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LA REMINISCENZA DI UNA "MITICA ETÀ PERDUTA" PERVASA DALLA BELLEZZA

Lezione N.: 
18

Prof. Giuseppe Nibbi      Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005      2-3-4 marzo 2005

 LA REMINISCENZA DI UNA "MITICA ETÀ PERDUTA" PERVASA DALLA BELLEZZA

   All’inizio di questo Percorso (circa quattro mesi e mezzo fa) abbiamo detto che la direzione del museo del Louvre, nell’anno 2000, ha sottoposto a un sondaggio – mediante questionario – un consistente e rappresentativo campione di visitatori. Agli intervistati è stato chiesto (tra le altre cose) di leggere un elenco di parole, e di scegliere quale parola preferissero accostare all’immagine de La Gioconda per definirne la bellezza. Sappiamo che la maggioranza degli intervistati ha scelto la parola "fascino". La parola "fascino" sta saldamente al primo posto accanto all’immagine de La Gioconda. Ma quali altre parole ci sono in graduatoria? Al secondo e al terzo posto, quasi appaiate, troviamo la parola "mistero" e la parola "turbamento".

   La scorsa settimana – anche con la complicità di Carlino Altoviti e de la Pisana, tratti dal romanzo Le confessioni d’un italiano di Ippolito Nievo – abbiamo incontrato la parola "turbamento" e la incontreremo ancora nel vasto territorio che stiamo attraversando; noi non ci meravigliamo delle scelte degli intervistati, perché? Perché la loro scelta – ci dicono gli specialisti – non è legata ad un fatto casuale. Il visitatore-tipo contemporaneo non sa quasi nulla a proposito de La Gioconda, ma alcune parole significative ronzano, da tempo, nelle sue e nelle nostre orecchie. Sappiamo che, una serie di parole-chiave del "romanticismo" – come la parola "fascino", la parola "mistero", la parola "turbamento" – si sono strettamente unite insieme, tra il 1700 e il 1800, all’immagine de La Gioconda. Ai visitatori del Louvre, intervistati nel 2000, è stato chiesto di rispondere a questa domanda: quale parola accosteresti a La Gioconda per definirne la bellezza? In ordine di scelta gli intervistati hanno risposto:

- La Gioconda è bella perché ha "fascino",

- è bella perché emana "mistero",

- è bella perché provoca "turbamento"…

   Ebbene, queste tre parole hanno raccolto il 74% delle scelte. Questo non ci meraviglia: sappiamo che il movimento culturale del "romanticismo" ha commentato l’immagine de La Gioconda e ne ha influenzato e condizionato l’interpretazione: le parole-chiave più significative del romanticismo "titanico" e "galante" sono rimaste legate all’immagine de La Gioconda. Non ci meraviglia neppure il fatto che gli intervisti non abbiamo accostato all’immagine de La Gioconda – se non in percentuali bassissime – le parole: chiarezza, luce, calma, distacco, serenità. Gli intervistati – che potevano dare "non più di tre risposte" – sono stati in maggioranza coerenti perché hanno scelto le parole-chiave mistero e turbamento, e conformemente non hanno scelto le parole come chiarezza, luce, calma, distacco, serenità, che hanno un significato opposto a quelle preferite.

   Quale riflessione – in funzione della didattica della lettura e della scrittura – possiamo fare a questo proposito? Attenzione, se riflettiamo sulle risposte date non possiamo fare a meno di continuare a domandarci: che cosa c’è di misterioso nell’immagine de La Gioconda che la rende bella? Mistero e bellezza sono due concetti legati tra loro? Che mistero e bellezza siano due concetti legati tra loro è un’idea "romantica", e questa idea è stata associata all’immagine del La Gioconda. E poi che cosa c’è che provoca turbamento nell’immagine de La Gioconda tanto da esaltarne la bellezza? Anche turbamento e bellezza sono due concetti legati tra loro? Che turbamento e bellezza siano due concetti legati tra loro è un’idea "romantica", e, anche questa idea è stata associata all’immagine del La Gioconda.

   Quindi – continuando la nostra riflessione in funzione della didattica della lettura e della scrittura – dobbiamo dire che questo "qualcosa di misterioso" e questo "qualcosa che provoca turbamento" è direttamente collegato con il tema della bellezza nel modo in cui, questo tema, è stato affrontato dal pensiero del "romanticismo". Il pensiero "romantico" riprende, sviluppa e approfondisce la questione di fondo connessa, da sempre, al tema della bellezza. Noi sappiamo già che questa questione di fondo – che riguarda il tema della bellezza – è legata a due tesi contrapposte.

   La prima tesi sostiene che un’opera è bella perché contiene in sé l’idea della bellezza; e, di conseguenza, c’è qualcosa – una regola, una legge, un principio – che si sviluppa in modo autonomo "dentro" all’oggetto e lo rende bello. Questa è la tesi di Schiller che ben conosciamo e che torna ancora sul nostro Percorso. Secondo questa tesi è bello quel che è bello di per sé. Secondo questa tesi l’idea della bellezza scaturisce dall’interno dell’opera e va ad impressionare l’occhio che guarda.

   La seconda tesi afferma che l’idea di bellezza contenuta in un’opera viene determinata all’esterno attraverso una serie di condizioni geografiche, storiche, antropologiche, politiche, filosofiche, che si sviluppano al di "fuori" dell’oggetto. Questa tesi – come abbiamo potuto constatare qualche settimana fa – è stata sostenuta anche da Chateaubriand, e la incontreremo ancora sul nostro Percorso. In questo caso l’idea di bellezza si colloca dentro l’occhio che guarda, e dall’occhio si trasferisce sull’opera. Attenzione, riflettiamo!

   Se "mistero" e "turbamento" sono due situazioni che stanno in relazione con la bellezza de La Gioconda, quel "qualcosa" di misterioso e quel "qualcosa" che provoca turbamento dove lo dobbiamo collocare? "Mistero" e "turbamento" – e questa riflessione vale anche per molte altre situazioni – stanno "dentro" all’opera, esiste una legge interna che autonomamente li determina? Oppure il mistero e il turbamento stanno "fuori" dall’opera: c’è una condizione esterna che li determina? Diciamo subito che, questi interrogativi, più che determinare risposte precise, hanno creato e continuano a creare altri significativi interrogativi; e l’affrontare questi quesiti – per noi che stiamo viaggiando su un Percorso di didattica della lettura e della scrittura – ci porta a incontrare ulteriori paesaggi intellettuali e nuovi personaggi della Storia della Cultura, della Storia del Pensiero. Sappiamo che il pensiero di Schiller sulla "bellezza" condiziona molti intellettuali: artisti, scrittori, poeti, che accolgono e rielaborano le idee contenute nel suo pensiero.

