Prof. Giuseppe Nibbi Tra ‘700 e ‘800: il sorriso della Gioconda 2004 24-25-26 novembre 2004
Alexandre Dumas padre
L’ARTE DELL’INCISIONE…
Perché il signor Vivant Denon – che da sette settimane ci accompagna su questo Percorso – è un personaggio importante sul piano culturale? Perché è uno di quegli intellettuali che tende a conciliare le due correnti principali del romanticismo galante: la corrente naturalistica, con la corrente dell’artificio. Vivant Denon tende a conciliare il pensiero che mette in primo piano ciò che è naturale, frutto della natura, con il pensiero che mette in primo piano ciò che è artificiale, prodotto dalla cultura. Ciò che conta, per lui, è il risultato della produzione culturale e artistica, e, l’opera d’arte – secondo Vivant Denon – è la conseguenza, l’effetto, il prodotto, dell’incontro tra la natura e la cultura. Vivant Denon vuole armonizzare le posizioni delle due correnti in conflitto, cercare un equilibrio tra natura e artificio, natura e cultura, natura e arte. Ritiene ragionevole pensare che natura e artificio, natura e cultura, natura e arte debbano interagire tra loro.
Nel dibattito intorno alle parole "fascino, seduzione, galanteria", Vivant Denon assume una posizione propria: vuole superare il contrasto tra il pensiero (quasi metafisico) dell’essere galanti per natura, e il pensiero (studiatamente ipocrita) dell’apparir galanti per convenzione sociale.
Vuole piuttosto far "esistere la galanteria" come uno strumento, come uno stimolo, come un incentivo, come una motivazione che serva per produrre cultura e arte, conciliando gli aspetti naturali: l’istinto, la fantasia, la creatività, l’immaginazione, il genialità, l’invenzione, l’ingegno, con quelli artificiali: la tecnica, la norma, la regola, il metodo, il sistema, la procedura, la maniera, la rete.
L’affidarsi completamente alla natura o l’affidarsi completamente all’artificio è controproducente: separando questi due elementi complementari – scrive Vivant Denon – non si crea l’opera d’arte, ma un surrogato dell’arte. L’opera d’arte nasce dall’armonia tra natura e artificio. Anche la galanteria – come strumento ispiratore della produzione artistica – secondo Vivant Denon, è frutto dell’armonia tra natura e artificio.
È con questo pensiero che, Vivant Denon, da sovrintendente del Louvre, nel 1802, descrive e commenta in modo ufficiale, il quadro de La Gioconda. Questa Nota ufficiale – che abbiamo letto e commentato – contribuisce ad accrescere gradualmente il fascino del sorriso de La Gioconda.
In queste settimane abbiamo parlato della vita e delle opere di Madame Elisabeth Vigée-Lebrun, abbiamo parlato della vita e delle opere di Giacomo Casanova. Questa sera cominciamo a occuparci – nei punti salienti – della vita del signor Vivant Denon, che ci sta accompagnando da ben sette settimane.
Vivant Denon lo abbiamo incontrato a Venezia in compagnia di Madame Elisabeth Vigée-Lebrun della quale conosciamo i ritratti, gli autoritratti e il diario (la casa editrice Electa pubblica Viaggio in Italia di una donna artista. I "Souvenirs" di Elisabeth Vigée-Lebrun). Ebbene, sul suo diario, pubblicato nel 1842, col titolo di Ricordi, Madame Vigée-Lebrun scrive anche una pagina – che abbiamo già letto quattro settimane fa – in cui rievoca (50 anni dopo…) una deliziosa serata, passata a Venezia, al Caffè Florian, nel 1792, in cui ha avuto Vivant Denon come accompagnatore. Rileggiamo questa pagina.
LEGERE MULTUM….
Elisabeth Vigée-Lebrun, Ricordi (1842)
Ho passato una deliziosa serata veneziana, al Caffè Florian, in compagnia di Monsieur De Non (Madame Vigée-Lebrun scrive De Non staccato, nella forma originaria della nobiltà dell’Antico Regime: quando Monsieur De Non tornerà a Parigi, dopo la Rivoluzione, riterrà opportuno rendere il suo cognome alla borghese con una parola sola). Monsieur De Non, anche quando era molto giovane, non è mai stato bello, il che non gli ha impedito di piacere a un gran numero di belle donne perché era dotato di tutte quelle doti che vanno sotto il nome di spirito: vivacità, galanteria, e quel non so che di malizioso nello sguardo, e nel sorriso, che tanto si teme e che pur tanto piace. E, con singolare e forse unico esempio, fu sempre carissimo agli uomini, benché fosse infinitamente caro alle donne, perché uomo di qualità, uomo galante e uomo onesto. Monsieur De Non ha incarnato nella sua persona tutto quanto di meglio aveva espresso un’epoca…
Ma chi è Vivant Denon e da dove inizia la sua storia? La storia di Vivant Denon – in origine – è quella di un giovanotto di Borgogna, appartenente a la petite noblesse, alla piccola nobiltà terriera: abbiamo appena detto che il suo cognome originario, alla nobile, è De Non, (staccato), ma poi diventerà Denon, tutto attaccato, alla borghese, per ovvi e opportuni motivi dopo la Rivoluzione.
Vivant Denon è nato nel 1747 nei dintorni della città di Chalon-sur-Saône .
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Vivant Denon è nato nel 1747 nei dintorni della città di Chalon-sur-Saône che puoi cercare sull’atlante, e, utilizzando la guida della Francia, puoi visitarla… Il monumento più significativo della città è la cattedrale di Saint-Vincent, costruita tra il XII e il XV secolo…
Puoi fare una piccola ricerca per appurare se ci sono tracce (se la città dedica qualche cosa a lui) di Vivant Denon in città…
Buon viaggio, e scrivi quattro righe in proposito…
Il giovane Vivant Denon ha un progetto di vita ben definito da realizzare: questo progetto consiste nell’andare a studiare giurisprudenza a Parigi, per poi tornare, nella propria città natale, con un titolo di valore, acquisito nella capitale, in modo da "sistemarsi" grazie all’acquisto di una buona carica e, naturalmente, convogliare a giuste nozze con un’agiata signorina delle sue parti e del suo rango, in modo da trascorrere una tranquilla esistenza provinciale. Ma Vivant Denon era destinato a vivere tutta un’altra storia.
Intanto la partenza di Vivant Denon per Parigi ricorda, inevitabilmente, l’addio che dà alla casa paterna un famoso personaggio da romanzo: il guascone D’Artagnan nell’altrettanto famoso romanzo I tre moschettieri, pubblicato a puntate, in appendice al giornale Le Siècle di Parigi dal 14 marzo al 14 luglio 1844 e scritto da Alessandro Dumas padre: quanto è che non rileggete l’inizio di questo romanzo? L’avete mai letto questo romanzo?
Sulla scia di Vivant Denon cogliamo l’occasione per fare un inciso, perché a forza di vederli e rivederli sceneggiati per il cinema, se ne conosce la storia, e, certi romanzi, si finisce per non leggerli mai: ho fatto una piccola indagine (aiutato dall’Università di Trento) su I tre moschettieri, dove, si dimostra che, troppi cittadini (57%) si sono auto-convinti di aver già letto questo libro! Attenzione, perché il gusto e l’esercizio che porta all’acquisizione della trama (hiphos in greco: consultare la pag. 14 del n.11 dell’ANTIbagno…) attraverso la lettura del testo scritto, non è lo stesso gusto né lo stesso esercizio che si produce nel vedere una sequenza d’immagini. Le qualità che hanno determinato l’immenso e perdurante successo del romanzo I tre moschettieri stanno in una trama avvincente, ben "intagliata", ben "incisa" e ricca di colpi di scena; nei personaggi ben caratterizzati, ben "intagliati", ben "incisi", tanto da essere inconfondibili, in un’ambientazione storica tracciata in modo semplice, senza troppe ambizioni di esattezza, ma capace di restituire con efficacia lo spirito di un’epoca. Ma soprattutto la qualità per eccellenza di questo romanzo sta nel modo in cui è scritto, sta nella forma della scrittura, e nel gusto di poter fruire di questa forma caratterizzata da un ritmo particolare: un ritmo narrativo veloce, rapido, svelto, fulmineo, senza mai una pausa o un momento di flessione.
