Prof. Giuseppe Nibbi Tra ‘700 e ‘800: il sorriso della Gioconda 2004 10-11-12 novembre 2004
LA CORRENTE DEL NATURALISMO E LA CORRENTE DELL’ARTIFICIO…
Anche questa sera siamo in compagnia del signor Vivant Denon. La scorsa settimana, Vivant Denon ci ha fatto incontrare e conoscere una signora. Questa signora si chiama Elisabeth Vigée-Lebrun, ed è una pittrice, una ritrattista. Spero che abbiate avuto l’occasione di osservare le sue opere, i famosi ritratti della regina Maria Antonietta e i suoi altrettanto famosi autoritratti. Inoltre sappiamo che Elisabeth Vigée-Lebrun è un’esponente di spicco di un movimento culturale che ha attraversato tutta la seconda metà del 1700 e parte della prima metà del 1800. Questo movimento culturale, eterogeneo e complesso, spesso contraddittorio all’interno delle sue correnti, è stato chiamato dagli esperti il movimento del "romanticismo galante". Sappiamo poi che Elisabeth Vigée-Lebrun ha scritto un diario, pubblicato per suo volere nel 1842, subito dopo la sua morte, con il titolo di Ricordi. Questo diario è un’opera che, dal punto di vista letterario, non è di valore eccelso, ma dal punto di vista della conoscenza e della comprensione di un’epoca – dell’epoca del "romanticismo galante" – è un testo molto significativo. Per inciso diciamo subito una cosa che – non so – forse non fa onore ai lettori dell’epoca (della prima metà dell’800), ma il gusto della ricerca della notizia scandalistica si perde nella notte dei tempi.
Quando, nel 1842, subito dopo la morte di Madame Vigée-Lebrun, il suo diario fu pubblicato, molti lettori (i lettori non erano molti) si affrettarono a leggerlo: che cosa cercavano in questi Ricordi? Cercavano qualche "morbosa confessione": volevano sapere se tra la regina Maria Antonietta e la pittrice, che l’aveva ritratta "sensualmente", in camicia, nel 1783, c’era stata una relazione amorosa. Sappiamo che le figlie di Maria Teresa d’Austria e di Francesco I d’Asburgo, Maria Antonietta e Maria Carolina (che sposa Ferdinando, re delle Due Sicilie) avevano fama di essere attratte anche dal fascino femminile. Naturalmente Elisabeth Vigée-Lebrun non fa alcuna dichiarazione "scandalistica", probabilmente non aveva proprio nulla da confessare: la cosa veramente scandalosa è che i lettori non videro altro, d’interessante, in questo testo, molto significativo per la storia della cultura, che passò in breve tempo nel dimenticatoio.
Una pagina di questo diario – di questi Ricordi – è dedicata anche a Vivant Denon, e alla stima che Elisabeth Vigée-Lebrun nutre nei confronti di questo gentiluomo: noi abbiamo letto questa pagina, e probabilmente la leggeremo ancora. Inoltre abbiamo letto altre tre o quattro pagine significative di questo diario: perché? Perché – come sapete – stiamo seguendo un Percorso intitolato: il sorriso de La Gioconda.
Ebbene Elisabeth Vigée-Lebrun, nel suo diario, ci racconta di aver visto in anteprima (1783) questo sorriso (affascinante, enigmatico, misterioso?), vale a dire, ci racconta che ha potuto osservare il ritratto de La Gioconda di Leonardo prima che venisse esposto al Louvre e che diventasse un’immagine sempre più di pubblico dominio. Per Elisabeth Vigée-Lebrun la visita a La Gioconda, a Versailles, accompagnata dalla regina Maria Antonietta, diventa un pretesto. Per lei osservare e commentare il sorriso de La Gioconda significa trovare un punto di riferimento per affermare le caratteristiche, lo stile, gli ideali, le attinenze, i nessi, i legami di un movimento culturale e artistico al quale sente di appartenere. E, inoltre, Elisabeth Vigée-Lebrun, nei suoi Ricordi, ha ritenuto di dover definire le linee fondamentali di questo movimento.
Elisabeth Vigée-Lebrun quando scrive il suo diario, cinquant’anni dopo, sente di aver fatto parte di un movimento culturale importante ed è orgogliosa di avene fatto parte, e, nel commentare il sorriso de La Gioconda – nel quale vede del fascino, ma non vede nulla né di enigmatico né di misterioso – vuole ribadire che, il movimento culturale e artistico – del quale ha vissuto la storia – si è caratterizzato per alcuni elementi fondamentali: quali elementi?
Il movimento culturale e artistico – del quale Elisabeth Vigée-Lebrun ha vissuto la storia – si è caratterizzato, sul piano della forma artistica, per la produzione del ritratto e dell’autoritratto, e la parola "ritratto" diventa una chiave di lettura del romanticismo galante che va oltre il romanticismo. Il "ritratto" comincia a essere un straordinario oggetto letterario, ed è tuttora un oggetto letterario di gran moda. Sul piano letterario – il movimento culturale e artistico del quale Elisabeth Vigée-Lebrun ha vissuto la storia – si è caratterizzato per la produzione di testi descrittivi e di carattere autobiografico, e si è contraddistinto – tanto nella pittura quanto nella letteratura – per la creazione di uno stile così detto "naturale".
