Autorizzazione all'uso dei cookies

LA RAPPRESAGLIA DEL CHIACCHIERICCIO…

Lezione N.: 
26

Prof. Giuseppe Nibbi          Tra ‘700 e ‘800: il sorriso de La Gioconda 2005         4-5-6 maggio 2005

 LA RAPPRESAGLIA DEL CHIACCHIERICCIO…

   Prima in iniziare l’itinerario vero e proprio di questa sera devo fare una comunicazione importante: ho sognato Pùškin. Non era un incubo e non mi ha neppure dato i numeri, ma è facile trovare i numeri (si può consultare chi ha un po’ di esperienza col gioco del Lotto, per esempio Casanova, che ha messo su una ricevitoria del Lotto a Parigi). I numeri di Pùškin, per tradizione, corrispondono alle parole: duello, agonia, morte… Voi direte: che allegria! Se qualcuno li trova, li gioca e vince. (Prima che qualcuno dica che la Scuola è pessimista, disfattista, catastrofista vorrei ricordare che ci stiamo occupando della "fine di Pùškin" e la fine di Pùškin è una tragedia: anche per volontà del poeta stesso. È una tragedia nel senso classico del termine, che contiene, quindi, molti elementi di comicità, però non fa concessioni al varietà ed è soprattutto un argomento che "pretende" di essere studiato a Scuola…peccato non lo si faccia quasi mai).

   Nel sogno Pùškin mi ha detto con voce accorata e commossa (era perfino umile): «Ma perché mi vuoi far morire questa settimana? Proprio ora che è arrivata la primavera: a Pietroburgo fa freddo anche a primavera, lasciami assaporare un po’ questo tepore mediterraneo. E poi a Scuola ho visto tutte quelle belle signore che assomigliano a Natalja e quei simpatici signori che potrei anche sfidare a duello. Per favore, lasciami vivere ancora una settimana!». Che cosa gli dovevo rispondere? Mi sono commosso e gli ho assicurato che avrei preso tempo: lui stesso mi ha suggerito di lasciarmi coinvolgere nella rete del chiacchiericcio. E io – in parte – ho seguito il suo consiglio.

   Da tre settimane ci stiamo occupando della cosiddetta "fine di Pùškin", un capitolo, un paesaggio intellettuale che è diventato mitico, all’interno del vasto territorio del "romanticismo titanico e galante". Perché c’interessa viaggiare all’interno di questo avvenimento che ha assunto, da subito, dal 1837, le caratteristiche dell’epopea? Perché, osservando questa memorabile vicenda, possiamo mettere a fuoco una serie di parole-chiave. Alcune di queste parole le abbiamo già catalogate nei due itinerari precedenti a questo: la corrispondenza, la sfida, il ridicolo, l’indagine, l’onore. Queste parole, a loro volta, contengono alcune idee-significative che fanno parte del territorio del romanticismo proprio nel punto in cui l’elemento titanico e l’elemento galante s’incontrano e s’intrecciano: in quel punto prende forma il genere letterario del "romanzo", più precisamente del "romanzo dell’800".

   Inoltre, l’avvenimento della "fine di Pùškin", nel contesto di un Percorso di didattica della lettura e della scrittura, ci ha messo in comunicazione con un interessante libro da leggere: Il bottone di Pùškin della professoressa Serena Vitale. Di questo libro ne abbiamo già utilizzato molti tasselli e continueremo ad utilizzarne altri. Il bottone di Pùškin ci presenta, come in un romanzo, attraverso la "corrispondenza", la narrazione – nei suoi elementi conosciuti – della "fine di Pùškin", ma non solo: ci presenta anche un ambiente, una mentalità, un costume, una visione, lo spaccato di un’epoca che è stata definita del "romanticismo".

   La vicenda, a cui è stato dato il titolo di "fine di Pùškin", ha inizio – come ormai sappiamo – quando il poeta riceve una serie di lettere anonime in cui, sebbene non esplicitamente, si mette in dubbio la fedeltà della sua bellissima moglie Natàl’ja Nikolaevna Gonćaròva, la quale, effettivamente – e questo fatto è sotto gli occhi di tutti – sembra gradire l’assidua corte del giovane cavaliere della guardia, di origine francese, Georges d’Anthès. Questo giovane cavaliere – come ormai sappiamo – è stato adottato dall’ambasciatore d’Olanda, il barone Jacob van Heeckeren e ne ha assunto il nome e il titolo. Noi sappiamo anche che Georges d’Anthès, per avvicinarsi a Natàl’ja, comincia a corteggiare la sua sorella più grande, che non ha pretendenti, Ekaterina Gonćaròva, e poi commette l’errore di andare un po’ oltre il corteggiamento. Questo fatto lo mette nei guai perché la zia di Ekaterina, Ivanovna Zagrjazskaja –dopo aver raccolto la confessione della nipote la quale ammette di aver concesso troppo all’amante – interviene subito e, tacitamente, si mette in comunicazione con il padre adottivo di d’Anthès, il barone van Heeckeren, per chiedere che, con un matrimonio riparatore, si restituisca alla nipote l’onore perduto.

   Come possiamo constatare la parola-chiave "onore" fa ancora da scenario in questo tratto del nostro Percorso. Ma nella maggior parte dei romanzi dell’800 la parola "onore" fa da scenario, con tutti i suoi significati tanto "virtuosi" quanto "ambigui" (in proposito si potrebbe fare una ricerca antologica…). Per giunta, a proposito di "ambiguità": Georges d’Anthès deve anche sostenere – perché non sembri un affrettato matrimonio riparatore il suo – che lui aveva chiesto da tempo la mano di Ekaterina ma suo padre, il barone, era contrario a questa relazione – per lui avrebbe voluto un partito migliore – e lo aveva ostacolato fino ad oggi, nella sua scelta.

   L’arrivo delle lettere anonime, per Pùškin – che è, più o meno, al corrente di tutte queste ambigue situazioni – costituisce il pretesto per agire. Erano mesi che Pùškin aspettava che gli capitasse un’occasione per sfidare d’Anthès (qualcuno, molto malignamente, ha anche insinuato che se lo sia mandato lui il diploma del Circolo dei cornuti). Lui sospetta, tra l’altro – anche se non ha le prove – che il mandante delle lettere anonime, che gli conferiscono quello sgradevole titolo, sia il barone Jacob van Heeckeren. Senza ulteriori indugi, il giorno stesso dell’arrivo delle lettere anonime, Pùškin invia all’ambasciata d’Olanda un "cartello di sfida" per Georges d’Anthès.

   Sappiamo che, a questo punto, entrano in scena alcuni mediatori – anche gli stessi padrini dei due contendenti – per cercare una soluzione pacifica, e per fare in modo che Pùškin ritiri la sfida.

