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LA PAROLA PATRIA E L’IDEA DI NAZIONALITÀ …

Lezione N.: 
17

Prof. Giuseppe Nibbi        Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005        23-24-25 febbraio 2005

LA PAROLA PATRIA E L’IDEA DI NAZIONALITÀ

   Il tema dell’ombra, che abbiamo incontrato sul nostro sentiero la scorsa settimana, ci ha riportato al tema della bellezza, un tema sul quale abbiamo già riflettuto e che, ora, ritroviamo sul nostro cammino; un tema complesso che è stato sempre al centro dell’attenzione in questi ultimi 2500 anni. Sappiamo che il tema della bellezza alimenta uno dei dibattiti fondamentali tanto all’interno del romanticismo titanico quanto all’interno del romanticismo galante.

   Durante l’itinerario di quattro settimane fa – forse lo ricordate – abbiamo riflettuto su questo tema prendendo, ancora una volta, in considerazione le Lettere sull’educazione estetica dell’essere umano (1795) di Friedrich Schiller. Mentre, cinque settimane fa, su questo tema, abbiamo riflettuto, occupandoci di un’opera di René de Chateaubriand: il famoso Carteggio con Julie Récamier, "collegato" alla prefazione di Memorie d’oltretomba (1847-1850). Inoltre, il nostro incontro con Goethe che, due settimane fa, ci ha messo in contatto con le "affinità elettive" e con il "gusto per il demoniaco", e poi, il nostro incontro con Adelbert von Chamisso che, la scorsa settimana, ci ha fatto conoscere Peter Schlemihl e la sua ombra, ci hanno fatto capire ancor meglio che la bellezza, se la consideriamo presente dentro l’oggetto, con le sue leggi autonome – secondo il pensiero di Schiller – è da ritenersi strabica: la bellezza ha uno sguardo biforcuto, la bellezza si pone con le sue luci e le sue ombre.

   Che cosa significa? Significa che, tra gli intellettuali "romantici", c’è chi pensa – sulla scia di Schiller – che la bellezza abbia in sé e sappia trasmettere uno "sguardo benevolo", luminoso: il "bello sguardo", che si sprigiona da una "bella cosa" verso chi la esplora, penetra nell’occhio che guarda, e, nella persona che osserva, nasce un sentimento orientato al bene; quando guardo una cosa bella, mi oriento verso il bene, verso la luce; Ecco che, per un verso, la parola-chiave "bellezza" è legata alle parole: bene, luce, ordine, calma, pace, tranquillità, equilibrio. Ma non tutti – abbiamo già detto – la pensano così. Tra gli intellettuali "romantici" c’è chi pensa, invece, che l’effetto della bellezza su chi guarda produca un fascino, una fascinazione, un coinvolgimento emotivo tale da procurare un turbamento dagli effetti misteriosi, inquietanti, enigmatici, perfino diabolici, e, di conseguenza, assai pericolosi: in questo caso la bellezza ha in sé ed è capace di trasmettere uno "sguardo inquietante", ombroso. Un’opera d’arte – per esempio La Gioconda di Leonardo - non dimentichiamoci che siamo sempre su questo sentiero – è considerata "bella" perché contiene in sé e sa trasmettere l’idea del bene? La Gioconda di Leonardo possiede e trasmette uno "sguardo benevolo", luminoso? Oppure, quest’opera, è considerata "bella" perché contiene in sé ed è capace di trasmettere "qualcosa" che turba, "qualcosa" che inquieta? La Gioconda di Leonardo possiede e trasmette uno "sguardo inquietante"? Uno sguardo che, come un’ombra misteriosa, enigmatica, incombe su di noi?

   E, a proposito di ombre: c’è chi sostiene che, per il verso in cui è messa la luce, un po’ di ombra, quel corpo ritratto, la dovrebbe lasciare, ma non ne lascia. Forse è meglio non andarci a imbarcare in supposizioni che – come è di moda oggi –possono costituire materia da romanzo esoterico in cui è dato immaginare che la modella abbia venduto l’ombra al diavolo, travestito da pittore.

   Ebbene, la questione intorno alla natura – benevola oppure inquietante – della bellezza de La Gioconda è passata anche attraverso questo paesaggio intellettuale basato sull’idea che il bello, presente dentro all’oggetto, possa creare su chi guarda un turbamento, uno stato d’inquietudine. La bellezza, quando è presente con le sue leggi autonome dentro a un’opera d’arte, dentro a un oggetto, secondo molti intellettuali "romantici", indirizza l’osservatore, non verso il bene – come sostiene Schiller – ma bensì verso il mistero, verso l’enigma, verso l’inquietudine. La bellezza crea turbamento, e, i turbamenti, portano con sé dei pericoli; ma contemporaneamente, gli stessi turbamenti, contengono anche molte attrattive non spiacevoli, sebbene pericolose, misteriose, enigmatiche, inquietanti. Questa idea, appunto, coinvolgerà molti intellettuali in un lungo lasso di tempo che va oltre l’800.

   La parola-chiave "turbamento" – dopo un lungo cammino, dal 1450 circa in avanti, sui sentieri del Rinascimento – sviluppa, nel territorio del romanticismo, tanto titanico quanto galante, tutta la sua potenzialità di significati. Una potenzialità che noi troviamo nell’arte, nella letteratura, nella Storia del Pensiero e nella cultura in generale.

 REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La parola "turbamento" ha una vasta gamma di significati: smarrimento, agitazione, commozione, inquietudine, rimescolamento, scombussolamento, sconcerto, alterazione, scossa, disturbo, interferenza, scompiglio, angoscia, ansia, ansietà, confusione, emozione, impressione, trepidazione, cruccio, sbalordimento, concitazione, paura, preoccupazione, apprensione…

Quale di questi significati metteresti per primo in questa lista?

La parola "turbamento" – nell’ampia gamma dei suoi significati – è una delle parole-chiave del romanticismo nel suo complesso… quando, dove e in che modo questa parola entra nella tua autobiografia?

Scrivi quattro righe in proposito…

   La parola "turbamento" con tutti i suoi significati ci porta inevitabilmente verso la didattica della lettura e della scrittura. C’è un personaggio – nella letteratura italiana del romanticismo – che, a detta degli esperti, raccoglie in sé molti degli aspetti legati alla parola-chiave "turbamento". Chi è questo personaggio letterario, e chi è lo scrittore che ha creato questa figura poetica che, ai suoi tempi, a metà dell’800, ha fatto gridare allo scandalo perché suscitava – e ancor oggi suscita – turbamento nei lettori? Per mettere in moto le azioni del conoscere, del capire, dell’applicare, dobbiamo andare all’appuntamento con questo scrittore. La biografia di questo giovane scrittore ha inizio, quasi sempre, con la notizia della sua fine misteriosa, ebbene: partiamo anche noi da questa notizia.

   Nella notte fra il 4 e il 5 marzo 1861, il veliero Ercole, partito da Palermo e diretto a Napoli, scompare in un misterioso naufragio al largo dell’isola di Ischia. Nessuno dei passeggeri si salva. Tra i passeggeri scomparsi c’è anche un colonnello dell’Intendenza militare dell’esercito garibaldino. Ma, questo colonnello, non ancora trentenne, prima di essere un soldato è uno scrittore, è un poeta, il quale ha pubblicato tragedie, drammi, ballate, racconti e soprattutto ha scritto un romanzo che, se fosse stato portato a termine e se fosse stato riveduto secondo le sue intenzioni avrebbe potuto essere il principale capolavoro della nostra narrativa dell’Ottocento, oscurando perfino la luce de I promessi sposi di Alessandro Manzoni: ebbene, questo scrittore si chiama Ippolito Nievo.