   Per proseguire sul sentiero dell’itinerario di questa sera e per poter osservare da vicino l’interessante paesaggio culturale che ci si presenta dinanzi, dobbiamo, ancora una volta, ricordare le idee significative del pensiero di Schiller. Schiller pensa che il "bello" sia un fenomeno autonomo e autosufficiente presente nell’oggetto, connaturato all’oggetto stesso: un oggetto è "bello" perché contiene qualcosa "dentro" – una legge, una norma, una regola, un principio – che lo rende tale. Se ragioniamo, – scrive Schiller – noi capiamo che l’arte è quell’attività che permette alla persona di esprimersi liberamente: un "oggetto artistico" nasce proprio perché chi lo realizza ha scelto liberamente le forme con cui interpretare liberamente un contenuto. Quindi l’arte ha un ruolo fondamentale nella vita umana perché è espressione di libertà. Le leggi del bello, quindi, si delineano nel momento in cui l’artista si sente libero di scegliere le forme con cui interpretare, altrettanto liberamente, un contenuto: quando la persona utilizza questa libertà di scelta produce la "bellezza". E, la bellezza, di conseguenza, si identifica con la libertà. La libertà – scrive Schiller – rappresenta il propulsore del fenomeno artistico. Libertà significa "determinarsi da sé", e, in questo processo del "determinarsi da sé", vive la bellezza. Quindi la legge che determina la bellezza – scrive Schiller – nasce in un contesto che sfugge alla stessa volontà dell’artista, e la bellezza si crea liberamente e, quindi, la legge interna che la governa è autonoma, è autosufficiente, è indipendente. La legge della bellezza sfugge all’intendimento dell’artista, il criterio della bellezza scappa di mano all’artista stesso perché la bellezza appartiene all’opera . Un "oggetto bello" – scrive Schiller – è tale perché ha in sé la legge che ne determina la bellezza, tanto che, l’artista, non riesce a controllare il meccanismo attraverso il quale si forma la bellezza: la bellezza contenuta nell’opera trascende l’artista stesso. La bellezza, l’idea della bellezza – scrive Schiller – si trova dunque "dentro" l’oggetto e dall’oggetto si sprigiona all’esterno.La bellezza si forma ed esiste liberamente nell’oggetto artistico, e ci vive "dentro" come un fenomeno autonomo, come un dato di fatto indipendente; e la bellezza, presente nell’oggetto – scrive Schiller – ha il potere di far entrare in relazione la persona con l’idea del bene. Quando la persona entra in contatto con la bellezza – scrive Schiller – sente che si sta avvicinando ad alti ideali: la libertà, l’amicizia, la solidarietà, la virtù; e il contatto con la bellezza induce l’essere umano alla coerenza morale e all’impegno intellettuale profondo e costante. Di conseguenza Schiller pensa che l’essere umano possa migliorarsi a contatto con la bellezza, possa arricchirsi interiormente attraverso il godimento estetico: è la bellezza che ci può salvare, che può dare un senso alla vita, è la bellezza che può salvare il mondo; coltivare il bello significa imparare a coltivare il buono: la bellezza, quindi, conduce al bene. E, di conseguenza, l’educazione estetica – sostiene Schiller – è propedeutica all’educazione morale. Educarsi al bello significa: educarsi al bene.

   Attenzione, dopo aver ripetuto le idee fondamentali del pensiero di Schiller, proseguiamo nella nostra riflessione: il pensiero di Schiller, è stato sottoposto – da un certo numero di intellettuali suoi contemporanei – a varie rielaborazioni. Queste rielaborazioni hanno modificato la visione estetica ed etica di Schiller. Questi intellettuali pensano – come sostiene Schiller – che la bellezza s’identifichi con la libertà, e che l’arte sia un fenomeno direttamente collegato con la libertà dell’individuo. Però, siccome l’individuo è libero di scegliere tra il bene e il male, quando l’artista sceglie liberamente le forme e i contenuti per creare la sua opera, può avere in animo un’intenzione rivolta al bene, oppure può avere anche in animo un’intenzione rivolta al male. Di conseguenza, l’idea di bellezza che si auto-determina "dentro" l’opera d’arte può rispecchiare – a seconda dello stato d’animo dell’artista – "qualcosa" di buono in modo da determinare lo sguardo benevolo della bellezza, ma può anche rispecchiare "qualcosa" di malevolo in modo da determinare lo sguardo inquietante della bellezza. Se "dentro" l’opera d’arte l’idea di bellezza corrisponde a "qualcosa" d’inquietante allora si determina un concetto di bellezza non più sistematicamente legato alla luce, alla chiarezza, alla calma, al distacco, alla serenità ma connesso piuttosto al mistero, all’enigma, all’inquietudine, al turbamento. Si assolutizza un "concetto di bellezza" legato, non solo al bene, ma anche alla malevolenza, alla perfidia, alla perversione, alla turbativa morale.

   È facile capire che, questo ragionamento, non corrisponde più all’idea di Schiller secondo cui il bello, presente "dentro" l’opera d’arte, indirizza sempre verso il bene. Un certo numero d’intellettuali "romantici", scrittori e poeti – pur prendendo come base le idee di Schiller – coltivano un pensiero diverso. Ritengono che la bellezza presente "dentro" un’opera d’arte, nel momento in cui impressiona l’occhio che guarda, possa suscitare un turbamento, possa produrre un’inquietudine.

   Perché succede questo? Ciò avviene – pensano questi intellettuali – perché l’animo dell’artista e, in genere, l’animo della persona umana, è pervaso, per natura, da un profondo turbamento e da un’oscura inquietudine: e da dove nasce questa condizione? Questa condizione – pensano – si è determinata perché l’essere umano è decaduto. L’essere umano – nel pensiero di questi artisti "romantici" – si è trovato in uno stato di grazia iniziale che poi, a causa di un libero atto di disubbidienza, ha perduto. Questi scrittori, questi poeti "romantici" elaborano un pensiero mescolando insieme tre elementi culturali significativi provenienti dal libro della Genesi, dalla Tragedia greca e dalla filosofia di Platone. Creano un intreccio tra la dottrina biblica del peccato originale e la conseguente cacciata dei progenitori dal giardino dell’Eden, con il mito tragico della punizione di Prometeo incatenato per aver donato agli umani il "fuoco della conoscenza", e con la teoria di Platone riguardante le anime.

   Secondo la filosofia di Platone le anime, immortali ed eterne, dimorano nel mondo delle Idee, nel mondo dei valori, dove domina l’idea del Bene dalla quale scaturisce l’idea della bellezza: quando l’anima viene destinata dal dio-artefice (il demiurgo) ad unirsi ad un corpo materiale, si sente prigioniera e profondamente turbata, ricorda e rimpiange la bellezza del mondo delle Idee al quale desidera ardentemente tornare. C’è in noi – scrive Platone nella seconda parte del dialogo Menone, sulla virtù – "la reminiscenza, l’anamnesi" per la bellezza perduta. È per questo motivo – si domanda Platone e ci domandiamo anche noi – che siamo "anime in pena"? Fatto sta che, secondo questi scrittori "romantici", nell’intimo di ogni individuo si annida il ricordo – ereditato dai progenitori – dello stato di grazia posseduto alle origini: una condizione originaria – un giardino in Eden, un’età dell’oro, un mondo delle Idee o Iperuranio – nella quale l’essere umano viveva immerso nella "bellezza". La bellezza che ci circonda, nella natura e nell’arte – secondo questi intellettuali "romantici" – fa emergere il ricordo lancinante di una "mitica – biblica, tragica (nel senso "letterario" del termine), platonica – età perduta" pervasa dalla bellezza. È chiaro che, tutte le volte in cui la persona, nel corso dell’esperienza quotidiana o di fronte all’arte o di fronte alla natura, riconosce "qualcosa di bello" e identifica la "bellezza", scatta nella sua mente il meccanismo dell’anamnesi, della reminiscenza, della ricordanza, della rimembranza – attenzione perché queste parole ci portano a contatto con una tipica terminologia "romantica" – e, di conseguenza, la persona, stimolata da questo ricordo, prova un profondo rimpianto, un rammarico, un dolore, una nostalgia, un dispiacere, un rimorso, una recriminazione a causa della "bellezza perduta".

