Prof. Giuseppe Nibbi Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005 26-27-28 gennaio 2005
Thomas Mann
LO “SGUARDO BENEVOLO” E LO “SGUARDO INQUIETANTE” DELLA BELLEZZA
Strada facendo, su un Percorso intitolato Il sorriso de La Gioconda, capita di fare alcune riflessioni in relazione all’oggetto che contiene questo famoso “sorriso”. Certamente – se riflettiamo – è una situazione poco piacevole quella di andare al museo del Louvre e dover rinunciare a un’osservazione (chiamiamola così) contemplativa del ritratto più famoso del mondo. Se volessimo contemplare in tranquillità il ritratto de La Gioconda non potremmo farlo, e dobbiamo rinunciare a questa esperienza perché c’è un passaggio continuo di una folla (in estate molto più numerosa) che tenta di gettare un’occhiata a questo dipinto e soprattutto di fotografarlo. Neanche a dirlo, il riflesso dei flash sul vetro rende la visione di quest’opera ancora più difficile. Se un visitatore casuale entra nella sala dove è conservata La Gioconda, notando l’assembramento, potrebbe credere che all’origine di tanta confusione non ci sia un quadro, ma potrebbe immaginare la presenza di una personalità importante, di una celebrità del cinema o della televisione, della moda o della musica, o addirittura di un personaggio di sangue reale. Una delle regole del museo prevede che non si concentrino più di trenta persone attorno a un singolo dipinto: per La Gioconda, questa regola, da anni, viene puntualmente disattesa. Per altri quadri altrettanto importanti, questa regola, sarebbe persino superflua.
I turisti, che in genere si comportano correttamente e si mostrano intimiditi dal museo, in questo caso ignorano sistematicamente la proibizione di usare il flash: sembra quasi che uno degli scopi principali della loro visita a Parigi sia proprio quello di scattare una foto a La Gioconda, anche a costo di litigare con i custodi, che, tra l’altro, il più delle volte devono rinunciare a far rispettare questo divieto. Nessun altro dipinto riceve un simile trattamento, nessun’altra opera del Louvre è oggetto di tanta adorazione e curiosità, nemmeno due opere straordinarie, le due statue greche più famose del mondo: la Venere di Milo e la Nike di Samotracia, che pure, con La Gioconda, condividono il privilegio – se di privilegio si può parlare – di vedere segnalata la loro posizione su qualsiasi mappa turistica del Louvre e un po’ ovunque all’interno dell’edificio stesso.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Il museo del Louvre contiene due famosissime statue greche: la Venere di Milo e la Nike di Samotracia… cerca un’immagine di queste due opere e scrivi una breve descrizione di questi due oggetti: c’è un particolare in esse che ti colpisce in modo speciale?…
Nessun altro grande museo al mondo possiede un oggetto la cui popolarità lo porti a sovrastare a tal punto tutti gli altri anche se considerati grandi capolavori. Un simile trattamento non è riservato nemmeno a La nascita di Venere del Botticelli, conservato agli Uffizi di Firenze, a La ronda di notte di Rembrandt, conservato ad Amsterdam, o a La famiglia di Filippo IV di Velàzquez, conservato al Prado di Madrid. Ebbene: siamo in grado di pensarli, questi capolavori, con la stessa facilità con cui ci rappresentiamo nella mente l’immagine de La Gioconda? Persino la volta della Cappella Sistina in Vaticano, che contiene quel maestoso e complesso capolavoro di Michelangelo che illustra la Creazione, il Diluvio e il Giudizio finale, nell’immaginario popolare non riesce a superare il ritratto di questa donna sconosciuta vestita in modo così sobrio. Perché – ci chiediamo insieme agi studiosi – La Gioconda è il quadro più famoso del mondo? Perché anche a coloro che non possiedono una passione o un gusto particolare per la pittura è sufficiente, per identificarla immediatamente, un semplice sguardo, anche solo uno sguardo ad alcuni particolari presi da soli come la figura, gli occhi, o magari le mani? L’uso commerciale che, dell’immagine de La Gioconda, se ne fa nella pubblicità è stato, e tuttora è, di gran lunga superiore a quello di qualsiasi altra opera d’arte.
Chateaubriand – di cui la scorsa settimana abbiamo letto una significativa riflessione sulle cause del successo de La Gioconda – sostiene che le ragioni della fama di questo ritratto devono essere cercate all’esterno del dipinto stesso. Chateaubriand scrive questo testo – è una lettera a Madame Récamier – anche per polemizzare con gli intellettuali che, rifacendosi al romanticismo titanico, sostenevano che, le ragioni della celebrità popolare e della fama culturale de La Gioconda, sono esclusivamente intrinseche all’opera: c’è qualcosa “dentro” a questo quadro – sostenevano – di magico, di misterioso, di enigmatico, che viene recepito da tutti quelli che la osservano e, questo “qualcosa”, favorisce la liberazione, e agevola lo scatenamento di sentimenti, di emozioni, di suggestioni che creano uno stato d’animo particolare. Questo stato d’animo straordinario alimenta la consapevolezza che ci sia davvero un “qualcosa dentro” di carattere straordinario.
Questa idea nasce con le correnti romantiche all’inizio dell’800, con la filosofia dell’Idealismo di cui noi – nella primavera del 2004 – abbiamo studiato alcune parole-chiave e alcune idee significative provenienti dalle opere di alcuni personaggi importanti nella Storia del Pensiero Umano come Schiller, Novalis, Schelling. Ora non possiamo ripercorrere quegli itinerari, ma, a questo proposito, ci può essere utile ricordare i ragionamenti di Schiller (1759-1805)…un personaggio che, molti di noi, conoscono già attraverso il Percorso di primavera 2004.
