro il cicisbeismo artefatto e innaturale. L’intellettuale galante e la intellettuale galante si distinguono dal cavalier servente, dal cicisbeo artefatto e innaturale e dalla dama artefatta e innaturale. L’intellettuale galante e la intellettuale galante sono alla ricerca della "naturalezza" e respingono la frivolezza.
I Ricordi, il diario di Elisabeth Vigée-Lebrun – come tutti i diari su cui, in questi anni, abbiamo puntato la nostra attenzione, in funzione della didattica della lettura e della scrittura – è una miniera assai preziosa. Scavando (leggendo…) si possono fare delle scoperte molto interessanti! E allora andiamo alla scoperta. Vivant Denon non ci ha fatto incontrare Madame Vigée-Lebrun per caso: ci sono delle ragioni, attenzione.Nel 1783 Elisabeth Vigée-Lebrun è a Versailles per ritrarre Maria Antonietta: è la pittrice preferita della regina. Un pomeriggio, la regina, invita la sua pittrice a seguirla, e la porta in un padiglione trasformato in pinacoteca dove sono conservati dei quadri: una parte del patrimonio artistico dei re di Francia.
Leggiamo e ascoltiamo dalla viva voce di Madame Vigée-Lebrun questo racconto.
LEGERE MULTUM…
Elisabeth Vigée-Lebrun, Ricordi (1842)
Quello stesso pomeriggio la regina scese ma non volle posare, volle che la seguissi in un padiglione dove, mi disse, erano conservati molti dipinti: voleva mostrarmene uno in particolare. Fu così che ci trovammo di fronte al dipinto di Leonardo, di fronte al ritratto di quella sconosciuta signora fiorentina che il pittore italiano aveva affidato al re di Francia. Rimanemmo a lungo in silenzio a osservare quella straordinaria figura, come per capire chi e che cosa avevamo davanti, ma quella cinquecentesca signora fiorentina ci irrideva con il suo sorriso, ammaliante, e pieno di mistero. Ci domandammo se fosse una modella ritratta per passione oppure se fosse una sposa raffigurata per commissione. Civettammo sul fatto che, una sposa, si presentasse alla sua glorificazione raffigurativa senza insegne della sua dignità: senza anello, senza gioielli, esposta a quell’abisso che stava alle sue spalle. Questo ritratto, dicemmo, dovette forse causare uno scandalo quando fu esposto al giudizio dei committenti, al giudizio del marito. Forse al pittore fu richiesto di ritoccare il quadro, forse si oppose e volle tenerlo per sé così com’era, rinunciando anche al compenso: ridemmo al pensiero che, in un certo senso, il seducente pittore, volle come impossessarsi di quella signora. Ci divertimmo anche a ricordare la vecchia Marchesa d’Urfé che, volendo ringiovanire e volendo assumere il sorriso della Madonna del Giocondo – che aveva potuto ammirare durante un raduno di nobili intorno al re – fu circuita e salassata nelle sue finanze, per la sua credulità nelle arti magiche di quell’avventuriero veneziano che la convinse di poter esaudire il suo desiderio. La regina mi chiese se pensavo vi fosse un messaggio misterioso in quel ritratto, io pensavo, e lo dissi alla regina, che il pittore probabilmente stava mostrando uno stile nuovo, uno stile più naturale: quella modella era prima di tutto una donna, e dopo rappresentava il suo ruolo, e quel sorriso, che parte dagli occhi, ci rivelava che era lei la vera artista: è il suo fascino a guidare la mano al pittore. Fu così che, più tardi, la regina posò in modo meno regale, in una maniera più naturale e dipinsi quel ritratto della regina che, quando fu esposto suscitò grande scalpore e molte maldicenze: i critici dissero che la regina appariva indecente e per nulla regale, ma in realtà io cercavo solo di mostrare uno stile nuovo ormai emergente, uno stile più naturale che credo di aver contribuito a rendere popolare.
Ci rendiamo conto che, questa pagina di diario, è di grande interesse e ci offre la possibilità di fare una serie di riflessioni e di considerazioni molto significative. La prima considerazione riguarda proprio l’autrice di questo diario, Elisabeth Vigée-LeBrun nella sua qualità di pittrice, di testimone di un’epoca e di appartenente a quell’eterogeneo movimento culturale che è stato chiamato del "romanticismo galante francese". I Ricordi di Elisabeth Vigée-LeBrun sotto forma di diario hanno permesso agli studiosi di capire e di definire meglio questo eterogeneo e complesso movimento culturale che si caratterizza per lo stretto intreccio tra pittura e letteratura.
Elisabeth Vigée-LeBrun fa parte di un consistente gruppo di donne pittrici professioniste che, tra il 1700 e il 1800, sono in competizione con i loro colleghi maschi, e in competizione anche fra loro stesse per ottenere clienti e ottenere un posto nelle accademie più prestigiose. Questa riscossa femminile, in Francia, fu temuta dai maschi – che detenevano il potere in tutte le sfere della società – e, questo timore, portò a restrizioni nel numero dei membri donne in varie istituzioni, e persino all’esclusione delle donne dall’Accademia reale francese, che già nel 1706 aveva votato perché non fossero più ammesse le donne.