   Una possibilità di riportare la concordia potrebbe essere data proprio dal fidanzamento e dal matrimonio tra Georges d’Anthès con Ekaterina Gonćaròva. Ma quando Georges d’Anthès chiede la mano di Ekaterina, Pùškin concede solo una tregua finalizzata ad esasperare ancora di più la situazione, perché Pùškin non vuole arrivare ad una pacificazione. Il suo obiettivo è quello di provocare l’avversario, e quando viene a sapere che d’Anthès ha "disonorato" la sua cognata Ekaterina coglie anche questa occasione per inasprire lo scontro contro colui che corteggia sua moglie, la quale – tutti lo sanno – anche se non si concede, tuttavia non è del tutto insensibile a questo corteggiamento.

   Pùškin coglie l’occasione del matrimonio riparatore che viene tacitamente programmato – e sulla natura del quale anche lui dovrebbe mantenere il segreto – per cominciare ad insinuare che d’Anthès vuole sposarsi e imparentarsi con lui solo per evitare, vigliaccamente, il duello. Lui sa che d’Anthès – anche per il ruolo che ricopre di cavaliere della guardia dell’imperatrice – di fronte a questa insinuazione, non si tirerà indietro, non potrà tirarsi indietro, e dovrà battersi per salvare l’onore: abbiamo già sentito questa parola, vero? Difatti d’Anthès, appena viene a conoscenza di questa insinuazione, si sente punto nell’onore e desidera soddisfazione: la trappola di Pùškin funziona quasi alla perfezione e lui se ne compiace.

   Pùškin assomiglia sempre di più ai suoi personaggi, a uno dei quali, in poesia, fa dire: "si era invaghito della morte con una forza quasi soprannaturale e, per così dire, tangibile". Fra breve rileggeremo questo verso in un contesto di riflessione.

   Pùškin però capisce di essere circondato da persone – sagge, aggiungiamo noi – che vogliono consigliarlo, forzarlo, costringerlo a ritirare la sfida: persone sagge che operano perché i due contendenti possano fare la pace. I due padrini, Sollogub, quello di Pùškin, e d’Archiac, quello di d’Anthès, hanno persino, di comune accordo, tenuto nascosto a d’Anthès il testo della lettera in cui Pùškin insinua che il cavaliere della guardia si voglia sposare solo per evitare il duello. E d’Anthès – ignaro e consapevole di non aver perduto l’onore – è convinto che Pùškin ritirerà la sfida senza tirare in ballo le ragioni del suo matrimonio, e chiede pubblicamente la mano di Ekaterina e annuncia ufficialmente il suo fidanzamento con lei.

   Tutta la questione sembra risolversi ed entrare nell’alveo della concordia, ma l’intenzione di Pùškin non è quella di ritirare la sfida ma quella di dare ancora "fuoco alle polveri": questa volta per conto suo, senza mediatori e senza padrini, e allora, per rilanciare lo scontro scrive due lettere. A chi scrive Pùškin? La prima lettera la scrive a quello che sospetta essere il mandante dei messaggi anonimi che ha ricevuto circa due settimane prima: il barone Jacob Van Heeckeren, il padre adottivo di Georges d’Anthès. Che cosa scrive Pùškin? Noi possiamo leggere queste due lettere, utilizzando ancora Il bottone di Pùškin. Leggiamo la prima lettera in cui Pùškin, dopo aver riassunto la situazione, lancia le sue accuse e amplifica e raddoppia la sua sfida: è una brutta copia, ci sono alcune cancellature, ma si capisce tutto.

LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Pùškin a Heeckeren, [16-21 novembre 1836]:

«Signor barone, innanzitutto permettetemi di riassumere tutto quanto è appena successo. Il comportamento del signor vostro figlio mi era perfettamente noto e non poteva essermi indifferente; ma poiché si manteneva nei limiti delle convenienze e d’altra parte io sapevo quanto mia moglie meritasse la mia fiducia e il mio rispetto, mi accontentavo della parte di osservatore, salvo intervenire quando lo avessi giudicato opportuno.

...continua la lettura ...

   Chi pensava che Pùškin volesse la pace si sbagliava, ora, a Pùškin un duello non basta più, vuole addirittura sfidare non solo d’Anthès ma pretende soddisfazione anche dal barone suo padre che Pùškin vuole identificare con il "briccone" che gli ha mandato le lettere anonime: è chiaro che Pùškin parla al padre sapendo di parlare al figlio che rimane il suo vero obiettivo.

   La seconda lettera la scrive addirittura al capo della polizia di Sua Maestà Imperiale, a quello che lo tiene d’occhio per conto dello zar: il conte Aleksandr Christoforović Benckendorff. Perché Pùškin scrive al conte Benckendorff dando quasi l’impressione di voler cercare la complicità del capo della polizia? Perché sa benissimo che nulla sfugge alla polizia zarista, e sa benissimo che tutto quello che scrive, o quasi, è già conosciuto, e quindi lui vuole mettere la mani avanti: vuole dare alla questione delle lettere anonime e alla sfida che lui ha lanciato a due "stranieri" – di cui le autorità sono certamente a conoscenza – una sua spiegazione anche di carattere politico. Vuole dare una spiegazione tanto da uomo d’onore quanto da cittadino russo, o per meglio dire da suddito russo (siamo in un potere assoluto) che ha a cuore le istituzioni e le tradizioni. Ma leggiamo la lettera di Pùškin a Benckendorff.

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Pùškin a Benckendorff, 21 novembre 1836: «Signor conte, ho il diritto, e ritengo sia mio dovere farlo, di mettere Vostra Eccellenza a parte di quanto è recentemente avvenuto nella mia famiglia. La mattina del 4 novembre ricevetti tre esemplari di una lettera anonima oltraggiosa per il mio onore e quello di mia moglie. Dall’aspetto della carta, dallo stile della lettera, dal modo in cui era redatta, riconobbi fin dal primo momento che era di uno straniero, di un uomo dell’alta società, di un diplomatico. Iniziai le ricerche. Venni a sapere che sette o otto persone avevano ricevuto quel giorno un esemplare della stessa lettera, sigillata e indirizzata a me in doppia busta.

...continua la lettura ...

   Questa lettera è molto significativa: anche Pùškin è abile nel depistaggio, soprattutto vorrebbe far sapere quello che la polizia già sa: che lui ha spedito un cartello di sfida ma vuole puntualizzare che «ho comunicato al signor d’Archiac (padrino del signor d’Anthès) che la mia sfida venisse considerata come non avvenuta». Pùškin vuole che si allenti la guardia da parte della polizia?