   Ippolito Nievo è nato a Padova il 30 novembre 1831. Suo padre, Antonio, è un magistrato di Mantova e sua madre, Adele Marin, è una patrizia veneta discendente dalla grande famiglia dei Collorèdo. L’infanzia di Ippolito si svolge quindi tra questi tre luoghi: Mantova dove abitualmente abita suo padre, il castello dei Collorèdo a Monte Albano del Friuli dove abitualmente abita sua madre, e Padova, la sua città natale. Durante la rivoluzione del 1848, Ippolito si arruola appena sedicenne nella Guardia civica di Mantova, già animato da una grande passione patriottica che, più tardi, nel 1859, lo spingerà a seguire Garibaldi nel Trentino durante la Seconda guerra d’Indipendenza e poi, nel 1860, nell’impresa dei Mille. Dopo il fallimento dei moti del 1848, si stabilisce a Padova dove, dal 1852 al 1855, segue i corsi di giurisprudenza all’Università (precedentemente aveva compiuto gli studi ginnasiali a Verona e quelli liceali a Mantova, a Pisa e poi nel Friuli), e intanto si dedica all’attività politica clandestina con i gruppi che hanno come programma l’indipendenza e l’unità d’Italia. Ma soprattutto, Ippolito Nievo, si dedica all’attività culturale. L’esercizio culturale fa parte del suo impegno politico e la sua prima opera è una raccolta di versi satirici a imitazione di Giuseppe Giusti, che pubblica a Udine nel 1854. Ippolito Nievo scrive versi a imitazione del Giusti: chi è il Giusti?

   Giuseppe Giusti è un poeta che con le sue opere ha contribuito a formare una generazione di giovani intellettuali impegnati in politica. Giuseppe Giusti è nato a Monsummano, in provincia di Pistoia nel 1809. Ha studiato legge a Pisa, ma la sua passione è sempre stata la letteratura fin dalla prima giovinezza. Ippolito Nievo, a Pisa, da studente liceale, conosce i versi ironici, satirici, patriottici del Giusti e lo ha subito amato e imitato. Nievo ha, fin da giovanissimo, cominciato a pensare – come sosteneva il Giusti – che l’indipendenza e l’unità dell’Italia si sarebbero dovute costruire anche e soprattutto con il contributo della cultura e con la sua divulgazione. Il Giusti – che Nievo non incontrò mai – visse una vita molto appartata, chiusa nel giro di pochi affetti personali ed ebbe pochi contatti con altri scrittori, e con altri intellettuali. Però, in un viaggio a Milano conobbe Alessandro Manzoni e il gruppo dei suoi amici, gli illuministi milanesi: ricordiamo che Manzoni è figlio di Giulia Beccaria, è il nipote di Cesare Beccarla, il giurista illuminista, autore del famoso saggio Dei delitti e delle pene dove denuncia l’illegittimità della pena di morte e della tortura. Di questo incontro con Manzoni, il Giusti ne parla nella seconda strofa di una delle sue più celebri poesie intitolata Sant’Ambrogio che, dal 1846 al 1848, diventa come un inno che accompagna la preparazione e lo svolgimento dei moti che portano, in molte città, da nord a sud della Penisola, alla creazione delle Repubbliche popolari: una breve storia, repressa nel sangue, ma molto significativa dal punto di vista ideale. Nel 1848 Giuseppe Giusti partecipa ai moti toscani ed è anche – nei mesi in cui viene proclamata la repubblica popolare – deputato nell’Assemblea Legislativa. Quando, l’anno dopo, i Granduchi di Toscana riconquistano il potere, il Giusti torna nell’ombra e viene ospitato dall’amico Gino Capponi. Purtroppo Giuseppe Giusti è, da tempo, ammalato di tisi e muore, a Firenze, nel 1850. Le sue opere, in versi e in prosa, sono state raccolte e hanno una grande diffusione soprattutto tra i giovani impegnati nella lotta per l’Indipendenza: tra questi giovani c’è e si distingue Ippolito Nievo.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Le opere più importanti del Giusti sono: le Poesie, le Memorie, l’Epistolario, i Proverbi toscani: tutte opere che possono essere lette con profitto per capire una pagina importante della nostra storia…

   La famosa poesia del Giusti intitolata Sant’Ambrogio è un scherzo lirico - satirico, e costituisce un modello che dà vita a uno stile: è a questo stile che Ippolito Nievo s’ispira quando comincia a scrivere. La prima caratteristica dello stile del Giusti è costituita dalla forma molto scorrevole e dall’alto tasso di comprensibilità del testo: tutti, anche coloro i quali sono privi di cultura, lo possono capire. Inoltre il testo è sempre costruito con una sottile vena di umorismo che lo rende dotato di una particolare leggerezza che fa diventare piacevole la lettura. Altra caratteristica dello stile del Giusti, per sostenere il discorso politico in modo più efficace, è quella di utilizzare per prima cosa i sentimenti in tutta la loro complessità e compiutezza, e poi di adoperare gli elementi emotivi e il senso di umanità: questo fa sì che, spesso, la poesia del Giusti vada al di là della situazione storica del suo tempo per assumere un significato universale.

   Sant’Ambrogio, sebbene sia stata scritta nel 1846 e sia stata divulgata clandestinamente in un clima di fermento in cui venivano maturando le condizioni che, due anni dopo, avrebbero scosso tutta la penisola a partire dalla ribellione del Lombardo-Veneto, risulta, oggi, un significativo manifesto contro la guerra perché, la guerra, indipendentemente da chi la vince o da chi la perde si ripercuote sempre contro i popoli e contro le classi più deboli della popolazione; Sant’Ambrogio è un manifesto che, in materia, ha preceduto gli scritti degli intellettuali del ‘900, per esempio Bertold Brecht quando scrive: "Tra i vinti faceva la fame la povera gente, tra i vincitori faceva la fame la povera gente lo stesso…".

   In Sant’Ambrogio il Giusti immagina di rivolgersi al capo della polizia del Granducato di Toscana – la polizia lo tiene d’occhio – per dimostrargli che, a torto, lo si accusa – per le cose che scrive – di essere uno sovversivo e un nemico dei tedeschi, e gli racconta un fatto che gli è successo a Milano dove si è recato a trovare Alessandro Manzoni autore di un romanzetto che, presume ironicamente, il capo della polizia non abbia letto e non conosca neppure. Il Giusti, a Milano, in compagna del figlio minore del Manzoni, Filippo, entra nella chiesa di Sant’Ambrogio, fuori le mura, e vi trova una schiera di soldati croati e boemi che suscitano in lui un immediato e irrefrenabile senso di ripugnanza. Ma, al momento della Consacrazione, quei soldati cominciano a cantare e si forma un coro di voci ben armonizzate in cui, il Giusti, sente l’espressione di una profonda tristezza che suscita nel suo cuore una serie di pensieri pietosi e fraterni e anche un desiderio di misericordia verso quei poveri soldati esiliati forzatamente dalla loro patria – provenienti da popoli anch’essi oppressi – e mandati a vigilare un paese la cui popolazione vede in loro l’odioso strumento della propria schiavitù. Soprattutto poi, quando intonano "O Signore, dal tetto natio" musicato da Giuseppe Verdi, si sente preso da un’intensa commozione e – confessa al capo della polizia – si trattiene a stento dall’andare ad abbracciare uno di quei soldati che sono oppressi dalla stessa tirannide che opprime i milanesi.

LEGERE MULTUM…

Giuseppe Giusti, Sant’Ambrogio (1846)

 Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco per que’ pochi scherzucci di dozzina,

e mi gabella per anti-tedesco perché metto le birbe alla berlina,

o senta il caso avvenuto di fresco a me che girellando una mattina,

càpito in Sant’Ambrogio di Milano, in quello vecchio, là, fuori di mano.