Attenzione: il ritmo veloce è quello della narrazione, è l’andamento della scrittura; il ritmo della lettura, con la quale dobbiamo affrontare questo testo, deve mantenersi lento. Qualche maligno ha detto che il ritmo veloce di Dumas dipende dal fatto che scriveva in fretta per guadagnare di più e per poter spendere: questo è vero, ma non del tutto, non ci s’improvvisa grandi narratori, grandi tessitori di trame. Perché proporre, oggi, di leggere e di rileggere I tre moschettieri? Non è forse una proposta retriva, antiquata, conservatrice? Direi proprio di no. Perché? Perché l’ingresso del lettore nella logica di questo ritmo agile e gradevole, con cui il romanzo è scritto, asseconda lo svolgimento dell’esercizio della lettura: la forma della scrittura, infatti, favorisce l’atto del leggere e incoraggia la pratica costante della lettura, e la pratica costante della lettura (dieci minuti al giorno…) mette in attività le azioni cognitive e aiuta il lettore a diventare "pensatore in proprio".
Ricordate l’incipit, ricordate l’inizio – le prime quattro righe – de I tre moschettieri? Ebbene, l’inizio è significativo ed esemplare in funzione della didattica della lettura e della scrittura: in quattro righe, Dumas sforna subito due citazioni, due citazioni colte, ma con una valenza di carattere popolare: che cosa significa? Significa che c’è un invito a compiere uno sforzo intellettuale.
Il nome di certi personaggi, il titolo di certi libri, la notizia di certi avvenimenti storici, letterari, culturali sono diventati dei "modi di dire" comuni, sono diventati una forma, uno stampo, ma – sostiene Dumas – "rischiano di rimanere una forma vuota, priva di contenuto". I lettori francesi della prima metà dell’800, alle prese con le prime quattro righe de I tre moschettieri, afferravano le due citazioni colte perché ne coglievano la forma, afferravano la valenza popolare del "modo di dire", ma, per capirne il contenuto, avevano bisogno delle note a piè di pagina. Noi, lettori del terzo millennio, abbiamo bisogno delle note per conoscere e per capire tanto la forma quanto il contenuto delle due citazioni che Dumas utilizza nell’incipit del suo romanzo.
Il fatto è che, nei romanzi di Dumas – d’avventura, d’evasione, popolari – ci sono centinaia di "citazioni colte" di cui il lettore (francese dell’800) conosce solo la forma. Questa forma è entrata nel linguaggio popolare, e ha reso "mitici" molti "modi di dire", e il lettore viene invitato da Dumas a decodificarne anche il contenuto – di carattere letterario, di carattere storico – che risulta sconosciuto ai più.
Ma, allora, Dumas lo fa apposta? Certamente! Non solo: I tre moschettieri cominciano con una Prefazione dell’autore: l’avete mai letta? Sono due paginette molto interessanti. Dumas nella Prefazione a I tre moschettieri ci dice che, all’origine di questo romanzo, ci sono le Memorie del signor d’Artagnan stampate ad Amsterdam nel 1704, che lui ha scoperto nella Biblioteca Reale durante alcune ricerche storiche che stava conducendo su Luigi XIV. Il testo di queste Memorie lo attira, se le porta a casa, col permesso del sovrintendente, e le legge d’un fiato: costituiscono l’argomento per un romanzo avvincente. In questa Prefazione – che contiene molti altri dati interessanti – Dumas vuole dimostrare prima di tutto che, nonostante i loro nomi strani (in os e in is) gli eroi di questa storia non hanno nulla di mitologico, e poi vuol ribadire il concetto che, quando si legge, se non s’impara - cioè se non si conoscono "parole-chiave" e non si capiscono "idee significative" – ci si potrà anche divertire ma non si potrà investire né in intelligenza, né in creatività.
E allora torniamo alle citazioni contenute nelle prime quattro righe de I tre moschettieri.
La prima citazione è letteraria e riguarda: Jean Clopinel, detto Jean de Meung, che tra il 1275 e il 1280, scrisse la seconda parte del poema "Le Roman de la Rose", e un vasto pubblico dell’800, in Francia, sa di che cosa si parla anche se in pochissimi hanno letto "Il romanzo della Rosa": noi che cosa ne sappiamo di questo argomento?
La seconda citazione è storica e riguarda i fatti de La Rochelle: anche questo è un avvenimento molto conosciuto in Francia ma come "modo di dire". "Fare una Rochelle" significa "compiere un’azione violenta": infatti nella città di La Rochelle a 477 chilometri a sud ovest di Parigi, sull’Atlantico (potete dare un’occhiata sull’atlante), nel 1544 il movimento calvinista degli Ugonotti ebbe il sopravvento sui cattolici, e fu instaurata una repubblica quasi indipendente, che capitolò solo nel 1628 per l’intervento delle forze del cardinale Richelieu. Il "modo di dire" tutti lo conoscono, ma pochissimi in Francia, nell’800, avevano una chiara conoscenza delle "guerre di religione" che nel ‘500 e nel ‘600 insanguinavano l’Europa: noi che cosa sappiamo sull’argomento?
Quindi, Dumas, mentre racconta, interpella il lettore, e dà inizio al suo romanzo popolare, d’avventura e d’evasione, con due riferimenti: uno letterario e uno storico, che presuppongono la conoscenza e il possesso delle rispettive "chiavi di lettura". I lettori sono costretti a chiedersi: noi le possediamo le "chiavi di lettura"? Probabilmente abbiamo bisogno delle note esplicative e così siamo obbligati a mettere in moto quelle "azioni cognitive" che sono necessarie per riflettere e per far ricerca. In Dumas, l’esigenza di vendere scrittura, s’intreccia con un intento didattico: bisogna scrivere per far divertire il lettore ma anche per richiamare alla luce della coscienza la letteratura e la storia, due discipline che forniscono "chiavi di lettura" utili alla costruzione e all’interpretazione del testo. Leggiamo l’incipit de I tre moschettieri – le note le abbiamo messe tra parentesi per comodità – e poi leggiamo un’altra quarantina di righe che devono riportarci sul sentiero da cui, questa sera, siamo partiti.
LEGERE MULTUM….