   Nel tardo pomeriggio del 21 novembre 1836 – era un sabato – Sollogub torna a trovare Pùškin il quale subito rinfaccia al suo padrino di essere stato più dalla parte di d’Anthès che dalla parte sua, facendo fallire il duello. Pùškin porta Sollogub nel suo studio e gli legge le due lettere che ha scritto. Sollogub rimane sconcertato, poi, mentalmente, reagisce e – cercando di dare l’impressione che (è ancora il suo padrino) sta dalla sua parte – interviene facendo notare a Pùškin che se spedisce la lettera a van Heeckeren ne sarebbe seguito un duello, o addirittura due; ma, se spedisce anche la lettera a Benckendorff, il duello sarebbe stato impossibile: il livello di guardia non si sarebbe abbassato, anzi – secondo lui – si sarebbe alzato il livello di attenzione e sarebbero intervenuti i gendarmi e persino lo zar. Ma soprattutto sarebbero stati i suoi detrattori a prendersi gioco di lui, coprendolo di ridicolo, perché – lui, il decabrista, come lo chiamavano i suoi nemici in modo dispregiativo – si era messo a scrivere denunce alla polizia invece di saldare i conti da uomo d’onore.

   Sollogub, molto preoccupato, dopo aver ascoltato la lettura delle due lettere si congeda da Pùškin e si dirige verso la casa del principe Odoevskij per partecipare al consueto sabato letterario-musicale (tra i numerosi ospiti c’è anche un certo Michail Lermontov). Sollogub sa di trovarvi Vasilij Zukovskij, il "paterno" amico di Pùškin, educatore e scrittore, precettore dei figli dello zar, che ha sempre cercato, senza successo, di far riflettere il poeta, e che abbiamo visto all’opera come infaticabile mediatore. Sollogub lo mette subito al corrente di ciò che ha visto e sentito, e Zukovskij si precipita da Pùškin e lo convince a non spedire la lettera a Heeckeren.

   Il giorno dopo Zukovskij prega lo zar di intervenire con la sua autorità per fermare Pùškin, che è deciso a battersi per non perdere l’onore.

   Pùškin, quindi, decide di non spedire queste due lettere però non le distrugge, ma le ripone in un luogo sicuro, potevano infatti tornargli utili in seguito, perché lui di battersi in duello è sempre più convinto: la sua mente si è come invischiata in questa idea. Il poeta aveva scritto in un suo verso: "a volte, scesi di nascosto a visitare le valli degli uomini, i cherubini più discoli restano con le ali impigliate nei rovi". Ebbene, anche lui, come i cherubini più discoli, rimane impigliato nei rovi, e si farà molto male. Fra un po’ avremo modo di rileggere questo verso sui "cherubini più discoli" in un contesto di riflessione.

   Adesso noi, nella narrazione, dobbiamo fare dei salti, perché non possiamo raccontare tutte le circostanze che hanno portato alla celebrazione – anche se questo termine solenne è piuttosto contraddittorio – del duello. Chi vuole documentarsi per filo e per segno può naturalmente utilizzare Il bottone di Pùškin del quale noi, in definitiva, abbiamo solo citato – e citeremo – un parte minima, una esigua serie di frammenti.

   Dobbiamo però prendere in considerazione ancora alcuni momenti salienti prima di spostarci – in modo diacronico – al gennaio del 1837. Il primo momento saliente di cui ci occupiamo riguarda appunto lo zar Nicola I il quale, attraverso i servizi, è già al corrente – in linea generale – di tutta la faccenda. È opinione comune che allo zar desse piuttosto fastidio il fatto che quel francese corteggiasse Nàtal’ja Gonćaròva Pùškina – sarebbe piaciuto anche a lui poterla corteggiare – ma non poteva certamente né approvare né tanto meno chiudere un occhio su un duello: comunque il fatto che la polizia – che teneva costantemente d’occhio Pùškin – non sia intervenuta in questo duello, rimane uno dei misteri irrisolti di questa drammatica storia.

   Pùškin, proprio in relazione alla sfida che ha lanciato, viene chiamato in udienza dallo zar e l’intervento dello zar – come abbiamo detto – è stato anche sollecitato da Zukovskij. Leggiamo da Il bottone di Pùškin il resoconto e le riflessioni relative a questa udienza straordinaria, gliene aveva già concesso una dieci anni prima.

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Qualche minuto dopo le quindici del 23 novembre 1836, al termine della consueta passeggiata pomeridiana, Nicola I ricevette Pùškin nel suo gabinetto privato al palazzo Anićkov. Era la seconda volta che il sovrano concedeva al poeta un’udienza straordinaria.

...continua la lettura ...

   Il poeta, invece, fa finta di non avere più bisogno di un padrino, ma soprattutto è convinto di una cosa: vuole cambiare padrino perché Sollogub è troppo orientato verso la trattativa, la mediazione, la pacifica chiarificazione. Pensa che un padrino se lo potrà procurare all’ultimo momento, poco prima del duello, facendo affidamento su una persona amica ma non appartenente alla cerchia dei suoi conoscenti più stretti, i quali sono tutti decisi ad indurlo alla concordia piuttosto che allo scontro, ad indurlo a vivere la vita piuttosto che a "perdere" o a "togliere" la vita.

   Pùškin vive immerso nelle sue contraddizioni e mentre vive – come scrive in alcuni suoi famosi versi – si è però anche "invaghito della morte" e vive sentendo "aleggiare intorno a sé l’acre odore della rappresaglia. L’odore della rappresaglia lo inebria come una droga e insieme lo disgusta".

   Ma leggiamo la riflessione che contiene le citazioni tratte dalle Liriche di Pùškin che abbiamo riportato in quest’ultimo tratto del nostro itinerario, il quale ci porta a prendere in considerazione una parola non allettante, la parola "rappresaglia".

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Per la seconda volta in due settimane, dunque, Pùškin dovette ravvedersi, pentirsi della propria irruenza, tornare sui propri passi. Il suo doppio indietreggiare turba. Cosa lo fermò il 21 novembre? I giudiziosi argomenti di Zukovskij, certamente: lo scandalo che avrebbe travolto la famiglia, l’avvenire dei figli, la penosa condizione della cognata, la riprovazione e il dolore di Nicola I, ecc.

...continua la lettura ...

   La parola "rappresaglia" è una parola difficile da prendere in considerazione ed evoca in noi memorie funeste, drammatiche, tragiche. Quando pensiamo alla "rappresaglia" la nostra memoria evoca il ricordo del sacrificio di persone inermi, innocenti, indifese o sconfitte. Pùškin conosce la "rappresaglia" in tutta la gamma delle sue possibilità: l’ha subìta, la subisce e vorrebbe anche farla subire ad altri.