Ma Schiller è un personaggio che tutti avete sentito nominare. Quando – alla fine di aprile dell’anno scorso – abbiamo incontrato Friedrich Schiller, ci siamo occupati, prima di tutto, della sua attività di poeta e di drammaturgo. Schiller ha scritto delle opere importanti, ha composto una serie di drammi che sono diventati molto famosi, ed hanno avuto un successo straordinario anche perché sono stati successivamente predisposti per essere musicati, e alcuni di questi drammi sono stati musicati da Giuseppe Verdi che ha contribuito a far aumentare la fama di Schiller. I titoli dei drammi di Schiller sono, quindi, familiari alle orecchie di molti: I masnadieri (1781), La congiura di Fiesco (1783), Intrigo e amore, dove spicca la figura di Luisa Miller (1784), Don Carlos (1787), la Trilogia di Wallenstein (1792-1799), Maria Stuarda (1800), La pulzella d’Orléans (1801), Guglielmo Tell (1804). Questi titoli sono molto conosciuti e non solo da parte di chi ama il melodramma.
Ma, sappiamo già che la personalità intellettuale di Schiller contiene un aspetto legato alla filosofia…e le due cose non possono essere scisse, e, se abbiamo operato la primavera scorsa e continuiamo ad operare oggi, una distinzione tra Schiller poeta e drammaturgo e Schiller esteta e filosofo, è solo per motivi didattici. Schiller è un poeta in funzione della sua filosofia, ed è un filosofo in funzione della sua poesia.
Negli anni ’90 (del ‘700) Schiller si dedica a scrivere le cosiddette “opere estetiche”… Questo fatto non è casuale: il 1790 corrisponde all’anno di pubblicazione della Critica del giudizio di Kant, e – molti di voi sanno (abbiamo studiato l’argomento nella primavera del 2003) che, quest’opera, ha significato qualcosa sul piano culturale, sul piano della riflessione intellettuale nei confronti del tema della bellezza: è bello ciò che è bello, cioè la bellezza sta “dentro” all’oggetto osservato? Oppure è bello ciò che mi piace, cioè la bellezza sta ell’occhio che guarda, il cui sguardo si è formato al “di fuori” dell’oggetto?Nel 1793 – dopo aver studiato la Critica del giudizio di Kant – Schiller scrive il trattato estetico Della grazia e della dignità. Nel 1795 prosegue la sua riflessione scrivendo quella che viene considerata l’opera più importante di Schiller: il saggio politico-culturale: Lettere sull'educazione estetica dell'essere umano. Con questo saggio, Schiller tenta di costruire un sistema all’interno del quale l’arte possa acquisire una dignità scientifico-filosofica: l’Arte viene pensata come la disciplina capace di dare un senso alla vita umana. Schiller – d’accordo in questo con Goethe, con Fichte e in parte con Kant – pensa che l’educazione estetica possa essere la premessa per fondare l’educazione morale, l’educazione razionale e l’educazione politica. Educare all’Arte significa preparare la strada per educare alla moralità, alla razionalità e ai diritti e ai doveri di cittadinanza. Nelle Lettere sull'educazione estetica dell'essere umano, in particolare, Schiller ragiona sull’esigenza di dare una base oggettiva al bello. Schiller vorrebbe dimostrare che un oggetto è bello perché contiene dentro di sé i parametri della bellezza, contiene in sé l’idea della bellezza. Vorrebbe superare quello che considera il luogo comune per cui: “il bello è ciò che mi piace”. Vorrebbe superare il luogo comune secondo cui il bello sarebbe nel nostro gusto, formatosi attraverso un condizionamento esterno, piuttosto che dentro l’oggetto da gustare. Schiller pensa che il “bello” sia un fenomeno autonomo e autosufficiente presente nell’oggetto, connaturato all’oggetto stesso. Un oggetto è “bello” perché contiene qualcosa “dentro” – una legge, una norma, una regola, un principio – che lo rende tale. E per giustificare questa idea delinea una riflessione. Se ragioniamo – scrive Schiller – noi capiamo che l’arte è quell’attività che permette alla persona di esprimersi liberamente: un “oggetto artistico” nasce proprio perché chi lo realizza ha scelto liberamente le forme con cui interpretare liberamente un contenuto. Quindi l’arte è fondamentale nella vita umana perché è espressione di libertà. Le leggi del bello, quindi, si delineano nel momento in cui, chi realizza un’opera si sente libero di scegliere le forme con cui interpretare, altrettanto liberamente, un contenuto: quando la persona utilizza questa libertà di scelta produce bellezza. E, la bellezza, di conseguenza, si identifica con la libertà che rappresenta il propulsore del fenomeno artistico. Libertà significa “determinarsi da sé”, e, in questo processo del “determinarsi da sé”, vive la bellezza. Mentre l’artista – scrive Schiller – realizza, plasma, forgia, dà origine liberamente alla sua opera, si determina liberamente un processo che sfugge alla sua stessa volontà, e la bellezza si crea liberamente e, quindi, la legge interna che la governa è autonoma, è autosufficiente, è indipendente: la legge della bellezza sfugge all’intendimento dell’artista, il criterio della bellezza scappa di mano all’artista stesso perché è all’opera che appartiene. Un “oggetto bello” è tale perché ha in sé la propria legge che lo determina, ha in sé il proprio criterio che lo caratterizza, tanto che l’artista, non è più consapevole, non riesce più a controllare la legge attraverso la quale si forma la bellezza. Questa legge della bellezza – scrive Schiller – non è creata dall’artista (l’artista è solo uno degli strumenti), ma si determina autonomamente dentro all’opera che è stata prodotta. La bellezza – scrive Schiller – si trova “dentro” l’oggetto e dall’oggetto si sprigiona all’esterno. La bellezza non dipende dalla materia, perché con i colori e con i suoni, e con le parole si può creare vera arte oppure paccottiglia. La bellezza – scrive Schiller – non dipende neppure dalle teorie ricevute. Ogni artista nasce in un preciso contesto dove assimila una determinata concezione del mondo e dell’arte, ma un artista, non diventa artista per questo motivo. Un artista non produce bellezza attraverso la “materia”, come i colori, la lingua, i suoni: la “materia” è un mezzo per produrre l’oggetto, non la sua bellezza. Il procedimento di formazione delle leggi che governano la bellezza – scrive Schiller –si mette in movimento se l’artista è veramente libero (a volte a suo rischio e pericolo) da tutti i condizionamenti esteriori. Allora la bellezza si forma ed esiste liberamente nell’oggetto artistico, e ci vive “dentro” come un