Prof. Giuseppe Nibbi Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005 9-10-11 marzo 2005
IL DOVERE DI LANCIARE "CLASSICI PROMETEICI STRALI" …
Percorrendo gli ultimi itinerari sul sentiero intitolato "il sorriso de La Gioconda" abbiamo capito che un certo numero di scrittori "romantici" ritiene che nell’intimo di ogni individuo si annida un "mitico" ricordo che consiste nella ricordanza, nella rimembranza, nella reminiscenza dello stato di grazia posseduto alle origini della storia dell’Umanità: una condizione originaria simile a un’età paradisiaca, simile a un’età dell’oro, nella quale l’essere umano viveva immerso nella "bellezza". Quindi, il contatto con la bellezza che ci circonda, nella natura e nell’arte – secondo questi intellettuali "romantici" – fa emergere, nell’essere umano, il ricordo lancinante di una "mitica età perduta" pervasa dalla bellezza. È chiaro che, tutte le volte in cui la persona, nel corso dell’esperienza quotidiana, o di fronte all’arte o di fronte alla natura, riconosce "qualcosa di bello" – oppure "qualcosa di brutto", diceva Igino Ugo Tarchetti, la scorsa settimana – e identifica l’idea della "bellezza", scatta nella sua mente il meccanismo della ricordanza, della rimembranza, della reminiscenza, e, di conseguenza, la persona, stimolata da questo ricordo, prova un profondo rimpianto, un rammarico, un dolore, una nostalgia, un dispiacere, un rimorso, una recriminazione, a causa della "bellezza perduta". Quindi, la "bellezza" che emana da un oggetto – secondo questi artisti, secondo questi scrittori, secondo questi poeti – non assicura la chiarezza, la calma e la serenità: la "bellezza" non genera un impulso benevolo, ma procura turbamento e inquietudine. L’animo dell’artista e, in genere, l’animo di ogni essere umano – secondo questi scrittori – è predisposto a turbarsi e a inquietarsi davanti alla "bellezza". Questi intellettuali romantici, di conseguenza, pensano che bisognerebbe avvicinarsi alla "bellezza" con circospezione perché la "bellezza" attira inesorabilmente, e spinge a compiere gesti dettati dal turbamento e dall’inquietudine che la bellezza stessa fa nascere nell’animo umano …
La bellezza spinge a compiere gesti paradossali, irragionevoli, insensati, strani, stravaganti, bizzarri, inconsulti: a compiere quali gesti per esempio? Per esempio, il turbamento e l’inquietudine provocati dal contatto con la bellezza spingono a cercare la bella morte in duello; questo è un classico tema della letteratura "romantica", ma è anche una situazione ben presente nella realtà di un’epoca: più di uno scrittore "romantico" di questa generazione, infatti, muore facendo a pistolettate o a sciabolate in duello.
Tra gli scrittori e i poeti, che, nel territorio del romanticismo, tanto titanico quanto galante, hanno espresso e coltivato l’idea che la bellezza possegga uno "sguardo inquietante", ebbene, tra questi poeti siamo quasi obbligati a incontrarne tre. Perché questi tre personaggi si trovano sul nostro itinerario? Leggiamo, o meglio rileggiamo – lo abbiamo già letto la scorsa settimana – un sonetto in modo da incontrare il primo di questi personaggi:
LEGERE MULTUM….
George Gordon Byron, Ecco perché non parla quella bocca (1822)
Se dai retta a questo sorriso sei spacciato:
sai che dalla bellezza si sprigionano mistero e turbamento
e non perdona: ecco perché non parla quella bocca.
Se guardi quegli occhi è la tua fine:
sai che dalla bellezza scaturisce il rimpianto del Giardino perduto
e la sua freccia scocca: ecco perché non parla quella bocca.
Se guardi quello sguardo sei dannato:
sai che dalla bellezza puoi guadagnare solo l’inquietudine
e sei spacciato: è per questo, Monna Lisa, che non parli?
Dalla tua immagine emerge un solo indizio: forse dirai soltanto una parola: bellezza!
E sarà la sola parola, di condanna, il giorno del Giudizio.
Credo che la comprensione di questo sonetto sia chiara: questo sonetto è un vero e proprio manifesto del pensiero che attribuisce alla bellezza uno sguardo inquietante: dalla bellezza – scrive il poeta – si sprigionano mistero e turbamento, la bellezza non perdona, dalla bellezza scaturisce il rimpianto per un perduto stato di grazia, dalla bellezza si può guadagnare solo l’inquietudine. Qual è il modello – scrive il poeta – di questa bellezza che turba e che inquieta se non l’immagine "rinascimentale" di Monna Lisa? E Monna Lisa, altrimenti detta La Gioconda tace inesorabilmente: solo il giorno del Giudizio sarà chiamata a dire una parola sola, sarà chiamata a pronunciare – scrive il poeta – la parola "bellezza" e, questo pronunciamento, sarà causa di perdizione per molti che saranno caduti nella trappola della bellezza.
E non s’intitola forse "il sorriso de La Gioconda" questo sentiero attraverso il quale stiamo attraversando il territorio del "romanticismo"? Chi è l’autore di questo sonetto? L’autore di questo sonetto – lo abbiamo già citato la scorsa settimana – è George Gordon Byron. Lord Byron lo abbiamo incontrato – di sfuggita – a Venezia, nel salotto di Isabella Teotochi Abrizzi in compagnia di Vivant Denon, il nostro fedele accompagnatore. Ma chi è Lord Byron? Intanto dobbiamo dire che George Gordon Byron (1788-1824) riassume in sé le caratteristiche di quello che è stato chiamato dagli studiosi: il romanticismo estremo, e questo "estremismo" lo abbiamo visto esportato in alcuni movimenti culturali successivi, per esempio nella Scapigliatura. La scorsa settimana – facendo una rapida fuga in avanti – abbiamo incontrato alcuni intellettuali scapigliati e abbiamo preso contatto con alcune delle loro opere, in particolare il romanzo Fosca di Igino Ugo Tarchetti: avete continuato la ricerca?
Lord Byron è considerato l’emblema e il paradigma del romanticismo più radicale. George Gordon Byron è un aristocratico raffinato e sprezzante di ogni regola e di ogni convenzione, con tratti insieme eroici e perversi, circondato da un alone di mistero e di avventura, che ne fa uno dei personaggi più affascinanti del suo tempo, e più accattivanti dell’epoca del romanticismo: il sorriso de La Gioconda lo pone sul nostro Percorso.
