Prof. Giuseppe Nibbi La sapienza poetica e filosofica dell’età alto-medioevale 23-24-25 ottobre 2013
Incontro di Leone Magno e Attila
SUL TERRITORIO DELLA SAPIENZA POETICA E FILOSOFICA DELL’ETÀ ALTO-MEDIOEVALE,
MENTRE SI FORMANO I REGNI ROMANO-BARBARICI,
NASCE LA CONSAPEVOLEZZA DELLA SALVAGUARDIA DELLE OPERE DEI CLASSICI …
Iniziamo il terzo itinerario di questo viaggio sul territorio dell’Età alto-medievale continuando a costruire la cornice storica all’interno della quale si trova il primo paesaggio intellettuale che dobbiamo visitare [vi ricordo che venerdì prossimo è il primo novembre – si commemorano tutti i Santi – e, quindi, il prossimo mercoledì giovedì e venerdì, faremo una pausa come prevede il calendario scolastico].
La scorsa settimana – a proposito della cornice storica che stiamo costruendo e che è formata dagli avvenimenti, quasi tutti tragici, che determinano l’ultima fase dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente – abbiamo assistito all’invasione dell’Italia da parte dei Visigoti di Alarico che hanno saccheggiato Roma nell’agosto del 410, poi abbiamo partecipato alla prematura morte di Alarico e alla sua sepoltura, avvenuta, secondo la leggenda, sotto il letto del fiume Busento presso Cosenza [avete navigato da quelle parti?]. Il progetto di Alarico era quello di passare in Sicilia e poi di trasferirsi nell’Africa del Nord che era un ricco granaio. Dopo la morte di Alarico il programma dei Visigoti cambia: decidono di risalire verso Nord e di entrare in Gallia.
Nel frattempo però un’altra popolazione, i Vandali, dopo aver attraversato il fiume Reno, avevano invaso la Gallia, per cui, incalzati dai Visigoti, i Vandali, sotto la guida di Genserico, varcano i Pirenei, entrano nella penisola Iberica e poi – dopo aver attraversato lo Stretto delle Colonne d’Ercole [non si chiamava ancora Stretto di Gibilterra: per dargli questo nome dobbiamo aspettare gli Arabi, fra qualche settimana] – occupano l’Africa settentrionale fino ai confini della Pirenaica.
Quindi, a questo punto [nel 429], sul territorio dell’Impero romano d’Occidente compaiono altre entità statali e lo spazio che dovrebbe essere governato dall’autorità imperiale si riduce alla penisola italiana.
Nell’anno 429 sul territorio dell’Impero romano d’Occidente – nell’ultimo stadio della sua implosione – si formano due regni: il Regno dei Visigoti che si estende sul territorio della Gallia e della penisola Iberica centro-settentrionale, e il Regno dei Vandali comprendente il sud della Spagna [la regione che si chiamerà poi Vandalusia] e l’Africa settentrionale [sappiamo che Agostino muore nell’agosto del 430 mentre i Vandali stanno assediando la città di Ippona]. I Vandali conquistano Cartagine, che diventa la capitale del loro regno, e ridanno efficienza al porto della città, costruiscono una forte flotta e cominciano a navigare nel Mar Mediterraneo praticando la pirateria e saccheggiando le coste della penisola italiana.
Il territorio dell’Impero romano d’Occidente si è ridotto alla penisola italiana con capitale Ravenna. Roma [l’Urbe, la Città Eterna] è allo sbando, è una città aperta ridotta ad un simbolo da violare, una città nella quale è in corso una disputa tra le Istituzioni, sempre più deboli e insignificanti: nel 440 è in corso un conflitto per l’attribuzione dei poteri tra il patrizio Ezio [che era un valido generale rappresentante del partito senatoriale] e il prefetto Albino [rappresentante del partito dei pretoriani] mentre l’imperatore Valentiniano III, l’ultimo rappresentante della famiglia di Teodosio, che era succeduto ad Onorio all’età di cinque anni [e regna sotto la tutela della madre Galla Placidia, la sorella di Onorio], assiste impotente da Ravenna a questi avvenimenti.
In questo contesto, caratterizzato da un evidente vuoto di potere politico, a Roma assume sempre più prestigio la figura del vescovo, l’unica autorità capace di esporsi di fronte ai continui pericoli incombenti, e nel 440 – alla morte di Sisto III che si era già distinto per la sua intraprendenza – il clero, la nobiltà e il popolo si accordano per eleggere papa un arcidiacono di origine toscana, probabilmente di Volterra: Leone I, il quale aveva – nei pontificati precedenti – già dimostrato di essere un valido diplomatico e uomo di governo e che, nei ventun anni del suo episcopato, ha dato prova di grande abilità politica segnando una tappa decisiva nella storia del potere della Chiesa di Roma.
La crisi più delicata che Leone I si trova ad affrontare [e tutte e tutti noi abbiamo in mente questo avvenimento che deborda nella leggenda] è quando da solo – i senatori e il prefetto del pretorio si dileguano, l’imperatore Valentiniano III fugge da Ravenna – deve intervenire per trattare, nell’autunno del 452, con Attila, il re degli Unni. Quella degli Unni [secondo la tradizione] è stata la più paurosa di tutte le invasioni: questo popolo di stirpe mongola, nemico tanto dei Romani quanto dei Visigoti e dei Vandali, è guidato da Attila [Atli, Ätla, Etzel. La Letteratura latina lo ha definito “Flagellum Dei, Flagello di Dio”] che governa un vastissimo impero che si estende dall’Europa centrale al Mar Caspio, e dal Danubio al Baltico, un regno che unifica [sebbene per non lungo tempo] – per la prima ed ultima volta nella storia – la maggior parte dei popoli dell’Eurasia settentrionale [dai Germani agli Slavi ai così detti Ugro-Finni]. Gli Unni, dopo aver risalito il corso del Danubio, penetrano, nel 451, in Gallia mettendola a ferro e fuoco. In Gallia, gli Unni, dopo essere stati respinti dal valoroso generale Ezio, fanno rapidamente marcia indietro e, attraverso le Alpi Giulie, invadono l’Italia nord-orientale, distruggono Aquileia i cui abitanti, insieme a quelli di altre città venete, fuggono nelle isolette della laguna dove poi sorgerà la città di Venezia. Attila intende marciare su Roma [il simbolo da violare] ma, nell’autunno del 452, s’imbatte nel pontefice Leone I che gli è andato incontro e qui, come sapete, è entrata anche in gioco la leggenda che ci è stata raccontata nell’VIII secolo dallo storico Paolo Diacono.
Paolo Diacono [lo incontreremo ancora] è lo pseudonimo di Paolo di Varnefrido – nato a Cividale del Friuli nel 720 circa e morto a Montecassino nel 799 – è stato un monaco, uno storico, un poeta e uno scrittore longobardo di espressione latina, celebre per aver scritto la Historia Langobardorum [Storia dei Longobardi], ma altrettanto importante per la conoscenza di questo periodo storico è la Historia Romana [770] che, dal IX secolo, è diventato il più apprezzato manuale di Storia in uso nelle Scuole medievali. Paolo Diacono in Historia Romana scrive: «Papa Leone, presentatosi protetto in modo visibile dalla spada di Dio, arrestò il re degli Unni alla confluenza del Po con il Mincio e lo indusse a rivalicare le Alpi». L’incontro tra Leone Magno [il primo papa che merita il titolo di “Grande”] e Attila è stato descritto da molte rappresentazioni artistiche: sono significative, in proposito, le miniature del XV secolo.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
La raffigurazione più famosa di questo incontro è quella dipinta da Raffaello nel 1514 ed è intitolata “Incontro tra Leone il Grande e Attila”, ed è stata affrescata nella Stanza di Eliodoro nei Palazzi Pontifici durante il pontificato di Leone X [il papa Medici]… Cercate questo dipinto sulla rete o in biblioteca su un catalogo contenente le Opere di Raffaello e osservatelo: rappresenta la leggenda così come ce l’ha tramandata lo storico Paolo Diacono…
Che cosa si siano detti, e in quale lingua, Leone I e Attila non lo sappiamo, ma di sicuro il papa deve aver messo al corrente, nei particolari, il re unno di qual era la situazione economica, politica e sociale italiana: «Vuoi venire a saccheggiare Roma? Sappi che c’è rimasto più ben poco [questo deve aver detto il papa ad Attila, ricordandogli anche la fine che ha fatto Alarico, e Attila sembra fosse molto superstizioso]. Se vuoi governare l’Impero d’Occidente sappi [deve aver detto Leone ad Attila] che dovrai trovare le risorse per sfamare, per curare, per istruire una massa di persone affamate, ammalate, ignoranti e, in più, ti troverai accerchiato da ogni parte dai tuoi nemici: i Visigoti, i Vandali, i Bizantini dell’Impero d’Oriente i quali possono anche allearsi contro di te. Dammi retta, è molto meglio se ritorni nelle enormi pianure da cui sei venuto dove puoi vivere più libero e più sano». Attila – che non era così “incivile” come lo si è spesso rappresentato – ha capito che il papa è un saggio e gli ha dato retta. Ma perché Attila si era mosso verso Occidente? C’era solo un intento “predatorio” nella sua campagna militare oppure coltivava una volontà espansionistica, determinata da che cosa? Ma molto probabilmente, dopo aver appreso da papa Leone I che Valentiniano III era fuggito impaurito da Ravenna, Attila si era ritenuto soddisfatto: perché? Qual era la ragione del contendere con l’imperatore romano d’Occidente ?