Questa infelice decisione fu poi – in modo un po’ ridicolo – cambiata dagli accademici, i quali decretarono di riammettere le donne all’Accademia reale di Francia, ma in numero chiuso: non più di quattro. È chiaro, quindi, che le opportunità per le donne di raggiungere la fama e il successo, nei confronti dei loro contemporanei maschi erano limitate. Peggiorava la situazione il fatto che esse non potevano esercitarsi nelle accademie né frequentare le lezioni di disegno dal vero (potevano fare le modelle, magari nude, ma le studentesse no!).
Nonostante tutto, ci fu un gran numero di artiste donne nel diciottesimo secolo che divennero note per il loro talento, nell’insegnamento, per innovazioni stilistiche, per le loro influenze su altri artisti e per una certa prosperità (anche economica) che determinava la loro indipendenza. Questa situazione la possiamo vedere perfettamente realizzata nella vita e nelle opere di Elisabeth Vigée-Lebrun, una dei più famosi e prolifici ritrattisti di tutta la storia dell’arte. Da un suo conteggio, ha eseguito più di novecento opere durante i suoi ottantasette anni di vita (1755-1842). Fra queste opere ci sono dipinti di storia, e paesaggi, ma la stragrande maggioranza sono ritratti, raffinati e idealizzati, degli aristocratici più eminenti del suo tempo: sono le straordinarie immagini di un’epoca, filtrate attraverso l’occhio, lo stile, la cultura di questa artista. La parte più interessante – a detta degli esperti – del lavoro di pittrice di Elisabeth Vigée-Lebrun sono i suoi autoritratti. Negli autoritratti, e nei ritratti di Elisabeth Vigée-Lebrun – ci dicono gli esperti – possiamo vedere, come in filigrana, i temi del "romanticismo galante francese": il garbo, l’eleganza, la finezza, la distinzione, la gentilezza, la cortesia, la bella maniera, il complimento, la civetteria, ma non solo. Possiamo vedere anche – ci dicono gli esperti – uno stile nuovo ormai emergente, uno "stile più naturale" che – questa pittrice, come lei stessa afferma nel suo diario –ha contribuito a rendere popolare in Europa.
Attenzione, "uno stile più naturale": scrive Madame Vigée-Lebrun nel suo diario, lo attribuisce anche a Leonardo come ritrattista de La Gioconda. Il diario di Madame Elisabeth Vigée-Lebrun contiene il primo commento artistico de La Gioconda nel periodo del romanticismo galante francese. In questo momento (1783), La Gioconda è un’illustre sconosciuta, è un oggetto che appartiene ai re: chi la poteva vedere se non poche persone, spesso incompetenti?
Madame Vigée-Lebrun cita Leonardo come "il pittore che probabilmente stava mostrando uno stile nuovo, uno stile più naturale". Ma, l’uso della parola "naturale", per Madame Vigée-Lebrun, è legato però al Rinascimento solo attraverso un ricordo intellettuale, attraverso una citazione culturale ormai lontana nel tempo. Per Madame Vigée-Lebrun il termine "naturale" fa piuttosto riferimento a uno dei temi fondamentali del romanticismo: il tema della Natura che ha avuto un grande sviluppo nel romanticismo tedesco (come abbiamo studiato a primavera). E voi sapete che, in Francia – prima dei romantici tedeschi – il grande propositore del tema della Natura è stato Jean Jacques Rousseau (1712-1778) (Ricordate? Abbiamo detto che lo avremmo incontrato ancora!…). Nel pensiero di Rousseau, la Natura e i sentimenti s’intrecciano, s’incontrano, e nelle opere di Rousseau le manifestazioni della Natura servono allo scrittore per descrivere i sentimenti dell’animo umano. Le manifestazioni esteriori della Natura rispecchiano i moti dell’interiorità dell’animo umano.
Noi abbiamo incontrato Rousseau nel Percorso del 2002, dentro al territorio dell’Illuminismo, e abbiamo imparato – studiando alcune delle sue opere, l’Emilio (1762), le Confessioni (1771) – che Rousseau ha avuto un ruolo importante nella nascita e nello sviluppo dei temi del Romanticismo. Ebbene quando Elisabeth Vigée-Lebrun pensa a uno "stile più naturale" si rifà al pensiero di Jean Jacques Rousseau e a un’opera letteraria in particolare: quale? C’è un’opera di Rousseau, pubblicata nel 1761, che ottiene subito un grande successo e viene letta con molto interesse negli ambienti più illuminati dell’aristocrazia, anche se con circospezione, perché Rousseau era un autore sospetto, controcorrente, inviso alla Corte ed era antipatico anche agli illuministi (Diderot, D’Alembert) dai quali si era distaccato polemizzando violentemente. Quest’opera di Rousseau s’intitola Julie ou la Nouvelle Eloïs, romanzo epistolare i cui protagonisti ci raccontano gli avvenimenti scrivendosi, scambiandosi delle lettere. Questo romanzo epistolare – un genere letterario consueto nella letteratura del romanticismo – esalta due sentimenti che l’autore considera "naturali" per eccellenza: l’amore e l’amicizia. La persona – secondo Rousseau – ama il prossimo e coltiva l’amicizia in modo naturale: se nei comportamenti c’è "artificio", non c’è né amore né amicizia. Per Rousseau c’è una religione del cuore, indipendentemente dalla ragione che risulta una facoltà artificiale. Difatti spesso la ragione – sostiene Rousseau in polemica con gli illuministi – diventa un impedimento per la piena realizzazione dei veri sentimenti.