Lord Byron è nato a Londra nel 1788, ed è figlio di un nobile dissoluto e trascorre la fanciullezza con la madre, una donna stravagante, dall’indole violenta e autoritaria. Lord Byron, a causa di questi due genitori che si ritrova, nonostante la nobiltà e la disponibilità finanziaria non vive una fanciullezza felice. Frequenta l’università di Cambridge e, nel 1807, pubblica un volume di versi intitolato Ore di ozio. In questi versi dichiara in modo molto provocatorio di avere un rapporto amoroso e incestuoso con sua sorella: naturalmente quest’opera viene severamente stroncata e censurata dalla Rivista Letteraria di Edimburgo. Questo giudizio negativo risveglia le energie del giovane Byron e nel 1809 pubblica un breve saggio dal titolo Poeti inglesi e recensori scozzesi, in cui attacca violentemente i critici e i poeti inglesi contemporanei che considera pedanti, sciocchi e ipocriti. Nello stesso anno prende il posto che gli spetta, come nobile, alla Camera dei Lords, ma ad ogni seduta che partecipa rischia di essere espulso a causa dei suoi interventi considerati troppo originali e anticonformisti.
Lord Byron soffre di una malattia che ha già contagiato e contagia tutta la generazione romantica: la melanconia : ne soffriamo un po’ tutti. Una melanconia tormentata che lo turba e lo rende inquieto e insoddisfatto di sé, insoddisfatto dell’Inghilterra, insoddisfatto dell’ambiente in cui vive, insoddisfatto della vita che conduce. Nel 1809 parte dall’Inghilterra e intraprende un lungo viaggio di formazione, un grand tour: con un amico attraversa a cavallo il Portogallo e la Spagna, poi s’imbarca per l’Albania, proseguendo per Atene e per Costantinopoli. Durante questo viaggio studia e scrive. Dopo due anni, nel 1812, torna in Inghilterra, e pubblica i primi due canti di un’opera intitolata Pellegrinaggio del giovane Aroldo: quest’opera lo rende immediatamente celebre. Negli anni seguenti, fra il 1813 e il 1816, scrive altri poemi Il Giaurro, Il corsaro, Lara e Parisina che accrescono la sua fama in tutta Europa. Nell’aprile del 1816 decide di abbandonare Londra e si stabilisce prima a Ginevra e poi a Venezia dove conduce una vita lussuosa e dissipata.
A Venezia completa Pellegrinaggio del giovane Aroldo che oggi viene considerata l’opera più significativa di Byron. Di quest’opera parleremo fra un po’ e cercheremo di conoscere i motivi intellettuali e le ragioni culturali che rendono importante l’incontro con questo poema. Nel Pellegrinaggio del giovane Aroldo di Byron possiamo trovare alcune parole-chiave, alcune idee-significative e alcuni agganci culturali utili per la comprensione del romanticismo europeo nelle sue forme estreme. Soprattutto questi scrittori libertari, come Byron, vivono in una continua tensione intellettuale: da una parte sono attirati dalle innovazioni della cultura romantica di cui sono protagonisti, dall’altra sono attratti dallo studio e dalla ricerca sulla cultura classica greca, latina e rinascimentale (non dimentichiamoci che le parole e le idee del Rinascimento si sviluppano, attraverso l’Umanesimo, sullo studio e sulla riflessione della cultura classica greca e latina e per gli i romantici il Rinascimento è un’epoca di classicità). Questi intellettuali libertari vorrebbero sentirsi eredi della cultura classica, intuiscono che l’innovazione passa attraverso questa strada, e quindi nutrono una forma di rimpianto morboso, un ricordo un po’ ossessivo per la via dei classici che pretenderebbero di ripercorrere pienamente e non solo di imitare. È sempre lo stesso impianto mitico che subisce solamente delle variazioni: l’età classica – greca, latina e rinascimentale – è pensata da questi intellettuali romantici come un’epoca permeata di bellezza, una bellezza non più riproducibile in quanto tale, forse ineguagliabile nella qualità, inarrivabile nello stile, ma non perduta per sempre. Il voler rincorrere le forme di quella presunta e mitica bellezza classica con l’ansia, con la morbosità e con l’ossessione tipica del romanticismo estremo produce – in questi artisti, scrittori, poeti – nei confronti dell’idea della bellezza uno stato di turbamento e di inquietudine che diventa un tratto tipico del carattere degli appartenenti a questa corrente romantica definita estrema. I rappresentanti di questa corrente – come Byron – vivono in modo particolarmente intenso il rapporto tra la mentalità romantica e la cultura classica. Vivono in una continua tensione tra gli atteggiamenti culturali, ribelli e provocatori, tipici del romanticismo e le riflessioni intellettuali sulle virtù morali e civili proposte dal classicismo, e, in questo contrasto, che crea turbamento e inquietudine, trovano uno stimolo molto forte per far fruttare la loro creatività artistica. Ma sul poema Pellegrinaggio del giovane Aroldo torneremo dopo.
Byron a Venezia inizia anche a scrivere il poema satirico Don Giovanni, che viene considerato il suo capolavoro. Le figure create da Byron sono eroicamente romantiche e molto simboliche: la figura di Don Giovanni è quella più viva di tutte perché vi predomina l’ironia, quell’ironia calma e sorridente che solitamente viene attribuita agli inglesi. Il Don Giovanni di Byron è un naufrago, salvato da una fanciulla, venduto come schiavo a una sultana che s’innamora di lui e che per incontrarlo lo traveste da odalisca e lo fa stare nell’harem. Byron ironicamente rovescia i ruoli, non è Don Giovanni a possedere un harem ma, il suo Don Giovanni è costretto ad essere posseduto in un harem,così il gran seduttore si rende conto di quello che si prova ad essere rinchiusi in un serraglio, in un recinto.
A questo punto, giocando con gli argomenti, ci capita l’occasione di fare un’inferenza, cioè di collegare una riflessione con un’altra. Quando si pensa a Don Giovanni naturalmente si pensa a Mozart. Ci pensa anche Byron, e Byron considera il Don Giovanni di Mozart, composto nel 1787, un’opera un po’ retorica e un po’ moralistica. Byron preferisce piuttosto l’opera buffa e in particolare Il ratto dal serraglio composta da Mozart nel 1782. Byron, nel suo Don Giovanni s’ispira in più parti a quest’opera teatrale di Mozart.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Avete mai assistito alla rappresentazione de Il ratto dal serraglio di Mozart, conoscete la storia? Sapete chi è la protagonista principale?