M’era compagno il figlio giovinetto (Filippo Manzoni) d’un di que’ capi un po’ pericolosi,

di quel tal Sandro, autor d’un Romanzetto, ove si tratta di Promessi Sposi

Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto? Ah, intendo; il suo cervel, Dio lo riposi,

in tutt’altre faccende affaccendato, a questa roba è morto e sotterrato.

 Entro, e ti trovo un pieno di soldati, di que’ soldati settentrionali,

come sarebbe Boemi e Croati, messi qui nella vigna a far da pali:

difatto se ne stavano impalati, come sogliono in faccia a’ generali,

co’ baffi di capecchio (stoppa) e con que’ musi, davanti a Dio diritti come fusi.

Mi tenni indietro; che, piovuto in mezzo di quella maramaglia, io non lo nego

d’aver provato un senso di ribrezzo che lei non prova in grazia dell’impiego .

Sentiva un’afa, un alito di lezzo: scusi, Eccellenza, mi parean di sego,

in quella bella casa del Signore, fin le candele dell’altar maggiore.

 Ma in quella che s’appresta il Sacerdote a consacrar la mistica vivanda,

di sùbita dolcezza mi percuote su di verso l’altare, un suon di banda.

Dalle trombe di guerra uscian le note come di voce che si raccomanda,

d’una gente che gema in duri stenti e de’ perduti beni si rammenti.

Era un coro del Verdi; il coro a Dio là de’ Lombardi miseri assetati;

quello: O Signore, dal tetto natìo, che tanti petti ha scossi e inebriati.

Qui cominciai a non esser più io; e come se que’ còsi doventati

fossero gente della nostra gente, entrai nel branco involontariamente.

 Che vuol ella, Eccellenza? il pezzo è bello, poi nostro, e poi suonato come va;

e coll’arte di mezzo, e col cervello dato all’arte, l’ubbie si buttan là.

Ma cessato che fu, dentro, bel bello io ritornava a star, come la sa:

quand’eccoti, per farmi un altro tiro, da quelle bocche, che parean di ghiro,

un cantico tedesco lento lento per l’aer sacro a Dio mosse le penne:

era preghiera e mi parea lamento, d’un suono grave, flebile, solenne,

tal che sempre nell’anima lo sento: e mi stupisco che in quelle cotenne,

in que’ fantocci esotici di legno, potesse l’armonia fino a quel segno.

 Sentìa nell’inno la dolcezza amara de’ canti uditi da fanciullo:

il core che da voce domestica gl’impara, ce li ripete i giorni del dolore:

un pensier mesto della madre cara, un desiderio di pace e d’amore,

uno sgomento di lontano esilio, che mi faceva andare in visibilio.

E quando tacque, mi lasciò pensoso di pensieri più forti e più soavi.

- Costor, dicea tra me, re pauroso degl’italici moti e degli slavi,

strappa a’ lor tetti, e qua senza riposo schiavi gli spinge per tenerci schiavi;

gli spinge di Croazia e di Boemme (Boemia), come mandre, a svernar nelle Maremme.

 A dura vita, a dura disciplina, muti, derisi, solitari stanno,

strumenti ciechi d’occhiuta rapina, che lor non tocca e che forse non sanno;

e quest’odio che mai non avvicina il popolo lombardo all’alemanno,

giova a chi regna dividendo, e teme popoli avversi affratellati insieme.

Povera gente! lontana da’ suoi, in un paese qui che le vuol male,

chi sa che in fondo all’anima pò poi non mandi a quel paese il principale!

Gioco che l’hanno in tasca come noi. Qui, se non fuggo, abbraccio un caporale,

colla su’ brava mazza di nocciuolo, duro e piantato come un piòlo.

   Nello stesso anno, il 1854, in cui Ippolito Nievo pubblica la raccolta di versi satirici a imitazione del Giusti, in molti teatri viene rappresentato un suo dramma: Gli ultimi anni di Galileo Galilei, un testo che contiene tutte le più importanti parole-chiave e idee-significative del pensiero liberale. Subito dopo la laurea, Nievo sa che, se vuole fare l’avvocato o entrare in magistratura, deve giurare fedeltà alle autorità austriache che governano il Lombardo-Veneto, ma lui si rifiuta ed è costretto a rifugiarsi in Friuli dove preferisce fare il contadino. S’immerge in quel paesaggio affascinante e doloroso che già conosce, e studia la vita dei contadini e rileva, con sempre maggiore coscienza, le grandi differenze sociali che separano, in modo innaturale, la gente della sua terra. Durante gli anni dell’esilio friulano Ippolito Nievo scrive una serie di lunghi racconti, e, in queste opere si riscontra l’influenza di una scrittrice friulana: Caterina Percoto (1812-1887), che, nei suoi Racconti mette in scena la vita dura, ma pervasa di solidi valori morali, dei contadini friulani.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Vai – con l’enciclopedia o sulla rete – alla ricerca di notizie su Caterina Percoto e sulle sue opere e scrivi quattro righe in proposito…

   Nel 1856 Ippolito Nievo scrive una novella patriottica e autobiografica intitolata L’avvocatino. Questa novella viene pubblicata e divulgata, e ottiene un grande successo, ma incappa nella censura e, contro di lui, viene spiccato dalla gendarmeria austriaca un mandato di arresto. Per questo motivo, nel 1857, Nievo decide di rifugiarsi a Milano dove gli sarebbe stato più facile nascondersi. A Milano, nonostante la clandestinità, vive gli anni più intensi e felici di tutta la sua breve vita che è veramente tutta raccolta in questo lasso di tempo, quasi che presentisse una fine imminente. Vive, in questi anni, l’amore, ricambiato, per la cugina Bice Melzi d’Eril e sono gli anni, dal 1857 al 1859, in cui scrive il suo grande romanzo, a cui, dà il titolo di Le confessioni d’un italiano. Questo romanzo sarà pubblicato postumo nel 1867 col titolo Le confessioni d’un ottuagenario per volontà dell’editore, il quale, in un momento in cui venivano stampati numerosissimi memoriali, intendeva evitare al libro di Nievo di essere scambiato per un memoriale storico-politico e non per un romanzo. Negli anni milanesi, Nievo scrive anche le tragedie Spartaco e I capuani e pubblica due raccolte di versi intitolate Le lucciole e Gli amori garibaldini. Non vanno dimenticate le numerose traduzioni che Nievo ha fatto: ha tradotto in italiano dal tedesco i versi di Heine, dal greco antico i frammenti di Saffo, molte pagine di Victor Hugo dal francese, i canti della Grecia moderna dal greco moderno, le liriche di Lermontov dal russo. Inoltre ha scritto saggi politici come Venezia e la libertà d’Italia e il Frammento sulla rivoluzione nazionale. Infine Nievo ha scritto i primi capitoli di un romanzo intitolato Il pescatore d’anime, col quale intendeva descrivere la vita di un povero prete di montagna dell’Alto Friuli che condivide le idee liberali e, nella fedeltà al Vangelo, vuole impegnarsi per migliorare le condizioni di vita materiale delle anime che gli sono state affidate.

   Nievo, accanto alla linea laica e popolare della sua visione politica, è convinto anche dell’importanza che ha il clero povero nella formazione culturale dei contadini, in modo che possano acquisire strumenti – prima di tutto l’alfabeto – per rivendicare migliori condizioni di vita e di lavoro. Nievo – durante il faticoso processo che porta alla nascita della Nazione italiana – è tra i primi intellettuali a capire la grave situazione in cui versa il mondo delle campagne in tutta l’Italia e ritiene urgente la soluzione dei problemi di miseria e di sottosviluppo che attanagliano le famiglie contadine tanto al sud quanto al nord: migliorando le condizioni di vita e di lavoro dei contadini – pensa Nievo – sarebbe migliorata la situazione economica del paese nel suo complesso.