Rousseau – ne La Nouvelle Eloïse – trasforma questi due sentimenti, l’amore e l’amicizia, quelli che lui chiama i due "idoli del cuore", in tre personaggi ideali. Poi, come al solito – teniamo conto del fatto che Rousseau è un seducente scrittore – riesce a colorire, riesce a dipingere con le parole questi personaggi costruendo immagini letterarie di grande fascino.
La Nouvelle Eloïse non è un testo di facile lettura, è un romanzo filosofico, e la storia, molto intrigante – raccontata attraverso le lettere che i protagonisti si scrivono – è un pretesto: in realtà Rousseau vuole compiere una riflessione su grandi temi platonici, sul concetto del bene, del bello, del buono e del giusto. La trama del romanzo è caratterizzata dall’amore tra Giulia e Saint-Preux, un amore reso difficile dagli ostacoli posti soprattutto dalla famiglia di lei che ha già programmato per Giulia, fin da bambina, il matrimonio con un ricco e aristocratico signore. Ma Giulia d’Étanges s’innamora, riamata, del suo precettore Saint-Preux: come una novella Eloisa che si innamora del suo maestro Abelardo. Ma le convenienze sociali dividono queste due persone, e Saint-Preux deve abbandonare l’incarico di precettore e abbandona anche la Svizzera – dove il romanzo è ambientato – e da Ginevra emigra a Parigi. Giulia è costretta dai suoi genitori a celare questo suo sentimento, e acconsente a sposare il non più giovane signore di Wolmar adempiendo a tutti i suoi doveri di sposa e ai suoi doveri di madre (matris-monia), ma non dimentica Saint-Preux e, in modo molto leale, a un certo punto, sente il bisogno di confessare al marito questo suo sentimento, sente il bisogno di raccontare al marito la sua storia d’amore…succeda quel che succeda!Il signore di Wolmar, che vuole bene a questa fanciulla, e che non aveva mai sospettato di nulla, capisce tutta la situazione: non si sente affatto tradito anzi apprezza la sincerità della moglie e, per testimoniare a lei tutto il suo affetto, e per testimoniare tutta la sua stima nei confronti di Saint-Preux, lo manda a chiamare, lo invita, lo ospita e lo incarica del ruolo di precettore dei figli. Saint-Preux che, nel frattempo, ha viaggiato in Europa e in America, e che non ha certamente dimenticato Giulia, anzi il suo amore per lei è cresciuto, accetta l’invito, l’ospitalità e l’incarico di precettore e si stabilisce nel castello di Wolmar. Saint-Preux viene avvertito da Giulia, per lettera, che suo marito, il signore di Wolmar è al corrente della loro storia d’amore.
A questo punto Rousseau, attraverso i personaggi idealizzati del suo romanzo, ci mette – e mette tutta una generazione – di fronte a una situazione paradossale, quella del trionfo del sentimento dell’amore, del sentimento dell’amicizia e del sentimento della stima reciproca: il signore di Wolmar viene presentato da Rousseau come un vero "romantico gentiluomo galante", il quale vorrebbe sinceramente che sua moglie realizzasse il suo amore "naturale". Giulia si trova tra due fuochi: da una parte l’affetto che nutre per il marito e dall’altra l’innamoramento che si ravviva nei confronti di Saint-Preux. Saint-Preux ama sempre di più Giulia ma non vuole tradire il signore di Wolmar che stima molto per il suo comportamento "romantico", per la sua capacità di comprendere la differenza tra le convenzioni sociali dettate dalla ragione, che sono la causa convenzionale del suo matrimonio programmato con Giulia, e le ragioni del cuore che sono la causa naturale dell’amore.
Il messaggio filosofico di Rousseau è legato alla riflessione centrale del suo pensiero: la ragione è astuta e direbbe di approfittare, ma il cuore invita "naturalmente" a sottostare ai veri sentimenti. Infatti, dopo un inverno trascorso con i Wolmar, Saint-Preux decide di ripartire, ma viene presto richiamato da una lettera di Clara, cugina di Giulia, la quale gli comunica che Giulia è in fin di vita per aver coraggiosamente salvato uno dei suoi bambini che era caduto nel lago. Prima di morire Giulia supplica Saint-Preux di rimanere nella sua casa per occuparsi dell’educazione dei suoi figli.