fenomeno autonomo, come un dato di fatto indipendente. Quindi, un oggetto – sostiene Schiller – lo ritengo “bello” quando percepisco questo fenomeno autonomo, quando colgo questo dato di fatto indipendente. E l’essere umano come lo sente – scrive Schiller – questo fenomeno, questo dato di fatto, che chiamo il “bello”? Come fa la persona, l’occhio che guarda, a percepire la bellezza presente nell’oggetto? Quando la bellezza è presente nell’oggetto – scrive Schiller – ha il potere di far entrare in relazione la persona con l’idea del bene. Quando sono a contatto con la bellezza – scrive Schiller – sento che mi sto avvicinando ad alti ideali: la libertà, l’amicizia, la solidarietà, la virtù. E il contatto con la bellezza m’induce alla coerenza morale e all’impegno intellettuale profondo e costante. Schiller pensa che, quindi, l’essere umano può migliorarsi a contatto con la bellezza, può arricchirsi interiormente attraverso il godimento estetico: è la bellezza che ci può salvare, che può dare un senso alla vita, è la bellezza che può salvare il mondo. Coltivare il bello significa imparare a coltivare il buono: la bellezza, quindi, conduce al bene. Di conseguenza, l’educazione estetica – sostiene Schiller – è propedeutica all’educazione morale. Educarsi al bello significa: educarsi al bene. La disciplina estetica e la disciplina morale sono profondamente legate tra loro.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Tante volte si sente dire: “Questo è proprio un bell’oggetto…”.C’è un oggetto che in questo momento consideri il più bello di tutti? Lo possiedi già ? Potresti entrarne in possesso? Non potrai mai entrarne in possesso?
Scrivi quattro righe in proposito…
Schiller è un pensatore del “romanticismo titanico” che sviluppa i temi del “romanticismo galante”, anche se è difficile “etichettare” questi personaggi, lo facciamo semplicemente in funzione di una riflessione didattica.
Schiller capovolge il ragionamento di Kant (incontrato nella primavera del 2003). Kant pensa che coltivare il bene significhi imparare a coltivare il bello: la legge morale, quindi, conduce alla bellezza: “se fai il bene, scoprirai il bello”. Kant pensa che, l’educazione morale sia propedeutica all’educazione estetica. Schiller capovolge questa visione: considera l’estetica la disciplina più efficace per educare alla libertà e al bene, e per educare alla “totalità”, al “completamento” della personalità umana. L’educazione estetica quindi, per Schiller, è propedeutica all’educazione morale: se cerchi il bello sarai portato a fare il bene. Con l’educazione estetica si dovrebbe imparare a superare la divisione tra la ragione e i sensi, tra la forma e il contenuto. Con l’educazione estetica ci si dovrebbe riappropriare di ciò che Schiller chiama “l’istinto del gioco”: quella condizione nella quale siamo portati più liberamente a rispettare le regole. Perché un gioco riesca bene è necessario che tutti, liberamente, rispettino le “regole del gioco”, è allora che il gioco sprigiona la sua bellezza, è allora – se tutti sanno “stare al gioco” che tutti si divertono, indipendentemente da chi vince e da chi perde, perché il buono del gioco – se si rispettano liberamente le “regole del gioco” – sta nel fatto che tutti possono fruire della bellezza che esiste, in quanto tale, dentro il gioco stesso. “Viviamo in una società – scrive Schiller nel 1795 – in cui gli esseri umani non sono più capaci a giocare” e, oggi, ci chiediamo, spesso, se anche i bambini giochino ancora: se hanno ancora la possibilità di giocare liberamente. Perché – secondo Schiller – è un male che i bambini si dedichino sempre meno a giocare tra loro, liberamente? Perché è un male – direbbe Schiller – che i bambini stiano circa sei ore al giorno davanti alla televisione, che non è un gioco, che smorza il desiderio di giocare? Perché la privazione dal gioco – stando alle regole del gioco – priva della fruizione della bellezza, insita nel “gioco in sé” (direbbe Platone).
Ma leggiamo.
LEGERE MULTUM….
Friedrich Schiller, Lettere sull’educazione estetica dell’essere umano (1795)
…La persona è soggetta ai sensi e alla ragione e alla natura umana corrispondono due istinti fondamentali: alla ragione corrisponde “l’istinto della forma”, ai sensi corrisponde “l’istinto della materia”; la cultura ha il compito di assicurare a ciascuno di questi due istinti i propri confini e la possibilità di affermarsi. Quando vi è unione armonica fra la forma e la materia, la persona congiunge in sé, nella pienezza della sua esistenza, la più alta autonomia e libertà, e invece di perdersi per il sopravvento del mondo sensibile, accoglierà questo in sé con tutta la infinità dei suoi fenomeni e lo sottoporrà all’unità della ragione. Questo è naturalmente un compito ideale dell’umanità; ma c’è anche nella realtà immediata una forza, capace di stabilire un equilibrio durevole fra i due istinti, in modo che il nostro rapporto con le cose non sia puramente spirituale, né puramente sensibile, ma estetico, ed è “l’istinto del gioco”: il suo oggetto è la bellezza. La persona è interamente persona solo quando gioca, cioè quando mantiene l’equilibrio fra i due istinti, tra forma e materia, nel fenomeno estetico della bellezza. Perciò lo stato estetico, è non solo somma pienezza di vita, ma anche scioglimento da ogni pesantezza terrena, perfetta liberazione della vita: come una bilancia, la cui lancetta segna sempre zero. In tale stato noi abbiamo il sentimento della nostra completa e più pura umanità. Perciò non solo è lecito poeticamente, ma è filosoficamente giusto chiamare la bellezza “nostra seconda creatrice”. Solo la cultura estetica può condurre la persona a superare la sua natura puramente sensibile, elevandola e armonizzandola con quella spirituale e intelligibile; e solo dall’estetica può svilupparsi la morale. L’arte è dunque la grande educatrice dell’individuo e della società …
Schiller ha studiato con passione e con grande interesse le opere di Kant – forse lo ricordate – e ha portato la filosofia di Kant a Weimar e a Jena (in queste due città, nella primavera scorsa, abbiamo “soggiornato” per qualche settimana): questo fatto ha delle conseguenze importanti sul piano culturale, e sul piano della Storia del Pensiero Umano. Questa affascinante elaborazione culturale di Schiller avvalora la teoria che attribuisce al fenomeno della bellezza un ruolo oggettivo: una cosa è bella perché l’idea della bellezza la contiene in sé.