   Naturalmente, nella Milano ancora sofferente per la disfatta del 1848, Nievo resta sempre in contatto coi patrioti e continua a propagandare l’idea di una patria indipendente e unita. Nel 1859, scoppiata la seconda guerra d’Indipendenza, non esita a lasciare l’amata Bice; evita persino il doloroso momento del distacco: sparisce dalla circolazione e si arruola nei Cacciatori delle Alpi di Garibaldi, coi quali combatte in Trentino. L’anno seguente, nel 1860, parte coi Mille per la spedizione in Sicilia. Scrive Cesare Abba nel famoso diario Da Quarto al Volturno: "Ippolito Nievo è un poeta veneto che a ventott’anni ha scritto romanzi, ballate, tragedie. Sarà il poeta della nostra impresa. Ed è anche un buon soldato e un bel giovanotto".

   Ma Garibaldi, conclusa la campagna di Sicilia, lo nomina colonnello e lo destina all’Intendenza militare; Nievo deve rimanere in Sicilia mentre i suoi compagni sbarcano sul continente: forse, questa promozione, gli è stata fatale! A conquista avvenuta, mentre si accendono i primi dissidi politici e sembra che la bellezza dell’impresa garibaldina sia offuscata da ostilità e da riserve, il giovane scrittore scompare per sempre nelle acque del Mar Tirreno: se non altro le amarezze gli saranno risparmiate.

   Ippolito Nievo lascia in eredità ai lettori un grande romanzo: Le confessioni d’un italiano, un romanzo che Italo Calvino considerava fondamentale per la sua formazione e indispensabile per la formazione dei cittadini del nostro Paese. Molti di noi – anche se non hanno letto questo romanzo – forse ne conoscono, a grandi linee, l’intreccio perché, nel 1960, quando, attraverso la tv, è stato rievocato il centenario dell’Unità d’Italia, ne è stata proposta una riduzione sceneggiata, e probabilmente molti di noi ricordano alcuni segmenti della trama, ricordano i personaggi principali, ricordano gli attori.

   Nievo costruisce il suo romanzo attraverso il personaggio di Carlino Altoviti che, ormai "ottuagenario" narra le vicende della sua lunga vita e soprattutto rievoca la vita – dalla nascita alla morte – di una persona che è la vera protagonista del romanzo. Carlino Altoviti proviene da una nobile famiglia friulana: è rimasto orfano di madre e viene affidato – mentre il padre è in Turchia e comparirà molto più tardi – agli zii, signori feudali del castello di Fratta, vicino a Portogruaro. Qui cresce come parente povero e mal gradito: l’unico che ha cura di lui e gli vuol bene è il vecchio domestico Martino.    Quella di Carlino Altoviti è una vita che, dal 1775, viene coinvolta in tutti i principali avvenimenti di quest’epoca, che stiamo attraversando col nostro Percorso, e che va dalla fine del ‘700 alla metà dell’800: dalla rivoluzione francese al periodo napoleonico, dai primi moti risorgimentali, alla guerra del 1848-1849, fino al 1858, vale a dire alla vigilia della seconda guerra d’Indipendenza. Conoscete il famoso inizio, l’incipit, de Le confessioni d’un italiano?

 LEGERE MULTUM…

 Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano (1867)

Io nacqui veneziano ai 18 ottobre del 1775, giorno dell’evangelista san Luca; e morrò per la grazia di Dio italiano quando lo vorrà quella Provvidenza che governa misteriosamente il mondo. Ecco la morale della mia vita. E siccome questa morale non fui io ma i tempi che l’hanno fatta, così mi venne in mente che descrivere ingenuamente quest’azione dei tempi sopra la vita d’un uomo potesse recare qualche utilità a coloro che da altri tempi son destinati a sentire le conseguenze meno imperfette di quei primi influssi attuati. Sono vecchio oramai più che ottuagenario nell’anno che corre dell’era cristiana 1858; e pur giovine di cuore forse meglio che nol fossi mai nella combattuta giovinezza, e nella stanchissima virilità. Molto vissi e soffersi; ma non mi vennero meno quei conforti, che, sconosciuti le più volte di mezzo alle tribolazioni che sempre paiono soverchie alla smoderatezza e cascaggine umana, pur sollevano l’anima alla serenità della pace e della speranza quando poi tornano alla memoria quali veramente sono, talismani invincibili contro ogni avversa fortuna. Intendo quegli affetti e quelle opinioni, che anziché prender norma dalle vicende esteriori comandano vittoriosamente ad esse e se ne fanno agone di operose battaglie. La mia indole, l’ingegno, la prima educazione e le operazioni e le sorti progressive furono, come ogni altra cosa umana, miste di bene e di male: e se non fosse sfoggio indiscreto di modestia potrei anco aggiungere che in punto a merito abbondò piuttosto il male che il bene. Ma in tutto ciò nulla sarebbe di strano o degno da esser narrato, se la mia vita non correva a cavalcione di questi due secoli che resteranno un tempo assai memorabile massime nella storia italiana.

   Nievo racconta in modo appassionato – perché ne è coinvolto come protagonista – la faticosa nascita di una Nazione e di una coscienza civile. Oggi, in molti si chiedono, e anche noi ci chiediamo: si è creata davvero una coscienza civile tra i cittadini di questo Paese? E la parola "patria", per gli italiani, ha un senso oppure è sempre stata una parola strumentalizzata per secondi fini, assai poco nobili? Questo è un dibattito molto interessante. Il fatto, inequivocabile, è che le condizioni culturali per dare ai cittadini lo strumento fondamentale e necessario per acquisire il senso della nazionalità, e della coscienza civile e della democrazia non sono state create in modo adeguato. È indubbio il fatto che – come sosteneva Giusti, come sosteneva Nievo, come sosteneva Calvino – soprattutto non è stato dato l’alfabeto! E senza alfabeto non matura il valore della nazionalità, non si esercita la coscienza civile, non si costruisce la democrazia!

   Senza alfabeto – con l’acquisizione di tutti gli elementi che comporta – non si accede agli esercizi primari della cittadinanza: la lettura e la scrittura. Lo so che noi, ora, ci domandiamo dubbiosi se possa bastare la lettura di un romanzo per acquisire competenze di cittadinanza! La lettura di un romanzo – ci domandiamo – può contribuire a cambiare il mondo? Può favorire il cambiamento della società in cui viviamo? Questo, oggi, io non lo so, però dobbiamo fare una riflessione. Tutte le volte in cui – in questi anni, nei nostri circoli di studio, in funzione della didattica della lettura e della scrittura – più persone hanno scoperto e preso in considerazione un libro e si sono messe a osservare, a puntare l’attenzione e a leggere questo libro… ebbene, la conseguenza è stata che, queste persone, hanno cominciato a comunicare, a guardarsi, a sentirsi, a confrontarsi, a riconoscersi in modo diverso da prima.

   La lettura individuale di un libro, anche solo di una pagina di un libro, di un libro conosciuto e fatto oggetto di attenzione "comune" sul sentiero di un Percorso di studio, ha favorito nella persona la consapevolezza dell’appartenenza a un gruppo ben preciso, cioè ad una comunità che aspira ad investire in intelligenza e sente di avere diritto all’apprendimento: due bisogni fondamentali che la maggior parte dei cittadini non riesce a soddisfare.

   La lettura individuale di un libro – scoperto e preso in considerazione "in comune" sul sentiero di un Percorso di studio – ha contribuito a creare un legame significativo con un’istituzione, la Scuola pubblica, che ha il dovere costituzionale di aprirsi al servizio delle persone.

   La lettura individuale di un libro – scoperto e preso in considerazione collettivamente in un Percorso di studio promosso dalla Scuola – rende consapevole la persona del fatto che la Scuola è dei cittadini, e, questa consapevolezza, è il punto di partenza per maturare l’ideale della nazionalità, il senso della coscienza civile e il valore della democrazia.

