Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 16-17-18 ottobre 2013
Morte di Alarico
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE
SI SENTE, IN PARTENZA, L’INFLUSSO DETERMINATO
DALL’IMPLOSIONE DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE ...
La scorsa settimana abbiamo dato inizio a questo Percorso di studio cominciando a celebrare il tradizionale e ripetitivo "rituale della partenza". Questa celebrazione non si è ancora conclusa e non c’è viaggio – sia di andata [poreìa] che di ritorno [nostos] – che non inizi con la partenza. Non si può viaggiare [tanto realmente quanto virtualmente] eliminando l’azione del "partire". E perché, tradizionalmente, nella Storia dell’Umanità, si parte [spesse volte allo sbaraglio]? Rinfreschiamoci la memoria in proposito.
Le persone – dalla notte dei tempi – partono [si mettono in viaggio] per alcuni motivi fondamentali.
Si parte per "migrare": per motivi di sostentamento e di sopravvivenza, e questo motivo è legato all’idea del "lavoro", della cura materiale, e uno dei motivi dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente è legato al fenomeno della migrazione di popolazioni da est verso ovest.
Si parte per "conoscere": per motivi di curiosità e di apprendimento, e questo motivo è legato all’idea dello "studio", della cura intellettuale.
Si parte per "andare in pellegrinaggio [nel senso più ampio del termine: dal verbo "perègere", "per-attraverso" - "ager-i campi", "camminare fuori dall’abitato, entrare a far parte del paesaggio naturale"]: per motivi legati al mito, al rito, alla cerimonia, al racconto, e questo motivo è collegato all’idea della "riflessione", della cura spirituale o ideale.
Si parte, quindi, per migrare, per conoscere, per andare in pellegrinaggio: tre motivi di carattere antropologico, più uno – e lo abbiamo sempre ricordato nei nostri Percorsi [nel celebrare il rituale della partenza] – di carattere più psicologico.
Si parte per fare l’esperienza dello "spaesamento". Lo "spaesamento" è un’esperienza che ci fa uscire dall’abituale, dalle nostre consuetudini, e ci espone di fronte all’insolito. E questa è un’esperienza che sicuramente abbiamo provato e che merita di essere celebrata con la scrittura: quando sentiamo di trovarci fuori dall’abituale, dalla consuetudine e di fronte all’insolito, allora, siamo in viaggio. Lo "spaesamento" da viaggio è una situazione culturale propulsiva che fa nascere nella persona il desiderio di ricordare, di documentare, di descrivere i momenti di un’esperienza insolita. Lo "spaesamento" sollecita la memoria, la memoria produce il racconto e il racconto genera la scrittura [e la scrittura mette in moto le azioni dell’apprendimento]. "Spaesarsi" è utile, e ciò che abbiamo detto in ragione dello "spaesamento" dato dal viaggio vero e proprio vale anche e soprattutto per l’esperienza di un viaggio intellettuale che si compone di itinerari culturali strettamente legati all’esercizio della scrittura e della lettura. Quindi c’è una proposta di scrittura che – come ogni anno – è d’obbligo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Avete fatto un viaggio quest’estate: dove?... Perché, con quale motivazione, avete fatto questo viaggio?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Qualunque tipo di viaggio s’intraprenda, di questa esperienza rimane sempre un forte ricordo ravvivato dagli oggetti che, immancabilmente, portiamo con noi, ebbene, che cosa resta del viaggio di studio al quale molte e molti di voi hanno partecipato lo scorso anno scolastico [2012-2013]? Del viaggio dello scorso anno scolastico rimane un segno, un’immagine molto interessante: rimane la forma che voi, attraverso le vostre preferenze – scegliendo su due cataloghi di parole contenute nel tradizionale questionario di fine viaggio [ricordate?] – avete dato al territorio [il territorio della "sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica"] che abbiamo attraversato nel corso del viaggio che si è concluso ai primi di giugno. Questa forma la osserveremo fra poco.
La scorsa settimana – celebrando la prima fase del tradizionale rituale della partenza – ci siamo ritrovate e ritrovati in un luogo posto nei pressi di un vasto paesaggio intellettuale [il primo grande scenario dell’Epoca alto-medioevale che dobbiamo visitare]: questo punto di raccolta è caratterizzato [ricordate?] dalla presenza di due significative parole-chiave: "implosione" e "amore".
Il termine "implosione" [come abbiamo studiato la scorsa settimana preparando lo zaino] è relativo a quella lunga e complessa fase storica [e la parte finale la racconteremo a grandi linee] che porta alla "caduta" dell’Impero romano d’Occidente: questa "caduta" non è determinata da un’esplosione ma da una lenta forma di compressione che schiaccia inesorabilmente le Istituzioni dello Stato romano fino a renderle inefficaci [vuote].
Sappiamo che, dal punto dove ci troviamo ora, il panorama che abbiamo di fronte [la scenografia d’ingresso sul palcoscenico dell’alto-medioevo] si compone di due grandi quadri: c’è il quadro della dottrina del Cristianesimo che si sta sovrapponendo a tutte le altre culture dell’Ecumene e c’è quello del progetto educativo del Neoplatonismo che cerca di difendere la sua identità laica [la scorsa settimana - mentre preparavamo lo zaino - abbiamo inventariato le caratteristiche di questi due quadri che hanno preso forma mentre attraversavamo, nello scorso anno scolastico, il territorio della "sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica"]. Questi due significativi apparati culturali [l’evento evangelico e il movimento neoplatonico] costituiscono, come sappiamo, la base su cui poggiano le fondamenta dell’edificio medioevale e, pur rimanendo ben distinti tra loro, si sovrappongono e condividono un catalogo di idee comuni che può essere sintetizzato in una parola sola [ma pesante, perché dotata di un’insostenibile leggerezza] che, all’ingresso del territorio della "sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale", risulta essere la più dirompente di tutte: la parola "amore" [anche in contrasto con l’ondata di odio che la crisi scatena su tutti i fronti]. Questa parola si presenta, in questo momento, – tanto nel pensiero cristiano ["ama il prossimo per ricambiare l’amore di Dio"] quanto in quello neoplatonico ["segui la via dell’amore solidale per rientrare in te stesso e risalire all’Uno"] – con un ampio ventaglio di significati: affetto, attrazione, predilezione, ardore, solidarietà, benevolenza.
Tra queste due parole [che caratterizzano il punto da cui stiamo per partire], "implosione" e "amore", c’è un legame perché se l’implosione è una spinta che fa rompere, infrangere, frantumare qualunque parete divisoria, l’amore è certamente una potente forza implosiva, ma questa affermazione impone una riflessione.
Pensiamo all’amore, di solito, come se fosse una forza esplosiva [dobbiamo, però, fare attenzione a non confonderlo con l’odio] e il ventaglio di significati che questa parola contiene ci deve far considerare il fatto che nell’amore c’è la deflagrazione che frantuma le pareti separatorie ma il fenomeno amoroso vero e proprio si manifesta nelle macerie prodotte dall’implosione: l’amore è la forza implosiva [è il fuoco] che, quando inevitabilmente perde la sua energia, trova comunque la sua ragion d’essere, la sua essenza solidale, nelle rovine, nei resti che rimangono [l’amore è ciò che resta del fuoco]. "L’odio "esplode" e non può che generare rovine foriere di rovine, mentre l’amore "implode" e lascia il tempo per seminare tra le rovine dell’implosione un granello che germina lentamente, matura tardi, ma procura un beneficio necessario che ha l’aspetto di una benedetta abbondanza [Sandor Màrai, Le braci]".
A questo proposito [sulla scia di questa non facile riflessione che abbiamo fatto sul rapporto tra l’implosione e l’amore] la scorsa settimana abbiamo cominciato a muoverci [nell’ambito del tradizionale rituale della partenza] utilizzando un veicolo utile per procedere su un Percorso come il nostro in funzione della didattica della lettura e della scrittura. Questo veicolo, già lo sapete, è il breve-romanzo intitolato Che cosa fa vivere le persone? scritto, nel 1881, da Leone Tolstòj con uno stile particolare, uno stile diretto, difficile da tradurre ma molto efficace e, soprattutto, funzionale all’obiettivo educativo che lo scrittore si è dato. Tolstòj – così come ha fatto quando ha scritto I quattro libri di lettura per gli alunni della Scuola che ha fondato a Jasnaja Poljana per istruire i figli dei suoi contadini ai quali dona le terre di sua proprietà – rielabora questa breve opera, sulla base di una leggenda, di un racconto di veglia. Lo scrittore vuole far riflettere la lettrice e il lettore sulla necessità di coltivare i valori dell’Umanesimo, in particolare l’amore solidale e, inoltre, vuole ribadire che la Verità, la quale corrisponde all’Amore, si manifesta nella saggezza popolare e trova posto nelle leggende e nei racconti della tradizione legati alla cultura [la coltura] contadina e, quindi, per avvalorare questo fatto, decide – e lo abbiamo constatato la scorsa settimana – di far combaciare la sua narrazione [alla quale dà un tocco di realismo, di realismo magico] con una serie di citazioni "canoniche" provenienti dalla Prima Lettera di Giovanni il cui argomento, come sappiamo è l’Amore con tutta la sua forza implosivi. La Prima Lettera di Giovanni appartiene, come sapete, al gruppo delle cosiddette "Lettere cattoliche "[alla Chiesa Universale]: sette scritti [ne avete sfogliato i testi? Siete sempre in tempo per fare questo esercizio] entrati nel "canone" tra il IV e il V secolo [nel periodo contemporaneo al momento della nostra partenza].