Questa elaborazione culturale non è nuova nella Storia del Pensiero. Molti di voi, probabilmente, appena hanno sentito nominare “l’idea della bellezza” hanno pensato subito al pensiero di Platone, che tante volte, in questi vent’anni, abbiamo incontrato sui nostri itinerari, e anche il pensiero di Schiller parte da lì. È chiaro che adesso non possiamo occuparci diffusamente del pensiero di Platone, possiamo però – per capire – domandarci: perché il pensiero di Platone è così importante e ricorre sempre nella Storia del Pensiero? Il grande merito di Platone è quello di aver nettamente distinto il mondo delle cose, la realtà materiale, dal mondo dei valori. Di aver chiaramente separato il mondo della materia sensibile dal mondo delle idee intellettuali. La vita umana – sostiene Platone – è fatta di cose materiali definibili sperimentalmente, però la vita acquista un significato solo attraverso i valori, solo attraverso le Idee soprattutto l’idea del Buono, del Bello, del Giusto. I valori rappresentano il vero motivo per cui la vita valga la pena di essere vissuta. Per Platone, quindi, i valori corrispondono alle idee eterne, universali, assolute. Sono le idee che fanno esistere le cose, sono le idee che “avvalorano” le cose. Le idee, i valori sono trascendenti, esistono al di là delle cose, in un loro mondo ed è, quindi, difficilissimo raggiungerli. Però Platone avverte anche che i valori ideali, le idee, pur distinte e diverse dalle cose, costituiscono la “forma” delle cose, danno “forma” alle cose e, quindi, sono presenti nelle cose stesse.
Le idee sono presenti nella realtà in quanto “forme”, e la “forma” è distinta dalla materia. La materia senza la “forma” non avrebbe nessun senso, non corrisponderebbe a nessuna realtà: la realtà corrisponde alla “forma”, la realtà vera sono le “idee”. Di conseguenza: i valori sono la verità. Ogni cosa ha una sua forma, e questa forma discende da un’idea, ed è l’idea che dà valore e dà senso a questa cosa. Ogni persona ha una sua forma, e questa forma discende da un’idea che dà valore e che dà senso alla persona: questa idea, in greco, si chiama psiche psiche, che noi traduciamo con il termine: anima. L’anima “cristiana” ha le sue radici nel pensiero di Platone. Quindi, la psiche, l’anima è l’aspetto più importante della persona e ha una natura intellettuale non materiale: l’anima è eterna perché ha vissuto nel mondo delle idee, che Platone chiama l’Iperuranio. L’anima della persona è molto inquieta (effettivamente siamo anime in pena…), perché? Perché l’anima, prima di congiungersi con la materia, ed essere chiusa in quella prigione che è il corpo, ha vissuto nell’Iperuranio e, naturalmente vorrebbe tornarci. Perché l’anima vuole tornare nell’Iperuranio, nel mondo delle idee? Perché il mondo delle idee – scrive Platone nei suoi Dialoghi – rifulge di una bellezza eterna e ineguagliabile, fonte di ogni altra bellezza, che si sprigiona dalle idee, e, prima di tutto, dall’idea più alta: l’idea del Bene che si irradia – scrive Platone – come il sole nell’Iperuranio.
L’anima della persona, incarnata nel corpo, sente una forte nostalgia (c’è un nucleo di “romanticismo” già in Platone? Eh già…) di questa bellezza, di cui conserva un flebile ricordo. Per questo l’anima della persona è portata ad “amare” tutte le cose belle nelle quali si riflette, come un raggio, la bellezza suprema delle Idee irradiate dall’idea del Bene. Questa “energia” che spinge l’anima verso tutte le cose belle – afferma Platone – è l’Eros, l’Amore, quello che è stato chiamato: l’Amor platonico. Ecco che cosa s’intende per “Amor platonico”! L’amor platonico – fuori dai luoghi comuni – è un’energia che spinge l’anima della persona ad avvicinarsi, per gradi, alla conoscenza del mondo delle Idee, permeato dalla Bellezza e dove, su tutto, regna l’idea del Bene. Secondo Platone, l’Amor platonico è la spinta verso la conoscenza, e, questo avvicinamento per gradi al conoscere e al capire, avviene attraverso un itinerario intellettuale, attraverso un investimento in intelligenza, attraverso un percorso di studio.
Leggiamo un frammento da uno dei più famosi Dialoghi di Platone che abbiamo studiato in molte occasioni, dal titolo Simposio. Simposio significa “incontro conviviale”, e, in questo caso, il simposio è una cena a casa di Agatone, e i personaggi di questo dialogo, sono importanti: Socrate, Apollodoro, Aristodemo, Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone, Alcibiade, Diotima: dialogano a tavola, sul tema dell’Amore, del Bene e del Bello.
LEGERE MULTUM….
Platone, Simposio 211 B–C (416-399 a.C.)
La giusta maniera di procedere da sé o di essere condotti da un altro nelle cose dell’amore è questa: prendendo le mosse dalle cose belle di quaggiù, al fine di raggiungere il Bello, salire sempre di più, come procedendo per gradini, da un solo corpo bello a due, e da due a tutti i corpi belli, e da tutti i corpi belli alle belle attività umane, e dalle attività umane alle belle conoscenze, e dalle conoscenze procedere fino a che non si pervenga a quella conoscenza che è conoscenza di null’altro se non del Bello stesso, e così, giungendo al termine, conoscere ciò che è il Bello in sé.