   Nel romanzo Confessioni d’un italiano, si racconta, in modo appassionato, la faticosa nascita di una Nazione e di una coscienza civile: è un documento utile per riflettere sul concetto di "nazionalità", sull’idea di "educazione civica" e sulla parola "patria": tre elementi caratteristici che incontriamo, a più riprese, nel vasto territorio del "romanticismo", all’interno di entrambe le correnti principali, tanto titanica quanto galante. Ippolito Nievo, nel romanzo Le confessioni d’un italiano dà inizio ad ogni capitolo – sono in tutto ventitré capitoli – con una breve introduzione, con un catalogo, con un riepilogo sintetico in cui mette al corrente il lettore sugli avvenimenti e sugli argomenti contenuti in quel capitolo.

   Il primo capitolo, e quindi anche il romanzo, inizia con questa introduzione.

LEGERE MULTUM…

 Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano (1867)

CAPITOLO PRIMO

 Ovvero breve introduzione sui motivi di queste mie Confessioni, sul famoso castello di Fratta dove passai la mia infanzia, sulla cucina del prelodato castello, nonché sui padroni, sui servitori, sugli ospiti e sui gatti che lo abitavano verso il 1780. Prima invasione di personaggi; interrotta qua e là da molte savie considerazioni sulla Repubblica Veneta sugli ordinamenti civili e militari d’allora, e sul significato che si dava in Italia alla parola patria, allo scadere del secolo scorso.

   La prima parola-chiave su cui lo scrittore de Le confessioni d’un italiano punta l’attenzione e sulla quale chiama i lettori alla riflessione è la parola "patria". Purtroppo gli italiani essendo in deficit per quanto riguarda il possesso dell’alfabeto – e questo deficit, dati alla mano, è in aumento – non hanno letto Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo e, a mala pena, conoscono alcuni frammenti della trama, legati all’avvincente storia d’amore che contiene. La storia d’amore – in questo romanzo – non riguarda soltanto il rapporto passionale tra i protagonisti, ma riguarda anche il legame, la correlazione, la corrispondenza tra i protagonisti e la parola-chiave "patria".

   Ci si lamenta, oggi, che gli italiani non hanno il senso della "patria"; ebbene Giusti, Nievo, poi Calvino e molti altri intellettuali, hanno sempre sostenuto che l’acquisizione del senso della "patria" è direttamente collegata al possesso dell’alfabeto. L’uso che in questo romanzo viene fatto della parola "patria", da parte dello scrittore e, di conseguenza, da parte dei protagonisti, non è ampolloso, gonfio, magniloquente, declamatorio, demagogico, militaresco: questi sono termini che svuotano il contenuto che, il concetto di "patria", deve possedere. Definire il significato di "patria" con questi termini – e, tanto Giusti quanto Nievo, rilevano questo fatto – finisce col far corrispondere l’idea di "patria" agli interessi delle classi al potere che hanno sempre, in modo ipocrita, usato la retorica patriottica in funzione dei propri affari. Ippolito Nievo, nel suo romanzo, mette la parola "patria" in relazione con la parola "galanteria" e la propone ai cittadini nella prospettiva della parola "cultura", o, come lui scrive: "coltura". Il senso della "patria" deriva da una "coltura" perché – secondo Nievo – il sentimento della patria va coltivato. E il sentimento della "patria" va "coltivato" in relazione alle parole: pace, fraternità, giustizia, solidarietà, consapevolezza intellettuale, studio.

 REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

A che cosa pensi quando pensi alla parola patria: al tuo paese d’origine, alla tua città natale, al tuo luogo della tua infanzia, alla tua terra d’origine, al tuo paese d’adozione, al mondo intero, alla tua nazione?

Che cosa associ alla parola patria: la tua frazione o il tuo quartiere, la tua città, la tua regione, la tua nazione, il tuo continente o il pianeta intero?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Facciamo un solo esempio che si trova nel primo capitolo, subito all’inizio del romanzo: è il primo invito allo studio, il primo invito alla consapevolezza intellettuale tra decine e decine di esortazioni che, a questo proposito, ricorrono nel testo.

LEGERE MULTUM…

 Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano (1867)

Infatti fu in questo mezzo che diedero primo frutto di fecondità reale quelle speculazioni politiche che dal milletrecento al millesettecento traspirarono dalle opere di Dante, di Macchiavello, di Filicaia (Vincenzo Filicaia, 1642-1707, molto stimato ai primi dell’800 per il contenuto patriottico delle sue poesie), di Vico e di tanti altri che non soccorrono ora alla mia mediocre coltura e quasi ignoranza letteraria. …

Ebbene, l’amor di patria è un sentimento che matura attraverso la conoscenza e la comprensione delle "speculazioni politiche" presenti nelle opere di quei pensatori che hanno disegnato, nei secoli, l’idea dell’Italia come nazione unita e indipendente…

   Nievo usa l’espressione "speculazioni politiche": questa espressione è usata in senso positivo, dove la parola "speculazioni" sta per "ragionamenti, riflessioni" e anche "opportunità". Le basi de "l’amor di patria", quindi, si formano tramite la "coltura" della cultura, tramite l’acquisizione del patrimonio di conoscenze, tramite la formazione intellettuale, tramite le esperienze spirituali, tramite le espressioni artistiche, attraverso un investimento in intelligenza. Italo Calvino scrive: Ho pensato – mentre ero impegnato a leggere il romanzo del Nievo – che i severi custodi dell’ordine costituito avessero capito da subito il pericolo… Troppo pericolosa, per il popolo dei lettori, la conoscenza e la comprensione di questo testo che mette in relazione la parola "patria" con le parole: pace, fraternità, giustizia, solidarietà, consapevolezza intellettuale, studio.

   Italo Calvino, nel 1947 – stimolato anche dalla lettura del romanzo di Nievo – scrive il suo primo romanzo dal titolo: Il sentiero dei nidi di ragno. Come nella prima parte de Le confessioni d’un italiano anche il protagonista del primo romanzo di Italo Calvino è un bambino, un bambino sballottato, alle prese con la dura realtà della vita: avete letto questo romanzo?

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Càpita, qualche volta, da bambini, di sentirsi soli e sballottati: ti è mai capitato?

Scrivi quattro righe in proposito…

   La prima parte de Le confessioni d’un italiano – i primi dieci capitoli – che è sempre stata, in passato, a detta degli esperti, la parte più compiuta e la più bella del libro, racchiude la narrazione degli anni dell’infanzia di Carlino, la descrizione del castello di Fratta, dei suoi abitanti e soprattutto della grande e straordinaria cucina.

 LEGERE MULTUM…

 Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano (1867)