Occorre fare una premessa e bisogna dire che, nel V secolo, il Regno degli Unni [che si estende dal Danubio fino alla Mongolia] e i Regni dei Visigoti e dei Vandali non rappresentano semplici occupazioni di territori ma sono il frutto di una cultura diversa [meno burocratica] rispetto a quella [greco-latina] dei Romani, una cultura basata su una nuova dinamicità – li abbiamo chiamati con disprezzo “barbari”, dove il significato del termine greco “barbaros”, che indica lo “straniero”, ha cominciato a rappresentare qualche cosa di selvaggio, di arretrato, di brutale –; in realtà le classi dirigenti di queste nuove aggregazioni statali [che poi verranno chiamate i Regni romano-barbarici perché queste popolazioni sapranno ben integrarsi nel mondo latino] hanno attuato azioni di governo [si pensi alle riforme agrarie varate dai Visigoti in Gallia e nel territorio tarragonese, e dai Vandali nel sud della penisola Iberica] e, soprattutto, questi popoli, a cominciare dagli Unni, coltivano anche forme di diplomazia, parlano con le gerarchie della Chiese cristiane e sono disposti ad accettare il messaggio evangelico, e intessono tra loro una fitta rete di relazioni: non si fanno solo la guerra [di rapina] ma organizzano trattative, indicono incontri, concordano matrimoni misti. Abbiamo fatto questa necessaria riflessione per poter rispondere alla domanda: perché Attila si è mosso verso Occidente e ha dialogato con l’unico possibile interlocutore, il papa, riconoscendone l’autorità?
Dopo aver appreso da papa Leone I che Valentiniano III era fuggito impaurito da Ravenna, Attila si è ritenuto soddisfatto: qual era la ragione del contendere tra il re degli Unni e l’imperatore romano d’Occidente? Per rispondere bisogna leggere tutta la pagina in cui Paolo Diacono, nella sua Historia Romana, narra l’incontro tra il papa e il re degli Unni [noi, poco fa, ne abbiamo letto solo un frammento]. In questa pagina lo storico longobardo racconta una serie di avvenimenti [sono materiali utili per il genere letterario del romanzo e, soprattutto, della tragedia] che introducono l’episodio dell’incontro tra Leone e Attila, scrive Paolo Diacono: «L’imperatore Valentiniano scopre [questo episodio si è verificato intorno al 450] che sua sorella, Giusta Grata Onoria, aveva una relazione segreta con Eugenio, l’amministratore responsabile dei propri beni: Onoria era rimasta incinta. Furioso, l’imperatore fa giustiziare Eugenio e invia la sorella a Costantinopoli perché porti a termine, lontano da Ravenna, l’inopportuna gravidanza. Nato il piccolo, viene dato via in quanto illegittimo e la madre non potrà mai vederlo. Poi Valentiniano costringe la sorella a sposare un senatore di nome Flavio Basso Ercolano, ma Onoria, volendo sfuggire ad un matrimonio imposto e non desiderato, invia un ambasciatore di sua fiducia, l’eunuco Giacinto, presso la corte di Attila, chiedendogli di intervenire in suo favore. Attila interpreta la richiesta di Onoria come una proposta di matrimonio e chiede all’imperatore Valentiniano, come dote di nozze, metà dell’Impero d’Occidente. All’ovvio rifiuto dell’imperatore indignato, Attila reagisce male e decide di invadere l’Occidente risalendo il corso del Danubio e penetrando in Gallia, mettendola a ferro e fuoco. Respinto dal prode generale Ezio, Attila abbandona la Gallia e prende la via dell’Italia che invade dalle Alpi Giulie. Aquileia fu presa e distrutta e, alla notizia, Valentiniano abbandona impaurito Ravenna chiedendo l’intervento del papa. Papa Leone, presentatosi protetto in modo visibile dalla spada di Dio, arrestò il re degli Unni alla confluenza del Po con il Mincio e lo indusse a rivalicare le Alpi».
Questa pagina di Paolo Diacono contiene materiali utili al genere letterario del romanzo e, soprattutto, della tragedia. Il personaggio di Attila – e la saga che è nata attorno alla sua figura – trova posto nella Letteratura e nella Musica: la tragedia più significativa, che raccoglie tutti gli elementi leggendari più importanti, s’intitola Attila, re degli Unni ed è stata composta dal tedesco Zacharias Werner [1768-1823] e rappresentata, per la prima volta, nel 1808. Molte poi sono le opere in musica che s’ispirano al personaggio del re degli Unni: dobbiamo obbligatoriamente ricordare Attila di Giuseppe Verdi, opera in un prologo e tre atti, su libretto di Temistocle Solera tratto dalla tragedia di Werner, rappresentata per la prima volta a Venezia nel 1846. La critica non fu molto tenera nei confronti della musica dell’Attila giudicata “assai vigorosa e tagliata duramente da un compositore con l’elmo in testa”, ma oggi queste considerazioni incuriosiscono.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
In rete si trova la registrazione dell’opera “Attila” di Giuseppe Verdi e, ascoltandone alcuni brani, si può capire come il teatro melodrammatico trasfiguri romanticamente i fatti e i personaggi: sappiamo che il pensiero romantico esalta l’Età medioevale…
Ci rendiamo conto che l’implosione dell’Impero romano d’Occidente crea una forte “confusione ” [chiamiamola così] dovuta all’alto grado di conflittualità: il rischio per le persone di perdere la vita è aumentato, così come si è intensificata la lotta per la quotidiana sopravvivenza materiale della gente. In questo frangente ha giocato un ruolo molto importante l’attività assistenziale [la Caritas] che i vescovi delle Chiese [a cominciare da quella di Roma] sono riusciti ad organizzare per ovviare alla completa scomparsa dello “stato sociale”. Questa considerazione va di pari passo con un altro inquietante tassello che dobbiamo aggiungere alla cornice storica che circonda il primo paesaggio intellettuale che, fra un po’, dobbiamo cominciare ad osservare: il protagonista di questo tassello storico è, ancora una volta, papa Leone I.
Abbiamo detto che i Vandali – dopo essersi insediati nell’Africa settentrionale – ridanno efficienza al porto di Cartagine, allestiscono una flotta molto efficiente e cominciano a navigare nel Mar Mediterraneo facendo i corsari: depredando le navi da trasporto e saccheggiando le coste della penisola italiana. Nel 455 i Vandali, dopo aver risalito, da Ostia, il corso del Tevere, arrivano a Roma e per quindici giorni la occupano e la saccheggiano . Ma come: papa Leone il Grande che, tre anni prima, aveva fermato Attila non riesce a scongiurare il sacco dei Vandali? Il fatto è che le studiose e gli studiosi di Storia ritengono che, molto probabilmente, i Vandali li ha invitati proprio lui a saccheggiare Roma! Come sarebbe a dire? Dobbiamo riflettere in proposito perché questa ipotesi è molto accreditata.
Il fatto che nel sacco di Roma dei Vandali del 455 ci sia lo zampino di papa Leone I trova riscontro nelle molte allusioni che lo stesso Leone fa nei testi di un certo numero di Lettere del suo Epistolario a proposito di questo avvenimento. Intanto dobbiamo dire che Leone I ha lasciato un nutrito Epistolario – scritto nel corso del suo pontificato dal 440 al 461 – formato da 173 Lettere delle quali 143 sono autentiche mentre trenta sono apocrife [sono state scritte nel secolo successivo]: le Lettere autentiche dell’Epistolario di papa Leone I hanno una notevole importanza come documenti storici perché sono una testimonianza diretta dell’attività pratica e dottrinale di questo personaggio. Queste Lettere – di cui Leone conserva copia come documenti ufficiali – sono state inviate ai vescovi delle Chiese delle più importanti città dell’Impero, in particolare a Flaviano, vescovo di Costantinopoli. Leone scrive in modo sobrio, privo di ornamenti retorici, e inaugura una nuova forma stilistica che nella Letteratura ecclesiastica ha fatto scuola e viene detta “cursus leoninus”. Le studiose e gli studiosi di Storia hanno rinvenuto, nelle Lettere scritte da Leone dopo il 455 [in una decina di testi], importanti allusioni sul sacco di Roma da parte dei Vandali: queste allusioni certificano il fatto che ci sia stato un coinvolgimento di papa Leone in questo avvenimento.