   Attenzione, i termini "reminiscenza", "ricordanza", "rimembranza" sono parole-chiave che, questa sera, incontriamo sul nostro itinerario e che troviamo tanto nel territorio del "romanticismo titanico" quanto in quello del "romanticismo galante", e queste parole le incontreremo ancora, strada facendo, sul Percorso della Storia del Pensiero Umano in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Il meccanismo della reminiscenza, della ricordanza, della rimembranza determina anche, nell’epoca romantica, lo sviluppo di un’idea alla quale tutti noi siamo affezionati: il ricordo del passato, molto spesso, risulta, nella nostra mente, permeato dall’idea della bellezza. Il presente coincide con la caduta delle illusioni perdute e la quotidianità è intrisa di profonda insoddisfazione e allora trasfiguriamo il passato, attraverso il ricordo:

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Il presente coincide con la caduta delle illusioni perdute e la quotidianità è intrisa di profonda insoddisfazione e allora trasfiguriamo il passato, attraverso il ricordo, e: "la rimembranza delle nostre età passate è fra tutte la più grata e la più poetica perché ci rimanda indietro verso una presunta età dell’oro"… così scrive Giacomo Leopardi (1798-1837) nell’opera intitolata Zibaldone di pensieri (1817-1832).

Quale bel ricordo "grato e poetico, delle tue età passate" emerge in questo momento nella tua memoria ?

Scrivi…

   Leggiamo un frammento esemplare:

LEGERE MULTUM….

 Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri (1817-1832)

La rimembranza delle nostre età passate è fra tutte la più grata e la più poetica perché ci rimanda indietro verso una presunta età dell’oro, verso un presunto Giardino in Eden, verso un presunto platonico Iperuranio.

   Così scrive Giacomo Leopardi (1798-1837) nell’opera intitolata Zibaldone di pensieri (1817-1832), dove la parola "zibaldone" che vuol dire: mescolanza, miscuglio, miscela assume il significato letterario di antologia, collezione, raccolta di pensieri espressi senza un ordine preciso. Non possiamo non ricordare che Giacomo Leopardi – che incontreremo ancora in un altro Percorso, tra i filosofi di quest’epoca – ha scritto una famosa lirica intitolata Le ricordanze: in questa lirica Giacomo Leopardi condensa alcuni dei principali motivi ispiratori della sua poesia che ci appaiono decisamente di impronta "romantica".

   Il primo motivo riguarda l’osservazione delle misteriose componenti dell’Universo – in questo caso le stelle dell’Orsa Maggiore – che mettono l’individuo in contatto con i grandi miti e con l’illusione che sia esistita un’età dell’oro permeata di bellezza. Il secondo motivo è l’insoddisfazione per il presente e la constatazione che le gioie finiscono quando "appare il vero", quando l’essere umano deve fare i conti con la cruda realtà della vita, e infine il terzo motivo è rappresentato dalla dolorosa malinconia dei ricordi dell’infanzia quando le illusioni giovanili non sono ancora crollate e si coltivavano delle grandi speranze per l’avvenire.

   Leggere Leopardi non è facile, ci vuole un po’ di pazienza: è necessario consultare le note per accedere al significato delle sue parole e per capire le sue idee. È un lavoro di ricerca, di esegesi, al quale, però, vale la pena dedicarsi. Leggiamo i primi 60 versi de Le ricordanze; ma prima di leggere è bene entrare in argomento per comprendere meglio il significato di questa lirica. I primi due versi che costituiscono l’inizio di questo Canto sono molto famosi:  Vaghe stelle dell’Orsa io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi…

   Le Vaghe stelle dell’Orsa sono le stelle dell’Orsa Maggiore. Il termine "vaghe" è un bellissimo aggettivo con cui Leopardi riassume i molteplici significati che attribuisce alle stelle: vaganti, errabonde, erranti, e quindi instabili, indeterminate, indefinite, e di conseguenza fuggevoli, indefinibili, incerte, indistinte, ma anche attraenti, soavi, allettanti, desiderabili, seducenti.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leopardi attribuisce il termine "vago" alle stelle dell’Orsa Maggiore: tu a che cosa attribuiresti questo termine, che cos’è "vago" per te, oggi ?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Le "vaghe stelle dell’Orsa" – per Leopardi – hanno le stesse caratteristiche che ha la vita: seducente, attraente, ma indeterminata, incerta e fuggevole. Capita a tutti – scrive Leopardi – di guardare con stupore le stelle: una delle tradizioni più antiche della Storia dell’Umanità è quella di "parlare sotto le stelle" e di "fantasticare". Le stelle sono mute e sono indifferenti tuttavia, il "fantasticare sotto le stelle", crea nella mente della persona una fuggevole illusione, e il breve momento d’illusione genera un breve momento di consolazione, vano ma gradito.

   Leopardi è rientrato nel 1828 a Recanati (e noi, come abbiamo preannunciato la scorsa settimana, siamo andati ad attenderlo a Recanati) a causa delle ristrettezze economiche in cui si trova la sua famiglia: Giacomo non può più essere mantenuto altrove, in quegl’anni soggiornava a Pisa e a Firenze.

   "Vaghe stelle dell’Orsa, io non credevo, scrive Leopardi, di tornare ancora a contemplarvi, come era mia consuetudine fare da bambino, nel giardino di questa antica casa dove sono nato".

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Leopardi è nato a Recanati il 29 giugno 1798 in un antico palazzo che oggi è un museo: lo hai mai visitato ?

Con una guida della regione Marche, oppure sulla rete, informati su che cosa offre Recanati in relazione al suo illustre concittadino Giacomo Leopardi, buon viaggio…

   E non pensavo – scrive Leopardi – di tornare a parlare con voi, o vaghe stelle dell’Orsa, dalle finestre delle stanze dove trascorsi la mia fanciullezza piena di sogni e dove, purtroppo, prima ancora di raggiungere l’età giovanile, ho visto cadere tutte le illusioni che mi ero fatto da bambino e dove ho perduto la speranza di ottenere la gioia che la vita prometteva di riservarmi. In quegl’anni tante immaginazioni fantasiose e tanti sogni – scrive Leopardi – la vostra vista e quella delle altre costellazioni ha suscitato nel mio intimo. Quando, seduto nel prato (in verde zolla), ero solito trascorrere gran parte delle mie sere in una silenziosa ed affascinata meditazione del cielo attento anche al canto delle rane, che veniva dai lontani fossati. In quell’atmosfera di sogno vedevo le lucciole vagare come altrettanti palpiti luminosi qua e là, tra il sussurro delle piante lungo i viali ricchi di profumo e il fruscio, altrettanto suggestivo, dei cipressi nella selva. Queste sono esperienze che, di sicuro, tutti noi abbiamo fatto.