Io vissi i miei primi anni nel castello di Fratta il quale adesso è nulla più d’un mucchio di rovine donde i contadini traggono a lor grado sassi e rottami per le fonde dei gelsi; ma l’era a quei tempi un gran caseggiato con torri e torricelle, un gran ponte levatoio scassinato dalla vecchiaia e i più bei finestroni gotici che si potessero vedere tra il Lèmene e il Tagliamento. In tutti i miei viaggi non mi è mai accaduto di veder fabbrica che disegnasse sul terreno una più bizzarra figura, ne che avesse spigoli, cantoni, rientrature e sporgenze da far meglio contenti tutti i punti cardinali ed intermedi della rosa dei venti. Gli angoli poi erano combinati con sì ardita fantasia, che non n’avea uno che vantasse il suo compagno; sicché ad architettarli o non s’era adoperata la squadra, o vi si erano stancate tutte quelle che ingombrano lo studio d’un ingegnere. Il castello stava sicuro a meraviglia tra profondissimi fossati dove pascevano le pecore quando non vi cantavano le rane; ma l’edera temporeggiatrice era venuta investendolo per le sue strade coperte; e spunta di qua e inerpica di là avea finito col fargli addosso tali paramenti d’arabeschi e festoni che non si discerneva più il colore rossigno delle muraglie di cotto. Nessuno si sognava di por mano in quel manto venerabile dell’antica dimora signorile, e appena le imposte sbattute dalla tramontana s’arrischiavano talvolta di scompigliarne qualche frangia cadente. Un’altra anomalia di quel fabbricato era la moltitudine dei fumaiuoli; i quali alla lontana gli davano l’aspetto d’una scacchiera a mezza partita e certo se gli antichi signori contavano un solo armigero per camino, quello doveva essere il castello meglio guernito della Cristianità. Del resto i cortili dei grandi porticati pieni di fango e di pollerie (pollai), rispondevano col loro interno disordine alla promessa delle facciate; e perfino il campanile della cappella portava schiacciata la pigna (punta) dai ripetuti saluti del fulmine. Ma la perseveranza va in qualche modo gratificata, e siccome non mugolava mai un temporale senzaché la chioccia campanella del castello non gli desse il benarrivato, così era suo dovere il rendergli cortesia con qualche saetta. Altri davano il merito di queste burlette meteorologiche ai pioppi secolari che ombreggiavano la campagna intorno al castello: i villani dicevano che, siccome lo abitava il diavolo, così di tratto in tratto gli veniva qualche visita de’ suoi buoni compagni; i padroni del sito avvezzi a veder colpito solamente il campanile, s’erano accostumati a crederlo una specie di parafulmine, e così volentieri lo abbandonavano all’ira celeste, purché ne andassero salve le tettoie dei granai e la gran cappa del camino di cucina. Ma eccoci giunti ad un punto che richiederebbe di per sé un’assai lunga descrizione. Bastivi il dire che per me che non ho veduto né il colosso di Rodi né le piramidi d’Egitto, la cucina di Fratta ed il suo focolare sono i monumenti più solenni che abbiano mai gravato la superficie della terra. Il Duomo di Milano e il tempio di San Pietro son qualche cosa, ma non hanno di gran lunga l’uguale impronta di grandezza e di solidità: un che di simile non mi ricorda averlo veduto altro che nella Mole Adriana; benché mutata in Castel Sant’Angelo la sembri ora di molto impicciolita. La cucina di Fratta era un vasto locale, d’un indefinito numero di lati molto diversi in grandezza, il quale s’alzava verso il cielo come una cupola e si sprofondava dentro terra più d’una voragine: oscuro anzi nero di una fuliggine secolare, sulla quale splendevano come tanti occhioni diabolici i fondi delle cazzeruole, delle leccarde (recipienti usati per raccogliere il grasso che cola dall'arrosto mentre gira sullo spiedo) e delle guastade (recipienti di metallo a forma di caraffa) appese ai loro chiodi; ingombro per tutti i sensi da enormi credenze, da armadi colossali, da tavole sterminate; e solcato in ogni ora del giorno e della notte da una quantità incognita di gatti bigi e neri, che gli davano figura d’un laboratorio di streghe. – Tuttociò per la cucina. – Ma nel canto più buio e profondo di essa apriva le sue fauci un antro acherontico, una caverna ancor più tetra e spaventosa, dove le tenebre erano rotte dal crepitante rosseggiar dei tizzoni, e da due verdastre finestrelle imprigionate da una doppia inferriata. Là un fumo denso e vorticoso, là un eterno gorgoglio di fagiuoli in mostruose pignatte, là sedente in giro sovra panche scricchiolanti e affumicate un sinedrio di figure gravi arcigne e sonnolente. Quello era il focolare e la curia domestica dei castellani di Fratta. Ma non appena sonava l’Avemaria della sera, ed era cessato il brontolio dell’Angelus Domini, la scena cambiava ad un tratto, e cominciavano per quel piccolo mondo tenebroso le ore della luce. La vecchia cuoca accendeva quattro lampade ad un solo lucignolo; due ne appendeva sotto la cappa del focolare, e due ai lati d’una Madonna di Loreto. Percoteva poi ben bene con un enorme attizzatoio i tizzoni che si erano assopiti nella cenere, e vi buttava sopra ma bracciata di rovi e di ginepro. Le lampade si rimandavano l’una all’altra il loro chiarore tranquillo e giallognolo; il foco scoppiettava fumigante e s’ergeva a spire vorticose fino alla spranga trasversale di due alari giganteschi borchiati di ottone, e gli abitanti serali della cucina scoprivano alla luce le loro diverse figure.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

La descrizione della grande cucina del castello di Fratta stimola la nostra memoria e questa parola si lega inevitabilmente alla nostra autobiografia: ricordi la cucina della tua infanzia?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Nievo presenta al lettore una folla di personaggi d’ogni genere ed estrazione sociale: signori feudali sfaccendati, preti, borghesi, contadini, cuochi e servitori. E poi compare subito anche il personaggio-chiave di questo romanzo, il personaggio che abbiamo evocato fin dall’inizio in relazione alla parola "turbamento". Il personaggio che sovrasta tutti gli altri anche Carlino è la Pisana, la cugina di Carlino, la secondogenita dei conti di Fratta. La figura della Pisana è la grande invenzione di questo romanzo e spicca a confronto con le altre figure femminili della letteratura italiana dell’epoca romantica a cominciare da Lucia Mondella de I promessi sposi che è piuttosto "piatta". La figura della Pisana è considerata scandalosa. Il personaggio de la Pisana – fin da piccola – crea "turbamento" in tutti coloro i quali la avvicinano, naturalmente a cominciare da Carlino.

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 Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano (1867)