La scorsa settimana abbiamo già letto la prima parte di questo racconto nel quale capita che un povero calzolaio, Semën, deve andare in paese per riscuotere il denaro di alcuni lavori che ha fatto in modo da poter comperare le pelli per confezionare una nuova pelliccia perché quella che lui e la moglie usano a turno è ormai inservibile. Dopo aver concluso nulla [non ha riscosso, non ha comprato le pelli, ha solo bevuto qualche bicchierino per consolarsi e scaldarsi] mentre torna verso casa incontra un giovane tutto nudo – siamo in inverno – appoggiato al muro di una cappella e, dopo aver un poco esitato, decide di aiutare questa persona sconosciuta, di coprirlo e di portarlo a casa sua [nella sua isba] dove la moglie, Matrëna, che lo sta aspettando preoccupata, li riceve molto indispettita ma poi, anche lei, dopo un’animata conversazione con il marito e dopo aver osservato il sorriso buono e gentile di questo giovane misterioso, si convince che questa persona debba essere aiutata, debba essere accolta. Leggiamo:
LEGERE MULTUM….
Lev Tolstòj, Che cosa fa vivere le persone?
Al mattino Semën si svegliò. I bambini dormono, la moglie è andata dai vicini a chiedere in prestito il pane. C’era lì soltanto il pellegrino di ieri, con indosso i vecchi calzoni e la camicia seduto sulla panca, e guardava in alto. E il viso l’ha più luminoso di ieri.
E dice Semën: «Be’, caro mio: la pancia vuole il pane, e il corpo nudo vuole i vestiti. Campare bisogna. Tu che lavoro sai fare?».
«Io non so fare niente».
Si stupì Semën e dice: «Be’, purché ci sia la buona volontà. Le persone imparano a fare tutto».
«Le persone lavorano, e anch’io lavorerò».
«Com’è che ti chiami?».
«Michaìl».
«Be’, Michajla, se non vuoi dire niente di te, sono fatti tuoi, ma campare bisogna. Farai il lavoro che ti dirò io, e io ti darò da mangiare».
«Ti salvi il Signore, imparerò. Mostrami cosa devo fare».
Semën prese un filo, se lo avvolse su un dito e cominciò a fargli un capo.
«Non è mica difficile, sta’ a vedere …».
Lo guardò, Michajla, si avvolse anche lui un filo sulle dita, e imparò subito, e fece anche lui il capo al suo filo.
Gli mostrò, Semën, come si faceva a scaldare il cuoio. Anche stavolta Michajla capì subito. Il padrone gli mostrò anche come si torce la setola, e anche questo Michajla lo capì subito. Ogni lavoro che Semën gli mostrava, lui lo capiva subito, e il terzo giorno cominciò a lavorare come se avesse cucito stivali per tutta la vita. Lavorava senza smettere mai un momento, e mangiava poco; quando lasciava il lavoro, taceva e guardava sempre in alto. Non usciva mai, non diceva mai una parola di troppo, non scherzava, non rideva. L’avevano visto sorridere soltanto una volta, quella prima sera, quando la baba gli aveva dato da cenare. …
Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana chiuse il suo cerchio un anno intero. E Michajla viveva sempre lì da Semën, e lavorava. E si sparse la voce che nessuno sapesse far stivali tanto belli e tanto forti, come quelli che faceva Michajla, il lavorante di Semën, e da tutto il circondario cominciò a venir gente da Semën a farsi fare gli stivali, e anche da lontano ne vennero, e Semën cominciava a metter da parte un po’ di soldi. Una volta, d’inverno, Semën era seduto a lavorare, insieme a Michajla, quand’ecco che s’avvicina all’isba una slitta coperta, con le portiere, e con un tiro a tre, coi sonagli. Guardarono dalla finestra: la slitta si fermò davanti all’isba, dalla serpa balzò giù un giovinotto, aprì la portiera. E scende un barin, in pelliccia.
Uscì dalla slitta, andò alla casa di Semën, salì sul porticato. Matrëna corse subito a spalancargli la porta. Il barin si chinò, entrò nell’isba, si raddrizzò, e ci mancava poco che arrivasse al soffitto con la testa, e riempiva lui da solo tutto un angolo.
Semën si alzò, si inchinò e guardò stupito il barin. Lui di persone così non ne aveva mai nemmeno viste. Semën era tutto secco secco e Michajla era magrolino, e Matrëna era tutta asciutta di corpo che neanche un cucciolino di cane; quello là invece pareva un uomo di un altro mondo: il muso tutto rosso, irrorato di sangue, il collo come un toro, pareva fatto di bronzo, pareva. Sbuffò, il barin, si tolse la pelliccia, si sedette sulla panca e dice: «Chi è il padrone di casa, il calzolaio, qua?».
Si fece avanti Semën, e dice: «Io, signoria». Gridò il barin al suo giovanotto: «Ehi, Fed’ka, portami qua la merce». Arrivò di corsa il giovanotto, e portò un involto.
Il barin lo prese, quell’involto, lo mise sul tavolo. «Aprilo» dice. Il giovanotto lo aprì. Puntò il dito, il barin, su quella merce di calzoleria, e dice a Semën: «Be’, allora stammi a sentire, calzolaio. La vedi questa merce qua?». «La vedo, signoria» dice. «Ma lo capisci tu che merce è questa qua?». Semën tastò la merce, e dice: «È merce buona». «Altroché se è buona! Su, scemo, non l’hai mai nemmeno vista una roba così. È roba tedesca, venti rubli l’ho pagata».
Si intimidì Semën, dice: «E dove potremmo vederne noi di roba così».
«Ecco, appunto. Sei capace tu, con questa merce qua, di farmi degli stivali per il piede mio?». «Sì che si può, vostra signoria». Si mise a gridargli contro il barin: «Altro che "si può", "si può"! Tu devi capirlo bene per chi è che li devi fare, e che merce è questa qua. Degli stivali devi farmi, che li possa portare un anno intero, e non si stortino e non si scuciano. Se sei capace, mettitici, taglia la merce che ti do, ma se non sei capace, non mettertici nemmeno e non tagliar niente. Ti avverto fin da ora, sentimi bene: che se mi si dovessero scucire o stortare prima che sia passato un anno, io ti farò mettere in galera, a te; e se invece non si stoneranno e non si scuciranno prima che sia passato un anno, ti darò dieci rubli per il lavoro».
Si intimidì Semën, e non sapeva cosa dire. Si voltò a guardare Michajla. Gli dette di gomito e bisbigliò: «Be’, fratello, e allora?». Annuì, Michajla: "Prendilo, il lavoro", voleva dire. Semën gli dette retta, a Michajla, e disse che avrebbe fatto degli stivali che per un anno intero non si stortassero e non si scucissero.
Il barin chiamò il suo giovanotto, gli comandò di togliergli lo stivale dal piede sinistro, allungò il piede. «Pigliami la misura!».
Semën cucì una carta di 10 verški [Il veršòk equivaleva a cm.4,4], la piegò, si mise in ginocchio, si nettò ben bene la mano sul grembiule, per non sporcare la calza del barin, e cominciò a pigliargli la misura. Misurò la suola, poi misurò il calcagno; cominciò a misurare il polpaccio, ma i lembi della carta non arrivavano a congiungersi. Quel gambone al polpaccio era grosso come un tronco.
«Bada, eh, che non mi stringa il gambale». Semën si mise a cucire altra carta. E intanto se ne sta lì seduto, il barin, fruga con le dita dentro la calza, e guarda le persone che sono nell’isba. Vide Michajla. «E quello» dice «chi è quello che hai lì?».
«Lui è il mio mastro, è lui che li farà gli stivali».