Alessandro Dumas, I tre moschettieri (1844)
Il primo lunedì del mese d’aprile 1625, la borgata di Meung, ove nacque l’autore del Roman de la Rose appariva in piena rivoluzione, come se gli ugonotti fossero venuti a farne una seconda Parecchi abitanti del borgo, vedendo le donne fuggire dalla parte della Grande Rue e udendo i bambini strillare sulla soglia delle porte, si affrettavano a indossare la corazza e, rinvigorendo una determinazione un tantino malferma con un moschetto o una spadaccia, si avviavano alla locanda del Franc Meunier, dinanzi alla quale faceva ressa e s’andava rapidamente ingrossando un gruppo di gente compatto, chiassoso e pieno di curiosità. A quei tempi le scene di sgomento erano frequenti, e non trascorrevano molti giorni senza che l’una o l’altra città dovesse registrare nei propri archivi qualche avvenimento di tale genere. C’erano i signorotti che guerreggiavano tra loro; c’era il re che faceva guerra al cardinale; c’era lo Spagnuolo che faceva guerra al re. Poi, oltre a queste guerre sorde o pubbliche, segrete o palesi, c’erano anche i ladri, i mendicanti, gli ugonotti, i lupi e i lacchè che movevano guerra a tutti quanti. Gli abitanti del borgo s’armavano sempre contro i ladri, contro i lupi, contro i lacchè – spesso contro i signori e gli ugonotti – qualche volta contro il re – mai però contro il cardinale o lo Spagnuolo. Per effetto di codesta inveterata abitudine, risultò che in quel suddetto primo lunedì del mese d’aprile 1625 gli abitanti del borgo, udendo strepito e non vedendo né il vessillo giallo e rosso (la bandiera spagnola) né la livrea del duca de Richelieu, si precipitarono in direzione dell’albergo del Franc Meunier. Giunti che furono colà, a ognuno fu dato vedere e conoscere la causa di tanto baccano.
Un giovanotto… – schizziamone la figura con un solo tratto di penna – immaginatevi don Chisciotte a diciott’anni, un don Chisciotte senza corsaletto, senza giaco e senza cosciali, un don Chisciotte agghindato con un farsetto di lana il cui color turchino s’era andato trasformando in un’indefinibile tinta sfumata di feccia di vino e d’azzurro celeste. Lungo e bruno il viso; sporgenti gli zigomi, segno di furbizia; enormemente sviluppati i muscoli mascellari, indizio infallibile per riconoscere il Guascone, anche senza berretto, e il nostro giovanotto ne portava uno, adorno d’una specie di piuma; aperto e intelligente l’occhio; adunco il naso, ma finemente disegnato; troppo alto di statura per un adolescente, troppo basso per un uomo fatto, e che un occhio poco esperto avrebbe scambiato per un figlio di fattore in viaggio, se non fosse stato per la lunga spada che, appesa a una bandoliera di pelle, sbatteva contro i polpacci del suo proprietario quand’egli andava a piedi e contro il pelo ruvido della sua cavalcatura quand’era a cavallo. Il nostro giovanotto aveva infatti una cavalcatura, e questa cavalcatura era anzi tanto notevole, che venne notata: si trattava d’un cavalluccio del Béarn, dell’età di dodici o quattordici anni, giallo di mantello, senza crini sulla coda ma non senza giarde sulle zampe, il quale pur camminando con la testa più bassa dei ginocchi, il che rendeva inutile l’applicazione della martingala, faceva non di meno e ancora le sue brave otto miglia al giorno. Malauguratamente, le qualità di codesto cavallo se ne stavano così ben celate sotto lo strato di pelame e la sconveniente andatura che, in un tempo in cui tutti se ne intendevano in fatto di cavalli, la comparsa del suddetto ronzino nel borgo di Meung, dov’era entrato circa un quarto d’ora prima dalla porta di Beaugency, produsse un’impressione, il cui lato sfavorevole rimbalzò sul cavaliere. E quell’impressione era stata tanto più penosa per il giovane d’Artagnan (così si chiamava il Don Chisciotte di quest’altro Ronzinante), in quanto egli non si nascondeva il ridicolo di una simile cavalcatura …
Ma non dimentichiamoci che sull’itinerario di questa sera c’è Vivant Denon. E Vivant Denon – quando parte dalla Borgogna per andare a Parigi a studiare – non ha il ronzino che lo porta, come D’Artagnan – ma ha un abate che lo accompagna, il quale gli ha fatto da precettore fin da piccolo (la Borgogna è terra di grandi abbazie), e che viaggia insieme a lui e che lo assiste nella sua permanenza nella grande città.
Ora, Parigi, deve certamente aver fatto una gran bella impressione al giovane Vivant Denon che veniva da un ambiente del tutto diverso, veniva dal tranquillo ambiente della campagna. E a Parigi, per quanto tempo e con quanto profitto il giovane Vivant abbia studiato legge, non lo sappiamo esattamente. Quel che sappiamo invece, è che – oltre alla facoltà di giurisprudenza – frequenta con molto maggior impegno l’Accademia delle Belle Arti, dove si dedica – dando prova di un discreto talento – al disegno e soprattutto (1768-1769) all’incisione sotto la guida del maestro François Boucher, un personaggio che incontreremo ancora, la prossima settimana.
Noi dobbiamo ricordarci che la Parigi di questi anni (1760-1770), era un luogo dove si gustava appieno quella "dolcezza del vivere" (per chi se lo poteva permettere) di cui parlano molti testimoni, nei loro diari. Parigi, in questi anni, è la città europea più elegante e più corrotta, più lussuosa, più brillante e più inquieta, ma è anche la capitale intellettuale e artistica dell’Europa. Parigi è una città dove regnano le donne – tra l’altro c’è una donna al potere – adulate, coccolate, disprezzate – e il giovane Vivant Denon, appena arrivato a Parigi, si accorge di un fatto non indifferente: si accorge di piacere alle donne.
La prima conseguenza di tutto ciò è che, dell’abate precettore si perdono ben presto le tracce: certamente se ne ritorna in Borgogna: Parigi non fa per lui e capisce anche che il suo allievo deve vivere la sua vita.
Vivant Denon ha vent’anni, e frequenta i teatri; le attrici gli hanno dato un soprannome, lo chiamano: "giovanotto color di rosa", e anche: "il giovane fauno". Il mondo del teatro lo ispira e anche le opere di Rousseau lo affascinano: scrive una tragedia, intitolata Julie, che è una riduzione teatrale de La Nuova Eloisa di Jean Jacques Rousseau. Ci voleva un bel coraggio a riscrivere un’opera che – come sappiamo – stava avendo un successo straordinario e che veniva considerata un’opera d’arte così com’era stata scritta da Rousseau, sotto forma di romanzo filosofico epistolare. Questa tragedia venne rappresentata (1768) ma fu un fiasco colossale, e rimarrà l’unico tentativo drammaturgico di Vivant Denon: "Non ho e non avrò mai, né talento né genio" scrive, deluso, nel suo diario.
Ma il giovane provinciale di Borgogna è intelligente e capisce che bisogna fare tesoro anche delle sconfitte, soprattutto capisce che la via del successo – in questo momento – passa attraverso la corte: tutti gli occhi della Nazione e degli Stati d’Europa sono puntati su questa istituzione, su questo ambiente.
Come Vivant Denon sia entrato a corte, esattamente, non lo sappiamo: sembra grazie a certe raccomandazioni di uno zio. I suoi biografi raccontano che cominciò ad essere invitato alle udienze del re e, durante una di queste udienze, il re, Luigi XV, chiese – in modo anche un po’ ironico (sapeva di essere attorniato da persone che non sapevano far nulla, lui compreso) – se qualcuno dei presenti si occupasse di numismatica e di incisione; ebbene, il giovane Vivant Denon – che, in materia, aveva acquisito delle competenze all’Accademia delle Belle Arti – si fece avanti e, fu così che ricevette l’incarico di ordinare la collezione di medaglie lasciate alla corte da Madame de Pompadour: medaglie che Madame de Pompadour aveva inciso personalmente per esercizio sotto la guida del maestro François Boucher, un personaggio che incontreremo ancora, la prossima settimana.