Che cosa ci suggerisce questo frammento del Simposio? Dapprima la persona – l’anima della persona – è attratta dalla bellezza di un corpo, poi, accorgendosi che l’idea della bellezza è presente in tutti i corpi, la persona passa ad amare la bellezza corporea, l’idea della bellezza corporea. Poi la persona capisce che al di sopra dell’idea della bellezza corporea c’è l’idea della bellezza delle Leggi e delle Istituzioni. Poi la persona capisce che al di sopra c’è ancora la bellezza intellettuale, poi capisce che al di sopra della bellezza intellettuale c’è la bellezza delle Idee, e poi, la persona, intuisce il grado più alto della gerarchia dei valori, l’oggetto supremo dell’Amore, dell’Eros e del Bene: la Bellezza in sé. Quindi l’Eros, l’Amor platonico, consiste nel desiderio di conoscere l’idea della bellezza; e l’aspirazione a conoscere riconduce gradualmente l’anima della persona verso il mondo delle Idee, da cui l’anima proviene, e in cui domina l’idea del Bene. Il pensiero, elaborato da Platone, secondo cui, l’idea della bellezza è presente – come “forma” – in tutte le cose, è un pensiero che attraversa, nei secoli, la Storia della cultura: e l’opinione di Platone, secondo cui, l’aspirazione alla conoscenza (l’Eros, l’Amor platonico) avvicina l’anima alla comprensione dell’idea della bellezza, è un’opinione che attraversa tutta la Storia della cultura. In età moderna e contemporanea molti intellettuali hanno riflettuto (…si continua a riflettere) su questi pensieri e, utilizzando generi letterari diversi come il dramma, il poema, il romanzo, il racconto, hanno “riscritto” il Simposio e altri Dialoghi di Platone.
A questo proposito – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo fare un inciso per capire meglio questo fenomeno culturale e andiamo a incontrare uno dei più grandi scrittori del ‘900 in lingua tedesca che è fortemente coinvolto in questa operazione intellettuale: Thomas Mann. Per avere un quadro sufficiente della vita e delle opere di Thomas Mann ci vorrebbe un percorso intero. Ora diciamo l’essenziale contando sul fatto che, volendo, ciascuno di noi, anche in settimana, può arricchire le sue conoscenze su Thomas Mann, con l’enciclopedia, sulla rete, oppure in biblioteca cominciando a prendere contatto con i suoi libri. Ma è probabile che qualche racconto o romanzo di Thomas Mann lo abbiate letto e lo abbiate anche in casa e non lo abbiate letto. Vi ricordo, a questo proposito ancora una volta, che il libro è un “oggetto” significativo e, in quanto tale, va avvicinato, prima di essere letto. Innanzi tutto un libro – in quanto “oggetto” significativo – va osservato nella sua “forma”: va toccato, annusato, sfogliato. Prima di entrare, come lettori, dentro al libro è utile inventariare la scrittura che si trova in prima, in ultima e nei risvolti di copertina: lì, spesso, troviamo notizie preziose.
Thomas Mann è nato nel 1875 a Lubecca.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura
Thomas Mann è nato nel 1875 a Lubecca, una bella città “nordica” che puoi visitare con l’atlante e con una guida della Germania: uno dei monumenti (sono molti e interessantissimi) della città è la casa dei Mann al n. 9 di Königstrasse…
A Lubecca è ambientato il romanzo autobiografico I Buddenbrook, scritto da Thomas Mann a Palestrina, e pubblicato nel 1901 … lo hai letto ?
Figlio di un ricco mercante di grano, Thomas Mann è l’erede di una grande famiglia di tradizione borghese condannata purtroppo a dissolvesi in seguito a un grave dissesto economico provocato dalla morte precoce del padre. Questo fatto – scriverà poi – segna per Thomas il crollo improvviso di un mondo che sembrava destinato a durare per sempre. Nella vita di Thomas Mann da giovane, emerge la figura della madre. La madre, la brasiliana Julia da Silva-Bruhns, dopo la morte del marito e la vendita forzata delle loro proprietà, si trasferisce a Sud, nella “meridionale” città di Monaco, per tentare di ricostruire la famiglia. Thomas invece rimane a Lubecca per completare gli studi e, nello stesso tempo, per assistere, impotente, a quella che lui chiama la “profanazione” della bella casa paterna da parte di persone – i compratori – che non sanno apprezzarne il valore sentimentale di “documento” di una civiltà ormai fatalmente avviata sul viale del tramonto: egli racconterà questa “profanazione” in un famoso romanzo intitolato I Buddenbrook (1901), che merita di essere letto. I “germi della dissoluzione”, in un certo senso, Thomas Mann li cova in se stesso, nel proprio spirito, fin da giovane: questi germi costituiranno sempre un contenuto della sua scrittura. Dalla madre Julia da Silva-Bruhns, brasiliana di cultura creola, Thomas Mann eredita la componente voluttuosa, dolce del suo carattere, sensibile e tormentato.
Julia da Silva-Bruhns è una donna bellissima e di notevole cultura, ed è portata d’istinto a coltivare il fantastico, il sogno, il racconto mitico, la lirica, ma non disdegna le cose pratiche: a Monaco riesce, con mano ferma, a salvare il salvabile del patrimonio familiare che sembrava ormai completamente compromesso. Il mondo più congeniale a Julia da Silva-Bruhns è quello dell’arte. Ama soprattutto la musica e questo amore struggente, che coinvolge insieme il cuore e l’intelletto, s’impegna a trasmetterlo ai suoi figli, e ci riesce.
Proprio per amore della musica Thomas Mann decide di migrare verso Sud e raggiunge suo fratello maggiore Heinrich, che si era stabilito in Italia. I due si incontrarono a Roma e, di comune accordo, vanno a stabilirsi in una modesta stanza d’affitto, a Palestrina. Il motivo di questa singolare scelta è da attribuire alla loro passione musicale: vogliono rendere un romantico omaggio alla memoria del grande musicista Pierluigi da Palestrina (1525-1594), uno dei più importanti polifonisti del Rinascimento, che ammiravano particolarmente: voi avete avuto l’occasione di ascoltare qualche composizione di Palestrina?