Buona documentazione e buon ascolto…
In seguito il Don Giovanni di Byron fugge dall’harem ed è costretto ad una vita da fuggitivo: è un eroe dell’esercito russo, un amante dell’imperatrice Caterina, un diplomatico a Londra. Byron ne racconta soltanto la giovinezza, il fascino, la bellezza e la facilità con cui conquista tutti, in particolare le donne, ma in realtà il personaggio di Don Giovanni più che un personaggio da "poema lirico" è un personaggio da "romanzo", è un’occasione per poter scrivere un testo di grandi avventure, condite di fine ironia, di scetticismo, di pessimismo e di grazia, anticipando molta letteratura del ‘900, in particolare le opere di Oscar Wilde.
Byron conduce una vita sregolata fra scandali, gesti clamorosi e anticonformisti: l’unica attività regolare e ordinata della sua esistenza è e sarà sempre la scrittura. Byron rappresenta con la sua scrittura, attraverso i suoi personaggi, l’eroe romantico, solitario e incompreso, fatale e tenebroso, come il protagonista omonimo del suo dramma in versi intitolato Caino (1821), che riscuote un enorme successo nella letteratura europea dell’Ottocento. In Caino, parafrasando il racconto biblico, Byron trasforma il protagonista in un Prometeo maledetto, che, con la sua intelligenza vuole sfidare la divinità e non vuole portare ossequio agli dèi. Caino uccide il fratello Abele non per invidia, ma perché rifiuta la rassegnata devozione a un Dio che sente avverso e di cui non capisce le intenzioni. Lucifero riesce a sedurre Caino proiettando in lui lo spirito di superbia e di ribellione che lo allontana definitivamente dal Signore lasciandolo nell’inquietudine e nel turbamento: un’inquietudine e un turbamento che, di conseguenza, tutta l’Umanità ha ricevuto in eredità.
Nel 1821, trovandosi a Ravenna, Byron prende parte ai moti liberali contro il governo dello Stato Pontificio ed è costretto a lasciare la città dopo il fallimento dell’insurrezione; si trasferisce a Pisa e poi a Genova: è sdegnato a causa del dominio austriaco in Italia, e viene a contatto con le società segrete, fornendo armi e aiuti al movimento che si sta formando e che combatte per l’unità e l’indipendenza italiana. A Genova, nel 1823, entra in contatto con il comitato di sostegno per l’indipendenza greca, e decide di unirsi ai Greci che stanno combattendo contro l’Impero ottomano ma, in Grecia, si ammala di malaria e muore nella cittadina di Missolungi il 19 aprile 1824.
La morte di Byron in Grecia ci offre la possibilità di fare una nuova riflessione. Quando pensiamo alla Grecia abbiamo presente soprattutto il periodo antico, e il periodo classico, il periodo ellenistico e quello bizantino, ebbene, la cittadina di Missolungi – oggi si chiama Messolòngi – c’invita a considerare un periodo più recente, e forse meno conosciuto, della storia della Grecia: il periodo della lotta per l’indipendenza negli anni tra il 1822 e il 1826. (In Grecia non ci sono solo siti archeologici della cultura minoica, micenea, classica, ellenistica, bizantina, ma ci sono anche alcuni siti – se così li possiamo chiamare – della cultura "romantica", uno di questi è la cittadina di Messolòngi, e un altro è la piccola isola di Sfaktiria, ma procediamo con ordine).
Sappiamo che la Grecia ha subìto la dominazione turco-ottomana. Nel 1460, sei anni dopo la presa di Costantinopoli, il sultano ottomano Maometto II conquistò anche la Grecia e la trasformò in provincia del suo vasto Impero. La dominazione ottomana diede l’unità alla Grecia continentale, ma fece precipitare la situazione economica, sociale ed anche culturale del Paese. L’antica classe dirigente greca, formata da grandi proprietari terrieri, si adeguò al nuovo potere ottomano e alla nuova situazione politica e sociale: i feudatari si convertirono subito all’islamismo e approfittarono della nuova situazione per imporre ai sudditi pesanti obblighi e per reintrodurre la servitù della gleba. Quindi le condizioni di vita delle classi deboli peggiorarono sensibilmente e tra il popolo cominciò a covare la rivolta propiziata anche dalla Chiesa ortodossa. La dominazione turco-ottomana si estese progressivamente dal continente alle isole: nel 1523 fu conquistata Rodi che era governata dai Cavalieri di S. Giovanni, che vi si erano installati nel 1309. Nel 1571 fu la volta di Cipro e nel 1669 quella di Creta, che passarono dalla tollerante dominazione dei Veneziani, a quella più oppressiva dell’Impero ottomano. Pochi e tutti senza esito furono i tentativi di ribellione dei Greci al dominio ottomano, ma dalla metà del 1700 in poi, entrò in scena un nuovo protagonista: la Russia. Gli zar dell’impero di tutte le Russie erano sempre più interessati alla situazione dei Balcani, volevano estendersi verso occidente ai danni dell’impero ottomano e cominciarono, in modo tacito e calcolato, ad aiutare gli indipendentisti greci. La prima rivolta generale della Grecia scoppiò nel 1770, durante la guerra russo-turca, poi vi fu la rivolta dell’Epiro nel 1786, ma queste due insurrezioni furono entrambe sanguinosamente represse dall’esercito ottomano. Fra il 1700 e il 1800 una serie di circostanze interne ed internazionali favorì i moti per l’indipendenza ellenica: prima di tutto lo scoppio della Rivoluzione francese, poi la crisi dell’Impero ottomano, sui cui vasti possedimenti si andavano scatenando gli appetiti delle nazioni europee, soprattutto la Francia, l’Inghilterra e la Russia, che vedevano nello smembramento dell’Impero ottomano la possibilità di accaparrarsi larghe fette di territorio. Altra circostanza interna che favorì i moti per l’indipendenza ellenica fu il sorgere, anche qui, di società segrete patriottiche, fra le quali la famosa Eteria, appoggiata dalla Chiesa ortodossa e sostenuta economicamente dal ricco ceto mercantile greco di Costantinopoli detto dei Fanarioti , dal nome del quartiere della città in cui vivevano, il quartiere del Fanaro. Nel 1822 vi fu una generale ondata di sollevazione popolare che portò alla proclamazione dell’indipendenza greca nella famosa assemblea di Epidauro. Gli ottomani riuscirono tuttavia, dal 1822 al 1826, nonostante la strenua resistenza dei Greci, a ristabilire il loro dominio con una ferrea politica di repressione e di sterminio, specie nei confronti dei Fanarioti. Negli anni successivi i patrioti greci ripresero le armi, grazie anche all’intervento delle potenze europee – Francia, Inghilterra e Russia – favorevoli al costituirsi di una nazione greca, e grazie anche alla generale simpatia suscitata negli ambienti liberali e "romantici" di tutta Europa dalla causa ellenica. E così alle azioni di guerriglia sostenute dalle bande dei montanari dell’interno del Paese si affiancarono gli interventi militari portati da corpi di spedizione russi e francesi, e da gruppi di volontari che ritenevano politicamente corretto e molto "romantico" andare a combattere per la causa dell’indipendenza greca. Nel 1829 il trattato di Adrianopoli fra Russia e Turchia stabilì fra l’altro l’autonomia della Grecia: l’anno successivo 1830, fu proclamata ufficialmente la sua indipendenza. La Francia, l’Inghilterra e la Russia, che si erano assunte il ruolo di nazioni protettrici della Grecia, e che non si erano mosse propriamente per la gloria, approfittarono delle divisioni che si manifestarono tra le forze del movimento di liberazione e imposero ai Greci un governo monarchico di loro fiducia: scelsero Ottone, figlio di Luigi di Baviera, e così, nel 1832, un tedesco salì sul trono di Grecia. Ottone non soddisfece molto il popolo greco che aveva combattuto duramente per la propria indipendenza e fu costretto ad abdicare nel 1862 e fu sostituito, per volontà dell’Inghilterra, da una dinastia di origine danese con Guglielmo figlio di Cristiano IX di Danimarca che, nel 1863, assunse il nome di Giorgio I di Grecia.