   E mentre tutto intorno c’era silenzio, nella grande casa paterna si svolgevano pacati dialoghi domestici mescolati al rumore cadenzato dei vari lavori affidati ai servitori. E l’idea di quel mare lontano (l’Adriatico) e la vista di quei monti (gli Appennini) che scorgevo in lontananza e che un giorno desideravo varcare per muovermi sicuro verso una sconosciuta felicità che pregustavo e mi ripromettevo di raggiungere e di conquistare, ebbene – scrive Leopardi – quali e quanti pensieri sconfinati, e quanti sogni soavi m’ispiravano. Non prevedevo allora – scrive Leopardi – la mia triste sorte, e non immaginavo quante volte, poi, avrei voluto volentieri cambiare la mia vita dolorosa e squallida con la morte stessa. E il mio cuore non presagiva ancora che il destino mi avrebbe riservato la condanna di consumare la mia giovinezza in questo "natio borgo selvaggio" (è molto famosa questa espressione), fra gente incivile, per la quale la cultura e il sapere sono parole strane, anzi diventano spesso motivo di riso e di scherno. Non prevedevo di consumare la mia giovinezza – scrive Leopardi – tra gente che mi odia e mi fugge, non per invidia, perché non mi considera per nulla superiore, ma perché è convinta che io, nel mio intimo, mi ritenga migliore e più importante di loro. In questo luogo – scrive Leopardi – io trascorro la mia esistenza, avvilito e ignorato. E, vivendo fra persone maligne anch’io divento cattivo contro la mia stessa natura. Qui smarrisco – scrive Leopardi – ogni sentimento di pietà e di bontà divenendo a mia volta, a causa della gente ignorante che mi circonda, un disprezzatore del mio prossimo e finisco col ritenere eguali a questo gregge tutte le persone. E nel frattempo la dolce giovinezza se ne fugge via, questa età ch’è più preziosa di tutti i beni umani e sovrumani passa velocemente: ti vedo svanire – scrive Leopardi – o caro tempo della giovinezza, unico fiore dell’arida esistenza, e scappi via senza la minima soddisfazione. La mia giovinezza – scrive Leopardi – si consuma inutilmente in questo luogo selvaggio dove sono segregato tra affanni tormentosi e perpetui. E poi "qualcosa" fa scattare, nella mente del Poeta, le suggestive "ricordanze" del passato. Un’ondata di vento – scrive Leopardi – porta, dalla torre del borgo, dalla torre che si erge sulla piazza di Recanati, il rintocco della campana che annuncia l’ora notturna, ed ecco che questo suono – che oggi si può sentire esattamente come allora, perché c’è sempre la stessa campana – rievoca i ricordi. Era il mio conforto – scrive Leopardi – questo suono, quando fanciullo insonne e spaventato dal buio, desideravo ardentemente che giungesse la luce dell’alba. Qui, in questa casa, in questo paese – scrive Leopardi – tutto suscita in me immagini, visioni, reminiscenze del tempo trascorso, e questo gioco della memoria è una dolce rimembranza perché risale ai giorni felici, spensierati della fanciullezza. Ma subito, a questi bei ricordi, subentra il senso della realtà presente, una realtà dolorosa e amara, e subentra un vano rimpianto del passato che, anche se triste, non è comunque mai sconfortante come il presente. L’unica illusione che possiamo coltivare – scrive Leopardi – e l’unica possibile conclusione che possiamo tirare è quella di poter dire: io fui un tempo, ma ora non sono più, perché ho perduto non soltanto la vita, ma la stessa ragione di vivere. Il rimpianto del passato – scrive Leopardi – è quindi l’unica illusione che ci rimane. Il rimpianto del passato, portato sul piano culturale della lettura e della scrittura – secondo Leopardi – è il presupposto, seppur doloroso e illusorio, che può dare un senso alla nostra vita.

LEGERE MULTUM….

 Giacomo Leopardi, Le ricordanze (26 agosto-12 settembre 1829) vv. 1-60

 Vaghe stelle dell’Orsa io non credea tornare ancor per uso a contemplarvi

sul paterno giardino scintillanti, e ragionar con voi dalle finestre

di questo albergo ove abitai fanciullo, e delle gioie mie vidi la fine.

Quante immagini un tempo, e quante fole creommi nel pensier l’aspetto vostro

e delle luci a voi compagne! Allora che, tacito, seduto in verde zolla,

delle sere io solea passar gran parte mirando il cielo, ed ascoltando il canto

della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi

e in su l’aiuole, susurrando al vento i viali odorati, ed i cipressi

là nella selva; e sotto al patrio tetto sonavan voci alterne, e le tranquille

opre de’ servi. E che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò la vista

di quel lontano mar, quei monti azzurri, che di qua scopro, e che varcare un giorno

io mi pensava, arcani mondi, arcana felicità fingendo al viver mio!

Ignaro del mio fato, e quante volte questa mia vita dolorosa e nuda

volentier con la morte avrei cangiato.

Né mi diceva il cor che l’età verde sarei dannato a consumare in questo

natio borgo selvaggio, intra una gente zotica, vil; cui nomi strani, e spesso

argomento di riso e di trastullo, son dottrina e saper; che m’odia e fugge,

per invidia non già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima

ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori a persona giammai non ne fo segno.

Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, senz’amor, senza vita; ed aspro a forza

tra lo stuol de’ malevoli divengo: qui di pietà mi spoglio e di virtudi,

E sprezzator degli uomini mi rendo, per la greggia ch’ho appresso: e intanto vola

il caro tempo giovanil; più caro che la fama e l’allor, più che la pura luce del giorno,

e lo spirar: ti perdo senza un diletto, inutilmente, in questo soggiorno disumano,

intra gli affanni, o dell’arida vita unico fiore.

 Viene il vento recando il suon dell’ora dalla torre del borgo. Era conforto

questo suon, mi rimembra, alle mie notti, quando fanciullo, nella buia stanza,

per assidui terrori io vigilava, sospirando il mattin. Qui non è cosa ch’io vegga o senta,

onde un’immagin dentro non torni, e un dolce rimembrar non sorga.

Dolce per sé; ma con dolor sottentra il pensier del presente, un van desio

del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.

   In questa – pur sempre affascinante – parentesi leopardiana abbiamo potuto cogliere una serie di temi "romantici": consideriamo infatti Leopardi un poeta "romantico" per eccellenza! Guai però se avessimo detto a lui che era un "poeta romantico", ci avrebbe apostrofati in malo modo: Leopardi non si considera e non vuol essere considerato un "poeta romantico".Come mai Leopardi non si considera e non vuol essere considerato un "poeta romantico"? Non si può rispondere con una battuta a questa domanda, è necessario rispondere in modo articolato – attraverso il conoscere, il capire e l’applicare – e lo faremo quando incontreremo Leopardi, strada facendo, su un altro Percorso: sul sentiero dei "filosofi" di quest’epoca (il prossimo inverno?). Questa sera Leopardi lo abbiamo incontrato per caso sul sentiero de il sorriso de La Gioconda, ma questo non è il suo sentiero.

   Leopardi non s’identifica con l’etichetta "romantica" anche se tratta temi simili al movimento romantico. Questa sera Leopardi è capitato sul sentiero che stiamo percorrendo sulla scia di una significativa parola-chiave. Abbiamo coinvolto Leopardi attraverso una parola-chiave del suo repertorio che è anche una parola-chiave del repertorio "romantico" e in particolare del "repertorio" di tre scrittori, tre poeti che incontreremo nei prossimi itinerari, che sono direttamente coinvolti con il sorriso de La Gioconda.