Ma l’ultima di queste (figlie della Contessa), nei primi anni di cui mi ricordo, era una bambina affatto, minore di me d’alcuni anni, e la dormiva nella mia stessa camera colla donna dei ragazzi che si chiamava Faustina. La Pisana era una bimba vispa, irrequieta, permalosetta, dai begli occhioni castagni e dai lunghissimi capelli, che a tre anni conosceva già certe sue arti da donnetta per invaghire di sé, e avrebbe dato ragione a coloro che sostengono le donne non esser mai bambine, ma nascer donne belle e fatte, col germe in corpo di tutti i vezzi e di tutte le malizie possibili. Non era sera che prima di coricarmi io non mi curvassi sulla culla della fanciulletta per contemplarla lunga pezza; ed ella stava là coi suoi occhioni chiusi e con un braccìno sporgente dalle coltri, e l’altro arrotondato sopra la fronte come un bell’angolino addormentato. Ma mentre io mi deliziavo di vederla bella a quel modo, ecco ch’ella socchiudeva gli occhi e balzava a sedere sul letto dandomi dei grandi scappellotti, e godendo avermi corbellato col far le viste di dormire. Queste cose avvenivano quando la Faustina voltava l’occhio, o si dimenticava del precetto avuto, poiché del resto la contessa le aveva raccomandato di tenermi alla debita distanza della sua puttina, e di non lasciarmi prender con lei eccessiva confidenza. Per me vi erano i figliuoli di Fulgenzio i quali mi erano abbominevoli più ancora del padre loro e non tralasciavo mai occasione di far loro dispetti; massime perché essi si affaccendavano di spifferare al fattore che mi avevano veduto dar un bacio alla contessina Pisana e portarmela in braccio dalla greppia delle pecore fino alla riva della pescheria. Peraltro la fanciulletta non si curava al pari di me delle altrui osservazioni e seguitava a volermi bene e cercava farsi servire da me nelle sue piccole occorrenze piuttostoché dalla Faustina o dalla Rosa che era l’altra cameriera o la donna di chiave che or si direbbe guardarobe. Io ero felice e superbo di trovar finalmente una creatura cui potevo credermi utile; e prendevo un certo piglio d’importanza quando dicevo a Martino: – Dammi un bei pezzo di spago che debbo portarlo alla Pisana! – Così la chiamavo con lui; perché con tutti gli altri non osavo nominarla se non chiamandola la contessina. Queste contentezze peraltro non erano senza tormento poiché pur troppo si verifica così nell’infanzia come nell’altre età il proverbio che non fiorisce rosa senza spine. Quando capitavano al castello signori del vicinato coi loro ragazzini ben vestiti e azzimati, e con collaretti stoccati e berrettini colla piuma, la Pisana lasciava da un canto me per fare con essi la vezzosa; e io prendevo un broncio da non dire a vederla fare passettini e torcere il collo come la gru, e incantarli colla sua chiacchierina dolce e disinvolta. Correvo allora allo specchio della Faustina a farmi bello anch’io; ma ahimè che purtroppo m’accorgevo di non potervi riescire! Avevo pelle nera e affumicata come quella delle aringhe, le spalle mal composte, il naso pieno di graffiature e di macchie, i capelli arruffati e irti intorno alle tempie come le spine d’un istrice e la coda scapigliata come quella d’un merlo scappato dalle vischiate. Indarno mi martirizzavo il cranio col pettine sporgendo anche la lingua per lo sforzo e lo studio grandissimo che ci mettevo: quei capelli petulanti si raddrizzavano tantosto più ruvidi che mai. Una volta mi saltò il ticchio di ungerli come vedevo fare alla Faustina, ma la fatalità volle che sbagliassi boccetta, e invece di olio mi versai sul capo un vasetto d’ammoniaca ch’essa teneva per la convulsione, e che mi lasciò per tutta la settimana un profumo di letamaio da rivoltar lo stomaco. Insomma nelle mie prime vanità fui ben disgraziato, e anziché rendermi aggradevole alla piccina, e stoglierla dal civettare coi nuovi ospiti, porgevo a lei e a costoro materia di riso, ed a me nuovo argomento di arrabbiare e anche quasi d’avvilirmi. È vero che partiti i forestieri la Pisana tornava a compiacersi di farmi da padroncina ma il malumore di cotali infedeltà tardava a dissiparsi, e senza sapermene liberare, trovavo troppo vani i suoi capricci, e un po’ anche dura la sua tirannia. Ella non ci badava, la cattivetta. Avea forse odorato la pasta di cui ero fatto, e raddoppiava le angherie ed io la sommissione e l’affetto; poiché in alcuni esseri la devozione a chi li tormenta è anco maggiore della gratitudine per chi li rende felici. Io non so se sian buoni o cattivi, sapienti o minchioni cotali esseri; so che io ne sono un esemplare; e che la mia sorte tal quale è l’ho dovuta trascinare per tutti questi lunghi anni di vita. La mia coscienza non è malcontenta né del modo né degli effetti; e contenta lei contenti tutti, almeno a casa mia. Devo peraltro confessare a onor del vero che per quanto volubile, civettuola e crudele si mostrasse la Pisana fin dai tenerissimi anni, ella non mancò mai d’una certa generosità; qual sarebbe d’una regina che dopo avere schiaffeggiato e avvilito per bene un troppo ardito vagheggino, intercedesse in suo favore presso il re suo marito. A volte mi baciucchiava come il suo cagnolino, ed entrava con me nelle maggiori confidenze, poco dopo mi metteva a far da cavallo percotendo con un vincastro senza riguardo giù per la nuca e traverso alle guancie; ma quando sopraggiungeva la Rosa od il fattore ad interrompere i nostri comuni trastulli che erano, come dissi, contro la volontà della contessa, ella strepitava, pestava i piedi, gridava che voleva bene a me solo più che a tutti gli altri, che voleva stare con me e via via, finché dimenandosi e strillando fra le braccia di chi la portava, il suo gridare si ammutiva dinanzi al tavolino della mamma. Quelle smanie, lo confesso, erano il solo premio della mia abnegazione, benché dappoi spesse volte ho pensato che era più orgoglio ed ostinazione, che amore per me.

   Tra Carlino e la Pisana fiorisce – fin da bambini – una straordinaria storia amorosa, sentimentale ed erotica che non ha eguali nella letteratura dell’800. Naturalmente questo testo turba i benpensanti del tempo e, questo "turbamento" – e torniamo alla parola-chiave dalla quale, questa sera, siamo partiti – si riversa sul lettore.

   Per noi lettori di oggi, il turbamento, il coinvolgimento emotivo e sentimentale che si crea nel leggere questo romanzo è sicuramente un utile pretesto. Il coinvolgimento emozionale è per sua natura un incentivo proficuo ed efficace. L’ingresso del lettore in quella che viene chiamata la "spirale emozionale", racchiusa nel racconto, asseconda lo svolgimento dell’esercizio della lettura. Il coinvolgimento emotivo risulta senz’altro la motivazione principale che favorisce l’atto del leggere, e, di conseguenza, favorisce la pratica costante della lettura e noi sappiamo che l’abitudine quotidiana alla lettura aiuta a diventare "pensatori in proprio"…sappiamo che esiste un rapporto tra le emozioni e lo sviluppo del pensiero.

   In Carlino il sorgere dell’amore per la cugina Pisana è motivo di turbamento, e lo sarà per tutta la vita…e la persona che legge rimane positivamente e anche piacevolmente "invischiata" nella rete delle emozioni. Il turbamento nasce dal fatto che il personaggio della Pisana rappresenta una persona imprevedibile, a volte è crudele, ma anche sempre pronta ad abbandonarsi a slanci improvvisi di grande tenerezza, premura e sensibilità. Questo amore struggente, disperato accompagna tutta l’esistenza di Carlino Altoviti ed è per lui frutto di un continuo turbamento emotivo. La Pisana contraccambia in modo bizzarro e appassionato l’amore di Carlino che la vorrebbe sposare, lei però decide, quasi incomprensibilmente, di sposarsi non con lui, ma con un vecchio aristocratico veneziano, il signor Navagero.

   Quando, dopo la prima discesa di Napoleone, la Serenissima Repubblica di Venezia cadrà e, con il trattato di Campoformio, nel 1797, il suo territorio, verrà ceduto all’Austria, lei abbandonerà l’aristocratico vecchio marito e fuggirà da Venezia con Carlino. Questo atto in cui Napoleone cede all’Austria la città lagunare viene considerato dai patrioti un inspiegabile tradimento e una grave sconfitta della causa indipendentista. Da questo momento la Pisana segue Carlino – patriota deluso ma combattivo e irriducibile – nelle sue peregrinazioni attraverso l’Italia.

   E qui comincia la parte più mossa e avventurosa del romanzo, quella che, in passato, incomprensibilmente, è sempre piaciuta meno ai critici, incomprensibilmente, perché, questa parte ha un’aria stendhaliana e tolstoiana che dà al romanzo Confessioni d’un italiano il tono che hanno certe pagine di Guerra e pace . La Pisana segue Carlino attraverso l’Italia: prima a Napoli dove lui, accorre a combattere per la Repubblica partenopea nel 1799, qui viene fatto prigioniero dai Sanfedisti e sarà la Pisana a salvarlo. Poi lo segue a Genova, che, in questo momento è assediata dagli austriaci, ed è difesa dal generale francese Massèna.

   La Pisana continua a turbare Carlino: da una parte è il suo angelo custode, dall’altra continua a tormentarlo con i suoi capricci e con la sua volubilità, tanto che lo spinge a sposare Aquilina, una tranquilla e dolce fanciulla. Ma la Pisana è anche capace di esprimere una grande solidarietà, e quando Carlino deve fuggire dall’Italia, lo segue in esilio a Londra e condivide con lui gli stenti e la miseria, va anche a chiedere l’elemosina per aiutarlo. Carlino ormai è quasi cieco e, dopo tante sconfitte, ha perso la forza di lottare, ma, per merito della Pisana non ha perso la speranza.