«Bada allora» dice il barin a Michajla «ricordati, cucili che li si possa portare un anno». Si voltò anche Semën, a guardare Michajla; e vide che Michajla non lo guarda nemmeno il barin, ma si è messo a fissare nell’angolo dietro al barin, come se stesse osservando attentamente qualcuno lì. Guardò, guardò Michajla e poi a un tratto sorrise e si illuminò tutto. «Be’, scemo, cos’hai da far vedere i denti? Faresti meglio a guardare che sia pronto per tempo, il lavoro». E dice Michajla: «Sarà pronto per quando bisogna». «Ecco, appunto». Si infilò lo stivale, il barin, poi la pelliccia, se la chiuse e andò alla porta. Ma si dimenticò di chinarsi, batté la testa contro l’architrave. Imprecò, il barin, si fregò la testa con la mano, si sedette nella slitta e partì. Partì il barin, e Semën disse: «È duro come la pietra quello lì. Neanche col mazzapicchio lo butti giù, uno così. Ha scassato la trave con la testa, e non s’è fatto niente». E Matrëna dice: «Con la vita che fa, per forza che è così grande e grosso. Un bullone come quello lì neanche la morte se lo piglia più». …
Questo breve romanzo, del quale fra un po’ riprenderemo la lettura, è stato scelto anche [tra un certo numero di testi] sotto l’influsso dei risultati del "questionario" di fine Percorso: osserviamo adesso quale forma abbiamo dato al territorio che abbiamo attraversato lo scorso anno scolastico, il territorio della "sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica". È un ulteriore esercizio propedeutico utile per prendere il passo e per portare a termine il tradizionale rituale della partenza.
Il questionario di fine Percorso dell’anno scolastico 2012-2013 ci ha presentato due blocchi di parole-chiave.
Nel primo gruppo c’erano ventitre parole-chiave che fanno riferimento alla cultura del territorio della "sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica" e sulle quali abbiamo imbastito una serie di significative riflessioni: queste parole rispecchiano il processo di integrazione tra la cultura classica greco-romana e l’evento evangelico. Questo avvenimento – questa importante operazione di integrazione culturale – ha favorito la nascita di una nuova epoca il cui clima intellettuale ha portato alla composizione di Opere [dalla Letteratura dei Vangeli alla Letteratura neoplatonica] fondamentali per la Storia del Pensiero Umano, che continuano, tutt’oggi, a condizionare il nostro modo di guardare la realtà.
Mentre il secondo gruppo era formato da cinque coppie di parole che compongono il catalogo con cui termina l’Età antica: questo catalogo ci ha permesso, nel viaggio scorso, di esercitarci a dipanare molti interessanti intrecci filologici che hanno favorito i nostri investimenti in intelligenza.
E adesso, sulle tabelle, osserviamo il risultato delle nostre scelte operate sul questionario al quale hanno risposto 171 persone.
Il primo riquadro riporta – secondo la grandezza dei caratteri – la quantità di consensi che hanno avuto le parole che abbiamo incontrato sul territorio della "sapienza poetica e filosofica di stampo tardo-antico" e che indicano i termini dell’integrazione tra la cultura greco-romana e l’evento evangelico. Questo fenomeno ha dato forma alle strutture intellettuali su cui si appoggia l’edificio medioevale.
la giustizia la libertà
l’inquietudine il rinnovamento
la paura l’essenzialità il silenzio la malora il sopruso
il tempo la clemenza la sintesi il fanatismo l’eloquenza il rimorso la preda il ritorno la confessione
la dismissione il peccato la sentenza l’epigramma
[ la colonna]
La parola "giustizia" è quella che ha ricevuto più consensi, seguita a breve distanza dalla parola "libertà": una bella coppia di parole! Segue un’altra interessante coppia di parole: "inquietudine" e "rinnovamento" Le prime quattro parole, di stampo tardo-antico, che sono state scelte – "giustizia", "libertà", "inquietudine" e "rinnovamento" – danno forma ad un quadro che potrebbe illustrare non solo il punto d’ingresso nel territorio alto-medioevale ma anche fotografare un’aspirazione nei confronti della realtà odierna. Queste quattro parole sono seguite dal termine "paura". Poi si distinguono le parole "essenzialità, silenzio, malora e sopruso". Poi le scelte hanno cominciato a diluirsi con le parole "tempo, clemenza, sintesi, fanatismo". Mentre le parole "eloquenza, rimorso, preda, ritorno, confessione, dismissione, peccato, sentenza, epigramma" sono state scelte molto poco. E, infine, la parola "colonna" è stata messa tra parentesi per sottolineare il fatto che non è stata scelta da nessuno.
Il secondo riquadro riporta – secondo la grandezza dei caratteri – la quantità di consensi che hanno avuto le coppie di parole che compongono il catalogo con cui termina l’Età antica.
la morte e la risurrezione
il sonno e il sogno l’amore e l’odio l’esilio e la patria
la malattia e il tormento
La coppia di parole "la morte e la risurrezione" è quella che ha ricevuto il maggior numero di consensi. Seguono, a breve distanza tra loro, le coppie "il sonno e il sogno" e "l’amore e l’odio". Poi le scelte hanno cominciato a diluirsi per la coppia "l’esilio e la patria" e, infine, la coppia "la malattia e il tormento" è stata scelta poco, tuttavia è significativo il fatto che, in questo secondo gruppo di parole, tutte sono state toccate dalla scelta.
Questi due quadri raffigurano la nostra riflessione collettiva sul pensiero della "sapienza poetica e filosofica dell’Età tardo-antica" quindi indicano un punto di arrivo su cui dobbiamo riflettere ma, soprattutto, le cinque parole che nel primo gruppo – la giustizia, la libertà, l’inquietudine, il rinnovamento, la paura – sono state scelte di più fanno anche da battistrada per il nostro viaggio che sta per avere inizio nel territorio della "sapienza poetica e filosofica dell’Età alto-medioevale".
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Oggi, di queste parole – la giustizia, la libertà, l’inquietudine, il rinnovamento, la paura - quale scegliereste per prima?...
Scrivetela...
I riquadri che illustrano i risultati del questionario – di cui abbiamo preso visione – hanno determinato nella nostra mente un’immagine o una serie d’immagini utili per concludere la celebrazione del tradizionale rituale della partenza. E allora, con queste immagini nella mente, accingiamoci a partire.
Più di una parola del questionario di cui abbiamo analizzato i risultati si addice al racconto che stiamo leggendo il cui testo è il veicolo che ci sta facendo entrare nel territorio dell’Epoca alto-medioevale, a cominciare dalla coppia di parole più scelta: "la morte e la risurrezione".
Procediamo nella lettura del romanzo breve Che cosa fa vivere le persone?
LEGERE MULTUM….
Lev Tolstòj, Che cosa fa vivere le persone?
E dice Semën a Michajla: «Per prenderlo, il lavoro l’abbiamo preso, ma speriamo che non ce ne venga un guaio, adesso. La roba è cara, e quel barin è uno che si arrabbia. Speriamo di non fare sbagli. Mettitici tu, tu hai gli occhi più acuti, e adesso ci hai anche la mano più di me, eccoti la misura. Taglia, e io cucirò le tomaie».
Non disubbidì Michajla, prese la merce del barin, la stese sul tavolo, la piegò in due, prese il trincetto e cominciò a tagliare.
Matrëna gli venne vicino, guardò come Michajla tagliava, e si stupì di quel che Michajla stava facendo. Si era abituata ormai, Matrëna, al mestiere del calzolaio, e vede che Michajla non la sta tagliando da calzolaio, la merce del barin, ma la taglia in tondo. Volle dirglielo, Matrëna, ma pensa tra sé: "Mah, si vede che non ho capito come si cuciono gli stivali a un barin; si vede che Michajla ne sa più di me, non mi ci devo impicciare".
Tagliò, Michajla, poi prese il filo e cominciò a cucire, ma non da calzolaio, a punto doppio, ma a un punto solo, come si cuciono le ciabatte.
Si stupì anche di questo, Matrëna, ma anche stavolta non volle impicciarsi. Intanto Michajla continuava a cucire. Venne mezzogiorno, Semën si alzò, guarda e vede che Michajla con la merce del barin ha fatto un paio di ciabatte. Rimase a bocca aperta, Semën. "Come" pensa, "Michajla è già un anno che vive qua, e non si è mai sbagliato in niente, e adesso mi ha combinato questo guaio? Il barin aveva ordinato degli stivali lunghi, tutti d’un pezzo e con la tramezza, e lui ha fatto un paio di ciabatte senza suola, e ha rovinato la merce. Come faccio adesso con il barin? Una merce così non la trovi mica".
E dice a Michajla: «Ma cosa mi hai fatto, dice, testone mio che sei? mi hai rovinato! Il barin aveva ordinato degli stivali, e tu cosa gli hai cucito?».
Aveva appena cominciato a rimproverare Michajla che si sentì picchiare l’anello della porta, qualcuno bussava. Guardarono dalla finestra: era arrivato qualcuno a cavallo, stava legando il cavallo. Aprirono: entra quello stesso giovanotto che era col barin.
«Salve!». «Salve. Che ti serve?».