La cittadina di Messolòngi, che merita una visita utilizzando l’atlante e una guida della Grecia: si trova a nord del golfo di Patrasso, sulle prime pendici del monte Aràkinthos (m.984) ed è celebre nella storia dell’indipendenza greca per l’eroica difesa opposta dagli insorti agli assedi ottomani tra il 1822 e il 1826. La resistenza si concluse con una fuga in massa della popolazione nella notte del 12 aprile 1826 e terminò in un massacro con migliaia di vittime. Sappiamo che il 19 aprile 1824 vi era morto, di stenti e di malaria, Lord Byron, che era accorso qui per rafforzare la guarnigione. A Messolòngi vi è un parco all’interno del quale si può ammirare la statua di Byron, e si possono onorare le tombe dei caduti nella lotta per l’indipendenza: vi è la tomba di Markos Botzaris, l’eroe dell’indipendenza greca. Attorno a questo parco vi sono i resti delle antiche mura veneziane, e nel municipio è stato allestito un interessante museo dedicato alla guerra d’indipendenza greca. A est di Messolòngi si trova un significativo sito archeologico che conserva le vestigia dell’antica città di Calidone. L’antica Calidone è conosciuta nella mitologia greca per l’episodio del feroce cinghiale ucciso da Meleagro, il leggendario figlio del re Oineo di Calidone (naturalmente possiamo leggere il racconto di questo mito nell’VIII libro de Le Metamorfosi di Ovidio). Nella storia della lotta per l’indipendenza greca il mito del feroce cinghiale ucciso da Meleagro rappresenta una metafora: il feroce cinghiale raffigura l’Impero ottomano e Meleagro calidonio – come lo chiama Ovidio – simboleggia i combattenti della resistenza.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Se tu coltivi un certo interesse per la storia moderna della Grecia, ebbene, su qualunque enciclopedia puoi soddisfare questa curiosità: è una storia complessa ma comprensibile e molto significativa.
Utilizzando i dati raccolti su questo punto puoi perfezionare la tua ricerca: buon viaggio a Messolòngi, sui sentieri della Grecia "romantica"…
C’interessa anche ricordare – visto che siamo in tema di rimembranze – che in Grecia morì, combattendo per l’indipendenza di questa nazione, anche Santorre di Santarosa, nato nel 1783 da nobile famiglia piemontese a Savigliano in provincia di Cuneo. Santorre di Santarosa è stato un patriota liberale che ha partecipato ai moti del marzo 1821 in Piemonte e tentò invano di convincere Carlo Alberto – soprannominato il "re tentenna" – a sostenere il movimento "risorgimentale". In Piemonte nel marzo 1821 fu scritta una Costituzione e fu istituito un governo provvisorio e Santorre di Santarosa fu il ministro della difesa di questo governo e cercò di resistere più a lungo possibile contro l’intervento austriaco che sedò il moto con la forza. Santorre di Santarosa, dopo la Restaurazione in Piemonte, fuggì esule a Parigi e dal 1824 andò in Grecia dove fu ucciso sull’isola di Sfaktiria l’8 maggio 1825, e il suo corpo non fu mai ritrovato. Sfaktiria è una piccola isola, lunga circa cinque chilometri, accidentata e coperta di arbusti, si trova sulla costa occidentale del Peloponneso. Il Peloponneso (la scapola di Pelope) è una penisola a sua volta formata da quattro penisole, è fatta come una mano con quattro dita: l’isola di Sfaktiria è situata lungo la costa occidentale della penisola della Messenia, la più occidentale delle quattro penisole del Peloponneso e si trova esattamente davanti alla cittadina di Pilos. Pilos, con il suo porticciolo, domina la baia di Navarrino, che è delimitata a ovest dall’isola di Sfaktiria. Questa baia è famosa per la battaglia navale di Navarrino del 20 ottobre 1827 che si concluse con la vittoria della flotta anglo-franco-russa contro i turchi ottomani. Questa battaglia fu decisiva per le sorti dell’indipendenza greca. L’isola di Sfaktiria non è abitata, si raggiunge in barca da Pilos, e vi sorgono diversi monumenti commemorativi, e proprio al centro dell’isola è stata eretta, dopo la liberazione del Peloponneso, la piramide funeraria in ricordo di Santorre di Santarosa.
REPERTORIO E TRAMA ...per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:
Su questo personaggio è utile informarsi meglio e di più con l’enciclopedia o sulla rete, sono molti i siti dedicati a Santorre di Santarosa, buon viaggio…
Ma torniamo a Byron, il quale nel poema Pellegrinaggio del giovane Aroldo, descrive questa particolare tipologia umana e presenta un personaggio romantico, con molti aspetti chiaramente autobiografici: un personaggio che durante i suoi viaggi medita sulle condizioni dei paesi che lo vedono esule. Quest’opera testimonia l’appassionato impegno di Byron – e di tutta una generazione d’intellettuali "romantici" – in difesa della libertà e della dignità dei popoli che, come i Greci e gli Italiani, si trovano in tristi condizioni di sudditanza dopo aver avuto un passato glorioso, soprattutto un passato culturale straordinario. La quarta parte del Pellegrinaggio del giovane Aroldo è dedicata all’Italia: anche Byron ha molto amato l’Italia. In particolare Byron ha amato tre città italiane: Venezia in cui soggiorna per tre anni, Roma e Firenze.