Il sole e il dolce clima italiano fanno sì che Thomas Mann si senta ispirato a scrivere ripensando con nostalgia alla nordica Lubecca. Ed è pensando al suo mondo perduto che, nella stanza d’affitto di Palestrina, egli inizia la stesura di un lungo romanzo nel quale racconta le vicende della propria famiglia. Il libro, tutto intessuto sul filo magico dei ricordi, si intitola I Buddenbrook e doveva essere quasi un diario, quasi una “memoria” privata affinché certi fatti e certi sentimenti non fossero annullati dal tempo, non si sperdessero nel gran mare dell’oblio. Thomas Mann è certo che I Buddenbrook, come romanzo, non ha alcun titolo per interessare la gente. Egli lo pubblica unicamente per liberarsene, per allontanarlo da sé. In cambio, non si aspetta niente e i fatti, al principio, sembrano dargli ragione. Il libro, pubblicato nel 1901, passa assolutamente inosservato: delle mille copie dell’edizione originale poche decine furono acquistate. Poi, lentamente, il romanzo comincia a circolare sull’onda del tam tam dei lettori e suscita un interesse enorme e s’impone anche al di fuori dei confini della Germania. Che cosa è successo? Semplicemente questo: che nella storia vera della decadenza di una famiglia borghese molti lettori borghesi cominciano a vedere, e non certo a torto, qualcosa di assai più ampio, colgono un frammento della storia dell’intera borghesia europea, nel bene e nel male: sta finendo un’epoca e l’Europa si avvia verso terribili calamità. Sulla scia di questo successo Thomas Mann s’impegna a continuare a scrivere, e nel 1903 vengono pubblicati i celebri racconti Tonio Kröger e Tristano in cui lo scrittore affronta il tema della “bellezza”. Nel 1924 scrive La Montagna incantata, uno dei romanzi più importanti e più famosi del ‘900, è una riflessione sul rapporto tra la malattia, la morte e la musica.
Il regime nazista costringe Thomas Mann, a cui nel 1929 è stato attribuito il premio Nobel per la letteratura, ad abbandonare precipitosamente la Germania insieme con la sua famiglia di origine ebrea e a cercare un rifugio all’estero: si stabilisce prima a Zurigo e poi negli Stati Uniti. In questo periodo scrive quattro romanzi di contenuto biblico sulla figura di Giuseppe, il figlio di Giacobbe, venduto dai suoi fratelli, che sa interpretare i sogni, che sa progettare l’avvenire e farà carriera in Egitto governando con saggezza e scongiurando i pericoli della carestia. Thomas Mann torna in patria a guerra finita e pubblica il romanzo Doctor Faustus (1947) e molte altre opere, ma in Germania si sente un sopravvissuto e un po’ straniero fra la sua gente, muore a Zurigo nel 1955.
Thomas Mann nel 1912 pubblica un romanzo breve intitolato La morte a Venezia che tutti abbiamo sentito nominare, ed è soprattutto per questo motivo che, questa sera, lo incontriamo. La prima idea di questo libro significativo nasce nella mente di Thomas Mann dallo choc provocatogli da un doloroso caso familiare: il suicidio di una delle sue sorelle. La riflessione poi si allarga, come sempre accade in lui, fino a comprendere temi generali che investono il senso stesso della vita e del destino dell’essere umano, e, in modo particolare, di quella persona speciale che è l’artista. Thomas Mann affronta in La morte a Venezia il tema – che abbiamo già preso in considerazione incontrando Marco Valerio Marziale nell’ottobre scorso – del conflitto inconciliabile tra arte e vita, e il tema dell’isolamento dell’artista che è condannato a non poter vivere “come gli altri”. Ma il tema centrale che Thomas Mann sviluppa ne La morte a Venezia è quello dell’idea della “bellezza”. Il protagonista di questo breve romanzo è uno scrittore famoso che Thomas Mann chiama Gustav von Aschenbach.
Questo personaggio racchiude in sé, oltre alla figura di Thomas Mann stesso, due figure che gli interessano molto: la figura di Goethe e quella del musicista Gustav Mahler (1860-1911) autore di dieci – quasi – famose Sinfonie. Il personaggio di Gustav von Aschenbach, da come Thomas Mann lo descrive, assomiglia, fisicamente, a Gustav Mahler. Gustav von Aschenbach decide di recarsi a Venezia per un breve periodo di riposo e qui, mentre soggiorna al Lido, scopre all’improvviso, come per una rivelazione folgorante, di essersi invaghito, di essere stato preso dalla bellezza soave, benevola e contemporaneamente beffarda e provocatoria di un adolescente: Tadzio. Gustav von Aschenbach rimane invischiato nel conflitto tra il fascino abrosineo che stimola la sua intelligenza creativa e il fascino priapeo, che fa scatenare il torbido gioco dei sensi, e ne resta letteralmente sconvolto. Incapace di reagire, egli rimane nella città anche quando ha la certezza che essa è stata investita da un’epidemia, e così si avvia, vittima cosciente, verso la morte, verso l’annientamento totale.
Thomas Mann riscrive il Simposio di Platone. Lo riscrive alla luce dell’esperienza delle correnti “romantiche” che stiamo incontrando sul nostro sentiero, lo riscrive alla luce dell’esperienza di Schiller e di Goethe e, il risultato è quello di contribuire a creare un pensiero che porta il romanticismo fuori dal territorio del romanticismo, in un territorio attiguo ma diverso, chiamato territorio del “decadentismo”, ma questa è un’altra storia che dovremo raccontare più in là.
Ora leggiamo tre frammenti da La morte a Venezia tenendo anche l’orecchio sul Simposio di Platone.
LEGERE MULTUM….