Questo romanzo, appena fu pubblicato (1761), ha avuto un enorme successo, tanto per la sua trama che risulta – in questo triangolo amoroso – inquietante, quanto per il pensiero che veicola. Per noi non è un testo di facile lettura perché, oggi, ci appare molto lento, di una lentezza esasperante nel suo procedere…e la lentezza ci è sfuggita di mano! Ci sono tuttavia pagine descrittive di grande bellezza sulla natura, sul rapporto tra la natura e i sentimenti, pagine che hanno fatto scuola a scrittori e pittori. E poi ci sono – come al solito in Rousseau – lunghe dissertazioni (questo è un motivo di lentezza) sui più svariati argomenti: sociali, politici, religiosi, filosofici, pedagogici.
Leggiamo una pagina giustamente famosa del romanzo La Nuova Eloisa: una pagina significativa per capirne lo spirito e lo stile. È il racconto del ritorno di Saint-Preux, accompagnato da Giulia, nel villaggio di Meillerie…
La descrizione del paesaggio alpino, affascinante per il suo orrore, è un modello del gusto romantico per la natura "deserta e selvaggia" che diventa una moda per gli scrittori, i poeti, i pittori, (gli alpinisti: nasce l’alpinismo moderno!). La descrizione del paesaggio naturale è collegata alla descrizione dei sentimenti amorosi, soprattutto alla sofferenza che procurano gli addii, e che trova, nella solitudine dei monti (Rousseau cita il Petrarca e il Tasso), il posto adatto per manifestarsi: esiste uno stretto rapporto tra la solitudine dei monti e l’interiorità della persona.
LEGERE MULTUM…
Jean Jacques Rousseau, Giulia o La Nuova Eloisa (1761)
Riconoscendo quei luoghi mi prese un forte turbamento, ma mi vinsi agli occhi di lei. Quel posto solitario forma un asilo selvaggio e deserto, ma pieno di quelle bellezze che piacciono alle anime sensibili e sembrano orrende alle altre. Un torrente nutrito dallo sciogliersi delle nevi precipitava a venti passi da noi, le sue acque torbide trascinavano fragorosamente fango, sabbia e pietre. Dietro di noi una catena di inaccessibili rupi separava lo spiazzo, sul quale stavamo, da quella parte delle Alpi detta "i ghiacciai", perché coperta, fin dal principio del mondo, da enormi cime di ghiaccio che continuamente si accrescono.
Foreste di neri abeti formavano una lunga ombra a destra. A sinistra, oltre il torrente, si ergeva un gran bosco di querce, e, sotto di noi, c’era la sterminata distesa d’acqua di un lago che, in mezzo alle Alpi, ci separava dai ricchi pendii del paese di Vaud, e, questo grande quadro naturale, era coronato dalla cima imponente del Giura.
Tra questi grandi e magnifici oggetti, il poco terreno sul quale stavamo, mostrava gli incanti d’un soggiorno ridente e campestre; alcuni ruscelli trapelavano dalle rocce e scorrevano sul verde come fili di cristallo. Alcuni alberi da frutta selvatici curvavano su di noi i loro rami come a delineare un abbraccio; la terra umida e fresca era coperta d’erba e di fiori. Un così dolce soggiorno pareva dovesse essere il rifugio di due amanti scampati loro soli allo sconvolgimento della natura. Quando ci fermammo, guardandola con commozione, dissi a Giulia: "Il cuore non ti dice niente, non provi una segreta emozione?". Allora, senza aspettare la sua risposta, la condussi verso una rupe e le mostrai la lettera del suo nome che avevo inciso in mille posti, e vari versi del Petrarca e del Tasso relativi alla situazione in cui mi trovavo, che avevo inciso sulla roccia. Rivedendoli, dopo tanto tempo, sentii come la presenza degli oggetti può potentemente rianimare i sentimenti violenti e ne fummo scossi. Le dissi: "O incanto eterno del mio cuore! Ecco i luoghi dove per te sospirò il più fedele amante del mondo, dove la tua cara immagine faceva la sua felicità. Non si vedevano allora né questi frutti né queste ombre: né erba né fiori tappezzavano questo terreno, né il corso di questi ruscelli lo divideva; questi uccelli non facevano udire i loro gorgheggi, il vorace sparviero, il corvo funesto e la terribile aquila alpina facevano echeggiare coi loro stridi queste caverne; immensi ghiacci pendevano da queste rocce; festoni di neve erano l’unico ornamento di questi alberi; tutto qui respirava i rigori dell’inverno e gli orrori del gelo; soltanto i fuochi del mio cuore mi rendevano tollerabile questo luogo, e trascorrevo i giorni interi pensando a te. Ecco la pietra sulla quale mi sedevo per contemplare da lontano, su questa scrissi la lettera che ti toccò il cuore; queste pietre aguzze mi servirono da bulino per incidere la tuo nome; qui passai il torrente ghiacciato per ripigliare una tua lettera rapitami da una folata di vento; là venni a rileggere e a baciare mille volte l’ultima che mi scrivesti; ecco il ciglio, dal quale, con occhio avido e cupo, misuravo la profondità di questi abissi"… Volevo continuare, ma lei, che s’era spaventata vedendo che mi avvicinavo al ciglio, m’aveva preso la mano e me la strinse senza dir nulla, guardandomi con tenerezza e trattenendo a stento un sospiro; poi, a un tratto, volgendo altrove lo sguardo e tirandomi per un braccio: "Andiamocene, caro amico" mi disse con voce commossa "l’aria di questo posto non è buona per me". Partii con lei, ma senza risponderle, e per sempre lasciai quel triste asilo, come se, oramai, avessi lasciato lei stessa. Tornati al porto ci separammo, volle rimanere sola, e io continuai a camminare senza sapere dove andassi; quando tornai la barca non era ancora pronta, né l’acqua tranquilla, perciò cenammo malinconicamente, a occhi chini, con aria assente; mangiammo poco e parlammo ancor meno. Dopo cena andammo a sederci sulla riva del lago aspettando il momento di partire. Insensibilmente spuntò la luna, l’acqua si fece più tranquilla, e lei propose di partire. Le diedi la mano per entrare nella barca, sedemmo accanto, eravamo silenziosissimi.