Madame de Pompadour è stata la prima donna importante dalla quale Vivant Denon riceve aiuto. È un’affermazione paradossale questa, perché Madame de Pompadour, a corte, era ormai una persona fisicamente assente: era morta da quattro anni. Ma Vivant Denon sarebbe certamente piaciuto a Madame de Pompadour.
Il nome di Madame de Pompadour probabilmente evoca, in tutti noi, sensazioni "non positive". Attenzione, però, perché il personaggio è complesso e, nel bene e nel male, merita una riflessione: Jeanne-Antoinette Poisson marchesa di Pompadour (1721-1764) ha rappresentato l’alta borghesia parigina: una classe sociale che comincia a contare molto. Bella e colta, Madame de Pompadour diventa nel 1745 l’amante di Luigi XV, soprattutto diventa la sua consigliera. In politica internazionale non fu una buona consigliera: sostenne la partecipazione della Francia alla guerra dei sette anni e appoggiò caparbiamente l’alleanza della Francia con l’Austria contro la Prussia. Madame de Pompadour condizionò le scelte del re, del governo, dello stato maggiore e per la Francia fu un disastro politico e militare. Invece il suo impegno nel campo della cultura deve essere considerato un aspetto molto positivo della sua vita e della sua azione. Madame de Pompadour è stata sempre molto legata al mondo intellettuale e culturale francese ed europeo: ha capito che la storia del pensiero era in evoluzione. Ha sostenuto e ha incoraggiato tutti gli intellettuali anche quelli che la corte non poteva sopportare: Montesquieu, Rousseau, Diderot, D’Alembert, Voltaire. E quando l’Encyclopedie fu messa all’Indice, ne sostenne clandestinamente la pubblicazione, finanziando economicamente questa impresa. Madame de Pompadour, è morta a 43 anni nel 1764, e ha lasciato oltre alla collezione di medaglie, incise da lei stessa (non sono dei capolavori, ma aveva la buona volontà di imparare…) anche un gran numero di carte, di lettere, di libri, di oggetti, che andavano messi in ordine, catalogati per l’archivio reale, e tuttora sono in mostra.
Vivant Denon riceve questo incarico e lo svolge con grande impegno, in modo puntiglioso: questo compito lo porta a entrare nella cerchia degli intimi del re. Ma soprattutto, Vivant Denon, attraverso questo lavoro sul patrimonio di Madame de Pompadour, scopre un mondo che non conosceva e, questo incarico, diventa per lui un vero e proprio momento di formazione culturale e intellettuale. Egli scopre, attraverso la catalogazione delle lettere inviate a Madame de Pompadour, le idee dei grandi pensatori dell’Illuminismo. Nella biblioteca personale di Madame de Pompadour trova le opere dei filosofi parigini (Montesquieu, Rousseau, Diderot, D’Alembert, Voltaire) e le legge con grande attenzione e con molto interesse. Scopre soprattutto, oltre alle opere di Rousseau, gli scritti di Voltaire che lo fanno riflettere e lo condizionano positivamente. Questa formazione culturale si rivelerà per lui molto utile quando dovrà riformarsi da nobile dell’Antico Regime in cittadino della nuova Francia. Ecco perché Vivant Denon scrive che: "Madame de Pompadour è stata la prima donna importante dalla quale abbia ricevuto aiuto, nonostante fosse paradossalmente un donna fisicamente assente".
Luigi XV era un vecchio libertino ed era anche uno che amava la conversazione e cominciò a divertirsi ai racconti di questo giovane "borgognone autentico", che era un brillante conversatore. Poi il re stimò molto importante una dote che riscontrò in questo giovane uomo, una dote che derivava probabilmente dalla prima formazione che Vivant aveva ricevuto nell’ambiente "benedettino" della Borgogna: la discrezione, l’assoluta discrezione. Vivant Denon aveva ricevuto e svolgeva un incarico molto particolare: stava riordinando il lascito personale di Madame de Pompadour. Questo significava "ficcare il naso" nell’intimità della donna che era stata, fino a quattro anni prima, la più potente di Francia, che aveva rappresentato un’epoca nella storia della corte francese – si parla di "epoca della Pompadour" – e, quindi, stava indagando sulla persona più amata, più odiata, più chiacchierata di Francia e d’Europa: della cui vita si sarebbero voluti conoscere particolari, retroscena, intrighi, macchinazioni, trame. Ebbene, tutta la corte aspettava rivelazioni piccanti, nuovi pettegolezzi, da parte di questo giovanotto di provincia che stava investigando da vicino sulla Pompadour: la corte viveva di pettegolezzi, e il latore di pettegolezzi, di chiacchiere, maldicenze, voci, indiscrezioni, calunnie, dicerie, diffamazioni, era potente!
Ma Vivant Denon deluse profondamente la curiosità dei cortigiani: relazionava via via solo al re il quale si burlava – era un po’ burlone Luigi XV – della delusione dei cortigiani stessi e faceva, mentendo ad arte, capire di essere a conoscenza di cose straordinarie, e certamente scandalose, scovate da Vivant Denon. In realtà, dallo studio delle carte di Madame de Pompadour, fatto da Vivant Denon, emerge la figura di una donna colta, impegnata personalmente sul piano culturale e intellettuale e conscia del fatto che la potenza di una nazione sta nella sua cultura. Questa idea influenza profondamente il pensiero di Vivant Denon, il quale, nella sua maturità, scriverà: "È un’impresa più gloriosa, per una nazione, l’apertura di un museo che la vittoria in mille battaglie!".
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
La figura di Jeanne-Antoinette Poisson marchesa di Pompadour merita una piccola ricerca da fare con l’enciclopedia (un’opera che dobbiamo anche a lei…) o sulla rete dove molti siti sono dedicati a Madame de Pompadour: scrivi quattro righe in proposito…
Luigi XV apprezzò il comportamento di Vivant Denon – discreto, serio, professionale – tanto da nominarlo Gentilhomme de la Chambre du Roi: un titolo molto ambito. Questo titolo apre a Vivant Denon la strada della carriera diplomatica: ma, in effetti, possedeva di per sé le doti necessarie.
La prima missione diplomatica lo porta a Pietroburgo, nell’impero di tutte le Russie alla corte della grande Caterina II. La prima missione di Vivant Denon, diplomatico del regno di Francia in Russia, ha un che di misterioso. Come mai Vivant Denon lasciò precipitosamente Pietroburgo in modo assai sospetto? Ebbene che cosa sia successo non si seppe mai di preciso. Sembra che Vivant Denon – approfittando delle credenziali diplomatiche – abbia organizzato, insieme con un altro francese, la fuga, poi fallita, di un’attrice sospettata di spionaggio, la quale aveva raccolto documenti compromettenti su una flotta che i Russi stavano armando nel Mar Nero.
Prima di rientrare a Parigi, Vivant Denon, si reca al castello di Ferney, presso Ginevra dove, da anni si era ritirato Voltaire. Vivant Denon vuole incontrare il filosofo di cui ha letto e apprezzato le opere. Chiede e ottiene udienza e anche il permesso di ritrarre Voltaire. Vivant Denon fa una serie di schizzi, ormai famosi, che mostrano il grande pensatore in modo molto realistico, così com’era: vecchio, gobbo, brutto, senza denti. Questi schizzi suscitano l’indignazione dei discepoli di Voltaire, e di Voltaire stesso! Vivant Denon non capisce questa reazione, ma il gran filosofo era piuttosto vanitoso. Abbiamo detto che Vivant Denon aveva letto le opere di Voltaire ed era stato colpito soprattutto dalla lettura del romanzo Candido o dell’Ottimismo (1759). Vivant Denon si era immedesimato nel personaggio di Candido che va alla scoperta del mondo con grande fiducia, accompagnato dal suo precettore.