«È la bàrynja che mi ha mandato a dirvi degli stivali». «A dir cosa, degli stivali?».
«Eh, a dir cosa! Di stivali il barin non ne ha più bisogno. Ha comandato di vivere a lungo, il barin». «Ma che dici!».
«Quando siamo andati via di qua non è arrivato nemmeno a casa, è morto dentro la slitta. A casa, appena ho fermato sono corsi subito i servi per farlo scendere, e lui è scivolato fuori per metà, come un sacco, era già bell’e stecchito, e stava lì morto, che han fatto fin fatica a tirarlo fuori dalla slitta. E la bàrynja mi ha mandato qua, e dice: "Digli al calzolaio, che è venuto da voi un barin, ha ordinato degli stivali e ha lasciato la merce, digli: che degli stivali non c’è più bisogno, adesso, e che da quella merce lì gli cuciano il più presto possibile un paio di ciabatte da morto. E fermati lì e aspetta che le abbiano finite, e poi portale qua, le ciabatte". Ed eccomi qua». Michajla prese dalla sedia i ritagli della merce, li arrotolò a tubo, prese anche le ciabatte, che erano già pronte, le batté una contro l’altra, le lucidò con il grembiule e le dette al giovanotto. Il giovanotto prese quelle ciabatte.
«Addio, padroni! Un’ora buona!». …
Secondo la tradizione si entrava nel Regno dei morti a piedi nudi, ma anche in questo caso – sebbene la morte sia una livella – le differenze di classe si facevano sentire e quindi ai ricchi, ai potenti, ai re e agli imperatori [e, in seguito, persino ai papi] si permetteva di entrare in ciabatte all’altro mondo. Come fa Michajla – che orami è diventato un eccezionale calzolaio – ad essere anche così preveggente? Si tratta di un personaggio misterioso, dal nome emblematico.
Gli imperatori romani, a cominciare da Augusto, entrano [a imitazione dei sovrani assoluti delle monarchie ellenistiche] nel Regno dei morti in ciabatte [Augusto sul letto di morte indossa un paio di ciabatte trapuntate in oro] e anche i re delle popolazioni germaniche [sebbene il re germanico, könig, non sia una figura stabile ma venga eletto in caso di guerra e per guidare la migrazione] entrano nell’aldilà in ciabatte [il re visigoto Alarico - tra poco lo incontreremo - viene sepolto con tutta la sua armatura, a cavallo, ma in ciabatte di cuoio di bufala]: questo per ribadire il concetto che nel Regno dei morti [in qualunque Regno dei morti] vige la regola de "l’eterno riposo"? Nel corso della Storia dei costumi la ciabatta ha cambiato più volte ruolo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
A voi che cosa fa venire in mente la parola “ciabatta”?…
Potete scrivere quattro righe in proposito…
Noi adesso più che di un paio di ciabatte abbiamo bisogno di un paio di scarpe da trekking perché, dopo aver preso il passo, dobbiamo scarpinare su un terreno assai accidentato [sono tutti saliscendi].
Abbiamo detto che anche gli imperatori romani, a cominciare da Augusto, entrano nel Regno dei morti in ciabate. Ma, ora che abbiamo preso il passo, procediamo con ordine. Dal punto di vista politico: quando ha inizio e come si svolge, a grandi linee, l’ultima fase dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente e, quindi, quando e come, dal punto di vista storico, si può cominciare a parlare di Età alto-medioevale?
L’ultima fase [dal 395 al 476] dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente ha inizio con la decisione presa da Teodosio [nel 395] di dividere il territorio governato dai Romani in due entità statali indipendenti: inizia con questo atto l’alto-medioevo? [È una delle più di cinquecento ipotesi - tutte accreditate - sulla data di nascita del Medioevo].
L’imperatore Teodosio [379-395] si dichiara cristiano e nel 380 ritiene, come ha fatto Costantino per rafforzare il suo potere, di dover elevare il Cristianesimo a religione ufficiale dello Stato con l’Editto di Tessalonica, un documento che contiene anche la condanna dei culti pagani e sancisce il primato della Chiesa di Roma. Teodosio è l’ultimo imperatore che governa da solo tutto l’Impero perché, prima di morire, divide il territorio in due entità statali e ne assegna una parte per ciascuno ai suoi due figli: a Onorio [di tredici anni] lascia l’Occidente con capitale Milano [comprendente l’Italia, la Gallia, la penisola Iberica, la parte occidentale della penisola Balcanica, l’Africa settentrionale fino alla Cirenaica esclusa] e ad Arcadio [di diciotto anni] lascia l’Oriente con capitale Costantinopoli [comprendente le province asiatiche - Mesia, Macedonia, Ellade, Ionia, Cilicia, Cappadocia, Arabia -, la parte orientale della penisola Balcanica, e in Africa la Cirenaica e l’Egitto].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Non è difficile trovare – sull’enciclopedia, su un atlante storico, sulla rete – una carta che raffigura la divisione dell’Impero sotto Teodosio… Cercatela e andate ad osservare dentro a quali confini sono racchiuse le due nuove entità statali…
Da questo momento [siamo nel 395] le due parti dell’Impero non si ricongiungono più e la storia dell’una si svolge in modo indipendente da quella dell’altra.
Onorio [l’imperatore d’Occidente], essendo ancora un ragazzo, viene posto sotto la tutela del valoroso generale Stilicone [di origine vandala], mentre Arcadio [l’imperatore d’Oriente] viene tutelato dal magistrato Rufino. L’Impero d’Occidente avrà solo ottant’anni di vita agitata [fino al 476] mentre quello d’Oriente, o bizantino, durerà un millennio in più.
Lungo tutti i confini nord-orientali premono le popolazioni germaniche anche perché sono incalzate dal movimento verso occidente di altre popolazioni, dagli Slavi e da popoli asiatici [i Mongoli] capaci di muoversi, a cavallo, con grande rapidità. Come sappiamo gli Imperatori – già da quelli della dinastia degli Antonini [ne abbiamo parlato la scorsa settimana] – hanno iniziato a patteggiare con i Germani concedendo loro di stanziarsi nelle province di confine purché prestassero il servizio militare,:questo fatto provoca la quasi completa germanizzazione dell’esercito e, in breve tempo, tutti generali dell’esercito imperiale sono di stirpe germanica.
Nei confronti delle popolazioni germaniche c’era da tempo, da parte dei Romani – tra il I secolo a.C. e il II d.C. –, una conoscenza dei loro usi e dei loro costumi: Giulio Cesare [100-44 a.C.] li aveva descritti nel De bello gallico [La guerra gallica]; lo storico Tacito [56-116 circa] in un’opera intitolata Germania [De origine et situ Germanorum], a proposito della religione dei Germani, scrive una pagina nella quale vuole mettere in evidenza che le tradizioni di queste popolazioni si avvicinano a quelle dei Romani, sebbene si trovino [afferma Tacito con supponenza] ancora in uno stadio primitivo di civiltà rispetto al mondo latino. Ma leggiamo questo frammento tratto dalla Germania di Tacito: «La religione delle popolazioni germaniche ricorda l’antica religione greca e anche i nostri antichi culti. Adorano i fenomeni naturali personificati. Il dio supremo si chiama Wotan o Odino, ed è il re dell’aria e delle tempeste, al quale sacrificano anche vittime umane. Non hanno templi, ma consacrano agli dèi le selve e i boschi. La civiltà greco-romana è uscita da secoli da questo stadio primitivo».
La popolazione germanica dei Visigoti [i Goti dell’ovest] è la prima a muoversi in massa perché spaventata dalla paurosa avanzata degli Unni: un popolo [di solito i libri aggiungono l’aggettivo superlativo "ferocissimo"] di stirpe mongolica proveniente dalle steppe dell’Asia centrale. I Visigoti – impauriti dall’avanzata degli Unni – varcano il Danubio [nel 378] ed entrano in Dacia e poi in Mesia: l’imperatore Teodosio li ferma e consente loro, facendo un patto, di rimanere lì [sul territorio della Mesia, l’odierna Bulgaria] come alleati [foederati] dello Stato romano. Qualche anno dopo, nel 402, durante il regno di Onorio – approfittando delle fibrillazioni date dalla divisione dell’Impero e dall’acuirsi del fenomeno dell’implosione dello Stato romano – i Visigoti invadono l’Italia [puntano su Milano, ma soprattutto su Roma]: li comanda un giovane e ambizioso re che si chiama Alarico. Ma i Visigoti vengono affrontati e sconfitti due volte [a Pollenzo e a Verona] dal generale Stilicone che li costringe a rivarcare le Alpi mentre il giovane imperatore Onorio [di cui Stilicone è il tutore] fugge da Milano e si rifugia a Ravenna. Ravenna diventa la nuova capitale dell’Impero d’Occidente perché più sicura essendo vicino al mare e circondata da paludi [inizia in questo momento l’alto-medioevo? È un’altra delle più di cinquecento ipotesi - tutte accreditate - sulla data di nascita del Medioevo]. Stilicone stipula un accordo con Alarico, una sorta di patto di alleanza, anche perché si sono messi in movimento pure gli Ostrogoti [i Goti dell’est] e – nonostante che Visigoti e Ostrogoti, da buoni parenti, non vadano d’accordo – teme che possano colpire contemporaneamente. Nel 406, gli Ostrogoti, comandati da Radagasio, penetrano fin nell’Italia centrale e Stilicone riesce a fermarli nei pressi di Fiesole e li sconfigge in una cruenta battaglia.