Il rumore cadenzato dei remi m’incitava a sognare. Il canto piuttosto lieto dei beccaccini, mi ricordò i piaceri di un’altra età, e così, invece di rallegrarmi mi, rattristò. A poco a poco sentii aumentare la malinconia che m’opprimeva. Un cielo sereno, il dolce raggio della luna, il fremito d’argento dell’acqua che ci brillava intorno, il concorso delle più piacevoli sensazioni, persino la presenza di quel corpo adorato: nulla riuscì a distogliere il mio cuore da mille dolorose riflessioni.
Questo linguaggio può sembrarci "sdolcinato", ma, in realtà, quando siamo travolti dai sentimenti: si manifesta questo "genere di linguaggio". Attenzione, l’illuminismo nega questo linguaggio, gli illuministi considerano sconveniente esprimersi pubblicamente in questo modo, perché considerano inopportuno farsi travolgere dai sentimenti. La fredda ragione deve controllare i cuori, gli animi, gli impulsi, le emozioni, le passioni: ma è davvero in grado di controllarli? Rousseau lancia la sfida, ha il coraggio di usare questo linguaggio, e possiede la capacità di tradurre in parole gli impulsi, le emozioni, le passioni, i sentimenti, che sono – secondo lui – "oggetti naturali", e quindi travolgenti, forti, irresistibili, come le manifestazioni della Natura: come i torrenti, come i ghiacciai, come gli abissi, come le vette.
Rousseau sceglie, non di mettere la ragione a guardia dei sentimenti, ma di mettere la ragione al servizio dei sentimenti, e, come scrittore "romantico", avrà uno straordinario successo perché i sentimenti non possono essere rimossi dalla ragione, ma vanno curati con l’intelletto (così come la Natura andrebbe protetta con l’ecologia). Ed ecco che Elisabeth Vigée-Lebrun fa parte di quella generazione di lettori che si riconosce nel linguaggio e nelle idee di Rousseau!
E allora, torniamo all’attività e alle opere di Elisabeth Vigée-Lebrun, la quale, non a caso, ha voluto chiamare sua figlia, Julie. La sua più importante committente è stata la tanto malignata regina di Francia, Maria Antonietta: queste due donne sono coetanee, sono nate entrambe nel 1755. Vigée-Lebrun dipinse più di venti ritratti della regina austriaca di Francia, dal 1778 fino alla fuga precipitosa della pittrice dalla Francia, nella notte in cui i regnanti furono fatti prigionieri dalla folla rivoluzionaria, il 6 ottobre 1789. Questi ritratti di Maria Antonietta eseguiti da Elisabeth Vigée-Lebrun sono molto noti, e altrettanto noti sono gli autoritratti di Elisabeth Vigée-Lebrun .
I due ritratti ufficiali di Elisabeth Vigée-Lebrun più noti che raffigurano la regina sono entrambi in mostra a Versailles, e s’intitolano Maria Antonietta con in mano una rosa (1784) e Maria Antonietta coi suoi figli (1787): quest'ultimo, rappresentante il gruppo di famiglia, è uno dei dipinti più grandi e più noti in mostra a Versailles. Il ritratto intitolato Maria Antonietta coi suoi figli è stato commissionato a Elisabeth Vigée-Lebrun dallo Stato, dal regno di Francia, con scopi propagandistici perché il popolo odiava la regina e la considerava una cattiva madre, ci voleva un’immagine convincente che la riabilitasse. In questo ritratto Vigée-Lebrun promuove l’ideale roussouiano della famiglia felice. Quest’immagine, Elisabeth Vigée-Lebrun la userà più tardi nei suoi autoritratti con la figlia Julie.