Avete letto il romanzo Candido o dell’Ottimismo? È un romanzo che sta tra l’apologo, la parabola, la fiaba, il racconto d’avventura e la satira. In particolare Voltaire prende in giro quelle correnti di pensiero le quali sostengono che: il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili. Il romanzo racconta la storia del giovane Candido, educato dal suo precettore, il filosofo Pangloss con le teorie degli Ottimisti.A causa del suo amore per la bella Cunegonda, Candido viene cacciato dal castello in cui è stato allevato, e va incontro a una serie ininterrotta di terribili traversie che gli dimostrano come in pratica tutto nel mondo vada di traverso. Carcerato, naufrago, terremotato, profugo e altro ancora, trova l’Eldorado ma perde tutto, per giungere infine alla conclusione che la vita è sopportabile solo "coltivando il proprio orto", curando la propria formazione culturale. In Candido, Voltaire, fa il verso a tutta una serie di tipi, di personaggi anacronistici ma ben presenti nella società europea, e non solo del settecento: un esempio è quello del signor Pococurante: chi è costui? Arrivato a Venezia, Candido accompagnato dal filosofo pessimista Martino si reca a trovare il senatore Pococurante, il quale viene decantato come l’uomo più felice del mondo perché ricco e senza preoccupazioni. In realtà il signor Pococurante si rivela profondamente annoiato di tutti i suoi beni e dotato solamente di uno spirito di contraddizione e di una presunta saccenteria che gli impedisce di gustare le gioie dell’arte e della vita. Il signor Pococurante possiede "beni", sa curare i propri interessi materiali ma non sa "coltivare il proprio orto".
LEGERE MULTUM….
Voltaire, Candido o dell’Ottimismo (1759)
Dopo colazione, Candido, passeggiando in una lunga galleria, fu colpito dalla bellezza dei quadri, e domandò di qual maestro fossero i due primi. "Sono di Raffaello" disse il senatore "li comprai a prezzo molto caro per vanità, or è qualche anno…Dicono che sono quanto di più bello esista in Italia, ma non mi piacciono affatto: il colore è diventato molto scuro; le figure non hanno sufficiente rilievo e non risaltano abbastanza; i drappeggi non assomigliano punto a una stoffa. In una parola, checché se ne dica, non trovo in essi un’imitazione vera della natura. Un quadro non mi piacerà che quando crederò di vedere la natura medesima; di questo genere non ne esistono. Ho molti quadri, ma non li guardo più". In attesa del pranzo, Pococurante si fece fare un concerto. Candido trovò la musica deliziosa. "Questo rumore" disse Pococurante "può divertire una mezz’ora; ma se dura più a lungo, stanca tutti, sebbene nessuno osi confessarlo. La musica oggi non è altro che l’arte di eseguire cose difficili e alla lunga quello che è soltanto difficile non piace. Forse preferirei l’opera, se non si fosse trovato il segreto per farne un mostro che mi rivolta. Vada pur chi vuole a vedere cattive tragedie in musica, dove le scene non sono fatte che per introdurre molto fuor di proposito due o tre canzoni ridicole le quali fanno valere la gola di un’attrice; si svenga di piacere chi vuole o chi può vedendo un castrato che gorgheggia la parte di Cesare e di Catone, passeggiando con aria goffa sul palco. Quanto a me, ho rinunciato da gran tempo a queste meschinità che sono oggi la gloria dell’Italia e che i sovrani pagano così caro". Candido discusse un po’, ma con discrezione. Martino fu interamente del parere del senatore. Si misero a tavola, e dopo un pranzo eccellente, andarono nella biblioteca. Candido, vedendo un Omero rilegato magnificamente, lodò l’illustrissimo per il suo buon gusto. "Ecco" disse "un libro che deliziava il grande Pangloss, il miglior filosofo della Germania". "Non delizia me" replicò freddamente Pococurante: "mi si fece credere una volta che provavo piacere leggendolo; ma quella ripetizione continua di battaglie che si rassomigliano tutte, quegli dèi che agiscono sempre senza concludere nulla di decisivo, quell’Elena che è la causa della guerra e che è appena un’attrice del dramma; quella Troia che assediano e non prendono; tutto questo mi causava una noia mortale. Ho domandato talvolta ai dotti se si annoiavano come me in quella lettura; tutti i sinceri mi hanno confessato che il libro cadeva loro dalle mani, ma che bisognava egualmente averlo in biblioteca come un monumento dell’antichità, come quelle monete rugginose che sono fuori corso". "Vostra Eccellenza non pensa lo stesso di Virgilio?" chiese Candido. "Ammetto" rispose Pococurante "che il secondo, il quarto e il sesto libro della sua Eneide sono eccellenti; ma quanto al suo pio Enea, al forte Cloante, all’amico Acate, al piccolo Ascanio, all’imbecille re Latino, alla borghese Amata, all’insipida Lavinia, non credo che esista nulla di così freddo e sgradevole. Preferisco il Tasso e le fandonie dell’Ariosto". "Potrei chiedervi" disse Candido "se provate gran piacere leggendo Orazio?". "Esso contiene massime" rispose Pococurante "dalle quali un uomo di mondo può trarre profitto e che, essendo racchiuse in versi energici, si imprimono più facilmente nella memoria; ma m’interessa ben poco il suo viaggio a Brindisi, e la sua descrizione di un cattivo pranzo e della lite di facchini fra non so qual Rupilus, le parole del quale, egli dice, erano piene di pus e un altro le parole del quale erano aceto. Ho letto col massimo disgusto i suoi versi grossolani contro le vecchie e le streghe e non vedo che merito sia dire al suo amico Mecenate che, se lo metterà nel novero dei poeti lirici, colpirà gli astri colla sua fronte sublime. Gli sciocchi ammirano tutto in un autore stimato. Io non leggo che per me e non amo che quello che fa al caso mio". Candido, che era stato educato a non giudicare mai di nulla con la sua testa, era molto meravigliato di ciò che sentiva, mentre a Martino il modo di pensare di Pococurante appariva assai ragionevole. "Ah, ecco un Cicerone" disse Candido; "quel grand’uomo, penso che non vi stancherete mai di leggerlo". "Non lo leggo mai" rispose il Veneziano. "Che m’importa che abbia difeso Rabirius o Cluentius? Ho abbastanza dei processi che giudico. Mi avrebbero interessato di più le sue opere filosofiche; ma quando ho visto che egli dubitava di tutto, ho concluso che ne sapevo quanto lui e che non avevo bisogno di nessuno per essere ignorante". "Ah, ecco ottanta volumi di raccolte di un’Accademia delle scienze!" esclamò Martino. "Può darsi che lì vi sia del buono". "Ce ne sarebbe" disse Pococurante "se almeno uno degli autori di tutta quella roba avesse inventato soltanto l’arte di fare gli spilli; ma non vi sono, in tutti quei libri, che vani sistemi e non una cosa utile".
Il signor Pococurante possiede "beni privati" ma non sa "coltivare il proprio orto".
Il signor Vivant Denon capisce che deve imparare a "coltivare il proprio orto" utilizzando al meglio i "beni pubblici" che devono essere a disposizione di tutti.
Nel 1778 Vivant Denon arriva a Napoli come consigliere dell’ambasciatore di Francia, il conte Clermont d’Amboise. Poi, dal 1782 al 1785, vi trascorrerà altri tre anni, come "uomo d’affari". La città di Napoli e i suoi abitanti lo affascinano, per contro i sovrani che vi regnano, Ferdinando e Carolina, lo ripugnano. Napoli – ci fa sapere Vivant Denon – è il luogo ideale per le avventure galanti: "Le dame – scrive – a cominciare dalla regina, si abbandonano a un libertinaggio sfrenato".