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“La Battaglia di Fiesole e il tesoro di Radagasio” è il titolo di un saggio storico nel quale gli autori, Enio e Lorenzo Pecchioni, analizzano questo avvenimento: i protagonisti, le modalità, i simbolismi lasciati impressi nelle tradizioni popolari di Fiesole e della vicina Montereggi…
Richiedete in biblioteca questo saggio e sfogliatelo…
Due anni dopo Stilicone viene accusato dai suoi nemici di corte di cospirare contro l’Imperatore e viene fatto uccidere a Ravenna da Onorio, che era geloso del suo prestigio, il 22 agosto del 408. La morte di Stilicone accelera i tempi dell’implosione dell’Impero d’Occidente, e ne approfitta Alarico, il quale, nel 410, rinnova l’invasione dell’Italia [non c’è più nessuno in grado di fermarlo], arriva fino a Roma, la espugna e la saccheggia. I Romani [ma anche i Milanesi e i Ravennati] maledicono Onorio che ha fatto uccidere Stilicone il quale risulta essere uno dei pochi personaggi positivi di questa convulsa fase storica.
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Nella navata centrale della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano si può vedere un sarcofago paleocristiano in marmo chiamato “Sarcofago di Stilicone”… Non è credibile che, per il luogo e il modo in cui fu ucciso, il generale Stilicone sia stato sepolto a Milano: c’è però una tradizione popolare che vuol vedere in questo monumento la sua tomba… Se mettete in ricerca sulla rete il nome “Sarcofago di Silicone” potete osservare quest’opera e leggerne la descrizione…
Inoltre, nel Museo del Tesoro del Duomo di Monza, è conservato un bellissimo bassorilievo in avorio della fine del IV secolo raffigurante Stilicone, sua moglie Serena e il figlio Eucherio: mettendo in ricerca questi dati sulla rete potete osservare questa preziosa opera e leggerne la descrizione…
Dal tempo dei Galli, per ottocento anni, nessun esercito aveva più violato l’Urbe, la Città Eterna, e quindi il saccheggio di Roma da parte dei Visigoti di Alarico nel 410 è un avvenimento che ha una risonanza enorme: sembrava che la fine del mondo fosse vicina e persino Agostino di Ippona [che rincontreremo al termine di questo itinerario] prende spunto da questo fatto di grande rilevanza per scrivere un’opera molto importante [ne riparleremo fra un po’: abbiamo un appuntamento con Agostino].
Nella notte del 24 agosto del 410 Alarico entra con il suo esercito in Roma, passando per Porta Salaria. Dopo tre giorni di saccheggi i Visigoti abbandonano l’Urbe e, comunque, il re aveva dato l’ordine di non uccidere le persone che si erano rifugiate nelle chiese, e questa è la prima volta che, sotto l’impulso di un sentimento religioso che s’ispira all’amore solidale predicato dal Cristianesimo, viene ad introdursi una specie di sacra immunità: al vescovo di Roma, Innocenzo I [papa dal 401 al 417], – che si trovava a Ravenna a chiedere spiegazioni sulla morte di Stilicone – i Visigoti [che erano pagani e parteggiavano per l’Arianesimo] riconoscono un’autorità morale [l’unica vera autorità che riconoscono], e quando, di lì a breve, Innocenzo torna a Roma: è lui che inizia ad organizzare la riparazione dei danni provocati dalla violenta scorreria visigota e a rimettere in funzione lo stato sociale per garantire la sopravvivenza ad una popolazione ormai abbandonata dalle Istituzioni imperiali.
Dopo il saccheggio di Roma Alarico si dirige verso il Sud della penisola: il suo progetto è quello di passare in Sicilia e poi di occupare i ricchi territori dell’Africa settentrionale [un florido granaio] ma, nei pressi di Cosenza [in Calabria, ai piedi della foresta della Sila, la grande riserva arborea dell’Impero romano], il re si ammala [probabilmente di malaria] e, senza aver ancora compiuto quarant’anni, muore.
La presenza di Alarico sul territorio che abbiamo cominciato ad attraversare ci mette di fronte ad un intreccio filologico [il primo del nostro viaggio] che non possiamo non dipanare [troppi personaggi importanti se ne avrebbero a male], perché intorno alla morte di Alarico e alla sua sepoltura [in ciabatte di pelle di bufala] è nata una leggenda. Narra la leggenda che i Visigoti, per evitare che la tomba del loro re fosse violata dai Romani, deviarono il fiume Busento nei pressi di Cosenza tramite un grande lavoro di ingegneria idraulica e seppellirono Alarico nel letto del fiume con tutte le sue armi, il suo cavallo ed il suo tesoro, poi ripristinarono il normale corso delle acque e gli schiavi, usati per deviare temporaneamente il corso del fiume, vennero tutti uccisi affinché non potessero rivelare a nessuno il segreto. Molti sono stati nei secoli i progetti di ricerca archeologica che hanno sfidato la leggenda: nessuno di questi ha, finora, dato risultati concreti se non quello di ipotizzare una serie di punti, lungo il corso del Busento nei pressi di Cosenza, dell’eventuale regale sepoltura visigota.
Dove non è ancora arrivata l’archeologia, però, è arrivata da tempo la letteratura. La leggenda di Alarico e della sua sepoltura nel Busento ha ispirato un poeta e drammaturgo tedesco [nato ad Ansbach il 24 ottobre 1796, la prossima settimana è il suo 217° compleanno]: il conte August von Platen che ha scritto, in stile romantico, la poesia intitolata La tomba nel Busento [Das Grab im Busento] tradotta poi in italiano da Giosuè Carducci [1835-1907].
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Sul fiume Busento e sul tema della ricerca archeologica della tomba di Alarico ci sono in rete molti siti attraverso i quali si possono vedere tante immagini interessanti: dedicatevi a navigare in proposito…
August von Platen è un personaggio originale: ha anche ispirato Thomas Mann che ha pensato a von Platen quando ha creato il protagonista, il musicista Gustav von Aschenbach, del romanzo La morte a Venezia [1912] perché come il personaggio letterario di Mann, von Platen muore di colera in Italia, a Siracusa, il 5 dicembre 1835, dove si era attardato perché si era invaghito di un bellissimo ragazzo.
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Per saperne di più sul singolare personaggio e sull’opera di August von Platen – Siracusa gli ha dedicato una via, un bel monumento funebre – potete consultare l’enciclopedia e la rete…
E ora non ci resta che dipanare definitivamente questo intreccio filologico leggendo il testo de La tomba nel Busento tradotto in italiano da Giosuè Carducci: il tono di questa ballata, che narra in modo epico un avvenimento funebre, è tuttavia dotato di una, seppur malinconica, ironica leggerezza.
LEGERE MULTUM….
Giosuè Carducci, La tomba nel Busento
[traduzione di Das Grab im Busento di August von Platen]
Cupi a notte canti suonano da Cosenza su ‘l Busento,
cupo il fiume li rimormora dal suo gorgo sonnolento.
Su e giù pe ‘l fiume passano e ripassano ombre lente:
Alarico i Goti piangono, il gran morto di lor gente.
Ahi sì presto e da la patria così lungi avrà il riposo,
mentre ancor bionda per gli ómeri va la chioma al poderoso!
Del Busento ecco si schierano su le sponde i Goti a pruova,
e dal corso usato il piegano dischiudendo una via nuova.
Dove l’onde pria muggivano cavan, cavano la terra;
e profondo il corpo calano, a cavallo, armato in guerra.
Lui di terra anche ricoprono e gli arnesi d’òr lucenti:
de l’eroe crescan su l’umida fossa l’erbe de i torrenti!
Poi, ridotto a i noti tramiti, il Busento lasciò l’onde
per l’antico letto valide spumeggiar tra le due sponde.
Cantò allora un coro d’uomini: - Dormi, o re, ne la tua gloria!
Man romana mai non vìoli la tua tomba e la memoria!
Cantò, e lungo il canto udivasi per le schiere gote errare:
Recal tu, Busento rapido, recal tu da mare a mare.