   Abbiamo utilizzato uno dei famosi Canti di Leopardi per tre motivi conseguenti: primo, per riflettere su questa parola-chiave, la parola "ricordanza"; secondo, per stimolare lo spirito autobiografico che cova in ciascuno di noi; terzo, per invitare tutti a trasformare lo spirito autobiografico, le nostre ricordanze, in attività autobiografica dedicando dieci minuti al giorno all’esercizio della scrittura.

   E ora torniamo sul percorso che ci riguarda. Un certo numero di scrittori "romantici" ritiene che nell’intimo di ogni individuo si annida il ricordo – la ricordanza, la rimembranza, la reminiscenza ereditata dai progenitori – dello stato di grazia posseduto alle origini: una condizione originaria simile ad un’età paradisiaca, simile ad un’età dell’oro, nella quale l’essere umano viveva immerso nella "bellezza". Il contatto con la bellezza che ci circonda, nella natura e nell’arte – secondo questi intellettuali "romantici" – fa emergere il ricordo lancinante di una "mitica età perduta" pervasa dalla bellezza.

   È chiaro che, tutte le volte in cui la persona, nel corso dell’esperienza quotidiana, o di fronte all’arte o di fronte alla natura, riconosce "qualcosa di bello" e identifica l’idea della "bellezza", scatta nella sua mente il meccanismo della ricordanza, della rimembranza, della reminiscenza, e, di conseguenza, la persona, stimolata da questo ricordo, prova un profondo rimpianto, un rammarico, un dolore, una nostalgia, un dispiacere, un rimorso, una recriminazione, a causa della "bellezza perduta".

   Quindi, la "bellezza" che emana da un oggetto – secondo questi artisti, secondo questi scrittori, secondo questi poeti – non assicura la chiarezza, la calma e la serenità: la "bellezza" non genera un impulso benevolo, ma procura turbamento e inquietudine. L’animo dell’artista e, in genere, l’animo di ogni essere umano – secondo questi scrittori – è predisposto a turbarsi e ad inquietarsi davanti alla "bellezza". Questi intellettuali romantici, di conseguenza, pensano che bisognerebbe avvicinarsi alla "bellezza" con circospezione perché la "bellezza" attira inesorabilmente e spinge a compiere gesti dettati dal turbamento e dall’inquietudine che la bellezza stessa fa nascere nell’animo umano: a compiere quali gesti per esempio? Per esempio, il turbamento e l’inquietudine provocati dal contatto con la bellezza spingono a cercare la bella morte in duello; un classico tema della letteratura "romantica", ma anche una situazione ben presente nella realtà di un’epoca: più di uno scrittore "romantico" di questa generazione, infatti, muore facendo a pistolettate o a sciabolate in duello.

   Tra gli scrittori e i poeti, che, nel territorio del romanticismo, tanto titanico quanto galante, hanno coltivato l’idea che la bellezza possegga uno "sguardo inquietante", ebbene, tra questi scrittori, tra questi poeti siamo quasi obbligati a incontrarne tre. Perché questi tre personaggi si trovano sul nostro itinerario? Leggiamo un sonetto in modo da incontrare il primo di questi personaggi.

LEGERE MULTUM….

George Gordon Byron, Ecco perché non parla quella bocca (1822)

Se dai retta a questo sorriso sei spacciato:

sai che dalla bellezza si sprigionano mistero e turbamento

e non perdona: ecco perché non parla quella bocca.

Se guardi quegli occhi è la tua fine:

sai che dalla bellezza scaturisce il rimpianto del Giardino perduto

e la sua freccia scocca: ecco perché non parla quella bocca.

Se guardi quello sguardo sei dannato:

sai che dalla bellezza puoi guadagnare solo l’inquietudine

e sei spacciato: è per questo, Monna Lisa, che non parli?

Dalla tua immagine emerge un solo indizio: forse dirai soltanto una parola: bellezza!

E sarà la sola parola, di condanna, il giorno del Giudizio.

   Credo che la comprensione di questo sonetto, intitolato Ecco perché non parla quella bocca, sia chiara: questo sonetto è un vero e proprio manifesto del pensiero che attribuisce alla bellezza uno sguardo inquietante: dalla bellezza – scrive il poeta – si sprigionano mistero e turbamento, la bellezza non perdona, dalla bellezza scaturisce il rimpianto per un perduto stato di grazia, dalla bellezza si può guadagnare solo l’inquietudine. Qual è il modello – scrive il poeta – di questa bellezza che turba e che inquieta se non l’immagine di Monna Lisa? E Monna Lisa – altrimenti detta La Gioconda – tace inesorabilmente, solo il giorno del Giudizio sarà chiamata a dire una parola soltanto, la parola "bellezza" e, questo pronunciamento, sarà causa di perdizione per molti.

   Chi è l’autore di questo sonetto? George Gordon Byron. Lord Byron lo abbiamo incontrato – di sfuggita – a Venezia, nel salotto di Isabella Teotòchi Abrìzzi in compagnia di Vivant Denon. Ma chi è Lord Byron? Intanto dobbiamo dire che George Gordon Byron (1788-1824) riassume in sé le caratteristiche di quello che è stato chiamato dagli studiosi: il romanticismo estremo. Lord Byron è considerato l’emblema e il paradigma del romanticismo più radicale. Byron è un aristocratico raffinato e sprezzante di ogni regola e di ogni convenzione, con tratti insieme eroici e perversi, circondato da un alone di mistero e di avventura, che ne fa uno dei personaggi più affascinanti del suo tempo, e più accattivanti dell’epoca del romanticismo: il sorriso de La Gioconda – come abbiamo letto – lo pone sul nostro Percorso. Chi è Lord Byron? A questa domanda è necessario dare una risposta articolata e incontreremo Lord Byron la prossima settimana.

   Questa sera, per concludere, in funzione della didattica della lettura e della scrittura facciamo invece ancora in tempo ad entrare in contatto con un romanzo molto significativo scritto da un personaggio abbastanza singolare. Chi è questo personaggio che ci porta, per un momento, un po’ oltre il romanticismo propriamente detto? Prima di nominarlo, dobbiamo dire che l’incontro con questo scrittore e con la più famosa delle sue opere non è casuale ma dipende dalle parole-chiave che abbiamo incontrato questa sera sul nostro itinerario.

   Le parole mistero, inquietudine, ricordanza ci indirizzano verso questo scrittore, verso questo poeta che si chiama Igino Ugo Tarchetti il quale ha scritto un famoso romanzo intitolato Fosca, pubblicato postumo nel 1869. Igino Tarchetti nasce il 29 giugno (lo stesso giorno in cui è nato Leopardi) del 1839 (quarant’anni dopo Leopardi) a Santo Stefano Monferrato, in provincia di Alessandria. Egli nasce in una famiglia un tempo agiata, ma poi ridottasi in ristrettezze economiche. Si dedica agli studi classici frequentando il collegio dei Padri Somaschi a Casale Monferrato, e, durante gli anni del collegio, si ammala di tisi. Nel 1859, terminati gli studi, entra nel Commissariato militare dell’esercito sabaudo, ma la salute molto cagionevole e un carattere alquanto ribelle rendono difficili i rapporti con l’istituzione militare. Nel 1860 comincia a dedicarsi quotidianamente alla scrittura e compone i suoi primi poemetti. La sua prima opera in prosa è uno scritto antimilitarista che s’intitola Una nobile follia. Drammi della vita militare che è stato recentemente ripubblicato negli Oscar Mondatori: leggiamone quattro righe iniziali.