   Quali parole significative sono direttamente collegate alla parola "rappresaglia"? La "rappresaglia" è vendetta, è rivalsa, è punizione, è ritorsione, è rivincita, è reazione…(abbiamo fatto esperienza di queste parole-chiave soprattutto nel Percorso all’interno del territorio della "tragedia greca") e, nell’animo e nella mente di Pùškin queste parole trovano tutte una loro collocazione producendo una ricaduta negativa sui suoi comportamenti: Pùškin, in certi tratti, assomiglia ad Atreo e Tieste.

   Ma nella Pietroburgo di quest’epoca – l’epoca del "romanticismo galante" – la parola "rappresaglia" la troviamo soprattutto in stretto contatto con la parola "chiacchiericcio". Sottoporre una persona alla "rappresaglia del chiacchiericcio" è un modo di dire ricorrente nella Pietroburgo – ma anche nella Parigi, nella Londra, nella Berlino, nella Napoli dell’epoca – che corrisponde ad un modo di fare ricorrente. Pùškin – tanto per la sua notorietà di poeta, che è una situazione che suscita invidia, quanto per aver sposato una donna dalla bellezza inquietante, che è una situazione che suscita gelosia, ma soprattutto per aver spesso manifestato pubblicamente, con i gesti e con le parole (cadendo nel ridicolo), la volontà di compiere una carneficina, – è stato costantemente sottoposto, specialmente nell’ultima parte della sua vita, alla "rappresaglia del chiacchiericcio". E, in età romantica, il "chiacchiericcio" si dimostra un’arma letale per la creazione della situazione più temuta: cadere nel ridicolo. Il chiacchiericcio dà addito al pettegolezzo, alla maldicenza, ma dà anche addito soprattutto all’ironia, al sarcasmo, alla satira, alla beffa, allo scherno.

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Hai partecipato – in qualche occasione - al (alla rappresaglia del) chiacchiericcio, hai subìto – in qualche occasione - il (la rappresaglia del) chiacchiericcio?

Scrivi quattro righe in proposito…

   La "rappresaglia del chiacchiericcio" si svolge soprattutto a voce e il chiacchiericcio per via orale è andato perduto, per fortuna il chiacchiericcio trova anche una sua esplicitazione nella scrittura, in particolare nella "corrispondenza" e, di conseguenza, nel "romanzo": per fortuna ci sono i "romanzi" e gli scrittori – anche Pùškin nei suoi racconti – utilizzano spesso la "rappresaglia del chiacchiericcio" per rafforzare l’intreccio. La "corrispondenza" – per fortuna – ha conservato nel tempo la "rappresaglia del chiacchiericcio" che si è scatenata all’interno dell’avvenimento che chiamiamo la "fine di Pùškin" in cui non viene colpito solo Pùškin ma vengono colpiti, ironicamente, sarcasticamente, un po’ tutti i principali personaggi di questa tragedia. Chi legge Il bottone di Pùškin trova una vasta gamma di lettere che rappresentano bene il fenomeno della "rappresaglia del chiacchiericcio". Non è facile scegliere tra queste lettere. Leggiamo due esempi che riguardano il momento critico della fine di novembre del 1836: è apparentemente un momento di stallo, in cui però molti si aspettano il peggio. Sono due esempi in cui emerge meno la "rappresaglia" ed emergono di più le "ironiche voci cittadine" che registrano una situazione che, di per sé, come tutte le tragedie, contiene una profonda venatura comica. La prima lettera è scritta da Sophie Karamzina – la figlia della prima moglie, Ivanovna Protazova, di Nikolaj Karamzin – al fratellastro Andrei – il figlio della seconda moglie, Andreevna Kolyvanova, di Nikolaj Karamzin.

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Sophie Karamzina al fratellastro Andrej, Pietroburgo, [21 novembre 1836]:

«... Ho ancora una notizia singolare da darti, quella del matrimonio di cui ti parla mamma: hai indovinato? Tu conosci molto bene i due promessi sposi, ne abbiamo anche discusso insieme, ma mai seriamente: la condotta del giovane, per quanto compromettente fosse, comprometteva tuttavia una sola altra persona, giacché chi è che guarda un quadro ordinario accanto a una Madonna del Raffaello?

...continua la lettura ...

   La seconda lettera è scritta dalla contessa Sof’ja Bobrinskaja, intima amica dell’imperatrice, al marito, conte Aleksej Bobrinskij (detto il dolce), maestro di cerimonie, agronomo e facoltoso proprietario terriero, produttore di barbabietole e proprietario di fabbriche di zucchero. La contessa si dimostra una conoscitrice, assai informata, della cultura francese.

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Sophie Bobrinskaja al marito Aleksej, Pietroburgo, [25 novembre 1836]:

«Da che mondo è mondo non c’è mai stato uno scalpore simile a quello che fa vibrare l’aria in tutti i salotti di Pietroburgo. D’Anthès si sposa!! Ecco l’avvenimento che assorbe e stanca le cento bocche della sua fama. Sì, si sposa, e Madame de Sevigné gli avrebbe riversato addosso l’intero torrente di epiteti di cui un tempo gratificò il Lemuzot di ottima memoria! Sì, questo è un matrimonio deciso oggi che difficilmente avrà luogo domani.

...continua la lettura ...

   E per concludere citiamo ancora un pettegolezzo, legato al fatto che Pùškin era sempre senza soldi e pieno di debiti e quindi era costretto ad impegnarsi qualcosa, di solito qualcosa che apparteneva alla moglie. Il 25 novembre Pùškin impegnò da Šiškin, per 1200 rubli, uno scialle di cachemire della moglie (nero, con una larga frangia, poco usato). Molti dubitano, molti sono scettici, molti ironizzano, e Pùškin, addirittura, scommette che questo matrimonio – di cui insistentemente si parla e che tutti sanno dovrebbe essere un gesto "riparatore" di molte situazioni – non avverrà. E invece avviene, e alcuni protagonisti – sebbene non propriamente soddisfatti – si danno da fare perché si celebri soprattutto per cercare di evitare il duello che tutti temono, meno Pùškin. Per capire meglio in che cosa consiste questo "darsi da fare" per arrivare alla celebrazione del matrimonio tra Georges d’Anthès ed Ekaterina Gonćaròva, leggiamo un frammento.

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Solo a pochi intimi l’ambasciatore d’Olanda parlava del «senso di alta moralità che aveva portato il figlio a legarsi per tutta la vita pur di salvare la reputazione della donna che amava». In società, nascondendo la fatica e la tensione accumulate nei convulsi giorni delle trattative, soffocando dispetto e amarezza, si sforzava di apparire soddisfatto del prossimo matrimonio del figlio adottivo.

...continua la lettura ...

   Le voci cittadine, il popolo dei salotti, in questa tragedia, fa la parte del coro, e il coro, che tende ad amplificare la "rappresaglia del chiacchiericcio", è intenzionato a godersi fino in fondo il tragico spettacolo: le ire del Moro, che è il soprannome dato a Pùškin, e le guasconate del cavaliere francese, e i tremori di Natalie e gli sguardi gelosi di Catherine, e l’ambigua posizione di Aleksandrine nei confronti di Pùškin.