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Su internet al nome di Vigée-Lebrun corrispondono più di duemila siti di cui 91 sono in lingua italiana… Fai – se sei in grado - una visita sulla rete a Elisabeth Vigée-Lebrun…
Molti siti riportano le sue opere: i ritratti di Maria Antonietta e i suoi, altrettanto famosi, autoritratti…
Che cosa ti fa venire in mente la parola "ritratto"? C’è un ritratto che ti affascina particolarmente? C’è un ritratto che ti raffigura? Chi lo ha disegnato o dipinto? Ha una storia il tuo ritratto? Hai mai disegnato il tuo autoritratto?
Scrivi quattro righe in proposito…
La parola-chiave più significativa, che incontriamo strada facendo questa sera, è la parola "ritratto", insieme con la parola "autoritratto". Nei pressi della parola "ritratto" parte un sentiero che si snoda per un territorio vastissimo che corrisponde a quello dell’intera Storia del Pensiero Umano. Il romanticismo – in particolare quello "galante francese" – dà a questo termine un valore particolare. Il ritratto può avere una funzione celebrativa, istituzionale, e, in questo caso, è un oggetto, è un’immagine che si lega con la potenza del potere e con i suoi simboli. Ma il ritratto – già dal Rinascimento – vuole manifestare anche una "apparenza", una "sembianza", quindi una "presenza": la presenza di un volto, di un volto amato, amico, complice negli affetti. Il romanticismo esalta questo aspetto del significato del termine ritratto, e chi esegue il ritratto viene chiamato, non tanto a ritrarre il committente per celebrarlo, e per esporlo agli occhi di tutti nella sua potenza, ma piuttosto per rappresentarlo disponibile all’affetto, nell’ambito della cerchia degli affetti.
Nei due ritratti ufficiali di Elisabeth Vigée-Lebrun che s’intitolano Maria Antonietta con in mano una rosa (1784) e Maria Antonietta coi suoi figli (1787), la regina indossa abiti eleganti ed elaborati come segno distintivo del suo potere e della sua regalità. Questi abiti non erano del genere preferito dalla pittrice, ma li dipinse lo stesso con impegno perché doveva anche fare ammenda nei riguardi della Corte. Perché Elisabeth Vigée-Lebrun doveva fare ammenda nei confronti della Corte?
Attenzione: torniamo alla pagina di diario che abbiamo letto e alla seconda considerazione che dobbiamo fare. Ricordiamo che i suoi Souvenirs, i suoi Ricordi, Elisabeth Vigée-Lebrun li scrive quando è ormai un’ottantenne, comincia a scriverli nel 1836, a quasi cinquat’anni di distanza da questi avvenimenti e quindi ormai non ha più (quasi) nulla da nascondere. Vigée-Lebrun scrive nel suo diario…
LEGERE MULTUM…
Elisabeth Vigée-Lebrun, Ricordi (1842)
Detestavo lo stile degli abiti femminili allora in voga, impiegavo tutti i miei sforzi per rendere gli abiti più pittoreschi, più naturali, ed ero deliziata quando, dopo aver preso confidenza con le mie modelle, riuscivo a drappeggiarle secondo la mia fantasia…
Ebbene, ha fatto così anche Leonardo con La Gioconda? Leggendo il diario di Madame Vigée-Lebrun si capisce che lei pensa che, anche lui, abbia "drappeggiato la sua modella secondo la sua fantasia", in modo più naturale. Compito del ritrattista, secondo Vigée-Lebrun – che, in questo caso, s’ispira a Leonardo, e poi, per avvalorare lo stesso concetto, s’ispirerà a Raffaello e a Rembrandt – è quello di ritrarre il soggetto non così com’è, ma trasfigurato attraverso la fantasia dell’autore, in modo da evidenziare l’aspetto "galante" della persona ritratta, in modo da evidenziare il garbo, l’eleganza, la finezza, la distinzione, la gentilezza, la cortesia, la bella maniera, il complimento, la civetteria. Questo, per Vigée-Lebrun, significa esprimere uno stile più naturale.
Ma rileggiamo la parte finale della pagina di diario che stiamo commentando, in cui Vigée-Lebrun racconta la sua visita a La Gioconda accompagnata dalla regina Maria Antonietta.
LEGERE MULTUM…
La regina mi chiese se pensavo vi fosse un messaggio misterioso in quel ritratto, io pensavo, e lo dissi alla regina, che il pittore probabilmente stava mostrando uno stile nuovo, uno stile più naturale: quella modella era prima di tutto una donna, e dopo rappresentava il suo ruolo, e quel sorriso, che parte dagli occhi, ci rivelava che era lei la vera artista: è il suo fascino a guidare la mano al pittore. Fu così che, più tardi, la regina posò in modo meno regale, in una maniera più naturale e dipinsi quel ritratto della regina che, quando fu esposto, suscitò grande scalpore e molte maldicenze: i critici dissero che la regina appariva indecente e per nulla regale, ma in realtà io cercavo solo di mostrare uno stile nuovo ormai emergente, uno stile più naturale che credo di aver contribuito a rendere popolare.