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il "ritratto" comincerà ad essere un straordinario oggetto letterario, ed è tuttora un oggetto letterario di gran moda…
Ricordiamo, a questo proposito, tre testi che hanno valorizzato il genere letterario del romanzo: Il ritratto (1834) è un racconto che si trova nei Racconti di Pietroburgo di Nikolaj Gogol, Il ritratto di Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde, Ritratto in uno specchio (1929) di Charles Langbridge Morgan e Ritratto in piedi (1971) di Gianna Manzini… Buona lettura !
Abbiamo detto che il movimento del romanticismo galante è un fenomeno eterogeneo e anche contraddittorio, ebbene, gli esegeti, gli specialisti della materia ci informano che, il "romanticismo galante" si divide in due grandi correnti: la prima di queste due correnti del romanticismo galante è stata definita: la corrente del naturalismo. Elisabeth Vigée-Lebrun è considerata una delle esponenti di spicco della corrente naturalistica del romanticismo galante, e non a caso scrive, nel suo diario, che Leonardo, nel ritrarre La Gioconda ha voluto sperimentare uno "stile più naturale", e, nel fare questo riferimento persegue un obiettivo ideologico: vuole utilizzare il "geniale" lavoro di Leonardo per esaltare il pensiero di Jean Jacques Rousseau di cui è una convinta sostenitrice.
Elisabeth Vigée-Lebrun vuole celebrare soprattutto un’opera di Rousseau: il romanzo epistolare Giulia o La Nuova Eloisa pubblicato nel 1761 che, nel 1783, era considerato uno dei manifesti della corrente naturalistica del romanticismo galante. Elisabeth Vigée-Lebrun fa riferimento allo "stile naturale" di Leonardo ma vuole andare oltre Leonardo, vuole esaltare soprattutto l’opera di quei ritrattisti, cultori, secondo lei, dello "stile naturale" – che considera suoi maestri: Raffaello, Rembrandt, Rosalba Carriera (anche se nel suo diario la cita appena) e Jean-Baptiste Greuze.
Il modo di scrivere di Rousseau viene definito "naturale" perché i luoghi e le manifestazioni della Natura servono allo scrittore per descrivere i sentimenti dell’animo umano. Le manifestazioni esteriori della Natura rispecchiano i moti dell’interiorità dell’animo umano, e per capire questa idea risulta particolarmente interessante la lettura delle pagine descrittive de La Nuova Eloisa: ne abbiamo letto un frammento.
Ci dicono gli esperti che, nel suo diario, Elisabeth Vigée-Lebrun vuole prendere posizione: vuole schierarsi dalla parte di Rousseau, e dalla parte dello "stile naturale" perché Rousseau ha molti detrattori e anche lo "stile naturale" ha molti detrattori: chi sono questi detrattori? Ne incontriamo uno, questa sera, come annunciato. Si chiama Giacomo Casanova – che certamente avete sentito nominare, il quale pur appartenendo anch’esso – come ci dicono gli esperti – al movimento del romanticismo galante coltiva altre idee, segue un’altra strada, opposta a quella di Elisabeth Vigée-Lebrun. Giacomo Casanova appartiene alla seconda grande corrente in cui si biforca il movimento del romanticismo galante: questa seconda corrente è stata definita, dagli esperti, la corrente dell’artificio.
Allora, facciamo il punto della situazione. Quando guardiamo il volto de La Gioconda, in quegli occhi (oltre all’enigma, al mistero) si rispecchiano motivi culturali, intellettuali, artistici che non sono né enigmatici né misteriosi. Con questi motivi (parole-chiave, idee significative) legati allo studio e alla riflessione, la nostra mente e il nostro pensiero devono interagire.
Intanto dobbiamo prendere atto che il sorriso de La Gioconda illumina una particolare situazione culturale, intellettuale e artistica: questo c’è da "vedere" ne La Gioconda. Nella seconda metà del 1700 e nella prima metà del 1800 si sviluppa il movimento del "romanticismo galante", un movimento culturale, eterogeneo e complesso, e contraddittorio nelle sue correnti. Questo movimento culturale, intellettuale, artistico si divide in due grandi correnti: la corrente del naturalismo che noi abbiamo visto rappresentata dalle opere (ritratti, autoritratti e il diario) di Elisabeth Vigée-Lebrun, e la corrente dell’artificio che annovera tra i suoi rappresentanti anche e soprattutto Giacomo Casanova. Siamo abituati a considerare "Casanova" non tanto come un nome proprio quanto piuttosto come un aggettivo.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il temine "casanova" è diventato un modo di dire che equivale a seduttore, avventuriero, dongiovanni, donnaiolo, libertino… Hai mai conosciuto un "casanova"?
Scrivi quattro righe in proposito…
Hai visto il film "Casanova" (1976) di Federico Fellini? Buona visione…
Prima di riflettere su questi temi e di osservare questo nuovo paesaggio intellettuale che ci si pone di fronte, volevo ricordarvi che, attraverso il repertorio della scorsa settimana, siamo stati sollecitati a condurre una ricerca (con l’enciclopedia o con la rete) su Rembrandt (1606-1669), su Rosalba Carriera (1675-1757) e su Jean-Baptiste Greuze (1725-1805) in modo da osservare i loro ritratti e i loro autoritratti (Fellini li ha osservati con attenzione…), perché, le opere di questi artisti, come sostiene Elisabeth Vigée-Lebrun, costituiscono un motivo di riflessione, infatti queste opere anticipano e visualizzano l’idea di "romanticismo galante". C’è un dipinto di Rosalba Carriera intitolato Ritratto di un procuratore veneziano, oggi, questo quadro, si trova a Dresda (hai mai visto questo ritratto?). In quest’opera colpisce soprattutto il sorriso da "seduttore" del personaggio ritratto: qualcuno, in passato, ha pensato alla raffigurazione di un Giacomo Casanova da giovane. Il fatto è che, questo Ritratto, è stato dipinto nel 1730, e Giacomo Casanova nel 1730 aveva cinque anni: è vero che, da tempo, quando si pensa a Casanova si pensa sempre e solamente al seduttore.