E ora riassumiamo – attraverso le allusioni papali – la delicata questione: a Roma la stragrande maggioranza della popolazione fa la fame, soffre di malattie e non esiste più un minimo sistema educativo che possa richiamare le persone ai principi dell’humanitas. La Chiesa è la sola istituzione impegnata a dare una risposta concreta alle esigenze di alimentazione [allestendo le mense] e di cura [approntando ospedali] di una massa di indigenti sempre più numerosa, e man mano che la crisi aumenta le risorse scarseggiano, e Leone chiede aiuto – in nome dell’amor di Dio – a coloro i quali possiedono beni in sovrappiù: chiede la collaborazione delle ricche famiglie romane dell’aristocrazia mercantile facendo loro notare che stanno speculando sull’aggiotaggio dei generi alimentari [il grano] e, di conseguenza, vedono aumentare le loro ricchezze [succede sempre che nei momenti di crisi gli speculatori si arricchiscano illecitamente]. Ma l’aristocrazia mercantile romana non solo non risponde positivamente alle richieste di mutuo soccorso di papa Leone ma irride pure le sue minacce: «Dio vi premierà se sarete solidali ma [tuona Leone] vi castigherà severamente e, per la vostra mancanza di misericordia, vi fulminerà». Gli aristocratici romani se la ridono [«Non è il Dio dell’Amore quello dei Cristiani: perché mai dovrebbe usare la spada o le saette contro di noi?»] e ignorano gli avvertimenti di Leone il quale decide di prefabbricarla lui una sorta di punizione divina e, attraverso il vescovo di Cartagine, entra in comunicazione con Genserico, il re dei Vandali, al quale fa sapere che Roma non è difesa da nessuno, che la via per l’Urbe, attraverso il Tevere, è praticabile e libera: che venga pure a saccheggiare le ricche dimore degli aristocratici speculatori. Genserico dapprima è diffidente, pensa sia una trappola, ma poi capisce la situazione – ed è, probabilmente, persino fiero di punire l’aristocrazia mercantile romana per conto del papa – e prende forma un accordo segreto: difatti i Vandali, durante il sacco di Roma del 455, distruggono e depredano solo i quartieri dei ricchi aristocratici mentre tutta la popolazione – preavvertita – è sana e salva, ospite delle basiliche cristiane che non subiscono alcun danno.
Se nell’incontro con Attila [nel 452] Leone era “protetto in modo visibile dalla spada di Dio [come scrive Paolo Diacono]” in questo caso [la cosiddetta “questione del sacco di Roma dei Vandali nel 455”] Leone la “spada di Dio” – per dare una lezione agli odiosi speculatori – la prende in prestito e, quindi, dobbiamo anche riflettere sul dare dei vandali ai Vandali. Il verbo “saccheggiare” sembra essere tipico di questo momento storico – dell’ultima fase dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente – ma non è così perché il metodo del saccheggio è una caratteristica peculiare del sistema imperialistico che i Romani hanno gradualmente messo a punto in modo strutturato a cominciare dal V secolo a.C. [quando hanno dato inizio alla conquista della penisola a danno dei popoli italici]. Il metodo della distruzione e del saccheggio fa parte di quella macchina dal perfetto funzionamento che è l’apparato della conquista territoriale per cui, nei secoli, si sedimentata in tutta l’Ecumene una forma di pensiero che prende il nome di “mentalità predatoria”. Roma, nel V secolo, subisce, purtroppo, quello che, nei quasi mille anni della sua storia, ha inflitto ad altri. Ma ora noi vogliamo rovesciare il concetto del “saccheggio” per prendere in considerazione l’idea del suo contrario.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quale di queste parole che rappresentano il contrario del saccheggio – restituzione, riconsegna, dono, regalo, offerta – scegliereste per prima?…
Scrivetela…
C’è un episodio della vostra vita legato all’idea della restituzione?…
Scrivete quattro righe in proposito…
Nel V secolo – in modo particolare sul territorio di ciò che resta dell’Impero romano d’Occidente – c’è una certa “confusione” sotto le stelle della nascente epoca alto-medioevale, e quando c’è confusione si crea disordine e nel disordine è più facile perdere le cose e, in particolare, quelle che appartengono al mondo della cultura: le biblioteche bruciano facilmente [se non altro ci si riscalda e si cucina, se c’è qualcosa da cucinare], i depositi di oggetti artistici vanno in frantumi e molte opere d’arte vengono trafugate e spariscono nel nulla. Facciamo questa considerazione nel momento in cui stiamo per cominciare ad osservare il primo paesaggio intellettuale dell’Età alto-medioevale [il paesaggio della salvaguardia delle Opere antiche]: ci sta aspettando [come abbiamo anticipato la scorsa settimana] un personaggio che [almeno all’inizio e per la sua esperienza] ci farà da guida.
Come abbiamo affermato già ai primi di giugno [alla fine del viaggio dello scorso anno scolastico] e come abbiamo ribadito nelle due settimane precedenti nel corso del “rituale della partenza”, per noi, il Medioevo, secondo la natura del nostro viaggio [in funzione della didattica della lettura e della scrittura], ha inizio quando certi studiosi [che dobbiamo incontrare e che abitano nel paesaggio intellettuale al quale siamo di fronte] – vista la situazione di totale “confusione” esistente sui territori dell’Impero – cominciano ad affermare che è necessario salvare e preservare le Opere “antiche [le Opere dei Classici greci e latini]”, perché l’implosione dello Stato romano sta causando la riduzione in macerie, e la conseguente sparizione, di tutto ciò che di buono – sotto il profilo intellettuale – ha finora creato il Pensiero Umano. Dicendo di voler salvare e preservare le Opere “antiche [abbiamo detto che delle Opere dei Classici greci e latini c’era una tiratura molto limitata, riprodotta su rotoli di papiro, quindi, nella forma, fortemente deperibili]” questi intellettuali dichiarano di essere pienamente coscienti che l’Antichità è ormai finita ed è necessario fare tutti gli sforzi possibili per salvaguardarne la memoria introducendo anche nuovi metodi filologici.
Il personaggio che, all’inizio del V secolo, dimostra di essere, per primo, il più determinato a salvaguardare la memoria dei Classici è una nostra vecchia conoscenza: ci sta aspettando e si chiama Gerolamo [o Girolamo] di Betlemme: lo abbiamo incontrato molte volte in questi ultimi anni [è stato un nostro puntuale informatore sui temi legati all’antichità classica] anche se non propriamente da vicino. Chi è Gerolamo di Betlemme e che cosa ha rappresentato sul piano della cultura all’inizio dell’Età alto-medioevale? Gerolamo è un personaggio importante perché con la sua produzione di Opere dal contenuto dogmatico e ascetico esce dagli schemi dottrinali tradizionali per il suo raffinato senso artistico, che è degno dei migliori scrittori classici, a cominciare da Cicerone.
Se noi oggi possediamo quasi intatto il patrimonio delle Opere ciceroniane [le Orazioni, i Trattati politici e morali] lo dobbiamo anche a Gerolamo che si è impegnato a conservarle e ad utilizzarle in funzione della propria riflessione intellettuale. Quando nel viaggio di tre anni fa abbiamo incontrato Marco Tullio Cicerone [viaggiavamo in un Percorso sul territorio dei Classici, e molte e molti di voi erano presenti] – a proposito della relazione che c’è tra questi due importanti personaggi [tra Cicerone e Gerolamo c’è una distanza temporale di circa quattro secoli] – abbiamo ricordato la celebre “terribilis coniectura Hieronymi [ve la ricordate?]”.
La “terribilis coniectura Hieronymi ” [la terribile congettura - o l’ipotesi, o l’opinione - di Gerolamo] riguarda un’affermazione fatta da Gerolamo che, in un passo di una sua Lettera, scrive: «Devo confessare di essere ciceroniano più che cristiano …[e poi, più avanti, aggiunge] e se Gesù Cristo in tribunale avesse, invece di Ponzio Pilato, incontrato Cicerone sarebbe stato assolto perché Cicerone si sarebbe battuto per dimostrarne l’innocenza, ma da ciò ne deriva una terribile congettura: senza il sacrificio di Cristo come si sarebbe potuta realizzare la salvezza?». Come dire che le Opere dei Classici, pur non essendo evangelicamente ispirate, sono tuttavia necessarie alla difesa e alla costruzione della dottrina cristiana.
Oggi l’opera di Gerolamo che, più delle altre, continua ad essere studiata con grande interesse è l’Epistolario. Le Lettere di Gerolamo danno forma ad un’opera letteraria molto elaborata e rappresentano un’importante testimonianza sia per la conoscenza della vita dell’autore che per la conoscenza del periodo storico in cui è vissuto. L’Epistolario di Gerolamo comprende 150 lettere, di cui 117 sono sicuramente autentiche [mentre le altre o sono apocrife o sono testi di risposta alla sue lettere] e la loro ampiezza è assai varia: alcune lettere sono brevi e altre sono dei veri e propri trattati [in stile ciceroniano] come l’interessantissimo testo della Lettera XXII, in cui lo scrittore espone il suo pensiero sulla conciliabilità degli studi classici con la vita cristiana e sulla necessità di salvaguardare le Opere dei Classici [ed è per questo motivo che Gerolamo abita nel primo paesaggio intellettuale dell’Età alto-medioevale: lo scenario della “salvaguardia delle Opere classiche antiche”, che stiamo cominciando ad osservare].