Leggiamo un frammento del quarto canto di questo poema, intitolato: Compianto per l’Italia; questo frammento offre lo spunto per una serie di riflessioni.
LEGERE MULTUM….
George Gordon Byron, Pellegrinaggio del giovane Aroldo (1816)
COMPIANTO PER L'ITALIA
O Italia! Tu che avesti il fatale dono della bellezza che divenne la funerea dote
dei tuoi inenarrabili dolori presenti e dei tuoi gloriosi passati furori,
sulla tua dolce fronte il solco della sofferenza è stato inciso
e i tuoi annali impressi con lettere di fiamma sfigurano il tuo viso irriso.
Volesse Iddio che nella tua nudità tu fossi meno bella ma più forte,
e potessi rivendicare il tuo diritto e ricacciare atterrìti i manigoldi
che s’accalcano per versare il tuo sangue e ordiscon la tua morte.
Potresti, allora, bere le lacrime del tuo dolore e lanciare i tuoi classici prometèici strali
e, meno desiderata, essere semplice e pacificata, non compianta per i tuoi fascini fatali,
allora non si vedrebbero gli armati torrenti, senza posa, riversarsi giù dalle profonde Alpi,
né l’orda nemica degli spogliatori berrebbe mai più dai tuoi fiumi e acqua e sangue,
né la spada straniera sarebbe la tua triste arma di difesa,
né tu saresti, in tal modo, vincitrice o vinta, di amici e di nemici né schiava né offesa.
Eppure, o Italia! Gli oltraggi da te sofferti dovrebbero risuonare, e risuoneranno
da un capo all’altro della terra, dai mari ai monti, dalle amene pianure ai deserti.
E sarai ancora Madre di tutte le Arti, come una volta tu fosti la Madre di tutti i Saperi!
Il frutto della tua Mente fu il nostro nutrimento per secoli, e fino a ieri il tuo Pensiero
fu la nostra guida innanzi al quale le nazioni hanno rispettosamente alzato il velo
di Saggezza che ti avvolge e si sono inginocchiate per avere le due Chiavi del Cielo!
Pentita del matricidio l’Europa dovrà riscattarti perché, o Italia, tu sei un dono sublime
e l’onda incivile fluirà ricacciata, e implorerà dal tuo animo galante, il perdono.
Davanti a queste parole così enfatiche noi rimaniamo un po’ sbalorditi. I versi di Byron oggi ci appaiono perfino esagerati, i sentimenti che dice di provare per l’Italia ci sembrano ostentati e suonano alle nostre orecchie come dei luoghi comuni, le sue descrizioni danno l’impressione di essere ricette retoriche. Molti esegeti si sono chiesti: è Byron che va sopra le righe oppure siamo noi italiani non apprezziamo abbastanza l’Italia? Una cosa è certa, ed emerge da tutte le ricerche: gli Italiani, ancora oggi, non conoscono l’Italia, non tanto e non solo dal punto di vista geografico e storico ma soprattutto non conoscono i meriti dell’Italia sul piano culturale, ne hanno una vaga percezione per sentito dire.
Byron scrive: E sarai ancora Madre di tutte le Arti, come una volta tu fosti la Madre di tutti i Saperi: forse esagera, ma esprime senz’altro un dato di fatto inequivocabile, cioè che gli intellettuali italiani, ieri, hanno prodotto e lanciato "classici prometèici strali", e quando Byron usa la parola "ieri" intende riferirsi al Rinascimento, e quando usa la metafora "classici prometèici strali" intende la cultura greca classica dove i "prometèici strali" rappresentano le frecce di Prometeo che procurano non la morte, come le saette di Zeus, ma elargiscono il sapere. Gli "strali prometèici" raffigurano i fuochi del sapere – piroi sofhoi – che Prometeo ha carpito agli dèi e ha distribuito al genere umano. Gli intellettuali italiani hanno rielaborato, ieri, nel Rinascimento, la cultura greca e latina, rilanciando i "classici prometèici strali", e mettendoli a disposizione dell’intelligenza europea. Oggi è diritto-dovere del cittadino acquisire la competenza necessaria per lanciare i "classici prometèici strali": naturalmente è compito della Scuola pubblica favorire l’acquisizione di questa competenza necessaria organizzando soprattutto itinerari di didattica della lettura e della scrittura. Con quale strumento si possono lanciare i "classici prometèici strali" se non con l’arco della scrittura?
Il Compianto per l’Italia di Byron, contiene un pensiero diffuso tra gli intellettuali "romantici" europei. Nell’epoca del romanticismo gli scrittori e i poeti europei, come Byron, pensano che l’Italia – e questo vale anche per la Grecia – abbia il diritto e il dovere di essere una nazione libera e indipendente per i meriti che ha acquisito sul piano intellettuale, e per il contributo che ha dato alla costruzione della cultura e del pensiero umano. Naturalmente questa opinione è condivisa anche da quegl’intellettuali italiani che, proprio a questo proposito, non intendono aderire al romanticismo ma preferiscono definirsi classicisti. Questa riflessione ci porta, attraverso un brevissimo inciso, ad incontrare, ancora, per un momento, Giacomo Leopardi, il quale nella canzone All’Italia, rimarca le stesse parole-chiave e le stesse idee-significative espresse da Byron due anni prima. È paradossale che l’Italia con tutto il suo bagaglio di storia e di cultura classica, con tutto il suo carico intellettuale che costituisce un patrimonio al quale fare continuamente riferimento – "rimembrando il tuo passato vanto", scrive Leopardi –sia divisa e non sia ancora una nazione libera e indipendente.
LEGERE MULTUM….
Giacomo Leopardi, All’Italia (1818)
O patria mia, vedo le mura e gli archi e le colonne e i simulacri
e l’erme torri degli avi nostri, ma la gloria non vedo, non vedo il lauro
e il ferro ond’eran carchi i nostri padri antichi.
Or fatta inerme, nuda la fronte e nudo il petto mostri. Oimè quante ferite,
che lividor, che sangue! Oh qual ti veggio, formosissima donna!
Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite, chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
che di catene ha carche ambe le braccia: sì che sparte le chiome e senza velo
siede in terra negletta e sconsolata, nascondendo la faccia tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia, le genti a vincer nata
e nella fausta sorte e nella ria. Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
mai non potrebbe il pianto adeguarsi al tuo danno ed allo scorno; che fosti donna,
or sei povera ancella. Chi di te parla o scrive, che, rimembrando il tuo passato vanto,
non dica: già fu grande, or non è quella?