La regina in questione, lo sapete, è Maria Carolina d’Asburgo, la sorella di Maria Antonietta. A Napoli si canta, è noto a tutti: ci si esprime cantando; e i lazzaroni, nelle strade di Napoli, beffardi, cantano spesso anche in onore di Maria Carolina. Un verso di una strofa di una canzone dice: "Una zoccola a ù guverno fa burdello e’ sta città, ohi ne' ohi na’!" È necessario tradurre? Possiamo tradurre nello stile raffinato dei diplomatici, è Vivant Denon che traduce: "Una donna di malaffare quando detiene il potere, quando sta al governo, ha la possibilità di trasformare in un bordello una città ohi ne' ohi na’!"…
E il giovane addetto di ambasciata, Vivant Denon, si sente in dovere di riferire, nella sua corrispondenza diplomatica con Parigi, gli intrighi di letto e di palazzo della regina e dei suoi favoriti: questi scritti sono diventati letteratura.
Ma la sorella di Maria Antonietta è vendicativa, e ha spie dappertutto, e non sopporta che la si osservi, e tanto meno che la si giudichi, e così rende la vita difficile al giovane aiutante dell’ambasciatore di Francia che secondo lei ha anche il torto di non subire il fascino della regina. Quando il nuovo ambasciatore, Monsieur de Talleyrand, darà il cambio al conte Clermont d’Amboise, anche Vivant Denon potrà tornare in Francia, e ci tornerà con un bagaglio culturale considerevole.
Il giovane Vivant Denon è appassionato d’arte e nell’Italia Meridionale ha saputo impiegare bene il tempo libero che gli lasciava l’attività diplomatica: ha così scoperto la Magna Grecia e l’Arte antica, greca e romana, si è entusiasmato per la Campania, la Calabria e soprattutto per la Sicilia e, attraverso queste regioni, ha viaggiato dal 1778 al 1785, prima ancora di Goethe, che compie il suo famoso viaggio dal settembre 1786 al maggio 1788.
Vivant Denon ha potuto raccogliere molti reperti archeologici che erano abbandonati sul territorio senza che fossero considerati oggetti di valore; ha assistito a un’eruzione del Vesuvio, e ha scritto un’opera, sotto forma di diario di viaggio, che abbiamo già citato, Viaggio in Sicilia (pubblicata nel 1788), e soprattutto si è dedicato alle sue attività preferite: il disegno e l’incisione:;Vivant Denon ha registrato, scrivendo e disegnando, le facce, i luoghi, i paesaggi, le rovine, i siti archeologici di questa sua prima scoperta dell’Italia.
Attenzione: la parola-chiave che in questo itinerario emerge, e si propone per noi come motivo di riflessione, è la parola: incisione. L’arte di incidere ha molteplici aspetti e diversi significati. Incidere – in questo momento, in quest’epoca che stiamo attraversando – significa: lasciare un’impronta, un segno, una traccia, un’orma, un tratto utile e tecnicamente adatto a creare una riproduzione. L’incisione, con il romanticismo galante, rappresenta quello che rappresentava lo stampo nella cultura greca…creato lo "stampo" si possono riprodurre copie infinite! "Incidere per riprodurre" diventa un’idea produttiva, che avrà un futuro. E, sull’arte di incidere torneremo la prossima settimana.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Vivant Denon è stato soprattutto un grande incisore, e le sue incisioni sono conservate a la Réserve della Bibliothèque Nationale di Parigi e, per poterle ammirare è necessario fare richiesta… Chissà se, queste opere, sono state collocate su un sito Internet? Sarebbe interessante andare alla ricerca sulla rete tenendo conto che le incisioni di Vivant Denon sono state raccolte nel 1873 da uno studioso di nome Albert de la Fizelière (questo potrebbe essere un indizio)…
Delle incisioni di Vivant Denon si può apprezzarne la precisione e la delicatezza del tratto e si può gustare in modo particolare la raccolta delle cosiddette "incisioni Priapèe" (questo termine, "priapèo", è di nostra competenza…). Le "incisioni Priapèe" sono un gruppo di 27 tavole di "soggetto galante", in parte ispirate alla pittura di Pompei e in parte agli Epigrammi di Marziale che Viavant Denon ha scoperto nella biblioteca di un convento siciliano (ma questa storia la conosciamo già): buona ricerca per i navigatori…
Che cosa ti fanno venire in mente le parole "incisione, intaglio, intarsio": hai mai inciso, intagliato, intarsiato ?
Scrivi quattro righe in proposito…
Per concludere, leggiamo, dal Viaggio in Sicilia, le pagine in cui Vivant Denon ci racconta la sua visita a Ispica: è la prima descrizione di questo straordinario sito preistorico e trogloditico. Ispica è una cittadina in provincia di Ragusa sui monti Iblei meridionali, e Vivant Denon viaggia all’interno di quello che oggi è il Parco archeologico della Forza.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Su una guida della Sicilia potete informarvi in modo esauriente su Ispica, e sul Parco archeologico della Forza: buon viaggio…
La lettura di queste pagine di Vivant Denon è interessante perché è un esempio molto significativo di letteratura autobiografica, scritta non solo per uso personale. Nel genere letterario del "diario di viaggio", in cui l’aspetto descrittivo del testo è molto curato, quasi disegnato nei particolari, con, in più, interessanti considerazioni di carattere antropologico, prende forma uno stile. Prende forma la moderna relazione di viaggio, del rapporto, del reportage, del resoconto come servizio (giornalistico). Ne nasce un elaborato, scritto non solo per se stessi, a uso della propria memoria e del proprio ricordo, ma anche per comunicare con gli altri nell’immediato e per rendere un servizio: il servizio di informare, di mettere al corrente, di far partecipare a distanza. Inoltre questa relazione scritta accompagna il disegno, si accosta alla rappresentazione pittorica dei luoghi, dei volti, della natura: sta nascendo, nell’ultimo decennio del ‘700, il giornalismo moderno.