Sulla sepoltura di Alarico nel Busento resta il mistero, mentre non ci sono dubbi sul fatto che il re visigoto sia stato sepolto in ciabatte di pelle di bufala e, con questa affermazione, siamo tornate e tornati alle ciabatte che ha ben confezionato l’ormai provetto calzolaio Michajla che è anche preveggente. E questo ritorno [questo "nostos nostos" o questa "epistrophe epistrophé"] ci dà la possibilità di concludere la lettura del romanzo-breve Che cosa fa vivere le persone?.
Tolstòj nella sua narrazione rielabora [come sappiamo] una leggenda della tradizione contadina sul tema de "l’amor di Dio" e inserisce nel racconto elementi provenienti dalla Letteratura dei Vangeli [dalla Prima Lettera di Giovanni, un tema che abbiamo studiato la scorsa settimana] e – nel discorso programmatico che fa pronunciare al misterioso personaggio di Michajla [che sta per rivelare la sua natura ultraterrena] include una serie di riflessioni tipiche del pensiero di Agostino di Tagaste, vescovo di Ippona [detto Sant’Agostino] contenute nelle Confessioni e ne La città di Dio [De civitate Dei].
Agostino si pone le stesse tre domande che Tolstòj – attento lettore delle opere agostiniane [Confessioni, De civitate Dei] – pone a se stesso attraverso il personaggio di Michajla: che cosa vi è nell’intimo degli esseri umani? Che cosa non è dato agli esseri umani? Che cosa fa vivere le persone? Michajla [per mezzo della penna di Tolstòj] trova delle risposte a questi quesiti nell’esperienza umana che sta facendo e sono le stesse risposte che Agostino aveva elaborato.
Agostino [e siamo rimasti d’accordo con lui che lo avremmo incontrato all’inizio di questo viaggio perché non aveva gradito, a giugno, che noi terminassimo il Percorso dell’Età tardo-antica con l’esposizione dei temi più importanti del suo pensiero ma avrebbe preferito dare inizio a questo viaggio, che stiamo per compiere, sul territorio dell’Età alto-medioevale e, quindi, di buon grado, lo accontentiamo: è con il pensiero di Agostino che inizia l’Età medioevale? È una delle più di cinquecento ipotesi - tutte accreditate - sulla data di nascita del Medioevo] è coinvolto profondamente nella riflessione sul tema dell’amore [tanto dell’amore umano quanto dell’amore divino] – la parola-chiave "amore", in relazione con la parola "implosione", ha dato forma, come sappiamo, al nostro punto di partenza – e Agostino analizza in profondità questo aspetto della vita umana sotto tutte le forme possibili, ed è molto significativa la distinzione che fa tra il "desiderio di possedere un oggetto [la concupiscenza, l’istinto di possesso che ci allontana dall’Idea del Bene]" e l’affetto consapevole [che è un esercizio sul terreno della conoscenza]: dobbiamo imparare [scrive Agostino] a coltivare l’Idea di amare nel senso dell’Eros platonico [il pensiero di Agostino ha come base la filosofia neoplatonica, le Enneadi di Plotino], e l’Amore platonico [l’Eros] corrisponde al desiderio di conoscenza che è l’elemento depositario dell’essenza del piacere [l’essenza del piacere non sta nel possedere ma nel conoscere] . Agostino sostiene che quando si ama con animo puro [coltivando l’idea del Bene, del Bello e del Giusto] tutto è possibile, e l’erotismo [il necessario soddisfacimento del desiderio di conoscenza] è una cosa buona: «Ama e fa quello che vuoi», scrive Agostino [tanto nelle Confessioni che nel De civitate Dei] per sostenere che, quando si coltiva l’idea del Bene, del Bello e del Giusto, qualunque cosa si faccia è buona, e questa affermazione ha sempre suscitato, nei secoli, un grande dibattito.
Tolstòj dà un’anima al racconto che ora terminiamo di leggere, inserendo queste riflessioni agostiniane che costituiscono la chiave di lettura più interessante di questo romanzo-breve, nel nostro veicolo di partenza.
LEGERE MULTUM….
Lev Tolstòj, Che cosa fa vivere le persone?
Passò un altro anno, e poi altri due, ed era già il sesto anno che Michajla viveva da Semën. Viveva come prima. Non andava da nessuna parte, non diceva mai niente di troppo e in tutto quel tempo aveva sorriso soltanto due volte: una volta, quando la baba gli aveva dato da cenare, e l’altra volta, al barin. E Semën non si saziava mai della gioia di star lì a guardare il suo lavorante. E non gli domandava più di dove fosse; di una cosa soltanto aveva paura, che Michajla lo potesse lasciare.
Una volta erano seduti in casa. La padrona stava mettendo le pentole nella stufa, e i ragazzi correvano sulle panche, e guardavano dalle finestre. Semën sta cucendo davanti a una finestra, e Michajla è accanto all’altra finestra, che sta martellando un tacco. Uno dei bambini corse sulla panca da Michajla, gli si appoggiò alla spalla e guarda dalla finestra.
«Zio Michajla, guarda un po’, una mercantessa con le figlie, vuoi vedere che è da noi che viene. E una delle figlie è zoppa».
Appena il bambino ebbe detto così, Michajla lasciò il lavoro, si volse verso la finestra, e guarda fuori. E si stupì, Semën. Di solito Michajla non guardava mai fuori, adesso invece restava lì incollato alla finestra e guardava fisso qualcosa. Dette un’occhiata anche Semën, dalla finestra; e vede che sulla destra c’è una donna che viene verso casa sua, ed è vestita elegante, e tiene per mano due bambine che hanno indosso le loro belle pelliccette, e in testa degli scialli di lana grossa, rabescati. Le bambine sono proprio due gocce d’acqua, non si riesce a distinguerle. Solo che una aveva la gambina sinistra rovinata, e zoppicava.
La donna salì sul porticato, entrò nell’andito, tastò la porta, trovò la maniglia e aprì. Fece passare per prime le due bambine ed entrò nell’isba. «Salve, padroni!»
«Ma prego, benvenute. Che vi occorre?»
La donna si sedette al tavolo. Le sue bambine le si strinsero alle ginocchia, a sbirciare stupite le persone che c’eran lì.
«Eh, son qua a far fare le scarpine di cuoio alle mie bambine, per la primavera». «Come no, si può. Non ne abbiamo mai fatte di così piccine, ma tutto si può fare. Le si può fare con la tramezza, o magari di pelle rovesciata, con la tela. Eccolo qua il mio mastro, Michajla». E si volta Semën, verso Michajla, e vede: Michajla ha lasciato il lavoro, e se ne sta lì fermo, e non stacca lo sguardo dalle bambine.
E si stupì, Semën, di Michajla. Sì, le bambine son proprio belle, pensa Semën: con gli occhietti neri, paffute, coi guancini rosei, e anche le pelliccette e gli scialli son belli, eppure non riesce a capire, Semën, perché mai Michajla s’è messo a fissarle a quel modo, pareva quasi che le conoscesse.
Si stupì Semën, e intanto cominciò a ragionare con la donna - ad accordarsi sul prezzo. Si accordarono, lui tirò fuori la carta per la misura. La donna prese sulle ginocchia la zoppina e dice: «Ecco, a questa prendile due misure, per il piedino zoppo fa’ una scarpa, e per quello giusto fanne tre. Loro due hanno i piedini uguali identici. Sono gemelle».
Semën prese la misura e dice, accennando alla zoppina: «Ma com’è successo? È una bambina tanto bella. Cos’è, è nata così?».
«No, la mamma gliel’ha schiacciata». Si intromise Matrëna, che voleva sapere di chi fosse quella donna e di chi le bambine, e dice: «Ma com’è, non sei mica tu la madre?».
«Non gli son madre e neanche parente, cara la mia padrona, niente siamo io e loro, sono adottive». «Non son figlie tue, e gli vuoi tanto bene!». «E come si fa a non volergli bene, gliel’ho dato io il latte a tutte e due, dal petto mio. L’avevo un bambino, ma se l’è ripreso Iddio, e perfino a lui non gli volevo tanto bene come ne voglio a queste». «Ma di chi è che sono?».
Si mise a chiacchierare la donna e cominciò a raccontare: «Sarà stato un sei anni fa» dice, «in capo a una settimana padre e madre gli morirono, a queste due orfanelle: il padre glielo avevamo seppellito di martedì, e di venerdì gli morì la madre. Da tre giorni avevan perso il padre, pure la madre non ci rimase con loro neanche un giorno in più. Io a quel tempo facevo la contadina, con il marito mio. Eravamo vicini di casa con loro, proprio cortile a cortile. Il loro padre era un mužìk di quelli soli, era nel bosco a lavorare. E un albero che stavano abbattendo gli era cascato addosso, e l’aveva preso proprio in mezzo e tutti gli intestini gli aveva schiacciato. Fecero appena in tempo a portarlo a casa, che rese l’anima a Dio, e la sua baba quella stessa settimana partorì due gemelle, queste due bambine qui. Poveri com’erano, e poi soli, non ci aveva nessuno la baba - né una vecchia, né una ragazza, nessuno proprio. Partorì da sola, e da sola morì.