Nell’Epistolario di Gerolamo emerge anche il tema del molto contrastato rapporto di questo personaggio con il mondo femminile, e nella complessa disputa che, all’inizio del V secolo, sta nascendo nella cristianità sul tema del matrimonio o del celibato per gli uomini di Chiesa. Gerolamo si schiera decisamente a favore del celibato e della castità e, a questo proposito, chiarisce la sua posizione in tutti i suoi trattati dottrinali: nel testo di Adversus Halvidium [Contro Elvidio] si esprime sul tema della verginità di Maria, in Adversus Iovinianum [Contro Gioviniano] scrive sul valore della verginità e sul digiuno, in Adversus Vigilantium [Contro Vigilanzio] si esprime sulla necessità del celibato per gli uomini di Chiesa. Gerolamo impone a se stesso – con determinazione stoica [prima ancora che cristiana] – il celibato e la castità ma questa auto-imposizione lo fa soffrire: lui vorrebbe tacitare i suoi sensi, vorrebbe respingere i suoi desideri ma, più s’impegna nelle pratiche ascetiche, più si trova in difficoltà e prende atto – scrivendolo, con grande sincerità e spregiudicatezza, in molti brani delle sue Lettere – che è più facile sublimare il richiamo della sessualità facendo una vita di relazione [meglio frequentarle le donne pur praticando il celibato e la castità] piuttosto che vivere in isolamento.
L’immagine che una nutritissima iconografia ci ha lasciato di Gerolamo [di San Gerolamo] è quella dell’uomo solitario, isolato nel suo speco in compagnia del leone, o del teschio, che trova la consolazione e il senso della vita nello studio e nella scrittura.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Come esempio possiamo osservare il “San Gerolamo scrivente” dipinto, tra il 1605 e il 1606, da Michelangelo Merisi detto Caravaggio [Milano, 29 settembre 1571 – Porto Ercole, 18 luglio 1610], e conservato nella Galleria Borghese a Roma… Quest’opera la si trova facilmente collegandosi alla rete e su un catalogo in biblioteca, compresa la vostra biblioteca domestica…
Vale la pena prenderne visione…
Per avvalorare quello che abbiamo detto ora – e che è in linea con l’immagine di Gerolamo [di San Gerolamo] che la tradizione ha consacrato [una tradizione che ha ispirato un pittore come Caravaggio e molte altre e altri artisti] – leggiamo un frammento tratto dalla famosa Lettera XXII, nel quale Gerolamo descrive alla giovane Eustochio [alla quale scrive durante il suo soggiorno a Roma] la sua vita nel deserto. Intanto è la prima volta che in una lettera un autore si rivolge così direttamente ad una ragazza [che non è sua sorella, né sua figlia] con un tono così diretto per confessare una sua esperienza intima e apparentemente imbarazzante. La narrazione di Gerolamo è mirabile nel presentare le sue sofferte allucinazioni e la sensualità dei ricordi che lo tormentano: una sensualità che è stimolata proprio dal travaglio della pratica ascetica. Non era ancora successo nella Storia della Letteratura di trovare descritti insieme, con tanta efficace violenza, il tormento della carne e l’esaltazione dell’immaginazione.
Gerolamo ammette che la dura esperienza di vita nel deserto, con il suo tormento fisico, rende più acute le fantasie e dona loro più corposità, a dimostrare che l’esperienza mondana non può essere dimenticata ma va governata perché è molto difficile comandare [scrive Gerolamo] al “calore del sangue” e, soprattutto, “è inutile cercare di coprire la passione con ipocrite convenzioni [scrive Gerolamo] che servono solo a salvare le apparenze, ma, senza dare scandalo e con la dovuta circospezione [con l’uso della ragione, secondo l’insegnamento dei Classici], è necessario far cadere tutte le maschere dissimulatrici, dobbiamo ammettere che siamo deboli ma la debolezza è la nostra forza [cita Paolo di Tarso, la Prima Lettera ai Corinti]”. E ora leggiamo questo frammento.
LEGERE MULTUM….
Gerolamo, Lettere XXII
[Mia cara Eustochio], oh, quante volte, stabilitomi nel deserto, in quella vasta solitudine che, bruciata dalla vampa del sole, offre ai monaci una squallida dimora, ho pensato di prender parte ai piaceri di Roma! Proprio io, dunque, che per timore della geenna [dell’inferno] mi ero condannato da solo a questa prigione, in compagnia soltanto di scorpioni e di belve, spesso credevo di essere in mezzo a sensuali danze di fanciulle. Il mio volto era pallido per i digiuni, ma la mia mente, nel corpo freddo, bruciava per i desideri e, già morta la carne, davanti a quell’uomo in loro potere ribollivano solo gli incendi delle passioni e su tutto dominava il calore del sangue perché è inutile cercare di coprire la passione con ipocrite convenzioni che servono solo a salvare le apparenze, ma, senza dare scandalo e con la dovuta circospezione [con l’uso della ragione, secondo l’insegnamento dei Classici], è necessario far cadere tutte le maschere dissimulatrici, dobbiamo ammettere che siamo deboli ma la debolezza è la nostra forza [cita Paolo di Tarso, la Prima Lettera ai Corinti].…
La lettura di questo frammento ci permette anche di riconoscere e di dipanare un significativo “intreccio filologico” e, questo esercizio – sul tema del “calore del sangue”, con tutto quel che comporta sul piano dell’ambiguità dei rapporti interpersonali – è molto piaciuto a Gerolamo [questo tema è uno dei suoi cavalli di battaglia] e ha chiesto di dilatare nel tempo la lettura di un testo che lui ha molto apprezzato anche perché scritto da una donna. E di conseguenza, prima di conoscere i tratti fondamentali della vita, piuttosto inquieta, di Gerolamo [che s’intona con gli argomenti che stiamo per trattare], dobbiamo aprire una parentesi in funzione della didattica della lettura e della scrittura.
Stiamo per cominciare a leggere un romanzo che s’intitola Il calore del sangue [e Gerolamo ha subito alzato le antenne perché nel suo Epistolario utilizza spesso questa espressione per descrivere la passione che cova sotto un’apparente tranquillità sentimentale] e l’autrice di questo testo, Irène Némirovsky, non ha bisogno di presentazioni perché è ritornata [a settant’anni dalla morte] ad essere al centro dell’attenzione dell’editoria e delle lettrici e dei lettori di tutto il mondo.
Come sapete Irène Némirovsky è nata a Kiev nel 1903 [l’11 febbraio scorso ha compiuto 110 anni] in una ricca famiglia borghese e la sua infanzia è segnata dai successi commerciali e finanziari del padre che è un facoltoso banchiere ebreo che si chiama Arieh ma si fa chiamare Léon, Léon Némirovsky [classe 1868], e dall’odiosa figura di una madre avida di soldi e di avventure erotiche e arida di sentimenti che si chiama Faiga ma si fa chiamare Fanny, ed è nata a Odessa nel 1887, ed è morta a Parigi nel 1989. Fanny ha concepito Irène controvoglia, solo per compiacere il marito e, quindi, si disinteressa completamente della figlia che cresce allevata dalle governanti: questo conflittuale rapporto tra madre e figlia Irène Némirovsky ha saputo tradurlo in modo mirabile nei suoi romanzi [a cominciare dal racconto intitolato “Il ballo”]. Irène cresce imbevuta di cultura letteraria russa e soprattutto di cultura francese e già da bambina si reca spesso in Francia, quindi le sembrerà di essere nuovamente a casa quando, dopo la tempesta rivoluzionaria del 1917, l’intera famiglia Némirovsky vi andrà ad abitare dopo essere scappata dalla Russia attraverso la Finlandia. In Francia Irène Némirovsky diventa, dal 1929, con l’uscita della sua prima opera [il romanzo “David Golder”], una famosa scrittrice e ogni suo romanzo o racconto che viene pubblicato ottiene un successo clamoroso. Si sposa con Michel Epstein e hanno due figlie, Denise ed Élisabeth. Ma lo scenario sta cambiando rapidamente in Europa – l’ascesa dei dittatori, lo scoppio della seconda guerra mondiale, l’occupazione nazista della Francia, il governo collaborazionista di Vichy, le leggi razziali, la caccia agli ebrei – e anche nella civilissima Francia monta un antisemitismo feroce e alla Némirovsky non basterà la fama di scrittrice per evitare il peggio: viene arrestata nel luglio del 1942 e ad agosto muore di tifo ad Auschwitz e la stessa sorte, l’internamento e l’eliminazione, tocca a suo marito Michel Epstein. Irène, prima di essere arrestata, ha affidato le due figlie ad una famiglia legata alla Resistenza e loro, dopo aver evitato mille pericoli, si sono salvate: alle due bambine, Irène ha consegnato una valigia nella quale – oltre a un po’ di vestiario – c’era un’agenda contenente anche il testo delle prime due parti di Suite francese che molte e molti di voi hanno letto insieme ad un certo numero di altre opere di Irène Némirovsky che la Scuola ha presentato dal 2006 cioè da quando le figlie di Irène hanno deciso di rendere pubblico il testo dell’agenda che conservavano – ancora piuttosto traumatizzate – come un geloso ricordo familiare. Nel 2005 la pubblicazione di Suite francese ha rappresentato un grande evento editoriale europeo e mondiale e Irène Némirovsky è tornata ad essere – dopo circa settant’anni di silenzio – la grande scrittrice che era stata per tutti gli anni ’30.