Thomas Mann, La morte a Venezia (1912)
Gustav von Aschenbach era di statura lievemente inferiore alla media, bruno, sbarbato. La testa risultava un po’ grande rispetto alla corporatura quasi minuta. I capelli spazzolati all’indietro, alquanto radi sul cocuzzolo, folti e molto brizzolati alle tempie, incorniciavano una fronte alta, segnata da rughe profonde come cicatrici. L’arco degli occhiali d’oro, dalle lenti non cerchiate, s’infossava nella radice del naso forte e nobilmente aquilino. La bocca era grande, a volte rilassata, a volte improvvisamente sottile e contratta; le guance magre e scarne, il mento ben modellato e morbidamente diviso nel mezzo. Su quella testa quasi sempre reclinata in atteggiamento dolente, si sarebbe detto che fieri destini avessero deposto la loro traccia; e invece era stata l’arte a compiere quel processo di configurazione fisionomica che normalmente é frutto di una vita agitata e difficile.
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E ora torniamo a Schiller che utilizza i punti salienti del pensiero di Platone e fornisce ulteriore materiale a chi, dopo, come Thomas Mann, continua la riflessione su questa tematica che dura tuttora. L’elaborazione culturale di Schiller che attribuisce al fenomeno della bellezza un ruolo oggettivo, vale a dire: una cosa è bella perché l’idea della bellezza la contiene in sé – ha due conseguenze significative strettamente legate al gioco delle correnti che – a livello internazionale – si formano all’interno del territorio del “romanticismo” e ne determinano il carattere fortemente eterogeneo. La prima conseguenza è quella di favorire la nascita di una “corrente didattica” che mette l’Estetica in primo piano come disciplina indispensabile per educare la persona alla razionalità e alla moralità. I sostenitori di questa corrente si propongono come obiettivo quello di “educare al bello per educare al bene e anche alla ragionevolezza”. Questa corrente troverà sempre poco spazio sul piano sociale e politico.
La seconda conseguenza è quella di mettere in moto, tra gli intellettuali “romantici”, una linea di pensiero che avrà successo nel tempo e influenzerà la storia dell’arte, la storia della letteratura e la storia della cultura in genere. Nasce – all’interno del “romanticismo titanico” – una linea di pensiero che dà vita a una tendenza chiamata “corrente dell’estetismo”. Partecipano a questo orientamento molti intellettuali i quali studiano e divulgano le tesi di Schiller, ciascuno per proprio conto: ricordiamoci che l’individualismo è un dato caratteristico del “romanticismo”. Seguono questa linea di tendenza, in modo diversificato tra loro – ricordiamoci anche che il “romanticismo” in genere non è un movimento organizzato – quasi tutti i personaggi che abbiamo incontrato nella scorsa primavera: da Goethe, a Herder, da Novalis, a Hölderling, solo per citarne alcuni.
Secondo la “corrente dell’estetismo”, che, in partenza, segue la linea di Schiller: la fama e la celebrità di un’opera d’arte dipende dal fatto che la bellezza è presente “dentro” all’oggetto, “dentro” all’opera. Se nell’oggetto, se nell’opera d’arte è presente la bellezza di per sé, significa che la bellezza non sta nell’occhio di chi guarda, ma sta, come fenomeno autonomo, dentro l’oggetto, con le sue regole, i suoi criteri e le sue leggi .
Questa affermazione che cosa significa? Secondo la corrente dell’estetismo, questa affermazione, giustifica un fatto: quando osserviamo un oggetto artistico, non è il nostro sguardo a essere protagonista. L’occhio che guarda non è portatore dei canoni della bellezza, ma è l’oggetto che cattura il nostro sguardo e ce lo rimanda carico di quelle qualità che, l’opera, contiene in sé stessa. Sono le regole, i criteri e le leggi della bellezza presenti nell’opera che catturano lo sguardo, e che penetrano l’occhio che guarda. Ebbene, allora, che effetto ha questa bellezza – oggettiva, autonoma, autosufficiente, libera – su chi guarda, quali sono le conseguenze? Che cosa provoca il “bello sguardo” che l’opera artistica rimanda nell’occhio che guarda? Schiller – lo abbiamo appena studiato – dice che, la bellezza, su chi guarda, ha un effetto morale: il contatto con il bello orienta verso il bene (Platone).
Ma non tutti – all’interno dell’eterogeneo movimento romantico – la pensano così. Infatti da questa linea di pensiero denominata dell’estetismo, a sua volta, nascono due altre correnti. La prima corrente deriva direttamente dal pensiero di Schiller ed è radicata nel primo romanticismo titanico. A questa corrente appartengono quegli intellettuali i quali pensano che il contatto con il bello possa orientare sempre verso il bene, e ritengono che l’estetica sia propedeutica all’etica, ritengono che il tema della bellezza faccia da supporto fondamentale al tema della morale. Il “bello sguardo”, che si sprigiona dall’opera artistica verso chi la esplora, penetra nell’occhio che guarda, e, nella persona che osserva, nasce un sentimento orientato al bene. Questa corrente è stata denominata: la corrente dello “sguardo benevolo” della bellezza: quando guardo una cosa bella, mi oriento verso il bene.
Ma non tutti la pensano così e, successivamente, si forma una seconda corrente alla quale appartengono coloro i quali pensano, invece, che l’effetto della bellezza su chi guarda, produca un fascino, una fascinazione, un coinvolgimento emotivo, un turbamento dagli effetti misteriosi, inquietanti, enigmatici, perfino diabolici, e, di conseguenza, assai pericolosi. Questa corrente è stata denominata dello “sguardo inquietante” della bellezza.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
C’è un’opera d’arte di fronte alla quale hai percepito lo “sguardo benevolo” della bellezza, e c’è un’opera nella quale invece hai percepito lo “sguardo turbato” della bellezza ?