Questo ormai famoso e controverso ritratto fu chiamato Maria Antonietta in camicia ed è stato dipinto nel 1783, in una particolare circostanza in cui gioca un ruolo anche l’immagine de La Gioconda, come se, questa immagine, fosse servita per allentare i freni inibitori. Ebbene la "camicia" in questione, che suscitò tanto scalpore, sarebbe l’abito di mussola leggera, legato in vita, indossato dalla regina, la quale indossa anche un cappello di paglia adornato con piume e un nastro, e ancora tiene in mano il suo simbolo, la rosa. Quest’opera causò uno scandalo quando fu esposta al Salon del 1783 e Vigée-Lebrun fu obbligata a ritirare il quadro appena pochi giorni dopo l’apertura dell’esposizione. I critici dissero – ce lo conferma anche lei, difendendo però il suo lavoro – che la regina appariva indecente e per nulla regale: non si era mai vista una regina, in un quadro che la rappresenta, abbigliata in simile maniera, in camicia. In realtà l’artista stava solo mostrando uno stile nuovo ormai emergente, uno stile che, la stessa Vigée-Lebrun, chiama: naturale e che lei stessa rese popolare.
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La mussola è un tessuto trasparente di seta, di lana o di cotone: ti ispira qualche pensiero o qualche ricordo la parola "mussola"?
Scrivi quattro righe in proposito…
Vigée-Lebrun ha passato dodici anni in esilio dopo la sua fuga da Parigi del 1789. Durante questo periodo fu accolta in tutta Europa e in Russia, dove continuò ad essere sommersa da commissioni di ritratti e fu fatta membro di quasi tutte le maggiori accademie d’arte. Vigée-Lebrun passò anche da Firenze e vi soggiornò per breve tempo. A Firenze le fu chiesto di fare un suo autoritratto per la galleria degli Uffizi, all’epoca il granduca era il fratello di Maria Antonietta: chi era questo granduca? Dobbiamo ricordare che Maria Antonietta era una Asburgo-Lorena, era la figlia dell’imperatore Francesco I e di Maria Teresa d’Austria . Anche Firenze alla fine del ‘700 era governata dai Lorena-Asburgo.
In questo "dipinto per gli Uffizi", che fu realizzato a Roma nel 1790, Vigée-Lebrun ha voluto mettere in evidenza il suo ruolo di artista di professione, e si autoritrae al cavalletto, con i pennelli e la tavolozza, ma sottolinea anche il suo essere stata la ritrattista della regina, e si autoritrae mentre sta ritraendo la regina Maria Antonietta. Ma la regina era destinata a perdere la testa, e quando Vigée-Lebrun dipinse una copia di questo quadro cambiò il soggetto che stava ritraendo, sostituì il volto della regina con quello di sua figlia Julie, questo per ragioni politiche: desiderava tornare in patria. Vigée-Lebrun dipinge ance una terza versione di questo suo autoritratto per gli Uffizi: questa volta la pittrice si autoritrae mentre sta facendo il ritratto a Raffaello.
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È esposto agli Uffizi l’autoritratto di Elisabeth Vigée-Lebrun? Questo fatto merita una ricerca e quattro righe scritte, in proposito…
Questo è un riferimento alla sua ammirazione per il grande maestro del Rinascimento, ma anche al fatto che, con il suo autoritratto per gli Uffizi, si era guadagnata un posto tra i grandi artisti della storia, compreso Raffaello. Di questo autoritratto con Raffaello esiste una incisione fatta dal suo amico Vivant-Denon durante la sua visita a Venezia nel 1792. E così siamo tornati al caffè Florian, da dove eravamo partiti.
Nel suo diario, Madame Vigée-Lebrun, ci racconta che, durante il suo esilio, suo marito, il signor Lebrun che era un proprietario terriero ed "era – scrive Vigée-Lebrun – uno sfruttatore donnaiolo e aveva scialacquato tutti i suoi soldi", divorziò da lei perché le sue proprietà non gli venissero confiscate. Lei, infatti, era considerata troppo compromessa con l’Antico Regime. In esilio, Vigée-Lebrun, libera da vincoli, poté tenersi l’ingente somma di denaro accumulata col suo lavoro di pittrice. Successivamente – quando tornò in Francia – userà questa fortuna economica per comprare per se stessa, e per sua figlia Julie, tutte le proprietà (a Louveciennes) dell’ex-marito.