   A proposito: che rapporto ha Pùškin con la sua cognata intermedia? Girano molte chiacchiere a proposito del rapporto tra il poeta e la sua cognata intermedia Aleksandrine. Noi intercettiamo una chiacchiera alla quale è stato dato anche un titolo: la "storia del letto", ma leggiamo:

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

La vecchia domestica che un tempo aveva servito le sorelle Gonćaròv raccontò alla

Arapova ormai adulta un episodio rimasto impresso nella sua memoria: un giorno accortasi di aver perso la crocetta che portava al collo, Aleksandrina Gonćaròva cercò e fece cercare dappertutto l’oggetto a lei caro – invano. Finalmente, preparando per la notte il letto di Pùškin (Natal’ja Nikolaevna aveva partorito da poco e i due coniugi dormivano separati), un domestico vi trovò la crocetta smarrita.

...continua la lettura ...

   Queste chiacchiere costituiscono il divertimento della buona società. La buona società va a riferire agli uni quanto gli altri dicono e maledicono di loro, e moltiplica le occasioni in cui le due coppie – Pùškin e Natalie, e d’Anthès e Catherine – possano incontrarsi, e, a questo proposito si organizzano a bella posta balli e ricevimenti. Questo, ad un certo punto, diventa il passatempo preferito di Pietroburgo, ormai divisa in due fazioni (i pùškiniani e i d’Anthèsiani) che parteggiano per il loro beniamino come se fosse un gladiatore o un cavallo da corsa o un gallo da combattimento. Tutto ciò produce un pericoloso aumento di tensione. La sera dell’ultimo dell’anno, tra il 1836 e il 1837, Pùškin e sua moglie Natalie e d’Anthès con la sua fidanzata Catherine sono invitati a casa dai principi Vjazemskij che vorrebbero cogliere questa occasione di festa per creare la concordia. Ma per tutta la serata d’Anthès trascura la sua fidanzata Catherine e non stacca mai lo sguardo da Natalie e la invita ripetutamente a ballare e la intrattiene, per gran parte della durata della festa, facendola divertire. La faccia di Pùškin, ad un certo punto, diventa tremenda a vedersi per la collera, per la rabbia, per la voglia di vendetta.

   La contessa Stroganova, alla fine della festa, mentre si sta accomiatando dalla padrona di casa, sussurra con preoccupazione, nell’orecchio della principessa Vjazemskaja, una frase : "Mio Dio, fossi io sua moglie, avrei paura a tornare a casa con lui", a testimonianza che i protagonisti della tragedia hanno saputo dare spettacolo anche questa occasione. Le voci girano veloci, soprattutto attraverso la "corrispondenza", le chiacchiere aumentano, la tensione sale.

   Lo zar – in questi giorni di festa tra il 1836 e il 1837 – ha avuto l’influenza ed è ancora convalescente, quindi il 7 gennaio 1837, Nicola I compare solo per mezz’ora, da solo, al ballo della principessa Marija Grigor’evna Razumovskaja. Nella folla che gremisce il salone, Nicola, – tra decine e decine di signore e signorine – nota subito Natàl’ja e le si avvicina, rende il consueto omaggio al suo abbigliamento e soprattutto alla sua bellezza, e lei, naturalmente, si dimostra molto compiaciuta. Però, dopo questi convenevoli, lo zar cambia tono, si fa serio, e comincia a fare un discorso in cui la mette in guardia contro i rischi a cui quella bellezza inquietante la esponeva. Lo zar le ricorda che deve essere più cauta (deve recitare la parte di Tatiana?) e deve avere maggior cura della propria reputazione, tanto per se stessa, naturalmente, ma anche per la felicità e il benessere proprio marito, la cui "forsennata gelosia" è nota a tutti. Noi sappiamo che lo zar ha chiamato Pùškin in udienza il 23 novembre e probabilmente – sebbene, da uomo d’onore, capisca le sue ragioni – lo ha rimproverato per aver lanciato un sfida cruenta e lo ha invitato a recedere da questo suo proposito.

   Siccome Pùškin, pubblicamente, ha sempre giustificato e continua a giustificare il comportamento di Natàl’ja, addossando tutte le responsabilità a d’Anthès, è impensabile che Pùškin abbia chiesto all’imperatore di rimproverare Natàl’ja. Perché, allora, lo zar si mette a fare questa predica alla moglie di Pùškin in pubblico? Sembra quasi che, da una parte voglia prendersi a cuore e farsi carico dei problemi della vita privata di Pùškin, ma dall’altra lo voglia pubblicamente mettere alla berlina trattandolo come un uomo incapace di risolvere i suoi problemi famigliari. Si sospetta che lo zar voglia mettere in difficoltà Pùškin a bella posta: anche lui partecipa alla "rappresaglia del chiacchiericcio"?

   Molti, che si affollano attorno a Natàl’ja, ascoltano e registrano in modo preciso le parole dello zar, e le voci girano veloci, soprattutto attraverso la "corrispondenza", le chiacchiere aumentano, la tensione sale. Quella sera, nonostante si sia ripromesso di accompagnare dappertutto la moglie – ai balli, a teatro, a Corte – proprio perché voleva dimostrare che non teneva in alcun conto le volgari voci dei salotti, Pùškin non c’è…

   Quando, il giorno dopo, viene a sapere che lo zar ha discusso pubblicamente la sua vita privata con Natalie, e le ha tenuto, in mezzo alla sala gremita di ospiti, una virtuosa predica, Pùškin sente di aver toccato il fondo della vergogna e dell’umiliazione, e la tensione sale ancora di più.

   In questo clima di tensione, il 10 gennaio 1837, – nonostante i dubbi di tutti – viene celebrato (prima secondo il rito cattolico, poi secondo quello ortodosso) il matrimonio tra Georges d’Anthès ed Ekaterina Gonćaròva. Di questo matrimonio tutta Pietroburgo ha dubitato: anche la promessa sposa fino all’ultimo momento ha dubitato. Il conte e la contessa Stroganov, zii della sposa, le fanno da padrino e madrina. Il principe e la principessa di Butera sono i testimoni. Il rito cattolico viene celebrato, molto semplicemente, nella chiesa di Santa Caterina. Il rito ortodosso, quello più complesso e fastoso, viene celebrato nella cattedrale di Sant’Isacco e, nel registro dei matrimoni celebrati, il pope Nikolaj Rajkovskij annota che Ekaterina Gonćaròva ha ventisei anni: ne aveva invece ventinove, quattro più dello sposo (ulteriore mistero intorno ad un "matrimonio riparatore" mascherato da "matrimonio d’amore". E quante bugie si dicono davanti alle Sacre Icone!). Pùškin naturalmente è assente e ha proibito a Natal’ja Nikolaevna di prendere parte al ricevimento di nozze e le ha ordinato di tornare a casa subito dopo le cerimonie religiose: lei ubbidisce.