Per chi vuole conoscere ancora meglio Irène Némirovsky dobbiamo ricordare che sono state pubblicate una serie di biografie, tra le quali la traduzione in italiano di quella che era la più attesa, quella che, da oltre un ventennio, stava scrivendo la figlia minore di Irène, Élisabeth Gille, e che s’intitola Mirador. Irène Némirovsky, mia madre. Si tratta di un’opera molto particolare: non è una classica biografia ma bensì un originalissimo auto-ritratto della madre “sognato” dalla figlia. Per Élizabeth Gille, anche se ha lavorato nel mondo dell’editoria, non è stato facile scrivere questo libro perché il suo rapporto filiale si è interrotto a soli cinque anni, quando Irène viene arrestata, per essere deportata nel campo di concentramento di Auschwitz e, di conseguenza, ha un’immagine più onirica [legata al sogno] che reale della madre. Ad Élisabeth scrivere questa storia è servito soprattutto per uscire dal trauma: “ripensando [mettendo in scena]” sua madre ha potuto recuperare se stessa [dare un senso alla sua vita].
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Quindi, in biblioteca, potete richiedere “Mirador. Irène Némirovsky, mia madre” di Élisabeth Gille e leggerlo…
Irène Némirovsky ha scritto Il calore del sangue tra il 1937 e il 1938 e ambienta il suo racconto nel paese stesso, Issy-l’Évêque, nel Morvan, dove si rifugia con la famiglia e dove verrà arrestata. Il testo di questo romanzo, del quale si pensava esistesse solo la prima parte, è stato ritrovato tra le carte che la scrittrice ha messo in salvo nel 1942: non è un testo completo ma è ancora frammentato e questo ne aumenta il fascino.
In questo breve ma densissimo romanzo – con la sua consueta scioltezza narrativa punteggiata da quella tipica “soave crudeltà” che la contraddistingue [c’è sempre un sottile pessimismo, che assomiglia a quello dei Classici, nel pensiero di Irène Némirovsky, lo stesso pessimismo che emerge nelle Lettere di Gerolamo] – la scrittrice punta il suo sguardo acuminato sull’ambiente, angusto e gretto, della provincia francese [la Francia profonda del mondo agricolo] e il quadro che ci viene presentato è, in apparenza, di quieta, e anche un po’ scialba – ma, tuttavia, rassicurante – agiatezza campagnola.
Siamo in Borgogna nell’autunno del 1930 dove il tempo è scandito dal susseguirsi delle stagioni [molto bello è l’incipit di questo romanzo che ci porta dentro la stagione autunnale con i suoi difetti che, paradossalmente, diventano dei pregi da gustare] – e questa ciclica lentezza stagionale è, o per lo meno sembra, consolante – e Colette, la figlia di due ricchi proprietari terrieri, François e Hélène Érard, sta per sposarsi con il tipico bravo ragazzo, Jean Dorin, appartenente ad una famiglia uguale alla sua e, quindi, le premesse per una vita felice ci sono tutte ma la realtà – quella sentimentale, quella passionale [quella che Gerolamo dice che emerge nel deserto dal “calore del sangue”] – è molto più complessa di quello che sembra in apparenza e tutto ciò lo si intuisce subito attraverso la voce del personaggio che fa da narratore, il cugino Sylvestre, detto Silvio [l’alter-ego della scrittrice], il quale, in apparenza, ascolta e guarda distrattamente ciò che succede intorno a lui e poi racconta e commenta i fatti intessendo una sottile rete fatta di preoccupanti e un po’ inquietanti allusioni.
E ora cominciamo a leggere le prime pagine [il primo capitolo] di questo romanzo.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Il calore del sangue
Bevevamo punch leggero, come ai tempi della mia gioventù.
Stavamo seduti davanti al fuoco, i miei cugini Érard, i loro figli e io. Era una serata autunnale, soffusa di rosso sopra i campi arati zuppi di pioggia; il tramonto infuocato prometteva vento forte per l’indomani; i corvi gracchiavano. Nella mia grande casa gelida spirano ovunque correnti d’aria cariche dell’odore aspro e fruttato della stagione. Mia cugina Hélène e sua figlia Colette tremavano sotto gli scialli che avevo prestato loro, due stole di cachemire di mia madre. Come sempre quando vengono a trovarmi, mi chiedevano come faccio a vivere in questa topaia, e Colette, che sta per sposarsi, decantava le bellezze di Moulin-Neuf, dove andrà ad abitare, e «dove spero di vedervi spesso, cugino Silvio» diceva. Mi guardava con compassione. Sono vecchio, povero, scapolo; vivo sepolto in una stamberga da contadini in mezzo ai boschi. Tutti sanno che ho viaggiato molto, e che mi sono mangiato l’eredità; figliol prodigo, quando sono tornato nella terra natale persino il vitello grasso era morto di vecchiaia, dopo lunga e vana attesa. I cugini Érard, paragonando mentalmente il loro destino al mio, mi perdonavano con ogni probabilità tutti i prestiti che avevo chiesto senza mai restituire un soldo, e ribadivano le parole di Colette: «Qui vivete come un selvaggio, povero caro. Dovete andare dalla nostra bambina quando si sarà sistemata e passare da lei la bella stagione». Eppure, anche se loro non lo immaginano, io ho dei momenti belli. Oggi sono solo; è caduta la prima neve. Questa terra, al centro della Francia, è selvaggia e ricca al tempo stesso. Ciascuno se ne sta in casa propria, sui propri possedimenti, non si fida del vicino, ripone il grano, conta i soldi e non si cura del resto. Niente grandi ville, niente visite. Qui regna una borghesia ancora vicinissima al popolo da cui è appena emersa, gente il cui sangue non si è ancora impoverito, e che ama tutti i beni della terra …Le loro sono case confortevoli, isolate, costruite fuori dal paese, protette da ostili portoni chiusi a tripla mandata, come porte di prigione, con davanti giardini piatti, quasi privi di fiori: nient’altro che ortaggi e alberi da frutto potati a spalliera perché producano di più. I salotti sono zeppi di mobili e perennemente chiusi: si vive in cucina per non dover accendere i camini. Non mi riferisco a François e Hélène Érard, è ovvio: non conosco dimora più gradevole o accogliente della loro, né focolare più intimo, più allegro e più caldo.
Eppure non c’è cosa più preziosa per me di una serata come questa: la solitudine è totale; la domestica, che la sera torna in paese, ha fatto rientrare le galline nel pollaio e se ne va a casa. Sento il rumore dei suoi zoccoli sul sentiero. Io rimango con la mia pipa, il cane tra le gambe, lo zampettìo dei topi nel granaio, il fuoco che crepita, niente giornali, niente libri, una bottiglia di Juliénas che s’intiepidisce accanto agli alari.
«Cugino, perché vi chiamano Silvio?» chiede Colette. Rispondo: «Una bella signora che è stata innamorata di me e che trovava somigliassi a un gondoliere, perché all’epoca, trent’anni fa, avevo i baffi a manubrio e i capelli neri, ha trasformato il mio nome, Sylvestre, in Silvio».
«Macché, somigliate più a un fauno,» dice Colette «con quella fronte alta, il naso all’insù, le orecchie a punta, gli occhi che ridono. Sylvestre l’uomo dei boschi. Vi sta a pennello».
Fra tutti i figli di Hélène, Colette è la mia preferita. Non è bella, ma ha ciò che in gioventù apprezzavo più d’ogni altra cosa nelle donne: un temperamento focoso. …
Dicono che assomigli a Hélène da giovane. Ma io non mi ricordo. Dopo la nascita del terzo figlio, il piccolo Loulou, che ora ha nove anni, Hélène è ingrassata, e la donna di quarantotto anni dalla pelle morbida e un po’ appassita si sovrappone nella mia memoria all’Hélène ventenne che ho conosciuto. Ora ha un’aria riposante, di placida felicità. Quella serata da me era una visita ufficiale: erano venuti a presentarmi il fidanzato di Colette. È un certo Jean Dorin, dei Dorin di Moulin-Neuf, mugnai di padre in figlio. Ai piedi del mulino scorre un bel fiume, verde e schiumoso. Quando il vecchio Dorin era ancora in vita ci andavo a pescare le trote.
«Ci farai dei bei piatti di pesce, Colette» dissi.
François rifiuta il mio punch: beve solo acqua. Ha una barbetta grigia appuntita e sottile che si accarezza delicatamente con una mano. Osservai: «Non vi toccherà rimpiangere nulla, visto che non vi piacciono né il vino, né la caccia, né le donne».
«Rimpiangerò mia moglie» ha replicato lui sorridendo.