Quando Leopardi scrive "rimembrando il tuo passato vanto" si riferisce al patrimonio della cultura classica greca e latina rielaborato principalmente in Italia attraverso l’Umanesimo e il Rinascimento, e Leopardi vuole rifarsi – soprattutto come poeta civile e politico – proprio al classicismo e per questo non ama essere etichettato come poeta "romantico". Anche Byron però, pur identificandosi con la corrente del romanticismo estremo, vuole rifarsi al classicismo rielaborato attraverso il Rinascimento italiano. Sappiamo già, dal Percorso precedente sul "romanticismo titanico" e da questo attuale sul "romanticismo galante", che le radici del movimento romantico sono saldamente ancorate nel terreno del Rinascimento. Sappiamo che i confini del romanticismo si dilatano fino al Rinascimento e, di conseguenza, i nostri itinerari scantonano spesso nell’epoca cinquecentesca: non a caso il titolo del nostro Percorso "romantico" fa riferimento al sorriso "cinquecentesco" de La Gioconda. Ebbene, l’opera di Byron di cui stiamo parlando, che s’intitola Pellegrinaggio del giovane Aroldo e che ha costituito il pretesto per le riflessioni che abbiamo fatto, è un poema scritto dal 1809 al 1818. Quest’opera, oggi, viene considerata la più importante di Byron perché per un verso rappresenta un significativo modello di guida al viaggio culturale e per un altro verso rappresenta la traccia esemplare di un itinerario di formazione civile e politica. Il poema descrive i viaggi avventurosi di un personaggio che si presenta come un tipo ribelle e spregiatore di tutte le convenzioni sociali, un tipo mai sazio di piaceri e in cerca di continue distrazioni per uscire dalla noia che lo perseguita e dalla malinconia che lo affligge (Abbiamo già detto che queste caratteristiche sono tipiche di quegl’intellettuali appartenenti alla corrente che gli studiosi hanno chiamato del romanticismo estremo). Il giovane Aroldo – nel quale Byron s’identifica – viaggia in quei paesi che allora scaldavano particolarmente il cuore e la fantasia degli artisti, dei poeti, dei patrioti, degli scrittori e di tutti coloro che desideravano compiere un viaggio di studio. E, questo poema, come guida emozionale, ebbe un immenso successo.Il giovane Aroldo racconta in primo luogo l’esperienza della sua formazione civile e politica: nei suoi itinerari, gradualmente, da viaggiatore spensierato si trasforma in pellegrino riflessivo e medita sulle condizioni dei paesi che visita, e prende coscienza dell’opportunità di operare in difesa della libertà e della dignità dei popoli che, come i Greci e come gli Italiani, si trovano ad essere oppressi e non indipendenti nonostante avessero avuto un passato glorioso dovuto ad uno sviluppo intellettuale e culturale straordinario. I primi due canti del poema narrano dei luoghi visitati da Aroldo in Portogallo, in Spagna, nelle Isole Ionie, in Albania, e terminano con un lamento sulla schiavitù della Grecia. Nel terzo canto il pellegrinaggio di Aroldo continua nel Belgio, sul Reno, sulle Alpi, nel Giura; e ogni luogo offre al poeta un pretesto per scrivere riflessioni culturali e considerazioni storiche e letterarie: per esempio si sofferma sulla guerra di resistenza della Spagna contro Napoleone, racconta la vigilia della battaglia di Waterloo, descrive i luoghi dove Rousseau ha ambientato il romanzo epistolare la Nuova Eloisa e immagina di incontrare Julie. Nel quarto canto la finzione del pellegrino viene abbandonata. Byron ammette di essere lui Aroldo e comincia a parlare in prima persona di Venezia, di Arquà dove è sepolto Francesco Petrarca, di Ferrara dove è sepolto Torquato Tasso, di Firenze e di Boccaccio, di Roma e dei suoi grandi personaggi.
Ma, oltre al contenuto, questo poema di Byron, c’interessa per la sua forma. La forma di questo poema conferma, ancora una volta, che le radici del romanticismo – anche del romanticismo estremo – sono nel Rinascimento e sono anche nella cultura italiana: i "classici prometèici strali" colpiscono Byron e lo ispirano. Quale forma usa Byron per scrivere il poema Pellegrinaggio del giovane Aroldo? Il poema Pellegrinaggio del giovane Aroldo è scritto in stanze spenseriane. Che cosa significa e che cosa sono le stanze spenseriane? La stanza spenseriana è una strofa di nove versi, di grande musicalità. Questa strofa è stata messa a punto da un poeta londinese che si chiama Edmund Spenser (1552 - 1599) il quale ha trasferito nella letteratura inglese i frutti più maturi del Rinascimento italiano, infatti la forma della stanza è stata ideata da poeti italiani dalla seconda metà del ‘400 come Luigi Pulci, Matteo Maria Boiardo, Angelo Poliziano, che rendono colta la tradizione popolare del "cantare in ottava". Edmund Spenser alla stanza italiana di otto versi – le cosiddette "ottave" – apporta una modifica: aggiunge un nono verso che dilata la strofa aumentandone la musicalità. Con Spenser la lingua inglese, nella seconda metà del ‘500, giunge a piena maturità letteraria (si apre la strada a William Shakespeare). Lord Byron – come tutti i romantici – è attratto dalla cultura rinascimentale e decide di riutilizzare la strofa spenseriana per scrivere il suo poema più significativo: Il pellegrinaggio del giovane Aroldo.
Ma chi è Edmund Spenser, il quale va annoverato, ancora prima di William Shakespeare, tra i precursori del romanticismo? Edmund Spenser è nato in una famiglia povera, frequenta la scuola pubblica di Londra come non abbiente, ma è uno studente molto volenteroso e dotato di grande intelligenza. Nel 1569 riesce a iscriversi all’Università di Cambridge, dove acquisisce una profonda conoscenza della letteratura antica e moderna, soprattutto del pensiero contenuto nei Dialoghi di Platone. Conseguito il titolo accademico entra in contatto con i più importanti intellettuali londinesi del Rinascimento e fonda un circolo letterario che diventa il più frequentato della città, vive anche per molti anni in Irlanda al seguito di lord Grey. Nel 1579 Edmund Spenser pubblica Il calendario del pastore, una raccolta di dodici poemetti bucolici, uno per mese. Quest’opera ottiene uno straordinario successo e Spenser diventa uno dei maggiori poeti inglesi del Rinascimento. Tra le opere più importanti di Spenser, dobbiamo ricordare ancora una serie di 88 sonetti intitolata Amoretti, e uno splendido Epitalamio o Canto nuziale. Queste due opere sono state entrambe scritte e pubblicate nel 1595 e sono dedicate probabilmente a una signora che diventerà sua moglie.