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 Igino Ugo Tarchetti, Una nobile follia. Drammi della vita militare (1867)

"Venite, arruolatevi, avrete venti soldi per giorno, vi daremo una ricca uniforme, vi concederemo il diritto al saccheggio, vi condurremo in un paese di imbelli ove le donne sono avvenenti, gli scrigni impinguati, e la natura prodiga e generosa; vi permetteremo il furto, il bottino e lo stupro; ponderate bene, voi siete miserabili, vi offriamo venti soldi, venite". …

   Negli anni 1861-1862, come Commissario militare viene inviato nell’Italia meridionale appena annessa al Regno d’Italia, e può conoscere da vicino la realtà del Sud. Vive a Foggia, a Lecce, a Taranto e a Salerno, di queste città esalta la bellezza e il patrimonio culturale scrivendo che: "queste regioni del Sud avrebbero bisogno di riforme sociali piuttosto che di presidi militari".Nel 1863 viene esautorato dal suo incarico al Sud, anche per avere scritto una relazione sulle cause "sociali" del brigantaggio, e viene dislocato a Varese, dove s’innamora di Carlotta Ponti, figlia di un ingegnere, con la quale intreccia una relazione soprattutto epistolare, che durerà più di due anni. Si sposta continuamente fra Como, Torino, Alessandria e Milano, e comincia a scrivere racconti di appendice per i giornali. Nel 1864 a Milano conosce il letterato di origine sarda Salvatore Farina e ne diviene molto amico. I progressi della tisi lo inducono a chiedere un periodo di congedo, che trascorre a Milano, dove entra in contatto con gli ambienti culturali della città frequentando assiduamente il salotto della contessa Clara Carrara Spinelli in Maffei.

   Clara Carrara Spinelli in Maffei (1814-1886) è un’intellettuale importante nella storia della cultura milanese e italiana, moglie, poi separata, del letterato Andrea Maffei, ha partecipato attivamente come patriota, nel 1848, alle Cinque giornate di Milano. Nel 1849 è fuggita in Svizzera dove è rimasta in esilio per un decennio e quando è tornata a Milano ha aperto il suo celebre salotto che è stato assiduamente frequentato da patrioti, intellettuali e artisti. Nel 1865 Igino Tarchetti, con Salvatore Farina, Federico Aime e Albino Ronco costituisce il Cenacolo artistico-letterario di via Fiori Chiari 8. In questo Cenacolo culturale si sviluppa un movimento chiamato la Scapigliatura.

   Attenzione perché qui il sentiero su cui stiamo procedendo s’incrocia con altri sentieri molto significativi ma che ora non possiamo imboccare, se non per un breve tratto, perché ci porterebbero altrove: sono sentieri che percorreremo prossimamente e sui quali si possono incontrare parole significative come verismo, decadentismo, espressionismo. La Scapigliatura è un movimento culturale molto interessante e molto complesso: se si affida la parola "scapigliatura" ad un motore di ricerca si possono trovare sulla rete più di 2400 siti sull’argomento. Quindi adesso è bene, per non perderci, dare solo alcune indicazioni per orientare la ricerca in funzione delle parole-chiave utili al nostro Percorso.

   Il termine "scapigliatura" significa dissolutezza, sfrenatezza di vita e questi sono atteggiamenti che hanno le loro radici nel movimento romantico più estremo, di cui Byron, che incontreremo la prossima settimana, è uno degli esponenti di spicco.La Scapigliatura è un movimento culturale a cui si rifanno soprattutto artisti lombardi e piemontesi negli anni dal 1860 al 1870. Il termine Scapigliatura fu impiegato per la prima volta da Cletto Arrighi, che è lo pseudonimo di Carlo Rigetti (1830-1906), scrittore milanese, autore nel 1862 del romanzo La scapigliatura e il 6 febbraio. Per curiosità questo romanzo può essere cercato in biblioteca: leggere è, anche, curiosare. Cletto Arrighi traduce con la parola "scapigliatura" il termine francese "bohème". Leggiamo un frammento tratto da:

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 Cletto Arrighi, La scapigliatura e il 6 febbraio (1862)

Questa casta, vero pandemonio del secolo; personificazione della follia che sta fuori dai manicomi; serbatoio del disordine, della imprevidenza, dello spirito di rivolta e di opposizione a tutti gli ordini stabiliti – io l’ho chiamata – la Scapigliatura La Scapigliatura è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Proletariato, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura, arte e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo contingente, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un complesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili (Affinità elettive…). La speranza è la religione degli scapigliati, che i contemporanei italiani si ostinano a chiamare i boemi o i boemienne, con orribile gallicismo; la fierezza è la loro divisa; la povertà il loro carattere essenziale. Ma non la povertà del pitocco, che stende la mano all’elemosina, bensì la povertà di un duca a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perché, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non avere più a questo mondo che cinquantamila lire di rendita.

   La caratteristica principale del movimento culturale della Scapigliatura è l’opposizione alla morale e ai costumi borghesi a cui viene contrapposta l’esaltazione in chiave polemica della sregolatezza e dell’anarchia. Gli scapigliati rinfacciano alla borghesia – che è diventata la classe politica dominante – di avere tradito i grandi ideali di libertà e di giustizia del Risorgimento e di avere creato uno schifoso e inaccettabile sistema di corruzione. Contemporaneamente rifiutano il romanticismo patetico e sentimentalistico che il regime borghese utilizza per coltivare una nauseante retorica risorgimentale. Gli scapigliati si oppongono alla nascente società industriale e alla frenetica vita cittadina in cui è presente la contrapposizione tra una classe avida di denaro e di potere, in cerca di sempre maggiore successo e profitto, e la nascente classe operaia schiavizzata e alienata nelle fabbriche.

   Gli scapigliati sono intellettuali che hanno ormai perso la fiducia nelle conquiste della scienza e del progresso. Sono intellettuali che vogliono opporsi alla tradizione del "romanticismo", ma quando devono contrastare la dura razionalità delle leggi economiche fanno comunque ancora appello a tematiche romantiche: vanno alla ricerca di un rapporto arcano e misterioso con la natura, e coltivano lo stupore dinanzi al miscuglio del demonico e dell’angelico, del bruco e della farfalla, nutrono grande interesse per il cuore, per l’interiorità dell’essere umano, amano mescolare la scienza con lo spiritismo e con la magia, sono interessati alla descrizione degli aspetti più dimessi e più ripugnanti della vita quotidiana. In questo modo contribuiscono a costruire un’indispensabile cerniera tra il "romanticismo" e le successive esperienze culturali: il verismo, il decadentismo, l’espressionismo. In particolare, in letteratura, gli scapigliati sperimentano soluzioni di tipo nuovo e, polemizzando con Alessandro Manzoni che proponeva come lingua unitaria il fiorentino colto, utilizzano moduli espressivi provenienti dalla lingua parlata del popolo ed elementi derivati dal dialetto. Naturalmente noi capiamo che la radice di queste scelte formali è ancora nel romanticismo che ha esaltato le lingue e le espressioni popolari. E, proprio nell’espressionismo linguistico, oltre che nella ricerca di nuove formule narrative, si possono cogliere gli spunti più interessanti e duraturi del movimento scapigliato.

REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Tra gli esponenti più significativi del movimento della Scapigliatura ci sono Emilio Praga, Carlo Dossi, Camillo e Arrigo Boito, Giovanni Camerana e il pittore Tranquillo Cremona: con l’enciclopedia o con la rete puoi conoscere meglio questi personaggi…

   Ma ora torniamo a Igino Tarchetti il quale dal 1864, in omaggio all’amatissimo Foscolo, comincia ad aggiungere al suo nome anche quello di Ugo. Nel 1865 viene richiamato nell’esercito e destinato a Parma: qui intreccia una relazione intensa e morbosa con una certa Carolina, cugina di un suo superiore, che lo ha accolto in casa come pensionante. Carolina è epilettica ed isterica: da questa relazione – e dalla relazione con una non ben identificata signora milanese – Tarchetti trae spunto per la vicenda del romanzo intitolato Fosca. Tarchetti si dimette dall’esercito nello stesso anno in cui era stato richiamato, probabilmente anche per lo scandalo suscitato da quella relazione. Torna a Milano dove intraprende l’attività di cronista cittadino per il giornale Pungolo. Dal 1866 si dedica a un’intensissima attività pubblicistica, collaborando a moltissimi quotidiani e periodici milanesi e torinesi ed è sui giornali che pubblica a puntate i suoi racconti. Tarchetti a Milano abita in casa di Salvatore Farina, in viale di Porta Venezia. Il 21 febbraio 1869 ha inizio la pubblicazione a puntate sul giornale il Pungolo del romanzo Fosca ma purtroppo il 25 febbraio lo scrittore muore improvvisamente per un attacco di tifo, che nel suo fisico già debilitato dalla tisi non lascia scampo. Quando Tarchetti muore il romanzo Fosca – che è formato da cinquanta capitoli – non è completo, manca molto poco, manca un capitolo, il quarantottesimo, che viene scritto da Salvatore Farina che conosce perfettamente lo stile di Tarchetti.

   Fosca – dicono gli esperti – è una tra le storie più ricche di mistero, di ossessione e di tragedia della letteratura del romanticismo. Fosca è una donna dotata di un’inquietante bruttezza: è orrenda ma possiede un’affascinante potere attrattivo che la rende irresistibile: perché? Attenzione, il suo aspetto orribile attira perché fa pensare al mito della bellezza perduta: quella inquietante bruttezza muove il ricordo della bellezza perduta. Ed ecco che siamo tornati sul nostro cammino. La bellezza che ci circonda, nella natura e nell’arte – secondo un certo numero di intellettuali "romantici" – fa emergere il ricordo lancinante di una "mitica" – biblica, tragica (nel senso "letterario" del termine), platonica – età perduta" pervasa dalla bellezza. Secondo Igino Ugo Tarchetti è soprattutto il brutto, l’orribile, l’orrido che fa emergere il ricordo di una mitica età pervasa dalla bellezza ma smarrita a causa di un consapevole atto di ribellione, perduta per una libera scelta: il Giardino dell’Eden, l’Età dell’oro, l’Iperuranio non è vita, ma è noia, è tedio, è monotonia. Lasciarsi sedurre dal brutto, dall’orribile, dall’orrido è motivo di turbamento e di inquietudine ma è indice di vitalità: cedere al fascino orribile di Fosca è – secondo Tarchetti – ripetere l’atto di ribellione iniziale per cui l’essere umano si è liberato dalla staticità, dall’immobilità, dalla monotonia della bellezza paradisiaca. Tutte le volte in cui la persona, nel corso dell’esperienza quotidiana, prova turbamento mette in azione nella propria mente il meccanismo della reminiscenza, della ricordanza, del ricordo di ogni inquietante passione vissuta. A questo proposito il primo capitolo di Fosca è molto significativo: Tarchetti c’induce a pensare al combattuto e contrastante rapporto con le nostre memorie e poi c’invita a riflettere sul valore della scrittura autobiografica.

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 Igino Ugo Tarchetti, Fosca (1869)