E allora: dove ci sta portando il sorriso de La Gioconda? Come vedete anche per noi, oggi – come lo è stato per Elisabeth Vigée-Lebrun e anche per Giacomo Casanova – il sorriso de La Gioconda è un pretesto. Un pretesto utile per attraversare un territorio culturale ricco di paesaggi intellettuali, di personaggi, di opere d’arte, di oggetti culturali da conoscere, da capire, sui quali applicarci, sui quali riflettere in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Nella pagina del diario di Elisabeth Vigée-Lebrun che abbiamo letto la scorsa settimana e dove racconta l’episodio della sua visita a La Gioconda accompagnata dalla regina Maria Antonietta, Elisabeth Vigée-Lebrun scrive:
LEGERE MULTUM…
…Ci divertimmo (io e la regina) anche a ricordare la vecchia Marchesa d’Urfé che, volendo ringiovanire e volendo assumere il sorriso della Madonna del Giocondo – che aveva potuto ammirare durante un raduno di nobili intorno al re – fu circuita e salassata nelle sue finanze, per la sua credulità nelle arti magiche di quell’avventuriero veneziano che la convinse di poter esaudire il suo desiderio.
Chi è la Marchesa d’Urfé? La Marchesa d’Urfé è una eccentrica nobildonna parigina la quale avrebbe voluto riacquistare, non solo la gioventù, ma avrebbe anche voluto possedere il sorriso (ammaliante?) de La Gioconda: in questo suo progetto era disposta a investire un’ingente somma di denaro! L’avventuriero veneziano, che nel 1757 circuisce e salassa la vecchia credulona Marchesa d’Urfé, la quale desiderava ringiovanire e assomigliare a La Gioconda, è Giacomo Casanova. Questi arriva a Parigi da Monaco di Baviera, dopo essere evaso, l’anno precedente (1756), dalla terribile prigione veneziana dei Piombi e dopo essere fuggito dal territorio della Serenissima Repubblica Veneta. L’avventuriero veneziano arriva a Parigi senza soldi, e qualcosa deve inventarsi per sopravvivere. A Venezia era stato accusato, processato e condannato anche per "stregoneria", lui aveva smentito e continuava a smentire di essere uno stregone, se mai si poteva definire un cultore dilettante delle arti magiche, e un praticante dell’alchimia (una disciplina "scientifica" che utilizza le corrispondenze tra le varie componenti del cosmo e della natura per attuare delle "trasformazioni"), che nulla aveva a che fare con la stregoneria. Ma a disposizione, Giacomo Casanova, aveva soprattutto il suo "fascino misterioso", la sua "galanteria" e la sua capacità di "seduzione", e, queste doti, mette a frutto.
Fascino, galanteria, seduzione: sono tra le parole-chiave di quest’epoca.
A questo punto del nostro itinerario, dobbiamo dedicarci a una riflessione: è sull’interpretazione del significato e del valore da attribuire a queste parole-chiave – fascino, galanteria, seduzione – che il movimento del romanticismo galante si divide in due grandi correnti: la corrente del naturalismo e quella dell’artificio. Per gli esponenti della "corrente del naturalismo": il fascino, la galanteria, la seduzione, sono il risultato di un’educazione e di un comportamento naturale. I romantici galanti di impostazione naturalistica, il modello ideale, lo trovano sempre – come già sappiamo – nel pensiero di Rousseau e il trattato Emilio o dell’educazione, pubblicato nel 1762, ha lasciato subito una traccia profonda che ha prodotto delle conseguenze sul terreno delle idee. Quali conseguenze? La corrente naturalistica del romanticismo galante considera le competenze galanti – il garbo, l’eleganza, la finezza, la distinzione, la gentilezza, la cortesia, la bella maniera, il complimento, la civetteria – il frutto di un impulso spontaneo che rende la persona umana naturalmente galante. Se la persona si comporta con "naturalezza", se non si allontana – scrive Rousseau – dal sentimento originario che è lo "stato di natura" proprio dell’umanità, sarà anche naturalmente galante. Solo il ritorno al sentimento originario, solo il risalire allo stato di natura – pensano i romantici galanti di impostazione naturalistica, interpretando il pensiero di Rousseau – può dare alla persona la capacità di esprimere competenze galanti. I romantici galanti di impostazione naturalistica ritengono comunque – come riteneva anche Rousseau – che l’espressione migliore della civiltà è la cultura, è l’arte. Avvicinarsi alla cultura e all’arte equivale ad avvicinarsi alla natura. E, quindi, per instaurare i valori della natura – per riconquistare il sentimento originario, perduto, nella società dell’ipocrisia e delle convenzioni, è necessario potenziare lo sviluppo culturale e artistico! Potenziando lo sviluppo culturale – scrive Rousseau – ci sarà una crescita umana qualitativa che ricadrà positivamente sullo sviluppo civile e sulle relazioni interpersonali. Il legame natura-cultura porta – sostiene Rousseau – uno sviluppo sociale più equilibrato, più giusto, più umano, più naturale, "sentimentale". Che cosa vuol dire? Vuol dire che il legame natura-cultura può aiutare la persona umana e la società a liberarsi da quanto c’è di artificioso e di meccanico. Il legame natura-cultura, può aiutare la persona e la società a valorizzare quello che c’è di spiritualmente positivo, e la "galanteria" viene considerata un fenomeno naturale che ha una ricaduta spirituale positiva.