   La Pisana – personaggio romantico per eccellenza – muore accanto a lui, condividendone, fino in fondo, la sorte, perché questo amore, e l’amore in generale – vuole sostenere Nievo – non è solo erotismo e sentimentalismo ma è anche soprattutto un atto di solidarietà. Il turbamento generato dall’amore sentimentale ed erotico si confonde con l’amor di patria, e l’amor di patria – sostiene Nievo – non si esprime attraverso gesti inconsulti di eroismo che procurano un’effimera gloria, ma attraverso consapevoli atti di solidarietà che assicurano – nonostante le sconfitte – la speranza nell’avvenire.

   Questo romanzo è davvero singolare: la lettura di questo testo, per quanto riguarda la forma, ci porta a fare un’incursione nella lingua italiana dell’800. Per questo motivo la scrittura di Nievo può risultare, a volte, poco scorrevole, ma la pazienza è una qualità che il lettore deve fare propria. Il vocabolario della lingua usata da Nievo è tuttavia molto interessante perché ci fa scoprire molti termini che ormai non sono più in uso ed è necessario consultare le note – che troviamo a piè pagina – per accedere al loro significato.

   Noi dobbiamo ricordare che un viaggio nella storia della nostra lingua è un esercizio di grande utilità, il semplice gesto del "leggere le note", che in questo caso significa: porre a confronto termini antichi con termini moderni e contemporanei rafforza la nostra competenza di lettori, si amplia l’orizzonte delle nostre conoscenze, si potenzia l’azione della comprensione ed aumenta l’impegno nell’applicazione sull’itinerario di studio.

   La maggiore singolarità del romanzo Le confessioni d’un italiano sta nel fatto che esso raccoglie quattro caratteristiche diverse: è un romanzo storico, è un romanzo autobiografico, è un romanzo di passione politica e patriottica ed è un romanzo poetico, lirico: ci sono delle pagine in cui il genere letterario della poesia prende il sopravvento sulla prosa. Facciamo un esempio, ma molti se ne potrebbero fare: il capitolo dodicesimo si apre con un patetico addio alla spensierata giovinezza.

 LEGERE MULTUM…

 Ippolito Nievo, Le confessioni d’un italiano (1867)

Addio fresca e spensierata giovinezza, eterna beatitudine dei vecchi numi d’Olimpo, e dono celeste ma caduco a noi mortali! Addio rugiadose aurore, sfavillanti di sorrisi e di promesse, annuvolate soltanto dai bei colori delle illusioni! Addio tramonti sereni, contemplati oziosamente dal margine ombroso del ruscello, o dal balcone fiorito dell’amante! Addio vergine luna inspiratrice della vaga melanconia e dei poetici amori, tu che semplice scherzi col capo ricciutello dei bambini, e vezzeggi innamorata le pensose pupille dei giovani! Passa l’alba della vita come l’alba d’un giorno; e le notturne lagrime del cielo si convertono nell’immensa natura in umóri turbolenti e vitali. Non più ozio, ma lavoro; non più bellezza, ma attività; non più immaginazione e pace, ma verità e battaglia. Il sole ci risveglia ai gravi pensieri, alle opere affaticate, alle lunghe e vane speranze; egli s’asconde la sera lasciandoci un breve e desiderato premio d’obblio. La luna ascende allora la curva stellata del cielo, e diffonde sulle notti insonni un velo azzurrino e vaporoso, tessuto di luce di mestizia di rimembranze e di sconforto. È il passo dell’ombra che diventa gigante nell’appressarsi al tramonto. Addio atrii lucenti, giardini incantati, preludi armoniosi della vita Addio verdi campagne, piene di erranti sentieri, di pose meditabonde, di bellezze infinite, e di luce, e di libertà, e di canto d’augelli! Addio primo nido dell’infanzia, case vaste ed operose, grandi a noi fanciulli, come il mondo agli uomini, dove ci fu diletto il lavoro degli altri, dove l’angelo custode vegliava i nostri sonni consolandoli di mille visioni incantevoli! Eravamo contenti senza fatica, felici senza saperlo; e il cipiglio del maestro, o i rimbrotti dell’aia erano le sole rughe che portasse in fronte il nostro destino! L’universo finiva al muricciuolo del cortile; là dentro se non era la pienezza di ogni beatitudine, almeno i desiderii si moderavano, e l’ingiustizia prendeva un contegno così fanciullesco, che il giorno dopo se ne rideva come d’una burla. I vecchi servitori, il prete grave e sereno, i parenti arcigni e misteriosi, le fantesche volubili e ciarliere, i rissosi compagni, le fanciullette vivaci, petulanti, e lusinghiere ci passavano dinanzi come le apparizioni d’una lanterna magica. Si avea paura dei gatti che ruzzavano sotto la credenza, si accarezzava vicino al fuoco il vecchio cane da caccia, e si ammirava il cocchiere quando stregghiava (strigliava) i cavalli senza timori dei calci. Per me gli è vero ci fu anche lo spiedo da girare; ma perdòno anche allo spiedo, e terrei volentieri di girarlo ancora per riavere l’innocente felicità d’una di quelle sere beate, fra le ginocchia di Martino, o accanto alla culla della Pisana. Ombre dilette e melanconiche delle persone che amai, voi vivete ancora in me: fedeli alla vecchiaia voi non fuggite né il suo seno gelato né il suo rigido aspetto: vi veggo sempre vagolare a me dintorno come in una nube di pensiero e d’affetto; e scomparir poi lontano lontano nell’iride variopinta della mia giovinezza. Il tempo non è tempo che per chi ha denari a frutto: esso per me non fu mai altro che memoria desiderio amore speranza. La gioventù rimase viva alla mente dell’uomo; e il vecchio raccolse senza maledizione l’esperienza della virilità. Oh come mai avrà a finire in nulla un tesoro di affetti e di pensieri che sempre s’accumula e cresce? L’intelligenza è un mare di cui noi siamo i rivoli ed i fiumi. Oceano senza fondo e senza confine della divinità, io affido senza paura ai tuoi mèmori flutti questa mia vita ormai stanca di correre. Il tempo non è tempo ma eternità, per chi si sente immortale. E così ho scritto un degno epitaffio su quegli anni deliziosi da me vissuti nel mondo vecchio; nel mondo della cipria, dei buli (giovinastri) e delle giurisdizioni feudali.

   All’inizio di questo Percorso (quattro mesi fa…) abbiamo detto che: quando gli intervistatori del museo del Louvre chiedono a un campione di visitatori – mediante questionario – quale parola preferiscono accostare all’immagine de La Gioconda, la maggioranza sceglie la parola "fascino". La parola "fascino" sta saldamente al primo posto accanto a La Gioconda. Ma quali altre parole ci sono in graduatoria?

   Al secondo e al terzo posto, quasi appaiate, troviamo la parola "mistero" e la parola "turbamento". Forse non è casuale il fatto che le parole-chiave del romanticismo – e questa sera abbiamo, ancora una volta, incontrato la parola "turbamento" – si siano appiccicate all’immagine de La Gioconda. Ma che cosa c’è di misterioso ne l’immagine de La Gioconda? E che cosa c’è che provoca turbamento in questa immagine? Dobbiamo pensare che – al di là o al di qua del "romanticismo" – qualcosa di misterioso e qualcosa che provoca turbamento ci sia davvero in questo ritratto? Sapete quale "mitica" riflessione ha messo in moto questa idea?

   La prossima settimana passeremo anche, strada facendo, da Recanati, una ridente cittadina delle Marche. Veramente la cittadina di Recanati non si trova proprio su questo Percorso: infatti Recanati – culturalmente parlando – non è propriamente un sito romantico e si trova su un altro importante itinerario intellettuale…la nostra sarà solo una breve incursione sulla scia di una parola-chiave. Sapete di quale parola-chiave si tratta e sapete perché la dobbiamo conoscere?

   Accorrete, la Scuola è qui…

 

 

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Febbraio 25, 2005