   Il 10 gennaio 1837 Pùškin perde molte copie dei suoi libri: infatti non soltanto con Sollogub aveva scommesso che quel matrimonio non avrebbe mai avuto luogo, ma con tante altre persone. D’Anthès con questo matrimonio, con il quale s’imparenta con Pùškin (diventano cognati), sembra aver vinto la partita davanti all’opinione pubblica, e in Pùškin la tensione sale alle stelle.

   Anche l’ambasciatore d’Olanda sembra aver vinto la sua partita e, dopo questo successo, mira a costruire la pace, almeno formale, tra d'Anthès e Pùškin: per salvare le apparenze, perché sui retroscena del tanto chiacchierato matrimonio scenda finalmente l’oblio. Da fonti riservate il barone sa che la notizia del duello, evitato per un soffio, ha provocato lo scontento di Nicola I e teme che lo zar informi il ministro degli esteri olandese.

   Subito dopo le nozze, spinto dal padre adottivo, d'Anthès scrive a Pùškin per comunicargli che ormai tutto si è chiarito, che è tempo di dimenticare il passato, che, essendo diventati parenti, devono volersi bene. Davanti a queste parole la rabbia di Pùškin diventa incontenibile e naturalmente non risponde.

   Il 14 gennaio il conte Stroganov (padrino di Ekaterina) festeggia gli sposi con un pranzo di gala: i personaggi di questa tragedia sono tutti presenti. Dopo l’ultima portata, quando, anche per effetto degli ottimi vini, gli spiriti sono più distesi, il barone Heeckeren si avvicina a Pùškin e, con tutta l’affabilità di cui è capace, stendendo le labbra nel più largo dei suoi sorrisi, gli dice che adesso, ne è certo, avrebbe cambiato atteggiamento nei confronti del figlio e spera che, d’ora in avanti, avrebbe trattato d’Anthès da parente, da cognato. Pùškin gli risponde seccamente che non intende avere alcun rapporto con d’Anthès, il quale, per precauzione, si tiene a debita distanza. Nonostante tutto però d’Anthès ed Ekaterina si recano molte volte in visita di cortesia a casa di Pùškin, li accoglie Natàl’ja con grande imbarazzo perché lui, tutte le volte che si presentano, non li riceve e si barrica nello studio.

   Allora d’Anthès scrive una seconda volta al cognato, ma Pùškin non apre neanche la lettera e la porta a Ivanovna Zagrjazskaja, la zia delle Gonćaròve, perché la restituisca al mittente. Per combinazione Pùškin, nell’appartamento della zia, incontra l’ambasciatore van Heeckeren al quale ìntima di consegnare al figlio la lettera perché lui si rifiuta di leggere ciò che scrive d’Anthès e non vuole mai più sentirlo nominare. Compiendo enormi sforzi per controllarsi, van Heeckeren obietta che non può accettare una lettera che non è sua. Pùškin, allora, gliela getta in faccia urlando: «La prenderai, mascalzone!». L’ambasciatore tace, non risponde, ingoia l’ennesima offesa, ma anche in lui la tensione sale, e in società comincia a lagnarsi, ormai apertamente, di quest’uomo che si comporta come un selvaggio degno delle sue origini africane, come un Otello furioso, come un uomo uscito di senno. Naturalmente queste affermazioni arrivano rapidamente alle orecchie di Pùškin, e la tensione sale.

   Ma l’ambasciatore non vuole cedere alla strategia della tensione e decide di fare un passo: decide, diplomaticamente, di andare a parlare con Pùškin sperando di poter pacatamente ragionare con lui. Il 25 gennaio il barone van Heeckeren si presenta al n. 12 della Mojka. Pùškin non lo lascia neppure entrare in casa, e questa volta l’ambasciatore non riesce a controllarsi: tra i due scoppia un violento alterco, è quello che Pùškin cerca per rilanciare la sua sfida. Noi non sappiamo che cosa si siano detti ma van Heeckeren si allontana molto contrariato non solo per il fatto di essere stato trattato male ma anche perché si accorge di aver avuto una cattiva idea, si rende conto di aver sbagliato mossa.

   Pùškin si chiude nello studio. Nello studio prende i fogli di carta azzurrina sui quali è scritta la lettera che – anche su consiglio degli amici – non aveva spedito il 21 novembre 1836: il testo della brutta copia di questa lettera lo conosciamo, è il primo brano che abbiamo letto questa sera. Pùškin non l’aveva spedita ma non l’aveva cestinata, l’aveva riposta in un luogo sicuro, e ora la rilegge attentamente e la riscrive, facendo solo qualche correzione, e infine la spedisce d’urgenza. Così, con l’invio di questa durissima lettera di sfida – nella quale Pùškin accusa il barone van Heeckeren di essere il mandante delle lettere anonime e accusa il cavaliere Georges d’Anthès di aver disonorato sua moglie – gli avvenimenti precipitano.

   La mattina del 26 gennaio il barone Jacob van Heeckeren riceve la lettera di Pùškin in cui il poeta lancia una sfida anche a lui e allora capisce che almeno un duello diventa inevitabile. Allora avverte il visconte d’Archiac, il padrino del figlio, e lo prega di recarsi da Pùškin, poi scrive a Pùškin affermando che vorrebbe essere lui a battersi ma, in quanto appartenente al corpo diplomatico, non può né approvare i duelli né tanto meno parteciparvi, lo informa inoltre che riceverà la visita del padrino di suo figlio, il visconte d’Archiac, perché suo figlio «non è un vigliacco ed essendo stato espressamente sfidato non si tirerà indietro ma si comporterà da uomo d’onore».

   D’Archiac avrebbe voluto conoscere il padrino di Pùškin per tentare, in extremis, una mediazione o un rinvio, purtroppo Sollogub è partito e Pùškin non ha più un padrino e avrebbe dovuto nominarne uno nuovo: D’Archiac capisce subito l’intenzione di Pùškin.

   Pùškin vuole nominare un padrino che non si dedichi a trattative ma che arrivi con lui direttamente sul posto al momento dello scontro, e infatti decide di contattare un suo ex compagno del liceo che era rientrato da poco a Pietroburgo e che aveva rincontrato ai primi di dicembre: il tenente colonnello dei genieri Kostantin Karlović Danzas. Possiamo leggere la cronaca di questo incontro.

LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Una sera, uscendo da teatro con Natalie e le due cognate, il «Pascià a tre code (soprannome dato a Pùškin da d’Anthès)» incontrò Konstantin Karlović Danzas, suo ex compagno al Liceo e ora tenente colonnello del Genio. I due amici si salutarono con cordialità e Danzas non mancò di congratularsi con Catherine per le prossime nozze.

...continua la lettura ...

   Attenzione: prima di tornare a Danzas, dobbiamo leggere subito il frammento successivo perché naturalmente ci sono coloro i quali – tanto amici quanto estranei – si dedicano al commento di queste affermazioni "arroganti" di Pùškin con un occhio di riguardo nei confronti di d’Anthès, che appare a molti come una vittima immolata. Costoro sottovalutano le conseguenze dello «sciagurato carattere passionale» del poeta: un po’ di cautela sarebbe stata necessaria ma il coro, senza prendere precauzioni, vuole partecipare con le sue voci, e i termini "tragici" – vittima, sacrificio – si moltiplicano imprudentemente.

LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

«Ma che vuole?» dicevano di Pùškin molte persone a lui vicine. «È impazzito! Fa il gradasso!». Il loro ragionamento era semplice: costringendo il troppo focoso spasimante della moglie a sposare «la brutta Gonćaròva», lo aveva umiliato, ridicolizzato; poteva dunque considerarsi pienamente soddisfatto. Così ragionarono anche alcuni estranei – «o il matrimonio in buona fede annullava ogni motivo di vendetta, o era un salvacondotto e costituiva dunque una punizione sufficiente»; così forse ragioneremmo anche noi se non conoscessimo «lo sciagurato carattere passionale» del poeta.

...continua la lettura ...

   (Non sia mai: Pùškin non sopporta l’idea che qualcuno gli freghi il palcoscenico!). Pùškin, quindi, pensa di rivolgersi a Danzas che era tornato da poco a Pietroburgo dal Caucaso dove aveva combattuto valorosamente contro i Turchi rimanendo anche ferito. Danzas mancava dalla città da molto tempo e, di conseguenza, era al di fuori da tutte queste questioni. E così, dopo una lunga marcia, siamo arrivati al 27 gennaio: il funesto giorno del duello. La mattina del 27 gennaio Pùškin, di ottimo umore, dopo colazione, scrive a Danzas pregandolo di raggiungerlo per una questione della massima importanza: Pùškin pensa di chiedere a Danzas di fargli da padrino, coinvolgendolo all’ultimo momento.

   A sua volta d’Archiac, il padrino di d’Anthès, scrive un biglietto a Pùškin per sapere chi sia il suo padrino in modo da incontrarlo e prendere accordi: lui spera ancora in una trattativa o in un rinvio. «È indispensabile – scrive D’Archiac a Pùškin – che io incontri il testimone che avrete scelto, e al più presto possibile. Fino a mezzogiorno resterò nel mio appartamento; spero di ricevere prima di quest’ora la persona che avrete la compiacenza di mandarmi».

   Pùškin non sa ancora se avrebbe avuto un padrino perché il povero Danzas, ancora ignaro di tutto, potrebbe anche rinunciare. Pùškin, quindi, per prendere tempo e per evitare che i padrini s’incontrino – difatti i padrini hanno il dovere di tentare, fino in fondo, una conciliazione – risponde subito a d’Archiac in modo risoluto e sprezzante per mettere in chiaro che, questa volta, non vuole trattative .

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Pùškin a d’Archiac, 27 gennaio 1837, [tra le 9.30 e le 10]:

«Signor visconte, non ho la minima intenzione di mettere a parte delle mie questioni famigliari i fannulloni pietroburghesi; mi oppongo dunque a qualsiasi trattativa fra i secondi. Il mio si presenterà con me solo sul luogo dell’incontro.

...continua la lettura ...

   Alle 11, senza lasciar trapelare nulla, Pùškin fa colazione con Natalie, Alexandrine, e i bambini. Si alza da tavola prima degli altri, comincia ad andare su e giù per la sala da pranzo: è «insolitamente allegro», canticchia, continua a guardare dalle finestre che danno sulla Mojka. Fuori la neve scintilla al sole.

   Finalmente vede che una slitta si ferma davanti al suo portone: è Danzas, con il braccio sinistro legato al collo per la fastidiosa ferita riportata sul campo di battaglia. Pùškin va alla porta, lo accoglie con gioia e sollievo, poi si ritira con lui nello studio. Gli spiega che deve battersi con d’Anthès quel giorno stesso, tra poche ore, non ha scelta e non ha ancora un padrino.

   Danzas rimane sconcertato quando il poeta gli chiede di fargli da padrino – questa novità non se l’aspettava – e comincia ad esitare, porta a pretesto il braccio dolorante, lo prega di interpellare altri amici: il favore che Pùškin gli chiede e per lui troppo triste. Lui può essere a sua disposizione per qualsiasi aiuto pratico, ma sul terreno dello scontro non se la sente di assisterlo. Pùškin non insiste, temporeggia, e nel frattempo lo incarica di andare a ritirare le pistole che ha già scelto, da tempo, nell’armeria di Kurakin e gli consegna il denaro necessario.

   Le pistole sono oggetti che costano cari, Pùškin è sempre al verde: dove ha preso i soldi per acquistarle? Il 24 gennaio Pùškin aveva impegnato da Šiškin l’argenteria da tavola del corredo della cognata Aleksandrina, e le aveva raccontato che doveva pagare urgentemente l’affitto, infatti avrebbe dovuto pagare i 1075 rubli del canone quadrimestrale d’affitto. Dall’argenteria di Aleksandrina aveva ricavato 2200 rubli, ed è con questo denaro – che ora consegna a Danzas – che paga le pistole: una copia di queste pistole sono in mostra al museo Pùškin.

   Infine, Pùškin e Danzas, concordano di rivedersi dopo un’ora. Pùškin teme che Danzas non acconsenta a fargli da padrino, allora esce di casa, noleggia una vettura e si fa portare dai fratelli Rosset: su uno di loro, soprattutto su Klementij, pensa di poter contare. Ma i fratelli Rosset non sono in casa, oppure non vogliono farsi trovare? Allora Pùškin rompe ogni indugio, si fa portare a casa di Danzas, che abita a poche centinaia di metri dai Rosset e lo prega di seguirlo all’ambasciata di Francia. Danzas lo segue, fiducioso che si possa trovare un compromesso.

   All’ambasciata di Francia, davanti a d’Archiac, Pùškin legge la lettera che ha scritto a van Heeckeren e aggiunge: «Adesso ho da dirvi soltanto che se la questione non si risolve oggi stesso, la prima volta che incentrerò un Heeckeren, padre o figlio, gli sputerò in faccia». Detto questo si rivolge a d’Archiac e dice: «Questo è il mio secondo». Poi si rivolge a Danzas chiedendogli: «Acconsentite?».