Quindi i romantici galanti di impostazione naturalistica pensano che la società abbia bisogno di un progetto educativo di carattere "naturale", che possa donare alla persona – come scrive Rousseau – la "primitiva freschezza e sanità di energie che la vita sociale minaccia di spegnere con quanto essa ha di corrotto". La formula roussoiana "educazione naturale" è subito entrata nel vocabolario ideologico del ‘700 e, con questa formula, si vuole anche condannare l’artificiosità e la corruzione della vita civile, che s’identifica nel modello dato dai comportamenti dell’aristocrazia. Queste sono le idee di Jean Jacques Rousseau che sostengono il pensiero della corrente naturalistica del romanticismo galante.
Ora noi dobbiamo ricordare che, il trattato Emilio o dell’educazione, parte da un postulato: come avviene per i teoremi di matematica, come avviene nel Discorso del metodo di Cartesio. E, che cos’è un postulato? Un postulato è un punto fermo, è un dato oggettivo che consideriamo "vero", e noi sappiamo – ce lo ha ricordato Cartesio – che un postulato è un’affermazione non dimostrata e non dimostrabile. Il testo dell’Emilio inizia con un postulato, non dimostrato e non dimostrabile, scrive Rousseau: "La persona umana per sua natura è buona e ciò che in lei si riscontra di negativo nasce dall’influsso della società". Questa affermazione è un classico e continua a suscitare vivaci discussioni.
Allora, attenzione! Fascino, galanteria, seduzione: sono tra le parole-chiave di quest’epoca ed è sull’interpretazione del significato e del valore da attribuire a queste parole-chiave che i romantici galanti si dividono. Per la "corrente del naturalismo", di cui abbiamo ripercorso le idee guida: il fascino, la galanteria, la seduzione sono considerate competenze utili per migliorare la società e sono il risultato di un’educazione e di un comportamento naturale, sono frutto della natura buona della persona umana. Invece, per la "corrente dell’artificio": il fascino, la galanteria, la seduzione sono competenze utili per assoggettare gli altri. Fascino, galanteria, seduzione non sono un fatto naturale, ma sono un artificio, un accorgimento, un espediente, uno stratagemma per imporsi nella quotidiana lotta per il potere. La natura umana – secondo i romantici galanti cultori dell’artificio – non è buona, ma è cattiva e va repressa, domata, soffocata, schiacciata, frenata, smorzata. La "galanteria" viene considerata un fenomeno artificiale che ha una ricaduta nella società in termini di potere, serve per reprimere, domare, soffocare, schiacciare, frenare, smorzare. Così la pensa Giacomo Casanova, uno dei massimi rappresentanti della corrente dell’artificio del romanticismo galante.
La Marchesa d’Urfé – affascinata dal personaggio – vuole fermamente credere nella capacità di Casanova di utilizzare l’arte della magia. Quando l’avventuriero veneziano si dovrà difendere dall’accusa di aver circuito e salassato economicamente la Marchesa d’Urfé sosterrà che lui aveva sempre cercato di dissuaderla: era lei a insistere, a causa della natura malvagia insita nella persona. Lui le aveva garantito, non di farla "diventare più giovane", ma di "poterla far sentire più giovane" attraverso l’artificio della galanteria, e, in questo – sosteneva – di esserci certamente riuscito, e poteva pretendere una retribuzione. Casanova dichiara di saper utilizzare ad arte il fascino, la galanteria, la seduzione che sono, non prodotti della natura umana, ma strumenti artificiali della cultura umana.
Ebbene abbiamo capito che, il sorriso de La Gioconda, si trova a combaciare con il movimento culturale del romanticismo galante e con le sue due correnti principali: del naturalismo e dell’artificio. Il sorriso de La Gioconda – per un momento – s’incontra anche con un personaggio considerato ambiguo, Giacomo Casanova, il quale, quando si dovrà difendere dall’accusa di aver circuito e salassato economicamente la Marchesa d’Urfé, che pretendeva di ringiovanire e di far proprio il sorriso de La Gioconda, sosterrà di non avere mai visto quel ritratto pur avendone sentito parlare come di un oggetto affascinante.
Da questo fatto capiamo che, nel 1757 – attraverso l’episodio della Marchesa d’Urfé – il sorriso de La Gioconda – per un momento – continua a venire a contatto con le parole-chiave: fascino, galanteria, seduzione, mistero. Queste parole finiscono per "appiccicarsi" a questo ritratto!
Ma Giacomo Casanova, nonostante la sua fama di persona poco raccomandabile, è un personaggio – ci dicono gli esperti – molto significativo sul piano letterario nell’ambito del "romanticismo galante": è necessario, quindi, saperne di più su di lui. Conoscere meglio Giacomo Casanova ci aiuta a capire meglio quest’epoca che stiamo attraversando: un’epoca in cui, ogni tanto, per un momento, a illuminarci, compare il sorriso de La Gioconda.