A quel punto Colette si è seduta accanto alla madre e le ha chiesto: «Mamma, raccontami del tuo fidanzamento con papà. Del tuo matrimonio non hai mai fatto parola. Perché? So che è una storia romanzesca, che vi amavate da tanto… Non me l’hai mai raccontato. Perché?». «Perché non me l’hai mai chiesto».
«Ma te lo chiedo ora». Hélène si schermì ridendo: «È una cosa che non ti riguarda».
«Non vuoi dirlo perché ti mette a disagio. Sicuramente non è per via del cugino Silvio: lui saprà già tutto. È per via di Jean? Ma domani sarà tuo figlio, mamma, e deve conoscerti come ti conosco io. Vorrei tanto che la mia vita con lui somigliasse a quella tua e di papà! Sono certa che non avete mai litigato». «Non sono a disagio per Jean,» disse Hélène «ma per questi tontoloni» e indicò i figli con un sorriso.
I due ragazzi, Georges e Henri, di quindici e tredici anni, erano seduti sul pavimento, intenti a buttare pigne nel camino: ne avevano una scorta nelle tasche. Le pigne scoppiavano tra le fiamme producendo un rumore secco e forte. «Se è per noi, fa’ pure, non ti preoccupare. Non ci interessano le vostre storie d’amore» interloquì Georges sprezzante, con la sua voce in muta. Nel frattempo il piccolo Loulou si era addormentato. Ma Hélène faceva segno di no con la testa e non voleva parlare.
Il fidanzato di Colette intervenne timidamente: «Siete una coppia esemplare. Anch’io spero…un giorno…noi…». Farfugliava. Sembra un bravo ragazzo; ha una corporatura esile, delicata, e due begli occhi irrequieti da lepre. È curioso che Hélène e Colette, madre e figlia, per sposarsi abbiano scelto lo stesso tipo di uomo: sensibile, delicato, quasi femmineo, facile da dominare e nel contempo schivo, selvatico, direi quasi pudico. Dio santo! Non ero così, io! Li guardavo tutti e sette. Me ne stavo un po’ in disparte. Avevamo cenato in sala da pranzo, la sola stanza abitabile del mio alloggio insieme alla cucina … Mi è venuta voglia di riaccendermi la pipa e ho sollevato un pezzetto di legno infuocato, che mi ha proiettato in faccia la sua luce. A quanto pare non ero il solo a osservare quel che mi circondava e anche Colette deve avere la vista lunga, perché di botto ha esclamato: «Che aria sardonica avete, cugino Silvio, l’ho notato spesso».
Poi voltandosi verso il padre: «Sto ancora aspettando la storia del vostro amore, papà» «Vi racconterò» disse François «il mio primo incontro con la mamma. A quei tempi vostro nonno abitava in paese. Come sapete si era sposato due volte. La mamma era figlia di primo letto e la sua matrigna aveva anche lei avuto una figlia da un precedente marito. Quel che ignorate è che la ragazza (cioè la sorellastra di vostra madre) mi era stata destinata in sposa» «Buffo» disse Colette. «Sì, quando si dice il caso. Entro dunque per la prima volta in quella casa, trascinato dai miei genitori. Mi avviavo al matrimonio come un cane restio al guinzaglio. Ma mia madre, povera donna, teneva molto a sistemarmi, e a forza di suppliche aveva ottenuto quel colloquio che non mi impegnava in alcun modo, come si era affrettata a precisare. Entriamo. Immaginatevi il più severo, il più freddo dei salotti di provincia. …
«La seconda moglie di vostro nonno aveva, non ve lo nascondo, un carattere…». «Taci,» lo interruppe Hélène «è morta».
«Per fortuna… Ma vostra madre ha ragione: pace ai defunti. Era una signora ben piantata, rossa di capelli, con una grossa crocchia color rame e la carnagione chiarissima. Sua figlia somigliava a un pesce lesso. Per tutta la durata della mia visita la poveretta non fece altro che tenere sulle ginocchia le mani gonfie per i geloni congiungendole e separandole alternativamente, senza dire una parola. Era inverno. Ci offrirono sei biscotti in una ciotola e dei cioccolatini grigi di vecchiaia. Mia madre, che era freddolosa, non faceva che starnutire. Cercai di abbreviare al massimo la visita. Quando finalmente uscimmo (frattanto aveva iniziato a nevicare) vidi i bambini che tornavano dalla scuola lì vicino: in mezzo a loro correva e scivolava sulla neve una ragazzina allora tredicenne; ai piedi aveva un paio di grossi zoccoli di legno e sulle spalle una mantellina rossa, i capelli neri tutti scarmigliati, le guance scarlatte, la punta del naso e le ciglia cosparse di neve. Era la vostra mamma: gli altri ragazzini la inseguivano gettandole palle di neve sul collo. Si trovava a pochi passi da me: si voltò, raccolse un’intera manciata di neve e la gettò davanti a sé, ridendo; poi, giacché ne aveva uno zoccolo pieno, se lo tolse e restò in piedi sulla soglia di casa saltellando su una gamba sola, con i capelli neri che le cadevano sul viso. Dopo aver lasciato le due donne compassate e il loro gelido salotto, non avete idea di quanto quella bambina mi sembrasse viva e seducente. Mia madre mi disse chi era. Fu in quell’istante che decisi di sposarla. Ridete pure, figli cari. Non fu tanto un desiderio o un proposito il mio, quanto una sorta di visione. La immaginai più tardi, qualche anno dopo, uscire dalla chiesa al mio fianco il giorno del nostro matrimonio. In quella casa non era felice. Il padre era anziano e malato, e la matrigna non si prendeva cura di lei Mi adoperai perché fosse invitata a casa dei miei genitori. L’aiutai a fare i compiti, le prestai dei libri, organizzai picnic e festicciole per lei per lei sola. Lei non sospettava nulla…». «Oh, come no!» fece Hélène, e sotto i capelli grigi gli occhi ebbero un bagliore malizioso e la bocca un sorriso giovanissimo.
«Partii per terminare gli studi a Parigi: non si chiede in moglie una ragazzina di tredici anni. E così me ne andai, dicendomi che sarei tornato cinque anni dopo e avrei ottenuto la sua mano ma lei a diciassette anni si sposò: con un uomo molto perbene, parecchio più anziano di lei. Pur di sfuggire alla sua matrigna avrebbe sposato chiunque». «Negli ultimi tempi» interloquì Hélène «era così avara che avevamo un solo paio di guanti, la mia sorellastra e io. In teoria avremmo dovuto metterli a turno per recarci in visita. In realtà la mia matrigna faceva in modo di punirmi ogni volta che dovevamo uscire, ed era sempre sua figlia a metterli, quei bei guanti di pelle di capretto. Mi facevano talmente gola che la prospettiva di averne un paio per me, solo per me, una volta sposata, mi spinse a dire di sì al primo uomo che chiese la mia mano senza amarmi. Si è sciocchi da giovani…». «Io ne fui molto addolorato» disse François «e al mio ritorno, quando vidi la giovane donna deliziosa e un po’ triste in cui la mia amichetta si era trasformata, mi innamorai perdutamente. E lei…». Tacque. «Oh, come arrossiscono!» esclamò Colette battendo le mani … «Avanti, diteci tutto! Il romanzo comincia qui, vero? Vi siete parlati, vi siete capiti. Lui è ripartito, con la morte nel cuore, perché tu non eri libera. Ha aspettato fedelmente e, quando sei rimasta vedova, è tornato e ti ha sposata. Avete vissuto felici e avuto molti figli». «Sì, è proprio così,» disse Hélène «ma Dio mio, prima, quante angosce, quante lacrime! La situazione sembrava così complicata, irrimediabile! Come è tutto lontano ora… Quando il mio primo marito è morto, vostro padre era in viaggio. Pensavo che mi avesse dimenticata, che non sarebbe tornato. Da giovani si è così impazienti! Ogni giorno che passa, ed è perso per l’amore, è uno strazio. Alla fine è tornato».
Fuori era ormai notte fonda. Mi sono alzato e ho chiuso le grandi imposte di legno massiccio, che hanno emesso nel silenzio un lugubre e lamentoso cigolio. Il rumore li ha fatti trasalire tutti, e Hélène ha detto che era ora di tornare a casa. Jean Dorin si è alzato docilmente per andare a prendere in camera mia i cappotti delle signore. Ho sentito Colette che chiedeva: «Mamma, e della tua sorellastra che ne è stato?».
«È morta, cara. Ricordi, sette anni fa io e tuo padre siamo andati a un funerale a Coudray, nella Nièvre. Era la povera Cécile».
«Era cattiva come sua madre?». «Lei? Oh no, poverina! Non c’era donna più dolce e accomodante. Mi voleva un gran bene, e io ricambiavo. Per me è stata come una vera sorella». «È strano che non venisse mai a trovarci…». Hélène non rispose. Colette fece ancora una domanda; la madre di nuovo non rispose. Alla fine, poiché Colette continuava a insistere, la madre tagliò corto: «Oh sono cose talmente vecchie» e la sua voce si fece di colpo strana, alterata, distante, come se parlasse in sogno.