Mi sono accinto più volte a scrivere queste mie memorie, e uno strano sentimento misto di terrore e di angoscia mi ha distolto sempre dal farlo. Una profonda sfiducia si è impadronita di me. Temo immiserire il valore e l’aspetto delle mie passioni, tentando di manifestarle; temo obbliarle tacendole. Perché ella è cosa quasi agevole il dire ciò che hanno sentito gli altri – l’eco delle altrui sensazioni si ripercuote nel nostro cuore senza turbarlo – ma dire ciò che abbiamo sentito noi, i nostri affetti, le nostre febbri, i nostri dolori, è compito troppo superiore alla potenza della parola. Noi sentiamo di non poter essere nel vero. Ho pensato spesso con gioia alla rovina che il tempo va facendo nelle mie memorie; più spesso vi ho pensato con dolore. Dimenticare! È uccidersi, è rinunciare a quell’unico bene che possediamo realmente e impreteribilmente (che non è consigliabile trascurare o omettere), al passato. Che se si potessero dimenticare soltanto le gioie, forse l’oblio potrebbe essere giustamente desiderato; ma dei nostri dolori noi siamo superbi e gelosi, noi li amiamo, noi li vogliamo ricordare. Sono essi che compongono la corona della vita. Il passato è la misura del tempo che abbiamo percorso, la misura di quello che ci rimane a percorrere. Perciò noi lo teniamo caro, perché ci fa fede dell’accorciarsi progressivo dell’esistenza. Un’avidità febbrile di morire affatica inconsciamente gli uomini. Chi vorrebbe tornare indietro un’ora, un minuto, un istante nella sua vita? Nessuno; e pure si ama, e si rimpiange questo passato che si ha orrore di rinnovare. Scrivere ciò che abbiamo sofferto o goduto, è dare alle nostre memorie la durata della nostra esistenza. Scrivere per noi per rileggere, per ricordare in segreto, per piangere in segreto. Ecco perché scrivo. Vi fu un tempo in cui avrei voluto fare un libro delle cose che sto per raccontare: un’inclinazione che i casi della mia vita avevano combattuto per tanti anni, ma né dominata né vinta, mi aveva trabalzato già tardi, già vecchio d’ingegno e di cuore, nel mondo della pubblicità e delle lettere. Io non vi aveva potuto portare che le memorie di una gioventù ricca di molte passioni, di una vita lungamente e orribilmente angosciata. Ove l’arte avesse trovato in me valore pari alla grandezza del soggetto, il racconto che mi accingeva a scrivere mi avrebbe forse procurato un successo clamoroso. Nondimeno me ne astenni. Gettare nel fango della pubblicità il segreto de’ miei dolori, sacrificarlo alle vuote soddisfazioni della fama sarebbe stata debolezza indegna del mio passato. Io scrivo ora per me medesimo. Non avrei mai osato violare la sola religione che è sopravvissuta alla rovina della mia fede, la religione delle mie memorie. Su questo vecchio quaderno su cui ho tentato già tante volte d’incominciare il mio racconto, vi sono molte cancellature che non posso più decifrare. Temo che il tempo abbia pure cancellate dalla mia anima non poche delle sue rimembranze. Questi fogli su cui la mia mano si è arrestata tante volte, trattenuta da un terrore che non poteva vincere, mi accompagnano già da cinque anni nelle mie faticose peregrinazioni. Sulla maggior parte di essi vi è scritto nulla; pure sembra che il mio pensiero vi abbia tracciato delle cifre misteriose e solenni, tanto vi ho meditato sopra, guardandoli. E li svolgo nell’ansietà di leggerli, e osservo con melanconia i piccoli acari della carta che fuggono lungo le loro pieghe ingiallite. Sì, sono oramai cinque anni! Le cause del mio terrore non hanno cessato di esistere, perché il mio cuore non è di quelli che dimenticano, ma, comunque sia, questo terrore è dissipato. Mi sento ora il coraggio di ricordare e di scrivere. Ora che tutto deve essere finito! Mi guardo spesso d’intorno come fossi rimasto solo nel mondo, come se le illusioni che mi avevano accompagnato sin qui fossero state cose vive e sensibili, come dovessi rivederle al mio fianco. Era venuto innanzi solo nella vita, e non mi era accorto mai di esser solo. Ma ora! Ho provato la solitudine della società, e l’ho spesso cercata con ardore, l’ho cercata anzi sempre; quella è nulla. È la solitudine delle passioni che è orribile! Non so se gli altri uomini abbiano subìto un passaggio così rapido e così violento come il mio, dal periodo della fede a quello della disperanza; se sieno passati ad un tratto dalla vita operosa della gioventù, alla vita inerte e sconsolata della vecchiezza. Credo nondimeno che molti vi sieno entrati con calma, quelli che amarono serenamente e con calma. Io era nato con passioni eccezionali. Io non avrei mai saputo né odiare né amare a metà; non avrei potuto abbassare i miei affetti fino al livello di quelli degli altri uomini. La natura mi aveva reso ribelle alle misure comuni e alle leggi comuni. Era dunque giusto che anche le mie passioni avessero cause, modi, svolgimenti, fini eccezionali. Ho avuto due grandi amori, due amori diversamente sentiti, ma ugualmente fatali e formidabili. È con essi che si è estinta la mia gioventù; è per essi. Scrivendo queste pagine, io non ho altro scopo che di interrogare le mie memorie ancora una volta per non doverle interrogare mai più. Io innalzo questo monumento sulle ceneri del mio passato, come si compone una lapide sul sepolcro: ero di un essere adorato e perduto. Ho presa una grande risoluzione. Prima di ritirarmi dal mondo, prima di isolarmi in mezzo alla folla – isolamento assai più penoso che nelle vaste solitudini della natura – ho voluto ricordare ancora una volta, ricordare con pienezza e con fede. Io sono ora in pace con me stesso. Le agitazioni profonde della mia anima, le irrequietezze febbrili della mia mente sono cessate. Io ne comprendo ora le cause. Molti uomini non si trovano bene colla vita perché non hanno ancora scoperto il loro punto d’equilibrio. Il difficile è trovare il centro della propria anima! Non scriverò che di un solo di questi amori. Non parlerò dell’altro che pel contrasto spaventoso che ha formato col primo. Quello non è stato che un amore felice. Raccontarlo, sarebbe lo stesso che ripetere la storia di tutti gli affetti, e non v’è creatura che abbia amato sì poco da non conoscerla. O si abbandona, o si è abbandonati – spesso desiderosi, spesso contenti dell’abbandono. Tal cosa è il cuore umano. Più che l’analisi d’un affetto, più che il racconto di una passione d’amore, io faccio forse qui la diagnosi di una malattia. – Quell’amore io non l’ho sentito, l’ho subìto. Non so se vi siano al mondo altri uomini che abbiano superato una prova come quella, e nelle circostanze in cui io l’ho superata; non so se vi sarebbero sopravvissuti. Esprimo questo dubbio, perché mi avvenne spesso di chiedere a me medesimo: "come, in che guisa vi sono io sopravvissuto?" Sento nondimeno che qualche cosa si è guastato nella mia testa: io non ho più cognizione di tempo, non ho più ordine nelle mie idee, non ho più lucidità nelle mie memorie. Questi cinque anni sono passati come un istante e come un’eternità, inosservati, oscuri, senza suddivisioni di giorni e di epoche. Quelle feste, quegli anniversari che formavano le gioie più pure della mia vita quand’era fanciullo, sono essi ritornati ogni anno? E come non li ho avvertiti? Cosa ho fatto in questo lungo spazio di tempo? Perché non ho più amato?Non so più pensare, non so più fermarmi lungamente sopra un’idea, non vedo più le linee che separano il vero dal paradossale. Tutto mi sembra ora logico, naturale, possibile. Tutti i miei pensieri si urtano, si confondono, si perdono in un vortice che tùrbina incessantemente nella mia testa. È là che tutto va a finire. Sento che la coscienza di me si è confusa. Quando avrò scritto la storia di questo amore, dovrei scrivere ancora quella dei cinque anni che vi sono succeduti; sarebbe una storia terribile. Dovrei scriverne un’altra più terribile ancora; sarebbe la storia delle mie visioni, il racconto dei sogni che hanno popolato le mie notti durante quel tempo. Radunerò qui i documenti, le lettere, le note: che ho conservato. Ricostruirò questo edificio colle sue stesse rovine. Ora sono ben calmo e tranquillo; ora che ho incominciato a non diffidare più di me medesimo. La mia indifferenza mi assicura che le sorgenti del mio entusiasmo sono esaurite. Una cosa mi conforta e mi inorgoglisce, il sentimento della mia freddezza – perché il mio cuore è freddo, terribilmente freddo. Spero e pur temo dimenticare. Una notte triste ed oscura ha incominciato a distendersi sul mio passato. Le onde che la virtù del sole aveva sollevate e convertite in belle nubi d’oro, ricadono in pioggia attraversando le fredde latitudini dell’aria, ricadono come lagrime della natura. Quando il fuoco della gioventù si è spento, svanisce a poco a poco anche il tepore delle ceneri; esse rimangono là ad attestare dove la fiamma ha un giorno avvampato, fino a che il soffio gelato del tempo non viene anch’esso a disperderle.

   Chi legge questo romanzo scopre che l’immagine di Fosca descrittaci da Tarchetti è quella di una persona dalla magrezza eccessiva il cui scheletro è quasi visibile, mentre l’immagine de La Gioconda è quella di una donna prosperosa ma per Tarchetti che, come tutti gli scapigliati, ama giocare mettendo insieme la poetica del funereo con quella dell’erotismo non c’è molta differenza tra Monna Lisa e Fosca: sotto sotto c’è sempre uno scheletro.

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 Igino Ugo Tarchetti, Memento (1867)

Quando bacio il tuo labbro profumato,

cara fanciulla, non posso obliare

che un bianco teschio v’è sotto celato.

Quando a me stringo il tuo corpo vezzoso,

obliar non poss’io, cara fanciulla,

che vi è sotto uno scheletro nascoso.

E nell’orrenda visione assorto,

dovunque o tocchi, o baci, o la man posi

Sento sporger le fredde ossa di morto!

   La prossima settimana, per primo, dobbiamo incontrare Lord George Gordon Byron (1788-1824) che riassume in sé le caratteristiche di quello che è stato chiamato dagli studiosi: il romanticismo estremo; e il sorriso de La Gioconda lo pone sul nostro Percorso insieme ad altri interessanti personaggi. Chi è Lord Byron? E chi sono gli altri significativi personaggi che dobbiamo incontrare sul sentiero del sorriso del "bianco teschio" de La Gioconda?

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Lezione del: 
Venerdì, Marzo 4, 2005