Giacomo Casanova, in quanto scrittore, è stato da tempo studiato con interesse e la sua capacità narrativa è da considerarsi – ci dicono gli esperti – quella di un grande scrittore. Casanova come scrittore possiede un gusto del descrivere i fatti, le circostanze e i personaggi elevato al massimo grado, in modo da coinvolgere subito l’interesse del lettore, e noi sappiamo che il valore di un’opera letteraria sta tanto nell’autore quanto nel lettore.
Due opere di Giacomo Casanova resistono al passar del tempo, e da più di due secoli vengono lette in varie lingue del mondo, suscitando un sempre rinnovato interesse da parte dei lettori: queste due opere s’intitolano: Storia della mia fuga dai Piombi e Storia della mia vita. I lettori si sono spesso avvicinati alle opere di Casanova coltivando la curiosità, un po’ morbosa, per le imprese amorose, per gli episodi piccanti, inevitabili nella vita di questo avventuriero, ma in realtà quello che diverte di più nei testi di Casanova è l’immediatezza della presentazione degli avvenimenti. C’è chi ha sostenuto che Casanova è uno dei precursori del giornalismo moderno, e che sa fondere in modo mirabile la sua autobiografia con i fatti di cronaca, la letteratura con i pettegolezzi e il linguaggio della scienza con il linguaggio popolare. Inoltre, quello che diverte nel testo di Casanova è l’introduzione dei personaggi, di cui descrive con chiarezza il loro aspetto e il loro carattere, attraverso i dialoghi scritti con un linguaggio vero, diretto, immediato. Ciò che diverte nel testo di Casanova è il modo in cui l’io-narrante esprime i suoi pensieri, senza elucubrazioni e senza pesanti divagazioni, ma con un’ironica allegria con la quale presenta anche le situazioni più drammatiche. Giacomo Casanova è un seduttore (ecco la formula…) perché possiede il segreto dell’ars narrandi: dell’arte di narrare, di raccontare, di riferire, di novellare, di descrivere, di presentare, di riportare, di esporre, di favoleggiare. Quando racconta la sua "Fuga dai Piombi", Casanova, vuole certamente narrare un’impresa ritenuta da sempre impossibile: ma sa benissimo che non basta "vantarsi" per catturare l’attenzione del lettore. La sua cultura e il suo ingegno vanno oltre l’intento, misero, di autoglorificarsi, capisce benissimo che senza una narrazione adeguatamente avvincente non può né interessare né convincere nessuno.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
È consentito lasciarsi sedurre (dieci minuti al giorno) dalla scrittura di Casanova, leggi...
La Storia della fuga dai Piombi fu scritta nel 1787 a Dux, oggi Duchcov, cittadina nel nord della Boemia (dobbiamo cercarla sull’Atlante, sulla guida della Repubblica Ceca ?). Casanova, in Boemia, nel castello di Waldstein, faceva il bibliotecario del conte di Warternberg. Perché Casanova decide di scrivere questa storia? Lo dice nella prefazione: perché si era stancato di ripeterla a voce ad amici, ammiratori, curiosi che gli chiedevano di raccontarla in continuazione.
Ma, attenzione, Casanova scrive perché non è estraneo al mondo delle lettere (aveva già pubblicato molti scritti) e poi, era e si sentiva vecchio, non più idoneo, né disposto a inseguire nuove avventure, e quindi non trova migliore e più congeniale occupazione dello scrivere, raccontando le singolari vicende della sua vita. La sua fuga dai Piombi di Venezia è stata effettivamente un fatto eccezionale, che aveva sbalordito prima i governanti della Repubblica veneziana, che reputavano di possedere una prigione di massima sicurezza, poi aveva sbalordito tutti coloro che ne erano venuti a conoscenza: in effetti quelle prigioni erano ritenute terribili e a prova di evasione. Le celle erano situate sotto i tetti ricoperti di piombo del Palazzo Ducale di Piazza San Marco e, a causa dell’alta conducibilità termica di quel metallo, erano freddissime d’inverno e s’infuocavano sotto il sole estivo. I condannati vi accedevano attraverso il ponte dei Sospiri (il nome dice tutto), che passa sul canale detto Rio della Carità (allora Rio di Palazzo).Dato che nessun altro accesso permetteva di giungere a quelle prigioni, collocate proprio sotto il palazzo Ducale, sede del Governo della Serenissima Repubblica e quindi continuamente vigilato, i Piombi erano ritenuti, a ragione, le prigioni più sicure del mondo, e in verità, nessuno, prima di Casanova, era mai riuscito a fuggire di lì e nessuno ci riuscirà dopo. L’evasione rappresentò perciò un fatto clamoroso e quasi incredibile. Il piano di fuga fu veramente geniale, così come fu attenta, ma anche fortunata, la sua esecuzione: è un autentico "giallo", pieno di suspense, e molto abilmente, sul piano del racconto, Casanova colorisce il suo progetto di fuga con calcoli astrologici e schemi cabalistici e così la narrazione riesce anche ad arricchirsi di un arcano alone di mistero.
Come riuscì Giacomo Casanova a fuggire dai Piombi? La cosa peggiore che potrebbe fare in questo momento un didatta della lettura e della scrittura sarebbe quella di svelare l’arcano alone di mistero che è parte integrante del piacere della lettura: questo racconto merita di essere letto con tutta la suspense che contiene.