A quel punto tornò il fidanzato con i cappotti e ci avviammo. Accompagnai i miei cugini fino alla loro bella casa, che dista quattro chilometri da dove abito io. Camminavamo lungo un sentiero stretto e pieno di fango, i ragazzi davanti col padre, poi i fidanzati, infine Hélène e io.
Hélène mi parlava dei due giovani: «Sembra un bravo ragazzo questo Jean Dorin, vero? Si conoscono da un pezzo. Hanno ogni probabilità di essere felici. Vivranno come abbiamo vissuto io e François, in maniera tranquilla, decorosa… soprattutto tranquilla… senza scosse, senza tempeste… È poi così difficile essere felici? Mi pare che Moulin-Neuf abbia in sé un che di rassicurante. Ho sempre sognato di abitare in una casa vicino al fiume, di svegliarmi di notte, al caldo nel mio letto, e sentire l’acqua che scorre. Presto arriverà un bambino» continuò, sognando a occhi aperti. «Mio Dio, se a vent’anni si sapesse come è semplice la vita…». …
Manca ancora una pagina alla fine del primo capitolo di questo romanzo e la leggeremo fra poco: al termine di questo itinerario. Ci siamo fermate e fermati qui perché – sollecitate e sollecitati da Gerolamo [il quale, secondo la nostra immaginazione filologica, sembra apprezzare l’ironia di questa scrittrice per lui finora sconosciuta] – vogliamo riflettere sul fatto che in questo ambiente, così ben descritto da Irène Némirovsky, in cui ogni cosa sembra rassicurante e dove tutto sembra semplice, tuttavia, serpeggia l’inquietudine [in ogni situazione dove, in superficie, sembra trionfare l’amore, traspare anche un certo turbamento perché abbiamo l’impressione che questa situazione nasconda qualcosa di ambiguo], e l’inquietudine è anche una caratteristica della vita di Gerolamo: lo si capisce senza nessuna difficoltà dalla lettura delle sue Lettere e dei suoi trattati dottrinali: opere che abbiamo già ricordato questa sera.
Ma ora è il momento in cui ci dobbiamo domandare: chi è Gerolamo, come si configura la sua vita inquieta e quale rilevanza ha avuto e ha la sua opera? Questi sono argomenti piuttosto vasti e non ne possiamo certo esaurire la trattazione questa sera e, difatti, Gerolamo ci accompagnerà ancora, lo rincontreremo tra quindici giorni e, anche in seguito [strada facendo], aleggerà spesso la sua figura.
Chi è Gerolamo? Sulla vita di Gerolamo sappiamo molte cose di prima mano. Sofronio Eusebio Gerolamo [o Girolamo] è nato, secondo la tradizione, a Stridone, in Dalmazia, da genitori cristiani di origine il lirica. Stridone si trova nel cuore dell’Istria, in territorio croato – oggi si chiama Zrenj – ed è un piccolo insediamento nei pressi di Portole [Oprtalj]. A Stridone, un tempo [specialmente al tempo dell’Impero asburgico], lavoravano molti artigiani abili e benestanti [fabbri, tessitori e scalpellini] e sappiamo dalle fonti scritte a partire dall’XI secolo che questa zona, piuttosto florida, è stata popolata fin dalla preistoria. Nel XVI secolo si sono insediate qui le famiglie dei profughi in fuga quando la dinastia turca degli Ottomani ha invaso la Dalmazia. L’architettura di Stridone è ben conservata e presenta un carattere rurale e si contraddistingue per il tipico utilizzo delle lastre di pietra [scrile] per ricoprire i tetti delle case. Secondo la tradizione Stridone ha dato i natali a Gerolamo [c’è una piccola chiesa dedicata a San Gerolamo che ricorda questo evento] ma bisogna precisare che l’identificazione del luogo non è comprovabile e Gerolamo nelle Lettere scrive di essere “dalmata” ma non precisa altro. Il borgo di Stridone è uno dei bei tasselli che compongono il mosaico dell’Istria antica e questo territorio vale la pena di essere conosciuto.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida della Croazia e sulla rete fate un’escursione in Istria e, in particolare, una visita a Stridone, buon viaggio…
Gerolamo è nato in territorio dalmata intorno al 347 [quindi tutti gli avvenimenti in relazione ai cosiddetti Regni romano-barbarici, che, questa sera, all’inizio di questo itinerario, abbiamo descritto, devono ancora accadere e stanno per avvenire]. Da ragazzo Gerolamo si trasferisce a Roma [quindi si ipotizza che la sua sia una famiglia benestante] e studia retorica, filosofia e frequenta la Scuola del grammatico Elio Donato [“praeceptor meus”, scrive Gerolamo], nella quale matura una grande passione per la Letteratura classica che lo rende uno spirito inquieto e incessantemente desideroso di apprendere e di sperimentare sul piano filologico, e Gerolamo contribuisce alla conservazione [riscrivendole] delle opere di Elio Donato: i due “Manuali di grammatica [Ars Minor e Ars Maior, i due manuali più completi di Lingua latina che ci siano pervenuti]” che hanno avuto una larga diffusione come libri di testo scolastici per tutto il Medioevo e poi il “Commento al teatro di Terenzio” e “La vita di Virgilio”. Gerolamo, dopo aver ricevuto il battesimo al termine degli studi, si reca in Gallia, poi si trasferisce ad Aquileia e dopo in Siria, ad Antiochia, dove segue le Lezioni dell’esegeta Apollinare di Laodicea e si perfeziona nella lettura della Bibbia tradotta in greco dai Settanta diventando un esperto conoscitore dei Libri dell’Antico Testamento. Si dedica per tre anni [dal 375 al 378] alla vita ascetica facendo l’anacoreta nel deserto di Calcide, vicino ad Antiochia, e inizia [Gerolamo è un asceta per motivi di studio] ad apprendere la lingua ebraica e aramaica.
Dopo essere stato ordinato sacerdote, nel 380, si trasferisce a Costantinopoli [Gerolamo non sta fermo un momento perché la sua è davvero una vita pervasa da una forte inquietudine intellettuale, erotica nel senso platonico del termine] e diventa discepolo di Gregorio Nazianzeno, uno dei Padri Cappadoci [nel corso del viaggio dello scorso anno scolastico abbiamo incontrato i tre Padri Cappadoci: Basilio di Cesarea, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa] e, quindi, si avvicina anche al pensiero filosofico neoplatonico. Nel 382 Gerolamo torna a Roma per partecipare ad un sinodo, su invito di papa Damaso, di cui diviene il segretario. Tra Damaso [papa dal 366 al 384] e Gerolamo si stabilisce una profonda amicizia perché sono entrambi amanti dello studio e dell’esercizio della lettura e della scrittura.
Papa Damaso [ecco un altro personaggio, presente sul paesaggio intellettuale che stiamo osservando, che dobbiamo conoscere] è una persona dotata di grande cultura e scrive varie opere in prosa e in poesia; tra queste opere la più significativa, per la sua particolarità, s’intitolata Tituli ed è formata dalle celebri iscrizioni in versi esametri che Damaso compone perché siano collocate sulle tombe dei martiri: questi versi sono stati incisi su lastre di marmo dal calligrafo Furio Dionisio Filocalo in bellissimi caratteri che sono stati chiamati “damasiani”. I caratteri “damasiani” sono diventati, e sono rimasti per lungo tempo, la forma di scrittura ufficiale della Chiesa di Roma: con questa forma di scrittura, per tutto il Medioevo, vengono ricopiati i documenti papali. Damaso ha anche trasformato casa sua in un edificio religioso che, gradualmente, è diventato una basilica, collocata presso il teatro di Pompeo: la basilica di San Lorenzo poi detta “in Damaso”.
REPERTORIO E TRAMA ... per dieci minuti al giorno di lettura e di scrittura:
Con la guida di Roma e sulla rete potete fare una visita alla Chiesa di San Lorenzo in Damaso che si trova nel rione Parione incorporata nel Palazzo della Cancelleria e che alla fine del XV secolo è stata completamente ristrutturata dal Bramante… Sono celebri gli organi a canne contenuti in questo edificio che merita di essere conosciuto…
Il pontificato di papa Damaso s’inserisce in una situazione di grande conflittualità che investe la Chiesa universale [c’è un violento contrasto in corso che dura ormai da circa mezzo secolo, ed è un tema che abbiamo studiato, in primavera, durante il viaggio precedente]: questa permanente ostilità è causata dell’insanabile scontro dottrinale tra la Chiesa di Roma [fedele all’ortodossia cioè alla dottrina stabilita, nel 325, dal Concilio di Nicea, voluto da Costantino, per cui Gesù è vero Dio e vero Uomo, che è stato generato con la stessa sostanza del Padre, omoousios omoousios, ed è una persona distinta dal Padre ma di natura divina simile a quella del Padre] e gli Ariani [per i quali Gesù è la prima creatura del Padre, una persona di natura angelica che assomiglia al Padre, omoiousios omoiousios, e, quindi, di natura divina inferiore rispetto al Padre]. Questa conflittualità dottrinale – nella quale interferiscono anche gli imperatori [a volte fedeli alla dottrina nicena, altre volte simpatizzanti della visione ariana] – provoca, nella seconda metà del IV secolo, il sorgere di violente contese per l’acquisizione e il controllo del papato perché al Vescovo di Roma viene ormai riconosciuto un “primato” [in questo momento i grandi elettori del Vescovo di Roma sono: il clero romano, il popolo romano, il senato e l’imperatore] per cui, ad un papa eletto [soprattutto quando non ha il sostegno di tutte le componenti], spesso, si contrappone un antipapa nominato da una fazione avversa.