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Vivant Denon, Viaggio in Sicilia (1788)
A Ispica…
Tutti mi parlavano delle cave di Ispica e nessuno mi diceva mai di averle viste. Benché sovente ingannato in materia di grotte, non so quale ispirazione venne a tormentare la mia curiosità. Il timore di aver poi dei rimorsi mi fece alla svelta partire un mattino con i miei compagni. Attraversammo la piana di Siracusa che produce attualmente grandi quantità di vino e che è piantata a olivi antichi quanto l’antica città. In seguito trovammo una campagna pietrosa fino in prossimità del fiume Cassibile, che scorre in una piccola valle e la rende fertile. A poca distanza dal mare, su di una piccola altura, c’è una vecchia masseria, dove alcuni anni fa, si scoprirono le rovine di una casa di campagna, si scavò e furono ritrovati una figura intera di marmo e un bel busto che il conte Gaetani mandò al re di Napoli. Negli scavi si trovò anche una stanza termale, rivestita di marmo; poi, improvvisamente, come se si fosse addirittura temuto di trovare altro, si ricoprì rapidamente il tutto in modo da non distinguere più nulla di questi scavi che avrebbero potuto essere molto interessanti e far conoscere il gusto dei Greci nella distribuzione delle loro case di campagna e la loro magnificenza in questo campo. Percorsi tutta la campagna per cercare la via Helorina, che, però, non riuscii a trovare. Tre miglia più lontano, scorgemmo sulle rive del mare dei campi grandi e di un verde tenero e fresco; erano le piantagioni di zucchero del Principe di Monte Leone, il solo che pratichi, per proprio gusto e piacere, questa coltura in Sicilia, dove era nota e praticata dalla più remota antichità e fino al tempo in cui il suolo americano, così adatto a questa pianta, ne fece abbandonare la coltura in tutte le altre parti dell’universo. La pianta è sottile e raggiunge l’altezza di solo sette piedi. Cresce a ciuffi separati, somiglia al giunco per la foglia e alla canna per il germoglio. I nodi si allontanano gli uni dagli altri, ma mano che il germoglio si allontana dalla terra. Ogni cespo deve essere continuamente bagnato come il riso. Lavorando il terreno, si rialza la terra tutt’intorno alla pianta, questo la rinforza e così sviluppa le gemme dei primi nodi e produce nuovi polloni. Comincia a crescere nel mese di febbraio e non si raccoglie che nel mese di dicembre ed è poco prima di Natale che si taglia la canna a quattro pollici da terra. Per riprodurre la pianta, si staccano dal ciuffo i giovani germogli che si trapiantano senza radici, come un pezzo di legno che si affondasse nel terreno. Benché le canne non fossero giunte a maturazione perfetta, ne masticammo alcune con piacere. La parte superiore ha un gusto acido che risponde ben poco alla natura della pianta: la si taglia e la si dà agli animali che l’amano molto. Tutta la parte vicina alla terra è legnosa e non ha quasi gusto. Nel fusto della pianta è contenuto, in una sostanza morbida, un liquido mielato e glutinoso, di un gusto gradevole, da cui si ottiene lo zucchero con la macinazione, la cottura e la depurazione. Il fabbricato dove era lavorato lo zucchero era abbandonato e non trovammo nessuno per farci aprire i laboratori. Andammo poi ad Avola, situata a un miglio di distanza, e a sedici da Siracusa. Questa città che, in tempi andati, era costruita su di una montagna, si vantava di essere Hybla major, tanto celebre per il suo miele; ma tante città pretendono di essere Hybla, oppure esistevano tante città dello stesso nome che non si può decidere nulla a questo proposito. Io ne ho trovate tre: questa, "Hybla Megara" (Megara Iblea) vicino a Melilli e Paternò nei pressi dell’Etna. Avola – essendo stata distrutta dal terremoto del 1693 – gli abitanti pensarono bene di ricostruirla più comodamente in pianura, su di un territorio fertile, ricco di grani e frutta e, soprattutto di mandorle di cui fanno un notevole commercio. Le case di Avola risentono tuttora della paura del terremoto: sono basse, le strade larghe e allineate. Cenammo e ripartimmo per Noto, che si trova a solo sei miglia da Avola su di un territorio ricco e ricoperto di alberi. L’antica Noto, capitale della zona che porta questo nome, era costruita a sei miglia dalla nuova, sulla cima di un’arida montagna, ciò che rendeva l’arrivarci penoso e la posizione sgradevole. Fu distrutta da capo a piedi dal medesimo terremoto che rase al suolo Catania, Lentini e Avola; gli abitanti, come quelli di Avola, spostarono di colpo le loro dimore dove si trovano adesso. La città fu tracciata su di una piattaforma e, come se ci dovesse alloggiare un popolo di preti e di monache, sembra che si sia fatto il progetto di costruire solo chiese e conventi: da tanti, talmente grandi e talmente numerosi, che se ne possono vedere. Raccomandati dal vescovo di Siracusa, fummo accolti dal suo gran vicario Don Pascale Zapalà che ci dette tutti i ragguagli possibili su Ispica; questo si tradusse nell’aggiungere un altro campiere al campiere che già avevamo e che, l’indomani ci condusse a Rosolini, villaggio distante quattordici miglia. Il notaio del posto al quale eravamo indirizzati aggiunse ai nostri due campieri una guida che doveva raccoglierne un’altra che, in effetti, incontrammo sulla nostra strada e che ci accompagnò per ulteriori sei miglia in mezzo ad una vasta zona deserta, pietrosa e incolta, dove si vedono solo pochi carrubi sparsi. Nel mezzo di questa vasta distesa che somiglia a una pianura uniforme, venendo tutto a un tratto a mancare il terreno, si scopre una vallata profonda, tortuosa, così ricca, tanto abbondante di prodotti quanto il resto è arido. Discendemmo un sentiero rischioso, lungo la roccia a picco che fiancheggia questa vallata, il fondo della quale è a cento piedi più in basso. Qui, una sorgente abbondante bagna dei grandi alberi e scorre in canali tagliati nella roccia; ciò dà a questo luogo situato nella parte più aspra e scottante della Sicilia Meridionale tutta la verzura e la freschezza di certi panorami alpini d’estate. Godevo in pieno del fascino di questa vallata, mentre cercavo ancora di scoprire che cosa avesse di straordinario, quando, esaminando da più vicino, vidi nella parte laterale esposta a mezzogiorno, che era maggiormente sciupata dai cambiamenti del clima, l’interno di un’infinita moltitudine di piccole camere, l’una sull’altra, scavate nella roccia in piani da dieci a dodici piedi. Dubitai un momento che fosse solo effetto della natura della roccia che, a strati più o meno friabili, avesse creato quell’ordine di deterioramento; ma ne fui ben presto dissuaso quando, esaminando più da vicino, trovai altrettante porte per altrettante camere, tutte della stessa grandezza, quasi tutte senza comunicazione, con la stessa forma, lo stesso lavoro, le stesse disposizioni e per gli stessi usi. Cercammo nella parte opposta e notammo, osservando più da vicino, che questo lato non era stato meno lavorato e abitato, ma che verso l’ombra, era meno deteriorato. Si vedevano soltanto le aperture strette delle grotte che servivano loro da entrata e qui, per la maggior parte, erano mascherate dalla loro stessa direzione. Da questa parte trovammo delle camere intere, il vano delle porte conservato, una guida di scorrimento a ogni lato della cornice, dove gli abitanti facevano probabilmente scivolare delle tavole, l’una sull’altra, e due fori dove veniva posta una traversa per assicurare la chiusura. Ogni vano formava un quadrato con gli angoli smussati, di diciotto piedi di lunghezza su sei di altezza e di larghezza. Di fronte all’ingresso di quelli dei primi piani, ci sono delle specie di nicchie nelle quali è appena accennata una mangiatoia con un anello incastrato per attaccare la vacca; a sinistra della porta, una specie di vasca o di bacino, scavato nel suolo, con un’apertura al di fuori che sembra destinata a dare scolo alle acque; un’altra apertura ad altezza di appoggio, per lasciare entrare la luce e l’aria, quando la porta era chiusa; di fronte uno scavo di alcuni pollici, dove si può pensare che fosse il letto; tutt’intorno ai lati, degli anelli intagliati per attaccare delle capre o sospendervi degli utensili, e dei fori dove, senza dubbio, erano fissati dei sostegni che portavano delle tavole che formavano dei ripiani; dei piccoli incavi di qualche pollice di profondità per appoggiarvi delle lampade o altri piccoli oggetti; in certi altri vani, una specie di credenza nella quale si inserivano dei vasi, e sotto una piccola piattaforma rotonda con intorno un piccolo canale e uno scarico per le acque; ma tutto questo era talmente consunto che è difficile stabilirne l’uso, a meno che non fosse adibito a fare e a conservare il formaggio…