Perché era stato arrestato e condannato Casanova? I motivi affiorano via via con chiarezza dal racconto, che merita di essere letto, quindi è giusto, anche in questo caso non fare anticipazioni. Semmai possiamo ricordare che Casanova non faceva mistero a nessuno dei suoi comportamenti, delle sue idee e delle sue letture predilette (c’era la censura). È interessante constatare – ma il fatto non ci meraviglia, dopo quello che abbiamo già studiato – che tanto La fuga dai Piombi, quanto La storia della mia vita siano state scritte, da Casanova, in francese. I motivi ce li spiega lo stesso Casanova, affermando di "aver scritto in francese e non in italiano, perché la lingua francese è la più diffusa nel mondo". Aggiunge poi altre considerazioni sulla purezza di quella lingua: "La sola che i suoi tutori condannarono a non arricchirsi a spese delle altre, mentre le altre lingue la saccheggiano ampiamente". Sappiamo inoltre che Casanova – pur definendosi un "cane sciolto" da ogni legame culturale – scrive in francese perché si considera legato intellettualmente alla cultura del "romanticismo galante", prende posizione, partecipa polemicamente al dibattito sulla "galanteria": se fosse da considerarsi un fenomeno "naturale" o "artificiale", si schiera contro i "naturalisti" e in favore dell’artificio.
La capitale di questo movimento è Parigi e la lingua del dibattito è il francese. Casanova scrive la Fuga dai Piombi e la Storia della mia vita in Boemia, nel 1787. Ma che cosa ci faceva Casanova in Boemia? Vi era giunto nell’autunno nel 1785, all’età di sessant’anni compiuti, era già vecchio nell’aspetto, era senza denti (a forza di curarsi con il mercurio), però era contento di aver trovato un posto da bibliotecario. Ma per raccontare la vita di Giacomo Casanova sarebbe necessario un percorso intero: è divertente leggere la Storia della vita di Casanova, è una vita avventurosa, ricca di imprevisti romanzeschi, fin dall’inizio.
Casanova nasce a Venezia il 2 aprile 1725 da due attori, Gaetano Casanova e Giovanna Farussi, detta "Zanetta": ma sono proprio loro i genitori di Giacomo? Sembra che il vero padre di Casanova sia stato il nobile Michele Grimani, il quale si volle liberare di questo figlio illegittimo affibbiandolo – in cambio di una somma di denaro – ai due attori. Dei titoli e del patrimonio dell’aristocratico nulla toccò però a Giacomo Casanova. I suoi genitori legittimi o di adozione che fossero, erano continuamente in giro per l’Europa a recitare e lo affidarono alla nonna materna, e con lei rimase fino all’età di nove anni. Giacomo vive la sua infanzia quasi come un orfano: vede la madre saltuariamente. Sarà per questo che aveva sempre bisogno di conquistare qualche signora? A otto anni perde il padre e, un anno dopo la morte del padre, Giacomo, che è debole di salute, viene mandato a pensione a Padova dove conduce una vita durissima, inizia gli studi e conosce la sua prima indimenticabile, esperienza amorosa.
Ma per raccontare la vita di Giacomo Casanova sarebbe necessario un percorso intero: è divertente leggersela, la Storia della vita di Giacomo Casanova, è una vita avventurosa, ricca di continui imprevisti romanzeschi. Ha nove anni quando conosce la sua prima indimenticabile, esperienza amorosa e capisce subito che la "seduzione" non è qualcosa di naturale, e un fenomeno artificiale, è un’arte che va coltivata. E proprio sulla scia di questa idea abbiamo incontrato Giacomo Casanova, il quale per tutta la vita si riconoscerà nella corrente dell’artificio del romanticismo galante.
Basta leggere la "prefazione" alla Storia della mia fuga dai Piombi per capire da che parte sta, e chi sono i suoi avversari. Non a caso la "prefazione" alla Storia della mia fuga dai Piombi – ed è qui che volevamo arrivare – inizia con uno spietato attacco a Jean Jacques Rousseau. Non potrebbe essere altrimenti e voi sapete perché!
Così, non è casuale il fatto che Elisabeth Vigée-Lebrun, nel suo diario, nella pagina in cui racconta la sua visita a La Gioconda, in cui celebra ed esalta lo stile naturale, ricordi anche, nella stessa pagina, in modo ironico, una malefatta di quell’avventuriero veneziano, che ha truffato, con "artificiosa galanteria", la Marchesa d’Urfé: lo discredita senza citarlo neppure per nome e per cognome.
Il romanticismo galante è diviso, e i rappresentanti delle due correnti principali, quella del naturalismo e quella dell’artificio, non si scambiano cortesie. Il sorriso de La Gioconda, immutabile e vigile, illumina questo scenario.
E ora leggiamo e commentiamo in alcuni punti la celebre Prefazione della Storia della mia fuga dai Piombi.