Ma l’opera principale di Edmund Spenser s’intitola La regina delle fate. La regina delle fate è un poema che avrebbe dovuto essere di dodici libri. Di questi, i primi tre furono pubblicati nel 1589, altri tre seguirono nel 1596, ma altri andarono perduti in un incendio e l’opera restò incompiuta. Ogni libro doveva descrivere le imprese e narrare le avventure di uno dei dodici cavalieri della Tavola Rotonda e culminare nel matrimonio di Re Artù con Gloriana, la regina delle fate. Questo poema ha un valore allegorico e ogni personaggio esprime un simbolo. La regina delle fate rappresenta la Gloria, e i vari cavalieri rappresentano le dodici virtù morali secondo l’Etica di Aristotele: la Santità, la Temperanza, la Castità, l’Amicizia, la Giustizia, la Cortesia. Questo poema però vale anche sul piano delle relazioni sociali e politiche: ogni cavaliere rappresenta allegoricamente una virtù in lotta con il vizio opposto, per esempio, il cavaliere dalla Rossa Croce simboleggia la Santità, ma la fanciulla che lo accompagna è l’allegoria della Verità e quindi contemporaneamente simboleggia anche la Chiesa anglicana con la sua rilevanza sociale e politica. Quindi all’allegoria morale si sovrappone l’allegoria politica: la fata Gloriana, per esempio, vuol rappresentare ed esaltare la regina Elisabetta I a cui il poema è dedicato. I contenuti di questo poema sono spesso assai difficili da decifrare e una tale macchina narrativa si dimostra spesso pesante alla lettura.
Questo poema – e lo si capisce facilmente – è modellato tanto sull’Orlando furioso di Ludovico Ariosto di cui però non ha né la leggerezza né la potenza fantastica, quanto su La Gerusalemme liberata di Torquato Tasso della quale però non possiede la carica erotica; dobbiamo prendere atto che il Rinascimento italiano influenza positivamente la cultura europea, in questo caso la cultura inglese in particolare. Tuttavia La regina delle fate è da considerarsi un capolavoro soprattutto per la musicalità della strofa di nove versi inventata da Spencer. La regina delle fate è un capolavoro anche perché riflette perfettamente la personalità del poeta, e il travaglio della sua vita interiore. Edmund Spenser è tormentato – e questo è un atteggiamento tipicamente pre-romantico – dallo scontro tra la sua coscienza morale, attestata sulle rigide posizioni della Riforma protestante, e il fascino che, contemporaneamente, esercitano su di lui i miti della bellezza e del piacere, assorbiti attraverso una conoscenza in prima persona della cultura del Rinascimento italiano e, in particolare, della tradizione del poema cavalleresco. La bellezza del poema di Spenser non sta tanto nella trama né nel modo in cui sono trattati i personaggi, ma sta piuttosto nello splendore delle sue descrizioni sulla scia del Tasso, a cui fanno riscontro la melodia di una lingua volutamente classicheggiante sulla scia dell’Ariosto e, come abbiamo già detto, la musicalità del nuovo metro, la "stanza spenseriana", derivata dalla stanza italiana in ottava.
Byron cercherà di utilizzare questi elementi per costruire la sua scrittura "romantica". Ma ora leggiamo una decina di stanze spenseriane, per prendere contatto con una forma poetica rinascimentale che ha trovato collocazione nella letteratura romantica. Leggiamo la descrizione de La caverna di Disperazione, in cui il linguaggio usato da Spenser è esageratamente lugubre tanto da diventare quasi comico, ma questo linguaggio avrà un futuro: ricordate il lessico della Scapigliatura, ricordate il repertorio di Igino Ugo Tarchetti che abbiamo incontrato la scorsa settimana?
La riflessione esistenziale di Spenser sul tema della disperazione è molto significativa. La disperazione che nasce dal pensiero per l’inevitabilità della morte va governata, bisogna farsene una ragione: se non altro la morte è un riposo quieto, è un sonno dopo l’affanno, è un porto dopo la tempesta, è la tranquillità dopo la guerra, è una pace che dà diletto: tutto ciò che fu iniziato – scrive Spencer – è destinato a finire e quindi quando l’ora della morte è giunta, nessuno chieda da dove, nessuno chieda perché.
LEGERE MULTUM….
Edmund Spenser, La regina delle fate (1596)
LA CAVERNA DI DISPERAZIONE
Dopo non molto giungono dove Disperazione, il dannato,
ha la sua dimora, giù in una caverna profonda,
lontana, sotto una rupe scoscesa,
scura, piena di dolore, spaventosa, come una tomba rapace
desiderosa ancora di carcasse putrefatte:
sulla sua cima posa il gufo spettrale
che grida la sua malefica nota allontanando per sempre
da quel recesso tutti gli altri lieti uccelli;
mentre tutt’intorno gemono e ululano errabondi fantasmi.
E tutt’intorno vecchi ceppi e tronchi d’albero
su cui mai fu visto frutto o fronda
incombevano sulle scheggiate e dirupate rocce,
sui quali molti dannati eran stati impiccati,
i cui cadaveri giacevano sparsi sul terreno
o gettati sulle rupi. Giunto colà
il cavaliere a capo nudo per la paura e per il dolore
ben volentieri sarebbe fuggito, né osava avvicinarsi
se non che l’altro lo costrinse a restare, confortandolo delle sue paure.
Entrano nell’oscura caverna, dove trovano
quel dannato seduto sul terreno,
che pensava tristemente con la sua tetra mente;
i capelli grigi, lunghi e non curati
gli cadevano disordinati sulle spalle
nascondendogli il viso; e tra di essi gli occhi cavi,
mortalmente opachi, guardavano attoniti,
le guance magre per la penuria e per la fame
s’erano incavate nelle mascelle come se mai toccasse cibo.
Nulla lo vestiva se non diversi abiti stracciati
tenuti insieme da spini e toppe
con cui si cingeva i fianchi nudi;
vicino a lui giaceva sull’erba
un corpo spaventoso, abbandonato dalla vita,
tutto immerso nel sangue ancora tiepido
che fluiva fresco dalla sua ferita,
con infisso fermamente il coltello rugginoso
che aveva aperto il passo allo sgorgante fiotto.
Questo miserando spettacolo, dimostrando vero
il doloroso racconto che Trevisan aveva narrato,
quando fu visto dal gentile Rossacroce
spinse con infocato ardore il suo ardito coraggio
a vendicarlo, prima che il sangue diventasse freddo,
e volto allo scellerato disse: "Tu, creatura dannata,
autore del misfatto che qui scorgiamo,
quale giustizia potrà non punirti
a pagar col tuo stesso sangue il sangue qui versato?".