Elisabeth Vigée-Lebrun è figlia del pittore Louis Vigée, esperto nell’uso del pastello, il quale ebbe appena il tempo di iniziarla alla pittura perché morì quando lei aveva solo 12 anni. Nel suo diario, Elisabeth Vigée-Lebrun, cita come suoi maestri e modelli alcuni pittori di cui ha studiato e riprodotto le opere: Raffaello e Rembrandt. Ma il pittore dal quale dice di aver imparato di più è Jean-Baptiste Greuze (1725-1805) soprattutto studiando e riproducendo un’opera di questo pittore sentimentale che s’intitola La Lattaia (che si trova al Louvre). Elisabeth Vigée-Lebrun fu spesso confrontata con un’altra pittrice di successo vissuta a tra il 1600 e il 1700: Rosalba Carriera (1675-1757). La Carriera è nata e vissuta a Venezia, e si affermò in tutta Europa per i suoi delicati ritratti, la sua fama nacque dall’uso che fece del pastello e il suo lavoro ebbe un enorme impatto nell’arte francese durante il suo soggiorno a Parigi nel 1720-21. Tra l’altro, Rosalba Carriera, dipinse otto autoritratti, compreso un pastello per gli Uffizi in cui tiene in mano un ritratto della sorella: un autoritratto che contiene un ritratto. Rosalba Carriera porta a Parigi il gusto per il ritratto e per l’autoritratto: due temi fondamentali per il "romanticismo galante francese".
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
È utile condurre una ricerca su Rembrandt (1606-1669), su Rosalba Carriera (1675-1757) e su Jean-Baptiste Greuze (1725-1805) in modo da osservare i loro ritratti e i loro autoritratti, perché, le loro opere, come sostiene Elisabeth Vigée-Lebrun, costituiscono un motivo di riflessione: queste opere anticipano e visualizzano l’idea di "romanticismo galante"…
Ora, per concludere, ci sarebbe da fare una terza considerazione dalla pagina di diario di Elisabeth Vigée-Lebrun che abbiamo letto, dove racconta l’episodio della visita a La Gioconda accompagnata dalla regina Maria Antonietta. Elisabeth Vigée-Lebrun scrive :
LEGERE MULTUM…
(Io e la regina) Ci divertimmo anche a ricordare la vecchia Marchesa d’Urfé che, volendo ringiovanire e volendo assumere il sorriso della Madonna del Giocondo – che aveva potuto ammirare durante un raduno di nobili intorno al re – fu circuita e salassata nelle sue finanze, per la sua credulità nelle arti magiche di quell’avventuriero veneziano che la convinse di poter esaudire il suo desiderio.
Ora è tardi per proseguire e come potete capire la faccenda si complica. Chi è la vecchia Marchesa d’Urfé la quale avrebbe voluto riacquistare, non solo la gioventù, ma avrebbe anche voluto possedere il sorriso de La Gioconda? E soprattutto chi è l’avventuriero veneziano che fa credere alla vecchia Marchesa di poter, con le sue arti magiche, esaudire il suo desiderio, naturalmente con l’investimento di un’ingente somma di denaro? L’avventuriero veneziano, che nel 1757 circuisce e salassa la vecchia credulona Marchesa d’Urfé che desiderava ringiovanire e assomigliare a La Gioconda, arriva a Parigi da Monaco di Baviera dopo essere evaso l’anno precedente (1756) dalla terribile prigione veneziana dei Piombi e dopo essere fuggito dal territorio della Serenissima Repubblica Veneta. Questo avventuriero veneziano era senza soldi e qualcosa doveva inventarsi per sopravvivere. A disposizione aveva solo il suo "fascino misterioso", la sua "galanteria" e la sua capacità di "seduzione": queste doti mette a frutto.
Fascino, galanteria, seduzione: non sono forse le parole-chiave di quest’epoca? La Marchesa d’Urfé ci cade come una pera cotta. Chi è questo personaggio che utilizza ad arte il fascino, la galanteria, la seduzione in modo ambiguo? Questo personaggio si chiama Giacomo Casanova, e forse lo avete sentito nominare.
Ebbene il sorriso de La Gioconda – per un momento – s’incontra anche con questo personaggio ambiguo. Da questo fatto capiamo che, nel 1757, attraverso l’episodio della Marchesa d’Urfé, il sorriso de La Gioconda – per un momento – continua a venire a contatto con le parole-chiave: fascino, galanteria, seduzione, mistero. Ma Giacomo Casanova, nonostante la sua fama di persona poco raccomandabile, è un personaggio – ci dicono gli esperti – molto significativo sul piano letterario nell’ambito del "romanticismo galante": è necessario, quindi, saperne di più su di lui. Conoscere meglio Giacomo Casanova ci aiuta a capire meglio quest’epoca che stiamo attraversando: un’epoca in cui, ogni tanto, per un momento, compare il sorriso de La Gioconda.
Ringraziamo Vivant Denon che, questa sera, ci ha fatto incontrare e conoscere Elisabeth Vigée-Lebrun. Mi auguro che, chi possiede gli strumenti e le competenze per farlo, possa andare alla ricerca di ritratti e di autoritratti per dare immagini "all’orecchio che ascolta". Vivant-Denon ci accompagnerà ancora la prossima settimana, sulla scia di Giacomo Casanova, lungo un itinerario di seduzioni letterarie. Conoscete le componenti della formula del famoso fascino di Casanova? E allora non mancate!
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