Tra due settimane entreremo anche noi [seppure solo per il tempo necessario a capire] in questo conflitto che si acuisce al tempo di papa Damaso: dobbiamo renderci conto del fatto che anche la Cristianità è investita [e continuerà ad essere investita] da molte fibrillazioni negative che rientrano nel fenomeno più generale dell’implosione dell’Impero romano d’Occidente [un fenomeno che stiamo osservando nel suo svolgersi mentre cominciamo ad avanzare nel territorio dell’alto-medioevo].
Papa Damaso – proprio in ragione di queste fibrillazioni negative – dà a Gerolamo un incarico di grande importanza: quello di realizzare una nuova traduzione in latino dei Libri della Bibbia a cominciare dal Nuovo Testamento, e nasce così quella redazione della Bibbia che prende il nome di Vulgata editio e che rappresenta uno dei più grandi monumenti letterari della Storia della cultura. Dobbiamo studiare questo importante avvenimento filologico anche perché c’è un’accreditata corrente di pensiero la quale sostiene che il Medioevo ha inizio con questa opera di traduzione, che è anche un’operazione di salvaguardia del patrimonio culturale antico e tardo-antico.
Gerolamo è il primo intellettuale che coltiva – con le sue principali Opere [che studieremo fra quindici giorni nella prima parte del prossimo itinerario] – l’intento di salvaguardare le parole-chiave e le idee-cardine contenute nelle Opere dell’antica cultura classica ed è per questo motivo che stiamo osservando, guidati da lui, il primo grande scenario culturale che s’incontra sul territorio dell’Età alto-medievale e al quale è stato dato il nome emblematico di “paesaggio intellettuale della salvaguardia delle Opere dei Classici greci e latini”.
E ora, per concludere, terminiamo la lettura del primo capitolo de Il calore del sangue. Perché Gerolamo ha chiesto di lasciare per ultima questa pagina? Forse perché la scrittrice, per bocca del narratore [il cugino Sylvestre], ironizza [seppur benevolmente e un po’ nostalgicamente] sui matrimoni di provincia: Gerolamo è decisamente contrario al matrimonio, secondo lui, è molto meglio il celibato e la castità e per realizzare meglio questo ideale pensa sia opportuno per lui vivere, comunque, a stretto contatto con le donne e, a questo proposito aveva un folto gruppo di matrone [signore dell’alta società romana] che si riunivano ogni settimana in casa di una certa Marcella per studiare le Sacre Scritture sotto la sua guida e questo fatto suscita tanti di quei pettegolezzi che Gerolamo deve lasciare Roma e partire per l’Oriente, ma non parte da solo. Gerolamo, da quel momento, divide il suo tempo con Paola, vedova del senatore Tossozio, e con la figlia di lei Eustochio [alla quale scrive un certo numero di lettere]. Con loro parte per Cipro, poi vanno ad Antiochia, poi in Terrasanta, e infine in Egitto dove si mettono a cercare gli eremiti sperduti nel deserto. Poi si stabiliscono a Betlemme e fondano un monastero femminile [i soldi ce li mette Paola che possiede un buon patrimonio].
Non vi dico poi a quante chiacchiere ha dato adito il rapporto tra Gerolamo e la giovane Eustochio: dopo averla conosciuta, a Roma, le scrive una Lettera [Libellus de custodia verginitatis, Libretto di istruzioni per custodire la propria verginità] dove spiega alla fanciulla che si può perdere la verginità anche con il pensiero e, quindi, è bene prevenire questa eventualità perché la verginità, e soprattutto il celibato [visto che le regole matrimoniali – vigevano sempre le Leggi giulie fatte da Augusto – decretavano la subalternità delle donne] queste due condizioni [la verginità e il celibato] sono per una donna l’unica garanzia di libertà e di indipendenza. Gli amici della ragazza – che ambivano a suscitare in Eustochio pensieri poco verginali e che lei respinge con risolutezza – aggrediscono Gerolamo e minacciano di buttarlo nel Tevere, ma lei è affascinata da Gerolamo e condivide le sue riflessioni [che ricordano il pensiero del femminismo più radicale degli anni ’80 che incitava le donne alla castità e alla separatezza per contrastare il continuo utilizzo che del corpo femminile viene fatto ad opera del mercato] per cui Eustochio segue Gerolamo, insieme alla madre, come un’ombra [e, in seguito, anche Paola ed Eustochio verranno proclamate sante].
E ora ascoltiamo Irène Némirovsky che, per bocca del narratore [il cugino Sylvestre], ironizza [seppur benevolmente e nostalgicamente, ma con il consueto sarcasmo] sui matrimoni di provincia.
LEGERE MULTUM….
Irène Némirovsky, Il calore del sangue
[È sempre il cugino Silvestre che racconta] Li salutai dinanzi al cancello del giardino, che si aprì con uno stridio acuto e si richiuse su una nota grave e bassa, simile a un colpo di gong, tale da procurare all’udito un piacere particolare, come quello che dà al palato un Borgogna invecchiato. La casa è ricoperta da una verde, fitta vite americana, percorsa al minimo soffio di vento da fremiti cangianti; ma data la stagione restavano solo poche foglie secche e una griglia di fil di ferro illuminate dalla luna. Una volta che gli Érard furono rincasati, rimasi un attimo sul sentiero con Jean Dorin e vidi accendersi l’una dopo l’altra le finestre del salotto e delle camere; brillavano nella notte con tutta l’intensità delle loro luci tranquille. «Possiamo contare su di voi per la cerimonia?» mi chiese ansioso il fidanzato. «Ma certamente! È da dieci anni che non vado a un pranzo di nozze» dissi, e rivedevo tutti quelli cui avevo avuto occasione di assistere: le lunghe gozzoviglie di provincia, con le facce arrossate dei bevitori, i camerieri presi a nolo nella città vicina insieme alle sedie e alla pista da ballo, la torta gelato per dessert, lo sposo che soffre per le scarpe troppo strette e soprattutto, spuntati da ogni angolo della campagna circostante, familiari, amici, parenti, vicini, talvolta persi di vista da anni, che tornano d’un tratto come tappi a fior d’acqua, e ciascuno di loro risveglia nella memoria il ricordo di litigi la cui origine si perde nella notte dei tempi, di amori e odi sepolti, di fidanzamenti sciolti e dimenticati, di faccende di eredità e di processi… Il vecchio zio Chapelain che ha sposato la cuoca, le signorine Montrifaut, due sorelle che non si parlano più da quattordici anni, pur abitando nella stessa strada, perché una delle due un giorno non ha voluto prestare all’altra la sua pentola da marmellata, il notaio la cui moglie è a Parigi con un commesso viaggiatore, e… Dio mio, che consesso di fantasmi un matrimonio di provincia! Nelle grandi città o ci si vede continuamente o non ci si vede mai, ed è più semplice. Qui… tappi a fior d’acqua, vi dico. D’un tratto appaiono e, nei gorghi che formano, quanti vecchi ricordi! Poi affondano e per dieci anni sono bell’e dimenticati.
Feci un fischio al mio cane che ci era venuto dietro, presi bruscamente commiato dal promesso sposo e tornai indietro. Si sta bene a casa mia. Il fuoco si placa. Quando non gioca non danza, non proietta più tutt’attorno raggi incandescenti, migliaia di scintille che si disperdono senza luce, calore, né utilità per nessuno, quando si accontenta di far bollire pian piano la pentola, allora sì che si sta bene. …
Tra quindici giorni parteciperemo anche noi, insieme al cugino Sylvestre, al matrimonio di Colette e di Jean: ci sarà anche Gerolamo e avrà sicuramente da dire la sua, ma saremo noi a dire ancora molte cose sulla sua opera di salvaguardia della antica cultura classica e della antica cultura vetero-testamentaria.
Con quali strumenti filologici, con quale stile e con quale metodologia opera Gerolamo di Betlemme, e perché ciò che produce risulta utile per noi oggi? Per rispondere a queste domande bisogna percorrere la via dell’Alfabetizzazione culturale e funzionale che è un bene comune [come la memoria] perché lo studio è un’attività utile per promuovere l’Apprendimento permanente che è un diritto e un dovere di ogni persona: per questo la Scuola è qui, per spronarci ad investire in intelligenza.
Arrivederci fra quindici giorni dopo aver celebrato tutte le Sante e tutti i Santi [in special modo tutti quelli che stiamo nominando] e commemorato le persone defunte [tutte quelle di cui conserviamo memoria]…