«Io ero andata a far visita alla mia vicina al mattino, entro nell’isba e lei poveretta era già gelida. Quando era morta era caduta su una bambina. Questa qua, appunto, e gli ha storpiato la gamba. Venne gente, la lavarono, la misero tutta in ordine, le fecero la bara, e la seppellirono. Eh, era tutta brava gente. E le bambine però erano rimaste sole. Che farne? E io tra le babe ero l’unica che aveva un bambino. Il mio primogenito, era l’ottava settimana che gli davo il latte. Così le presi io, per il momento. I mužikì si riunirono, e pensarono, pensarono cosa farne delle bambine, e mi dicono: "Tu, Mar’ja, per il momento tienle da te le bambine, e dacci il tempo, che troveremo cosa fare". E io gli detti il petto a quella sana, e quest’altra, invece, storpiata com’era, non stavo nemmeno lì a darle da mangiare: non pensavo che sarebbe rimasta viva. Poi però penso, ma perché farla morir di fame quest’anima d’angelo? Così ho avuto compassione anche di questa qua. Ho cominciato a darle il latte, e così il mio e queste altre due, tre ne ho nutriti, col petto mio! Ero giovane, avevo la forza, e poi anche il mangiare era buono. E di latte ne avevo nel petto che Dio ne mandava, si inondavano tutti e tre, proprio. Così ne allattavo due insieme, e intanto la terza è lì che aspetta. Appena se ne staccava una, prendevo su la terza. E così ha voluto Dio, che queste due le ho svezzate, il mio invece al secondo anno l’ho seppellito. E poi Dio non me ne ha dati più, di bambini. Di soldi invece ne abbiamo fatti. E così adesso viviamo qua al mulino, dal mercante. Lo stipendio è grosso, si vive bene. Ma bambini non ne vengono. E come farei a vivere così da sola, se non ci fossero queste due bambine! Come faccio a non volergli bene! Loro due per me son come la cera per la candela, proprio».
E con un braccio la donna strinse a sé la bambina zoppa, e intanto con l’altra mano si terse le lacrime dalle guance. E Matrëna sospirò, e dice: «Si vede proprio che mica lo dicono per niente il proverbio: senza padre e madre ce la si fa a campare, ma senza l’amor di Dio non si campa».
Parlarono così ancora un poco tra loro, e poi la donna si alzò per andar via; la accompagnarono alla porta i padroni di casa, e si volsero verso Michajla. E lui se ne stava lì, con le mani sulle ginocchia, e guardava in alto, sorrideva.
Gli si avvicinò Semën: «Eh, ma cos’è che hai» dice, «Michajla!».
Si alzò Michajla, dalla panca, mise in un canto il suo lavoro, si tolse il grembiule, si inchinò al padrone e alla padrona e dice: «Perdonatemi, padroni. Dio mi ha perdonato. Perdonatemi anche voi». E il padrone vede che da Michajla viene una luce. E si alzò, Semën, si inchinò a Michajla e gli disse: «Lo vedo, Michajla, che tu non sei un uomo come tutti gli altri, e non ti posso trattenere, e non posso farti domande. Dimmi soltanto una cosa: perché quando ti ho trovato e ti ho portato qui in casa, tu avevi la faccia cupa, e quando la baba ti ha dato la cena, tu le hai sorriso e da allora sei diventato più luminoso? E poi, quando quel barin ci stava ordinando gli stivali, tu hai sorriso un’altra volta e da allora sei diventato ancora più luminoso? E adesso, quando la donna ha portato qua le bambine, tu hai sorriso per la terza volta e ti sei illuminato tutto. Dimmi, Michajla, perché da te viene questa luce e perché hai sorriso tre volte?».
E disse Michajla: «Da me viene questa luce, perché io ero punito, e adesso Dio mi ha perdonato. E ho sorriso tre volte perché dovevo conoscere tre parole di Dio. E le ho conosciute, adesso, le parole di Dio; una parola l’ho saputa quando tua moglie ha avuto pietà di me, e perciò ho sorriso la prima volta. Un’altra parola l’ho saputa, quando il riccone ci stava ordinando gli stivali, e ho sorriso per la seconda volta; e adesso, quando ho visto le bambine, ho conosciuta l’ultima, la terza parola, e ho sorriso per la terza volta».
E disse Semën: «Dimmi, Michajla, per cosa ti ha punito Dio e quali sono quelle parole, perché io lo sappia». E disse Michajla: «Dio mi ha punito perché gli avevo disobbedito. Io ero un angelo in cielo e ho disobbedito a Dio. Ero un angelo in cielo, e il Signore mi aveva mandato a togliere l’anima a una donna. Io volai sulla terra, e vedo che la donna è distesa lì da sola, è malata, ha partorito due gemelle. Le bambine si muovevano lì vicino alla madre, e la madre non riusciva a prendersele al petto. Mi vide la donna, capì che Dio mi aveva mandato a toglierle l’anima, e si mise a piangere, e dice: "Angelo di Dio! Hanno appena sepolto mio marito, è rimasto schiacciato da un albero nel bosco. Non ho né sorelle, né zia, né nonna, nessuno che possa crescere le mie due orfane. Non prendere la mia anima poveretta, lascia che sia io a dar da bere e da mangiare ai miei figli, a metterli in piedi! Senza padre e madre non possono vivere, i bambini!". E detti ascolto alla madre, le misi una bambina sul petto, le misi l’altra su un braccio e salii dal Signore in cielo. Arrivai volando dal Signore e dico: "Non ho potuto toglierle l’anima, a quella donna che ha appena partorito. Il padre è morto schiacciato da un albero, la madre ha partorito due gemelle e prega che non le si tolga l’anima, dice: - Lascia che sia io a dar da bere e da mangiare ai miei figli, a metterli in piedi. Senza padre e madre i bambini non possono vivere -". E disse il Signore: "Va’ a togliere l’anima a quella donna, e conoscerai tre parole: conoscerai quel che c’è negli esseri umani, e quel che agli esseri umani non è dato, e cosa fa vivere le persone. Quando l’avrai saputo, tornerai in cielo". Io tornai in volo sulla terra e tolsi l’anima alla donna. «Le caddero le bambine dalle mammelle. Cadde sul letto il corpo morto, schiacciò una bambina e le storpiò una gambina. Io mi alzai in volo sopra il villaggio, volevo portare l’anima a Dio, ma il vento mi prese, le ali mi si abbassarono, mi caddero, e l’anima andò da Dio da sola, e io caddi per terra vicino alla strada».