Scrivi quattro righe in proposito…
Il romanzo breve La morte a Venezia di Thomas Mann contiene il tema del contrasto tra lo “sguardo benevolo” e lo “sguardo inquietante” della bellezza. Attenzione, l’effetto della bellezza su chi guarda può produrre effetti “diabolici”. Ora, questa affermazione è destinata a portarci lontano, e non ci possiamo sottrarre, anche se il sentiero diventa particolarmente accidentato, perché? Siamo su un Percorso intitolato: il sorriso de La Gioconda e sappiamo – tutti lo sanno – che Leonardo si è occupato di “magia” – e se n’è occupato perché è figlio del suo tempo, del Rinascimento – e l’idea che nel sorriso de La Gioconda ci sia “qualcosa di diabolico” (come nel bel sorriso di Tadzio), ebbene, queste due idee, “Leonardo mago” e “sorriso diabolico”, hanno sempre attraversato, nei secoli, il pensiero di studiosi, commentatori, esegeti e osservatori comuni. Ora, attenzione: i temi del “magico” e del “diabolico” sono due grandi temi culturali che attraversano tutta la Storia del Pensiero e non basterebbe un Percorso intero per affrontarli in tutta la loro complessità.
Noi vogliamo extrapolare da questi temi alcuni elementi che ci possano essere utili per andare avanti nel territorio che stiamo attraversando. Il tema del “diabolico” – in particolare – corrisponde all’idea che ci possa essere un sistema per entrare in contatto con le forze demoniache, e che si possa stipulare, con esse, un patto, per ottenere dei vantaggi: la giovinezza, la bellezza, il denaro, il potere, il successo, concedendo in cambio, naturalmente, qualcosa di noi. Ebbene, questa idea, ha attraversato nell’età moderna (dal 1500), tutta la cultura europea.
A questo punto – seppur brevemente, perché, questa sera, non lo possiamo ancora sviluppare – dobbiamo fare un inciso che, dalla primavera scorsa, abbiamo volutamente rimandato a questo Percorso. Uno dei personaggi, che abbiamo frequentato di più nel territorio del “romanticismo titanico” nella primavera 2004, è Johann Wolfgang Goethe (1749-1832). Questa sera lo citiamo appena, Goethe, dicendo che purtroppo non possiamo ripresentare tutti gli argomenti e tutte le questioni riguardanti la vita e le opere di questo complesso personaggio della Storia del Pensiero: ci vorrebbero settimane per riproporle, ma noi dobbiamo rimanere nei limiti di questo itinerario, e il frammento su Goethe che proporremo, prossimamente, è un tassello che fa parte di un paesaggio molto più ampio ma possiede un’autonomia e una comprensibilità anche di per sé stesso.
Perché abbiamo citato Goethe in questa circostanza: che cosa c’entra Goethe con il diabolico, e che cosa ha a che fare Goethe con il demoniaco? Goethe è un esponente di spicco del “romanticismo titanico” e, noi sappiamo che, il “romanticismo”, nel suo complesso, nutre una forte curiosità per gli aspetti irrazionali della vita, quindi anche per il demoniaco, e per il diabolico. Quindi non è casuale il fatto che l’idea della diabolicità del sorriso de La Gioconda si sviluppi in quest’epoca di romanticismo “titanico” e “galante”. Il “romanticismo”, nel suo complesso, nutre una forte curiosità per il fenomeno da cui derivano i temi del diabolico e del demoniaco: il fenomeno della magia. Sappiamo che gli intellettuali “romantici” rivalutano gli aspetti e le caratteristiche del mondo medioevale e di quello rinascimentale: ebbene un aspetto significativo della cultura medioevale e soprattutto di quella rinascimentale – in cui troviamo le radici del “romanticismo” – è rappresentato dalla magia.
Attenzione: dobbiamo capire bene di che cosa parliamo quando parliamo di “magia”. La magia è una dimensione dello spirito molto antica e già ben sviluppata nella civiltà babilonese e in quella egizia – ricordiamo che all’inizio dell’800, in Europa, scoppia il fenomeno della “egittomania” – e, della “cultura magica” se ne trova una traccia profonda nella letteratura dell’Antico Testamento, una traccia importante che servirà, nel Rinascimento, a molti filosofi per costruire, all’interno della cristianità, un’esegesi favorevole – sebbene condannata dai tribunali ecclesiastici – nei confronti della disciplina “magica”, e dobbiamo, necessariamente, rendercene conto. La magia è una disciplina che – nel contesto di un tormentato contrasto ideologico all’interno della cristianità – si è tramandata nel corso dei secoli e, in età moderna, nel Rinascimento, ha avuto una significativa riconsiderazione e, molti intellettuali, scienziati, medici, filosofi, scrittori, artisti si sono occupati di questa dimensione, di questa disciplina: compreso Leonardo da Vinci in quanto pittore.
Ma, che cosa significa questa affermazione? Attraverso quali complessi percorsi culturali passa la disciplina magica? E, soprattutto, di che cosa stiamo parlando quando, in età moderna, nel Rinascimento, parliamo di “magia”? E, infine, perché molti intellettuali “romantici” sono rimasti affascinati dalla dimensione magica e dalle sue componenti? Noi sappiamo già che i confini del “romanticismo” si dilatano fino al Rinascimento. Avete qualche problema ad entrare nel territorio della “magia”?
La prossima settimana, per capire come mai la “cultura magica” ha sempre trovato spazio all’interno della cristianità e alle origini e nel medioevo e nel rinascimento e nel romanticismo, dobbiamo fare un’incursione nella letteratura dell’Antico Testamento.
Intanto, in questa settimana...
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura
Se vuoi utilizzare la “magia” della musica e dare una colonna sonora a questo itinerario (con Platone, Schiller, Thomas Mann) puoi ascoltare la Quinta Sinfonia di Gustav Mahler (1860-1911), scritta per l’inizio del 1900… in particolare si consiglia l’ascolto dell’Adagietto: Mahler ha scritto questa parola in italiano con una “i” in più… L’Adagietto della Quinta Sinfonia di Mahler è anche la colonna sonora del film “Morte a Venezia” di Luchino Visconti (1971)…
A quanti paesaggi intellettuali si può dare ascolto e visibilità percorrendo un itinerario culturale! Buon viaggio…
Il viaggio continua… accorrete, la Scuola è qui…