LEGERE MULTUM…
Giacomo Casanova, Storia della mia fuga dai Piombi (1787)
Prefazione
Jean Jacques Rousseau, famoso per le sue ritrattazioni, eloquentissimo scrittore, filosofo visionario con atteggiamenti da misantropo, sempre disposto ad essere perseguitato (Un giudizio spietato), scrisse una singolare prefazione alla sua Nouvelle Héloïse, in cui insulta il lettore, riuscendo tuttavia a non indisporlo. Poiché per ogni opera è d’uso scrivere una prefazione, ne scrivo una anch’io, ma solo per presentarmi al lettore e acquistarne l’amicizia. Si capirà, spero, che non ho pretese letterarie né ambisco a nuove e sorprendenti scoperte morali, come l’autore che ho nominato, che non scriveva come si parla e invece di trarre conclusioni secondo un sistema ordinato, proponeva aforismi che appaiono il risultato di concatenazioni casuali di infervorate circonlocuzioni, anziché di logici ragionamenti. I suoi assiomi non sono che paradossi adatti a far il solletico alla mente; passati al vaglio della ragione vanno in fumo (Casanova attacca, attraverso Rousseau, "la corrente naturalista del romanticismo galante"). Premetto che in questa storia il lettore non troverà altro che la storia stessa, perché, per quanto attiene alla morale, Socrate, Grozio, Seneca, Boezio e molti altri hanno già detto tutto quello che c’era da dire. Quindi noi possiamo solo raccontare e ritrarre dei caratteri, e non occorre un grande ingegno per farlo con eleganza. Prego il lettore di considerarmi con simpatia, giacché la mia confessione ha il solo fine di divertirlo. Se un libro di questo genere non fosse una confessione sincera bisognerebbe gettarlo dalla finestra, perché un autore che si loda non è degno di essere letto. Sento invece dentro di me pentimento e umiltà, sentimenti indispensabili per una perfetta confessione. Però in essa non c’è nulla che possa farmi trovare spregevole in quanto una confessione sincera può fare apparire spregevole soltanto chi lo è davvero; e chi lo è non fa mai pubbliche confessioni, salvo che non sia pazzo; infatti l’uomo normale aspira ad essere stimato dai suoi simili. Sono certo perciò che non verrò disprezzato dal lettore. Se ho sbagliato è stato per seguire gli impulsi del cuore o la spinta di una forza istintiva che soltanto l’età ha potuto domare. Basta questo, tuttavia, per farmi arrossire. Il senso dell’onore, che mi deriva da coloro che m’insegnarono a vivere e che considero il mio maggior merito, mi ha fatto sempre da guida, benché non abbia sempre potuto pormi al riparo dalla calunnia. Dopo trentadue anni mi decido a scrivere la storia di una vicenda occorsami quando ne avevo trenta, "nel mezzo del cammin di nostra vita". Mi sono deciso a scriverla per evitare la fatica di raccontarla dal principio ogni volta che una persona degna di riguardo e di amicizia mi preghi o mi obblighi a farlo. Mi è capitato tante volte, dopo aver ripetuto questo lungo racconto, di avvertire un vero malessere, o per l’emozione suscitata dal ricordo di questa triste avventura o per la fatica sostenuta per riportare alla mente ogni dettaglio. Ho già deciso da molto tempo di scriverla, ma molte ragioni me lo hanno impedito, superate oggi da quella che m’induce a prendere in mano la penna. Non mi sento più la forza di raccontare la mia lunga avventura, ma nemmeno ho il coraggio di spiegare a chi me lo chiede il perché non ho più quella forza. D’altronde preferirei soccombere alla fatica piuttosto che venir sospettato di scarsa cortesia. Ecco dunque divenire pubblica questa storia che, fino ad oggi, non ho raccontato ad altri "nisi amicis idque coactus", solo agli amici e per giunta costretto (Seneca). Così sia. Sono giunto ad un’età nella quale sono obbligato a fare ben altre concessioni alla mia salute. Per raccontare bene, ci vuole una buona pronuncia: la lingua sciolta non basta, occorre avere i denti, che sono indispensabili per pronunciare i due terzi dell’alfabeto, e disgraziatamente i miei li ho perduti. Si può fame a meno per scrivere, ma sono indispensabili a parlare bene ed essere persuasivi. È una gran disgrazia sopravvivere alla decadenza della forza fisica, alla perdita di ciò che è necessario per star bene, in quanto la miseria non è altro che la mancanza del necessario. Ma se questi inconvenienti arrivano nella vecchiaia, non dobbiamo dolercene: giacché, se ci hanno tolto i mobili, ci hanno lasciato almeno la casa. Chi si uccide per liberarsi da tutti i mali, ragiona molto male, perché uccidendosi certamente uccide anche le sue sofferenze, ma quale beneficio ne trae se, una volta morto, non ha più la possibilità di accorgersene? L’uomo detesta i suoi malanni solo perché gli rendono scomoda la vita; ma, quando non la possiede più, non la può più liberare da essi. "Debilem facito manu, debilem pede, coxa. Lubricos quate dentes. Vita dum superest bene est." Anche se ti s’indeboliscono le mani, i piedi, le gambe, se batti i denti malfermi, la vita, finché dura, è sempre un bene (Seneca). Quelli che sostengono che le sofferenze morali sono più gravi di quelle fisiche sbagliano. I mali dello spirito colpiscono solo lo spirito, mentre quelli del corpo attaccano il fisico e abbattono il morale. Il vero sapiens, il saggio, è sempre e dovunque più felice di tutti i re della terra, "nisi quum pituita molesta est", salvo quando ha il raffreddore (Orazio). Del resto non è possibile vivere a lungo senza che i nostri organi si consumino; credo invece che se non si consumassero, sentiremmo anzi di più