E compresero Semën e Matrëna a chi avevan dato da vestire e da mangiare, e chi aveva abitato con loro, e si misero a piangere di spavento e di gioia. E disse l’angelo: «Rimasi solo e nudo in quel campo. Non avevo conosciuto prima d’allora le miserie umane, non avevo conosciuto né il freddo, né la fame, e divenni un essere umano. Avevo fame, ero intirizzito e non sapevo cosa fare. Vidi che nel campo era stata fatta una cappella per Dio, mi avvicinai alla cappella di Dio, volevo ripararmi lì dentro. La cappella era chiusa a chiave e non ci si poteva entrare. E mi sedetti dietro alla cappella, per ripararmi dal vento. Venne la sera, avevo tanta fame e freddo e mi doleva tutto. A un tratto sento: viene un uomo lungo la strada, ha un paio di stivali in mano, e parla da solo. E per la prima volta da quando ero diventato umano vidi il volto mortale di una persona, e mi fece paura il suo volto, mi volsi via. E sento che questa persona sta parlando da sola, di come fare a riparare dal gelo il suo corpo nell’inverno, e a dar da mangiare alla moglie e ai figli. E pensai: "Io sto morendo di freddo e di fame, ed ecco che viene un uomo che sta pensando soltanto a come proteggere se stesso e la moglie, e ad aver da mangiare. Lui non può aiutarmi". Mi vide, l’uomo, si accigliò, divenne ancor più spaventoso e passò oltre. E io mi sentii disperato. A un tratto sento che l’uomo sta tornando indietro. Gli gettai un’occhiata e non riconobbi la persona di prima: prima sul suo volto c’era la morte, e adesso tutt’a un tratto era diventato vivo, e nel suo volto riconobbi l’amor di Dio. Mi si avvicinò, mi vestì, mi prese con sé e mi condusse a casa sua. Arrivai a casa sua, ci uscì incontro una donna e cominciò a parlare. Questa donna era ancora più spaventosa dell’uomo - un odore di morte veniva dalla sua bocca, e io non riuscivo più a respirare, tanto forte era quel fetore di morte. Voleva cacciarmi fuori al gelo, e io sapevo che sarebbe morta, se mi avesse scacciato. E a un tratto suo marito le parlò dell’amor di Dio, e la donna tutt’a un tratto cambiò. E quando ci dette la cena, e mi guardò anche lei, io la guardai e vidi che in lei non c’era più la morte, era viva, e riconobbi l’amor di Dio anche in lei. E mi ricordai della prima parola di Dio: "Conoscerai cosa vi è negli esseri umani". E conobbi che nelle persone c’è l’amore. E mi rallegrai che Dio avesse già cominciato a rivelarmi quello che aveva promesso, e sorrisi per la prima volta. Ma non potei ancora sapere tutto. Non potei capire che cosa non fosse dato agli esseri umani e cosa facesse vivere le persone. Cominciai a vivere da voi e ci vissi un anno. E venne un uomo a ordinare degli stivali che si potessero portare per un anno intero senza che si scucissero e si stortassero. Io gli gettai un’occhiata e a un tratto, dietro le sue spalle, vidi un mio compagno, un angelo della morte. Nessuno oltre a me vedeva quell’angelo, ma io lo conoscevo e sapevo che prima del tramonto al riccone sarebbe stata tolta l’anima. E pensai: "L’uomo si prepara cose che gli durino un anno intero, e non sa che non vivrà fino a stasera". E mi ricordai dell’altra parola di Dio: "Saprai che cosa non è dato agli esseri umani". Cosa c’è nelle persone io lo sapevo già. Adesso seppi che cosa alle persone non è dato. Non è dato alle persone di sapere che cosa occorra loro per il loro corpo. E sorrisi per la seconda volta. Ero tanto contento d’aver visto un angelo mio compagno, e che Dio mi avesse rivelato un’altra parola. Ma non riuscivo ancora a capire tutto. Non riuscivo ancora a capire cosa facesse vivere le persone. E continuavo a vivere e ad aspettare che Dio mi rivelasse l’ultima parola. E il sesto anno vennero le due bambine gemelle e la donna, e io riconobbi le bambine, e seppi come eran sopravvissute quelle bambine. Lo seppi e pensai: "Mi aveva pregato la madre per le sue figlie, e io avevo creduto alla madre, pensavo che dei bambini non potessero vivere senza padre e madre, ma una donna ch’è a loro estranea le ha nutrite e cresciute". E quando si commosse la donna per quelle figlie non sue e si mise a piangere, io vidi in lei l’amore del Dio vivente e capii che cosa fa vivere le persone. E seppi che Dio mi aveva rivelato l’ultima parola e mi aveva perdonato, e sorrisi per la terza volta».
E si denudò il corpo dell’angelo, ed egli tutto di luce si rivestì, così che l’occhio non poteva più guardarlo; e prese a parlare più forte, come se la sua voce non venisse da lui, ma dal cielo. E disse l’angelo: «Ho conosciuto che ogni persona è viva non per la cura che può aver di sé, ma perché è l’amore che la fa vivere. Non era dato alla madre di sapere che cosa occorresse alle sue figlie, per poter vivere. Non era dato al ricco di sapere di cosa avesse bisogno. E non è dato a nessun essere umano di sapere se prima di sera gli occorreranno degli stivali fatti per un vivo o delle ciabatte da morto. Ero rimasto vivo, quando ero uomo, non perché avessi pensato a me stesso, ma perché vi era amore nell’uomo che m’era passato accanto e nella moglie di lui, e perché loro ebbero compassione di me e mi vollero bene. Erano rimaste vive le orfane non perché qualcuno avesse pensato a loro, ma perché vi era amore nel cuore di una donna a loro estranea e lei ebbe compassione, e volle bene a loro. E sono vive tutte le persone non perché sappiano pensare a se stesse, ma perché vi è amore nelle persone. Io prima sapevo che Dio ha dato la vita alle persone e vuole che vivano; adesso ho capito anche un’altra cosa. Ho capito che Dio non ha voluto che le persone vivessero ciascuna per conto proprio, e perciò non ha insegnato loro a capire ciò di cui ognuna ha bisogno, ma ha voluto che vivano tutte insieme, in concordia, e perciò ha rivelato loro di cosa abbiano bisogno tutte quante, loro stesse come anche tutte le altre. Ho capito adesso che alle persone sembra di poter vivere per tutte le cure che han di sé, ma in realtà sono vive soltanto perché è l’amore che le fa vivere. Chi è nell’amore, è in Dio e Dio è in lui, perché Dio è amore».
E prese a cantare l’angelo in lode a Dio, e al suono della sua voce tutta l’isba tremò. E si aprì il soffitto, si levò una colonna di fuoco dalla terra fino al cielo. E Semën e sua moglie e i figli caddero a terra. E all’angelo spuntarono le ali dietro la schiena, ed egli salì al cielo.
E quando Semën si ridestò, l’isba era come prima, e nell’isba non vi era già più nessuno, eccetto i suoi famigliari.
Quindi un ulteriore motivo per cui [in partenza] abbiamo scelto di leggere questo breve, ma intenso, romanzo tolstojano, sul tema de "l’amor di Dio", è che questo testo è piaciuto molto ad Agostino [Tolstòj utilizza parole agostiniane provenienti dalla De civitate Dei] e il pensiero di Agostino già possiede tutti gli elementi della cultura medioevale, ed è per questo motivo che questo personaggio, a pieno titolo, dà il via al nostro viaggio [e, finalmente, sorride soddisfatto].
Una delle opere più lette e più studiate della Storia del Pensiero Umano, a cominciare dall’Età medioevale, è La città di Dio [De civitate Dei] di Agostino. Agostino decide di scrivere La città di Dio dopo il sacco di Roma da parte dei Visigoti di Alarico nel 410: i pagani sostenevano che questo avvenimento si era determinato a causa dell’abbandono ufficiale degli dèi romani, protettori della Città, spodestati dalla religione cristiana. Agostino sostiene, invece, che l’implosione è causata dal nefasto sistema imperialistico romano basato sulla "mentalità predatoria". Agostino sostiene che i Romani [e tutti coloro i quali si sono definiti conquistatori] fondano il loro impero e le loro città credendo di costruire la storia mentre la fanno degenerare perché la Storia [con la S maiuscola] è solo quella della città di Dio governata dall’Amore. Per Agostino esistono [due sistemi] due città del tutto diverse tra loro: quella materiale [dove prevale l’egoismo e l’indifferenza] e quella spirituale, che verrà [dove trionferà l’amore per Dio e per il prossimo]. Questa visione [parafrasata da Tolstòj nel romanzo-breve che abbiamo letto] costituisce, ai primordi dell’Età medioevale, sulle macerie dell’implosione delle Istituzioni imperiali, un punto di riferimento fondamentale per chi spera nel cambiamento.
Agostino muore [emblematicamente] nell’agosto del 430 mentre i Vandali [ecco un altro popolo in movimento di cui ci dovremo occupare], che avevano invaso l’Africa del nord, assediavano la città di Ippona. Ma questa è un’altra storia: una delle tante storie che costituiscono la cornice del primo paesaggio intellettuale del territorio alto-medioevale nel quale stiamo per entrare e dove c’è qualcuno che ci aspetta.
Chi ci sta aspettando nel primo paesaggio intellettuale dell’Età alto-medioevale? Ci attende un personaggio a noi noto che ha ancora molte cose da dirci: ma non ama la pubblicità, ed è meglio non evocarlo.
Ma prima di incontrare questo personaggio dobbiamo conoscere il primo papa [il primo vescovo di Roma] che si guadagna sul campo l’appellativo di "Grande, Magnus": chi è costui e che cosa combina per meritarsi il titolo di "Magno"?
Non si può rispondere a queste domande con una battuta ma bisogna percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come l’attesa] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza.
In questi giorni – 16-17-18 ottobre – non possiamo non ricordare il rastrellamento degli Ebrei di Roma avvenuto settant’anni fa: un certo numero si è salvato per opera di un giovane ferroviere [addetto di sala] che è riuscito a spiombare alcuni vagoni di quel lungo treno in partenza sul binario 1 della stazione Tiburtina e diretto ad Auschwitz. Questo giovane [classe 1919] è stato successivamente arrestato ed morto, fucilato, il 24 marzo 1944 alle Fosse Ardeatine: si chiamava Michele Bolgia. Su questa persona Severino Gerardo ha scritto un libro intitolato: L’angelo del Tiburtino. Sarà mica stato Michajla che si è dimesso da angelo e ha trasgredito ancora una volta per ribadire che è l’amore solidale che fa vivere le persone? Ci piace pensare – sulla scia del realismo-magico di Tolstòj – che forse era davvero Michajla quel giovane ferroviere, Michele Bolgia, l’angelo del Tiburtino: ci piace pensarlo per non perdere la memoria.
Accorrete numerose e numerosi: a Scuola la memoria si fortifica!