Mi inoltrai ancora nella vallata per più di un miglio, senza trovare alcun cambiamento nella costruzione di questi rifugi, né nel loro ordine né nel loro numero. Poiché non sono affatto dovute al caso, ma sono tutte unicamente opera degli uomini e talmente ravvicinate alla natura non si può fare a meno di pensare che esse risalgono alla più remota antichità e siano forse state fatte dai primi abitanti dell’isola, prima ancora che gli uomini fossero a conoscenza della comodità di una casa e non avessero altra necessità che quella di mettersi al coperto. Il numero infinito di queste capanne non può lasciare alcun dubbio sul fatto che siano state occupate da un popolo molto numeroso, esclusivamente di pastori, senza mezzi di difesa, usando, al massimo, e per unica astuzia di guerra, quella di nascondersi, arrampicandosi e, per così dire, incrostandosi nella roccia. La storia ci indica, come primi abitanti della Sicilia, i Lestrigoni, uomini giganteschi, dei quali si ignora l’origine, e i Sicani venuti dalla Spagna. La storia narra inoltre che i Sicani, disputandosi continuamente le pianure di Lentini e le ricche contrade dell’Etna, furono obbligati a cederle ai Lestrigoni che li scacciarono e li obbligarono ad andare a occupare la zona del mezzogiorno. Sarebbe dunque nella vallata di Ispica, che è sulla costa meridionale, che i Sicani sarebbero venuti a rifugiarsi, nascondendosi nel deserto, per sfuggire all’inseguimento dei loro giganteschi nemici? Ma fu ben prima del tempo della costruzione delle città. Il temperamento dell’uomo lo porta a imitare ciò che ha visto e a cercare di procurarsi quello che ha già posseduto. Se si mandassero degli Europei in un deserto, vi costruirebbero una città, edificherebbero delle case più o meno simili a quelle nelle quali sono nati, ma non abiterebbero a lungo la tana di un selvaggio. Se gli abitanti di questi rifugi avessero visto una città qualunque, avrebbero avuto idea di una linea diritta, di un angolo, di una forma regolare e avrebbero cercato nelle escavazioni le comodità che offrono queste forme stesse. Si può dunque azzardare a far risalire l’epoca nella quale questa valle cominciò a essere abitata alla più remota antichità, a quando cioè l’isola era abitata soltanto da popoli di pastori o da un popolo soggiogato, senza difesa, costretto a nascondersi per sfuggire a un vincitore selvaggio. In questo caso quelle piccole coppe greche di terracotta ritrovate nelle tombe, quel piccolo piedistallo di marmo, quei particolari forni tagliati in modo regolare sarebbero degli oggetti interessanti e singolari. Allora questi rifugi, abitati dapprima da un popolo intero, sarebbero stati abbandonati per andare a costruire Trinacria, Casmene, Argiro, Enna, Camico e altre città nel centro dell’isola e sull’alto delle rocce, dove si sa che si erano stabiliti i Sicani e che si difendevano contro i Lestrigoni e anche contro i greci che occupavano le coste del mare. Di tanto in tanto i greci guerreggiavano con questi popoli che avevano respinto, ma non vinto; ciò potrebbe provare che le colonie greche in Sicilia, come le nostre in America e in Asia, miravano maggiormente ad arricchirsi con il commercio che al desiderio di espandersi. Queste prime abitazioni, rimaste vuote, avevano potuto, a più riprese, servire da rifugio sconosciuto, sia nei tempi remoti, sia al tempo dei Greci, sia anche in quello dei Romani, quando dovettero mandare in Sicilia dei forti eserciti durante parecchi anni, contro la rivolta degli schiavi che, dopo aver perduto tutte le città che avevano sollevato, occupavano ancora la campagna, sparivano e riapparivano quando si pensava che fossero sgominati. Questi oscuri rifugi erano atti a procurare loro questi mezzi; sono stati sempre occupati, poiché si trovano tuttora dei pastori che vi vivono, senza mutare nulla della primitiva forma, ne fanno il medesimo uso, sono selvaggi come i primi, vivono di latte, di frutta e di cavoli che coltivano in fondo alla vallata, attaccano le loro vacche e le loro capre negli stessi posti e agli stessi anelli, si coricano nel medesimo luogo e hanno la stessa paura di un uomo che indossa un vestito, come avrebbero potuto averla i primi abitanti di un uomo che fosse loro apparso con un aspetto diverso. Quelli di oggi, quando per caso vedono degli stranieri, credono che siano degli stregoni che vengono a cercare tesori. Perciò le nostre guide non lasciarono mai soli i nostri disegnatori, perché l’atto del disegnare sembrava in realtà a questa buona gente una qualche operazione di negromanzia. Ero andato avanti da solo; percorrendo quei luoghi solitari e selvaggi, non potevo impedirmi di fantasticare. La mia immaginazione riandava a quei tempi passati, quando la vallata era abitata da quegli uomini semplici che vivevano del latte del loro gregge e si vestivano con le loro pelli. Li vedevo intenti a mungere le capre, a guidare e a chiudere le greggi in quelle tane, a salire ai piani superiori, carichi dei loro bambini o dei capretti che non volevano lasciare con le madri. Li vedevo seduti nell’erba, prendere i loro pasti sulla sponda di quelle belle sorgenti, senza aver idea di altre necessità, senza desiderare nient’altro di più di quello che la terra offriva al loro sguardo e alle loro mani. Passando dall’immagine dell’uomo appena uscito dalle mani della natura allo stato attuale dell’uomo, posto al centro delle nostre capitali, capace di fare dei gelati e degli arazzi e ignorando con che cosa si faccia il pane e in che modo le tavole, confrontando queste abitazioni primitive con quelle delle nostre "graziose signore" di Parigi, ammiravo lo spazio immenso che i costumi e le società possono far percorrere all’immaginazione umana, e il tempo infinito che è occorso per realizzare ogni cambiamento, per creare un bisogno cercando un godimento, e, poco a poco, farsi una necessità del superfluo e di non poter più trovare l’indispensabile pur nel concorso dei prodotti dell’intero universo. Abbandonandomi così ai miei pensieri, non mi accorgevo né della strada che percorrevo, né del sole che tramontava. Mi ero allontanato dai miei compagni e dovetti affrettarmi a tornare indietro a trovarli. Avevo molto caldo quando rimontai a cavallo; il fresco mi colse nel momento peggiore della giornata, in una zona di aria malsana, e arrivai a Rosolini con un mal di capo insopportabile. Quella notte non dormimmo né gli uni né gli altri.
La scrittura di Vivant Denon acquisisce una forma che sarà poi quella delle relazioni e delle descrizioni ufficiali che farà delle opere d’arte e in particolare delle opere conservate al Louvre. È con questo stile che, Vivant Denon, scriverà la prima relazione ufficiale su La Gioconda: una descrizione che contribuirà a fare di quel sorriso il sorriso più famoso del mondo!
Quando, nel 1785, Vivant Denon torna a Parigi, ha 38 anni ed è una persona libera e agiata: ha ereditato il sostanzioso patrimonio paterno, è protetto dal famoso pittore Jacques-Louis David, che lo fa entrare all’Accademia di Pittura, e viene ricevuto in tutti i salotti.
Però nel 1788 capisce che in Francia non tira una buona aria e allora vende la sua collezione di vasi etruschi, affida al cognato l’amministrazione delle sue terre in Borgogna, e riparte per l’Italia: queste scelte risultarono molto oculate. Sapete perché? Non solo perché, con la Rivoluzione del 1789, si sarebbe trovato un po’ in difficoltà, ma, in Italia, a Venezia, Vivant Denon incontra una signora con la quale stabilisce una rapporto – soprattutto culturale - molto ma molto significativo. Sapete chi è questa signora?
Il nostro viaggio in compagnia di Vivant Denon continua: accorrete, la Scuola è qui…