la violenza nella morte. È impossibile che la materia resista al tempo senza deteriorarsi: "singula de nobis anni proedantur euntes", ogni anno che passa ci strappa qualcosa (Orazio). La vita è come un’amante che amiamo troppo, alla quale tutto accordiamo infine pur di non perderla. Chi predica che bisogna disprezzarla, sragiona: è la morte che bisogna disprezzare, non la vita. Sono due cose totalmente diverse. Amando la vita amo me stesso, e odiando la morte odio il carnefice della vita. Il saggio tuttavia si deve limitare a disprezzarla, perché l’odio è un sentimento scomodo. Ma colui che la teme è abbastanza sciocco, perché è inevitabile; colui che la desidera è un vile, perché ognuno è libero di procurarsela. Deciso a scrivere la storia della mia fuga dalle prigioni di Stato, dette i Piombi, della Repubblica di Venezia, credo di dover prevenire il lettore, prima di entrare in argomento, su di un punto che potrebbe suscitare delle obiezioni. Non sembra opportuno che gli autori parlino sempre di sé, e nella storia che sto per iniziare non parlo che di me; lo prego dunque di accordarmene il permesso e, in cambio, posso assicurargli che non mi sorprenderà mai a elogiarmi nel corso della narrazione, perché, grazie a Dio, ho sempre riconosciuto di essere stato la causa prima di tutte le mie disavventure. Quanto alle riflessioni e alle descrizioni dettagliate che si troveranno nel racconto, lascio la libertà di trascurarle a chi le troverà noiose. Qualsiasi autore che pretenda di costringere a riflettere tutti quelli che leggono proprio per non pensare, è un impertinente. Dichiaro che ho scritto solo per dire la pura verità; avrei defraudato il lettore se avessi omesso il minimo particolare riguardante i fatti raccontati. Quando si decide di esporre una vicenda che non è d’obbligo narrare, credo che si debba dire tutto quanto, oppure non parlare. Aggiungo che, come sarei imbarazzato a raccontare a voce tutti i particolari del fatto, così mi troverei imbarazzato se, volendo esporre per iscritto, qualcuno mi obbligasse a tacere anche il più piccolo particolare della vicenda. Per accattivarmi la benevolenza di tutti, ho creduto di dover mostrare tutte le mie debolezze, tali e quali come le ho constatate. Ho riconosciuto infatti, nelle terribili prove subite, i miei errori, ma ho trovato buone ragioni per assolvermi. Della stessa indulgenza ho bisogno da parte di chi legge e per questo non ho voluto nascondere nulla. Preferisco un giudizio sfavorevole, fondato sulla verità, a uno favorevole fondato sulla menzogna. Se in qualche parte di questa storia trapeleranno motivi di amarezza contro il potere che mi ha condannato al carcere, costringendomi, per così dire, ad affrontare i rischi che comportava l’esecuzione del mio progetto di evasione, dichiaro che le mie proteste sono del tutto naturali; non possono derivare da odio o da collera, in quanto il mio cuore e la mia mente ne sono immuni. (Ribelle in tutte le sue azioni. Casanova non pensa a un cambiamento dell'ordine stabilito. Sembra anzi convinto dell'opportunità che le cose restino così come sono). Amo la mia patria e quelli che la governano; allora non potevo approvare la mia detenzione, perché la mia natura vi si ribellava, ma oggi la posso approvare grazie all’effetto che ha avuto su di me e al bisogno che avevo di essere corretto. Però condanno il principio e i mezzi della correzione. Se avessi conosciuto la mia imputazione e la durata della pena inflittami, non avrei corso il pericolo di perdere la vita (In effetti Casanova non conobbe mai la sentenza, pronunciata il 21 agosto 1755, che lo condannava ad «anni cinque sotto li Piombi» per «le molte riflessibili colpe… principalmente in disprezzo pubblico della Santa Religione»). Se fossi perito, sarebbe stato a causa di un dispotismo che gli stessi che lo esercitano dovrebbero abolire in considerazione delle sue funeste conseguenze.
Su Giacomo Casanova, la prossima settimana, dobbiamo ancora fare un inciso perché alcuni importanti scrittori contemporanei hanno letto le sue opere e lo hanno utilizzato come personaggio per scrivere e per riflettere sul tema del rapporto tra la natura e l’artificio. Anche questa sera – attento e silenzioso – ci ha accompagnato il signor Vivant Denon. Perché, sui sentieri di questo percorso, è importante la presenza signor Vivant Denon? Perché Vivant Denon è uno di quegli intellettuali che tende a conciliare le due correnti del romanticismo galante: la corrente "naturalistica" e quella "dell’artificio". Ebbene: la natura è a servizio dell’artificio oppure l’artificio è a servizio della natura? Vivant Denon deve ancora spiegarci molte cose interessanti, sotto lo "sguardo vigile de La Gioconda, in cui naturalezza e artificio sembrano convivere in modo armonico": vi ricordate queste parole?
Così ha scritto Vivant Denon nella prima descrizione ufficiale de La Gioconda di Leonardo quando, nel 1802, era sovrintendente del museo del Louvre. Questo testo l’abbiamo letto cinque settimane fa, e abbiamo detto che contiene tre cose interessanti: due le abbiamo commentate, la terza l’abbiamo lasciata in sospeso. Perché Vivant Denon scrive che "nello sguardo de La Gioconda, la naturalezza e l’artificio convivono in modo armonico"? Questo interrogativo comporta una spiegazione e una riflessione: ora si è fatto tardi. Per riflettere – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – ci attende un nuovo itinerario la prossima settimana!
Accorrete, la Scuola è qui…