"Quale eccesso di follia – risponde quegli – ti ha tanto confuso,
sciocco, a pronunciare una condanna così avventata?
Quale giustizia ha mai proposto altro giudizio
se non che muoia chi non merita di vivere?
Nessun altro ha condotto a morte questo disperato
se non la sua colpevole mente meritevole di morte.
E allora è ingiusto dare a ciascuno il suo dovuto?
È ingiusto lasciar morire chi odia il respiro della vita
o lasciar morire in pace chi vive senza pace qui?
Chi percorre i faticosi meandri della strada
per giungere presto alla desiderata casa
e incontra una fiumana che ferma il suo percorso,
non è forse grande grazia aiutarlo a passare
o liberare i suoi piedi invischiati nel fango?
O uomo tanto invidioso da lamentarti del bene del vicino,
e tanto sciocco da gioire del male che tu soffri,
perché non lascerai passare chi a lungo ha sostato
sulla riva, anche se tu non dovessi attraversarla?
Là ora gode l’eterno riposo,
l’agio felice che tu fortemente vuoi e desideri,
e dal quale t’allontani ogni giorno:
che vale se il passaggio comporta un poco di dolore
per cui la debole carne teme l’onda amara?
Non è dolore ben sopportato quello che porta alla pace,
e distende l’anima nel sonno della quieta tomba?
Il sonno dopo l’affanno, il porto dopo la tempesta,
la tranquillità dopo la guerra, la morte dopo la vita recano diletto".
Molto si stupì il cavaliere al suo acuto ingegno
e disse: "Il tempo della vita è limitato
né l’uomo può allungarlo o può accorciarlo;
il soldato non può muoversi dal posto di guardia
né può lasciar la postazione finché non l’ordini il capitano".
"Chi limitò la vita per superno giudizio
– rispose – conosce meglio i termini stabiliti,
e chi assegna il posto alla sentinella
gli dà il permesso di partire al suono del tamburo mattutino.
Non è opera sua qualunque cosa creata
in cielo e in terra? Non creò tutto
affinché morisse? Finisce tutto ciò che fu iniziato.
Il tempo di ciascuno nell’eterno libro del fato
sta scritto e ha termine sicuro.
Chi può dunque contendere con la forte necessità
che tiene il mondo nel suo mutevole stato
o evitare la morte prevista dal destino?
Quando l’ora della morte è giunta, nessuno chieda da dove nessuno chieda perché.
Gli intellettuali romantici come Byron pensano che bisognerebbe avvicinarsi alla "bellezza" con circospezione perché la "bellezza" attira inesorabilmente, e spinge a compiere gesti dettati dal turbamento e dall’inquietudine, come lo sfidare la morte nella lotta per l’indipendenza di un paese oppresso. Ma la bellezza spinge anche a compiere gesti paradossali, irragionevoli, insensati, strani, stravaganti, bizzarri, inconsulti. Per esempio a cercare la bella morte in duello… questo è un classico tema della letteratura "romantica", ma è anche una situazione ben presente nella realtà di un’epoca: più di uno scrittore "romantico" di questa generazione, infatti, muore facendo a pistolettate o a sciabolate in duello. Tra gli scrittori e i poeti, che, nel territorio del romanticismo, tanto titanico quanto galante, hanno espresso questo pensiero e coltivato l’idea che la bellezza possegga uno "sguardo inquietante"… ebbene, abbiamo detto, siamo quasi obbligati a incontrarne tre. Il primo, Byron, lo abbiamo incontrato questa sera, il terzo lo incontreremo fra qualche settimana, ora incontriamo il secondo: chi è il secondo? Per orientarci, prima di darci appuntamento per la prossima settimana, leggiamo questo sonetto: dal titolo si capisce sùbito che il posto di questo poeta è sul nostro Percorso.
LEGERE MULTUM….
Aleksàndr Sergeevic Pùškin, Come tu fossi Monna Lisa (1829)
Nello straordinario istante: davanti a me apparisti tu, in visione fugace,
come il genio della pura bellezza inquietante e misteriosa.
Nei tormenti d’una tristezza disperata, nelle agitazioni d’una rumorosa vanità,
suonò per me a lungo l’indecifrabile tua voce, e mi apparvero in sogno
i segni del tuo viso arcani e perturbanti.
Sognare la tua bellezza è un incubo, satanica è la tua tenera voce,
il tuo sorriso enigmatico è spietato.
I miei giorni trascorrono in una remota e oscura reclusione
perché perdersi nella tua bellezza equivale a perdere la giusta via della ragione.
Invano cerco dell’anima il risveglio: tu appari, come una fugace visione,
come il genio della pura bellezza come tu fossi Monna Lisa.
E il cuore batte nell’inebriamento, e vanno dispersi ancora la divinità e l’ispirazione,
e la vita, e le lacrime e l’amore.
Questo sonetto è destinato a una fanciulla di straordinaria bellezza, certamente di una bellezza inquietante, che turba come la bellezza di Monna Lisa: questa fanciulla la incontreremo a San Pietroburgo, a breve. Anche questo sonetto è un vero e proprio manifesto del pensiero che attribuisce alla bellezza uno sguardo inquietante: dalla bellezza – scrive il poeta – si sprigionano mistero e turbamento, la bellezza non perdona, dalla bellezza scaturisce la perdizione, la bellezza procura la dannazione, dalla bellezza si può guadagnare solo l’inquietudine. Qual è il modello – scrive il poeta – di questa bellezza che turba e che inquieta se non l’immagine di Monna Lisa altrimenti detta La Gioconda? (E non s’intitola forse "il sorriso de La Gioconda" questo sentiero attraverso il quale stiamo attraversando il territorio del "romanticismo"?)
L’autore di questo sonetto è Aleksàndr Sergeevic Pùškin che, in letteratura, ha incarnato meglio lo spirito romantico russo ed è indubbiamente uno scrittore molto popolare e molto conosciuto nel mondo: tutti lo abbiamo sentito nominare! Anche lui, a quanto pare, è stato stregato dal sorriso, inquietante e misterioso, de La Gioconda, ma soprattutto è stato stregato dal sorriso della fanciulla a cui dedica questo sonetto! Chi è Aleksàndr Sergeevic Pùškin? Per incontrare questo personaggio, il nostro itinerario, la prossima settimana, prima della pausa delle vacanze pasquali, deve passare da San Pietroburgo.
Non mancate all’appuntamento: accorrete, la Scuola è qui.