   Danzas, sempre più sbigottito, non sa che cosa rispondere, interviene allora d’Archiac a pregarlo di accettare: ha capito che Danzas è indeciso e spera di operare con lui, come aveva fatto con Sollogub, per ottenere almeno un rinvio. Danzas capisce la situazione e, suo malgrado, accetta l’incarico. Pùškin ringrazia, saluta e se ne torna a casa dove attenderà il suo padrino a cui concede un’ora per concordare le modalità.

   Danzas e d’Archiac si appartano per concordare le modalità del duello: non sappiamo che cosa si siano detti, però, capiamo il loro generoso intento perché mettono per iscritto, su un foglio, le condizioni del duello, in modo da avere un oggetto di trattativa, anche se si rendono conto che ormai è tardi e che tanto Pùškin, quanto d’Anthès, non faranno passi indietro.

   Un’ora dopo Danzas va a casa di Pùškin, ha con sé la custodia con le pistole e il foglio sul quale con d’Archiac ha messo per iscritto le condizioni del duello: prega Pùškin di leggerlo e di fare delle obiezioni, lui stesso avrebbe da fare delle obiezioni e vorrebbe iniziare una trattativa. Pùškin mangia la foglia e dichiara che questo foglio non lo vuole leggere: per lui va tutto bene, chiede a Danzas di comunicargli soltanto l’ora e il luogo. Lo sbigottito Danzas, non solo non è riuscito ad essere convincente ma, senza volerlo, rimane invischiato in questo affare. Considera la sua compromissione in questo fatto (che è un reato…) una gran brutta faccenda, ma, a questo punto, diventa difficile per lui tirarsi indietro, e, quasi meccanicamente – come succede a molti personaggi da romanzo – segue Pùškin.

   La "compromissione" è una situazione tipica nell’intreccio del "romanzo dell’800".

REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e scrittura:

Ti è mai capitato di rimanere invischiata\invischiato, di subire la compromissione in una situazione nella quale non volevi essere coinvolta, essere coinvolto?

Scrivi quattro righe in proposito…

   Pùškin si è preparato per l’occasione: si è fatto il bagno, si è aggiustato la barba, si è messo la biancheria pulita, e si è vestito per benino. Ha indossato anche una giacca nuova, una "marsina nera uscita da poco dalla sartoria", e dobbiamo leggere un frammento significativo in relazione a questo capo di abbigliamento: si sa che il tema dell’abbigliamento comprende anche i "bottoni".

 LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

Un giorno della seconda metà di gennaio Pùškin incontrò Vladimir Dal’, a cui chiese un racconto per «Il Contemporaneo». Aveva simpatia per quel giovane medico e scrittore innamorato della viva lingua popolare; gli piacevano il suo ricchissimo repertorio di proverbi e modi di dire, il calepino (dizionario; Vladimir Dal’ è autore del "Dizionario della viva lingua granderussa" alla cui stesura si dedica su suggerimento di Pùškin) in cui annotava le espressioni più pittoresche, la capacità di mimare idiomi e accenti della più remota, ignota Russia.

...continua la lettura ...

   Quando Pùškin esce di casa sopra la giacca si mette un vecchio indumento a cui lui è  particolarmente affezionato: indossa una bekeš’. Una bekeš’ è un indumento invernale: è un cappotto tutto foderato di pelliccia. Però appena si affaccia sulle scale si accorge che – nonostante sia una bella giornata di sole – comincia a far freddo, e allora teme di non essere coperto abbastanza, teme di tremare nel momento in cui, puntando, bisogna avere le mano ferma. Allora si toglie la bekeš’ e ordina, a malincuore, al vecchio cameriere di portatagli la pelliccia lunga di orso.Che cos’ha di particolare questo vecchio cappotto al quale Pùškin è affezionato? Questo particolare ce lo svela un frammento (l’ultimo di questa convulsa serata) che dobbiamo leggere.

LEGERE MULTUM….

Serena Vitale, Il bottone di Pùškin (1995)

D’inverno, negli ultimi anni, (Pùškin) passeggiava per la prospettiva Nevskij con una tuba un po’ lisa e una lunga bekeš’ (Bekeš’ o bekesa: sopravveste invernale maschile bordata e internamente rivestita di pelliccia. Prese il nome dal nobile ungherese Gàspàr Békés, valoroso condottiero e celebre dandy dell’epoca di Istvàn Bàtory) anch’essa segnata dal tempo. Poiché si trattava del beniamino delle Muse, del poeta prediletto dai cieli, sguardi curiosi lo seguivano a lungo. Quelli più attenti scoprivano con stupore che dietro, all’altezza della vita, lì dove la stoffa si stringe in grosse pieghe, alla bekeš’ di Pùškin mancava un bottone.

   Con questo frammento, nel libro che stiamo utilizzando, inizia un capitolo molto interessante sul significato – o sui tentativi di dare un significato – al fatto che Pùškin ostenta quel particolare. Perché Pùškin ostenta questo particolare: la mancanza di un bottone dalla sua bekeš’? Che cosa voleva dimostrare: che nessuno (soprattutto Natalja, ma Natalja non aveva mai attaccato un bottone in vita sua…) si prendeva cura di lui? Andate voi a leggere, a completare la lettura… qui, nel nostro Percorso, non abbiamo tempo per farlo.

   Attenzione però: questo è solo il primo motivo per cui, il libro che stiamo utilizzando, s’intitola: Il bottone di Pùškin. C’è un altro motivo: c’è un altro bottone! Ed è di questo altro bottone – non di un bottone mancante, questa volta, ma di un bottone presente – che noi ci dobbiamo occupare.

   Mancano dieci minuti alle quattro pomeridiane quando Pùškin e Danzas salgono sulla slitta che li attende in strada. Vanno sul posto, e sono già un po’ in ritardo. Volete forse mancare? Ormai anche noi, come Danzas, siamo invischiati in questa "mitica" faccenda e dobbiamo andare fino in fondo.

   Nel sogno Pùškin mi ha detto con voce accorata e commossa (era perfino umile): «Ma perché mi vuoi far morire questa settimana? Proprio ora che è arrivata la primavera. Per favore, lasciami vivere ancora una settimana!». Che cosa gli dovevo rispondere? Ho promesso e le promesse (didattiche) si devono mantenere: e poi a forza di "evocarlo" chissà che non escano anche i suoi numeri? Ma, per arricchirsi in intelligenza non serve vincere. L’arricchimento intellettuale si acquisisce, un passo dopo l’altro, sui Percorsi della Scuola, anche su questo itinerario, gelato, che conduce alla "fine di Pùškin", quindi… Accorrete, la Scuola è qui!

 

 

 

Lezione del: 
Venerdì, Maggio 6, 2005